Alluvioni in Emilia-Romagna: ci risiamo e ci risaremo

L’argine del fiume Montone distrutto dall’acqua a Villanova (FC), 18 settembre 2024. Bello “pulito”, deforestato, decoroso.

Ci risiamo, si dice.

E purtroppo ci risaremo. Ancora e ancora, finché non si farà marcia indietro rispetto alle scelte che continuano a violentare il territorio. 

In quest’anno e mezzo, dopo le alluvioni del maggio 2023, abbiamo scritto molto, abbiamo partecipato ad assemblee e convegni, abbiamo dato le nostre voci a un documentario, Romagna tropicale, spesso esprimendo frustrazione e anche rabbia, perché si continuava con la retorica dell’evento eccezionale, della catastrofe una tantum, e non solo si continuava a fare come prima, ma addirittura – e vantandosene pure! – si intensificavano i processi che avevano causato il disastro: cementificazione, urbanizzazioni in zone a rischio idraulico, annichilamento della vegetazione e degli ecosistemi lungo le rive di fiumi e torrenti ecc.

Nel documentario si vedono scene di presunta «pulitura degli argini» – e non degli alvei, dunque il contrario di quanto dicono le stesse linee-guida regionali – raggelanti, soprattutto alla luce di quanto accade in queste ore.

Ora i fiumi hanno rotto negli stessi punti della volta prima o appena più a valle, in tratti presuntamente «messi in sicurezza» e in realtà resi più pericolosi perché rapati, pelati, ridotti a cumuli di materia inerte – anche questa volta le immagini parlano chiaro – destinata a essere spazzata via dall’acqua e dalla realtà.

Anche dove i fiumi sono esondati senza rompere, è stato a causa dei disboscamenti, come nel caso del Lamone.

E a essere colpite sono esattamente le stesse zone, urbanizzazioni che non dovrebbero esserci. Spesso toponimi e odonimi dicono già tutto, se li si vuole ascoltare. A rigore, in una via che si chiama “Sottofiume” non dovrebbe abitare nessuno. Anzi, una via Sottofiume non dovrebbe proprio esistere. A dirla tutta, non dovrebbe esserci un sottofiume: i corsi d’acqua non dovrebbero essere sempre più costretti, sopraelevati e pensili, ma avere spazio libero per espandersi.

Che possiamo fare, se non riproporre quanto avevamo già scritto? Ecco alcuni link. Buona (ri)lettura.

Fanghi velenosi e narrazioni tossiche: sulle alluvioni in Emilia-Romagna (29/05/2023)

«È necessario, prima di tutto, smontare un po’ di cornici narrative. Troppo spesso si invoca una “manutenzione” che in realtà è manomissione, e si parla di “messa in sicurezza del territorio” intendendo altre infrastrutture, altri disboscamenti. Si parla di “ripartire”, si scaricano le responsabilità su capri espiatori, ci si rifà al “cambiamento climatico” come se si parlasse di una fatalità.»

Conseguenze del cemento e dell’arboricidio: l’esempio del Savena

«Emblematico il caso del Savena, i cui argini furono rasati a zero nel 2014. In pochi giorni sparirono circa sessantamila alberi, anche in zone classificate SIC, Siti di Importanza Comunitaria. Furono distrutti trenta ettari di vegetazione ripariale.»

L’Emilia-Romagna: da illusorio «modello» a «hotspot della crisi climatica»: quale futuro immaginare? (24/07/2023)

«Le attività e produzioni su cui si basano il mitico “benessere” e il mitico “buongoverno” emiliano e romagnolo sono quanto di più tossico e climalterante si possa immaginare. I presunti punti di forza dell’economia di queste parti  – un mix di plastica, motori, cemento e tondino, poli logistici, agroindustria, allevamenti intensivi e turismo di massa – si stanno rivelando punti deboli. Sembravano punti di forza, e si menava vanto del loro successo, perché si tenevano ambiente e clima fuori dal quadro. Ora ambiente e clima sono rientrati con violenza, e l’economia emiliano-romagnola si rivela la peggiore possibile

Romagna tropicale: un documentario di Pascal Bernhardt

Con link alla piattaforma OpenDDb, dove la donazione minima consigliata per il film è €4.

La crisi del modello neoliberista, tra disastri ambientali e criticità economico-sociali: il caso dell’Emilia-Romagna

Gli atti dell’importante convegno tenutosi a Bologna nel febbraio 2024. C’è anche un intervento di Wu Ming 2.

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3 commenti su “Alluvioni in Emilia-Romagna: ci risiamo e ci risaremo

  1. “Buongiorno”
    C’è una cosa che volevo chiederti dall’anno scorso, ma che con i limiti così rialzati fino a cinquecento del numero minimo di caratteri rispetto al pre pandemia finisco sempre per non fare.
    Ricordo di avere letto più volte che uno dei problemi relativamente ai centri urbani sono i ponti ostruiti dalle ramaglie e dai tronchi strappati o caduti sugli argini non puliti che impediscono il defluire dell’acqua aumentandone la velocità e l’impeto. In effetti si vedono spesso immagini di questo genere, ricordo lo scorso anno a Cesena. Tu invece sembri dire che questo lavoro di manutenzione non va proprio fatto. Qui
    Come si spiega/ risolve allora il problema dei ponti ostruiti?
    In parte potrebbe dipendere dall’aumento stesso di detriti dovuto alle cattive condizioni dell’Appennino che spiegavi, ma forse non sta tutto lì.
    E perché intestardirsi a pulire gli argini se è inutile e non è mai stato fatto prima? Ditte?

    • No, non ci siamo capiti.

      In realtà lo abbiamo fatto notare tante volte, è nei testi dell’anno scorso linkati qui sopra e nel documentario si vede in modo chiarissimo: c’è un’enorme differenza tra il pulire gli alvei e il “pulire gli argini”.

      Ciò che andrebbe fatto e che si legge in modo inequivoco nelle linee-guida regionali è rimuovere dal letto del fiume o del torrente rami secchi, sterpaglie, legname di risulta che ci finisce dentro, e quanto alla vegetazione riparia, va rimossa solo quella morta, pericolante o cresciuta nell’alveo. Quella che appunto, presto o tardi, va a ostruire i passaggi sotto i ponti.

      La vegetazione viva e sana che sta lungo la riva e sull’argine invece non andrebbe toccata, perché è indispensabile, perché con le sue radici tiene insieme quel suolo e con le sue fronde lo tiene in ombra, impedendone surriscaldamento ed essiccazione e preservandolo come prezioso ecosistema in simbiosi col fiume.

      Viene fatto l’esatto opposto: gli argini vengono rapati, così si seccano, muoiono, si sfarinano e l’acqua li erode finché non si rompono, e un sacco di volte quando le ditte disboscatrici se ne vanno – anche qui rimandiamo al documentario – il sopralluogo rivela che le sterpaglie, quelle che andavano rimosse, sono rimaste nell’alveo.

      Perché gli argini vengono pelati? Per un mix letale di diverse ragioni:

      – perché pelarli è drastico e perciò… fotogenico, nel senso che l’amministratore di turno può far vedere, sui social e sui giornali, che «si è agito», e si raccolgono like e commenti (disinformatissimi) di soddisfazione e sollievo.

      – per la solita, stupida idea di “decoro”: il verde spontaneo è “degrado” e contro il degrado bisogna agire, l’argine frondoso dà fastidio.

      – per ignoranza dell’amministrazione, del pubblico e di chi opera: il rapporto tra umani e fiumi è ormai un rapporto di estraneità e reificazione, i fiumi sono “cose”, le piante idem, si agisce senza il minimo rispetto del vivente e della complessità.

      – per gli effetti perniciosi delle esternalizzazioni: la “pulizia” di ogni tratto di fiume è affidata a una ditta diversa e ognuna agisce un po’ come le pare, “a sentimento”.

      – per business: i contratti prevedono che il legname rimanga alla ditta, che poi lo vende alle ingordissime centrali a biomasse, perciò tra il tagliare di meno e il tagliare di più – finché non si cambieranno le regole e non si smetterà di incentivare questa produzione energetica spacciata per “green” e in realtà ecocida – si opterà sempre per il più (questo vale anche per le potature del verde pubblico).

      – ciò spiega anche perché le ditte non abbiano una gran voglia di rimuovere gli sterpi dall’alveo: è legno fradicio e perciò invendibile.

      • Secondo me dobbiamo pure fare attenzione a dare il giusto peso alla stessa pulizia degli alvei, senza sminuirne l’importanza, ma anche senza trasformarla in un feticcio. Il rischio che si corre è quello di avvitarsi come ai tempi della pandemia, quando l’aumento dei contagi implicava di per sé che ci fosse “troppa gente in giro”. Allo stesso modo, ormai, se c’è un’alluvione, allora i fiumi non erano stati puliti a sufficienza. Il che può essere benissimo, ma non è scontato. Invece si punta solo in quella direzione lì e non credo dipenda esclusivamente dalla possibilità di strumentalizzazione politica. Temo ci sia proprio di base un problema di comprensione del rischio idraulico.
        Sia chiaro che non sto riducendo tutto il discorso alla piovosità (purtroppo non più) eccezionale. Il punto è cosa ci aspettiamo che succeda in occasione di determinati eventi atmosferici, quando rimangano inalterate tutte le altre condizioni che determinano la criticità del territorio attraversato anche dal più pulito dei fiumi. Ti va bene una volta, forse due, magari tre. Poi inevitabilmente il fiume si prende lo spazio che fino a quel momento hai considerato tuo. Perché, appunto, in un mondo normale sottofiume forse esisterebbe solo come sinonimo di sottacqua.

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