di Jadel Andreetto *
Tutto inizia con un messaggio del mio socio Guglielmo con un link a un articolo dell’ANSA dedicato a una nuova fiction Rai:
«”Brennero, Radonicich e Martari a caccia del serial killer a Bolzano. Su Rai 1 dal 16 settembre la serie TV tra mistero e thriller”… Ti ricorda qualcosa?»
Nel giro di qualche ora cominciano ad arrivare altri messaggi. Il giorno seguente, le notifiche aumentano: ricevo un paio di telefonate e alcune e-mail da persone che non sentivo da tempo. C’è chi mi fa la stessa domanda di Guglielmo, chi si complimenta, chi, un po’ seccato, mi dice che avrei potuto avvertirlo e chi, semplicemente, mi rimanda lo stesso link seguito da una parola e tre punti esclamativi: plagio!!!
Nessuno ha ancora visto la serie, ma tutti hanno già fatto due più due, ottenendo cinque: o l’abbiamo scritta noi, o ci hanno copiato.
Facciamo un piccolo salto indietro, a quando seguo il collegamento alla notizia firmata da Nicoletta Tamberlich. L’articolo inizia così:
«Siamo a Bolzano, in Italia. Eppure, chi arriva per la prima volta in città è convinto di trovarsi in Germania. I cartelli stradali sono scritti in tedesco, alcune persone non ti capiscono se chiedi un’informazione.»
In questi duecentoquattordici caratteri, spazi inclusi, si concentrano così tanti strafalcioni, stereotipi e un pizzico di sciovinismo da far girare la testa. Cent’anni di complessità ridotti a zero, aggirati e ignorati.
«Che faccio, smonto?» «Smonti!»
Partiamo dalla fine. A Bolzano, se chiedi un’informazione in italiano, ti capiscono tutti. Wikipedia riporta che, su 106.591 abitanti, il 73,30% è di lingua italiana, il 25,02% di lingua tedesca, e lo 0,68% di lingua ladina. L’italiano viene insegnato nelle scuole tedesche fin dalle elementari, e spesso già dalla materna (e viceversa). In città tutti lo comprendono e lo parlano, anche solo per esigenze pratiche legate alla vita quotidiana.
I cartelli stradali sono scritti prima in italiano e poi in tedesco, proprio perché la maggioranza della popolazione è di lingua italiana. Nei paesi e nelle cittadine dove le proporzioni sono invertite, lo sono anche i cartelli. Nelle località a maggioranza ladina, i cartelli sono trilingui, come a Ortisei: via Roma, Roma Strasse e streda Roma.
Chi arriva in città per la prima volta potrebbe al massimo pensare di trovarsi in Austria, più che in Germania, anche se di fronte al Monumento alla Vittoria con gli enormi fasci littori o al bassorilievo che celebra l’impero fascista – la cui realizzazione è terminata nella seconda metà degli anni Cinquanta con il beneplacito del governo per rimarcare l’italianità della provincia – credo avrebbe qualche dubbio, anche se c’è luce in fondo al tunnel, come vedremo più sotto. Eppure, questo collegamento con la Germania torna spesso, anche in qualche podcast insospettabile. Se ce ne fosse bisogno, basterebbe dare un’occhiata a una cartina geografica qualsiasi per capire che oltre il Brennero c’è il Tirolo, non la Baviera.
«Siamo a Bolzano, in Italia.» Questo è il passaggio più delicato.
Tamberlich apre l’articolo così, probabilmente per giustificare quanto scrive dopo. Un’apertura a effetto, fatta per catturare l’attenzione del lettore, ma che porta con sé varie criticità.
Questa affermazione, nella sua apparente ovvietà geografica, spazza via con un colpo di spugna oltre un secolo di storia. Il punto chiude la questione, soffocando sul nascere ogni possibile riflessione, storica o sociale. È lo stesso atteggiamento di chi, tornando da una vacanza in qualche valle sudtirolese abitata per il 99% da germanofoni, sente il bisogno di raccontare un aneddoto in proposito che si conclude sempre con il classico: Siamo in Italia, dovete parlare italiano!
Azzardo qualche ipotesi:
- La giornalista aveva fretta, non conosce il territorio e, forse, viene pagata troppo poco per fare anche solo una breve ricerca, così si affida allo stereotipo e risolve.
- È convinta che le cose stiano davvero così e scrive con la sicumera di chi ignora.
- Vuole sottolineare che Bolzano è italiana, anzi, italianissima. Viva l’Italia! In questo caso ci troviamo su un terreno molto scivoloso, quello in cui discorsi da bar slittano in improvvisati comizi fascistoidi.
Le affinità
Per chi non lo sapesse, nel 2019, con lo pseudonimo Marco Felder, io e Guglielmo Pispisa abbiamo pubblicato per Rizzoli un romanzo intitolato Tutta quella brava gente. La storia, l’ambientazione e i personaggi li avevamo abbozzati quasi un decennio prima, poi per varie ragioni li avevamo accantonati, anche se continuavamo a ripensarci. Alla fine del 2016 abbiamo iniziato a decostruire il materiale messo da parte fino a trovare la giusta combinazione e l’entusiasmo necessario per imbarcarci nell’impresa di scrivere un romanzo. Il libro è finito sulle scrivanie di vari editori e nel giro di qualche mese al nostro agente sono arrivate le prime offerte. Alla fine, Rizzoli si è aggiudicata il romanzo.
Di cosa parla Tutta quella brava gente? In breve: due protagonisti molto diversi tra loro sono impegnati in una complicata caccia a un pericoloso assassino. Tanino Barcellona, un agente siciliano appena arrivato a Bolzano, e Karl Rottensteiner, un ispettore di madrelingua tedesca tormentato da un’infermità e da un passato burrascoso, formano una strana coppia che, volente o nolente, deve sbrogliare la matassa del caso del killer degli uomini soli, responsabile di cinque omicidi o tentati omicidi. Nel corso dell’indagine emerge che tutte le vittime erano legate alle tensioni etniche che hanno martoriato il territorio dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta. Le vecchie ferite si riaprono, e per Karl il caso diventa una questione personale, collegata direttamente al suo passato. È un’ossessione che può provare a risolvere solo grazie a un nuovo punto di vista, ma prima dovrà superare la sua diffidenza e riuscire a fare squadra.
Di cosa parla Brennero? In breve, come riportato dall’ANSA:
«la nuova serie tv […] mette i due protagonisti, […], appartenenti a due mondi differenti, alle prese con una pericolosa caccia a un serial killer. Una PM originaria di una facoltosa famiglia di lingua tedesca e un ispettore di lingua e cultura italiana con un passato difficile, sono costretti a lavorare insieme al caso di quello che viene definito il killer di Bolzano ha ucciso sei persone di lingua tedesca, colpevoli di aver trattato gli italiani come inferiori. Superando le reciproche diffidenze e facendo squadra, Eva Kofler e Paolo Costa daranno la caccia allo spietato assassino, tornato a colpire dopo anni, riaprendo le ferite e le tensioni culturali che hanno segnato per decenni la città di Bolzano.»
Credo sia abbastanza comprensibile l’ingolfarsi di notifiche sul mio schermo.
Ma prima di fare anch’io due più due, aspetto che esca la serie TV. Il giorno dopo su Rai Play ci sono tutte le puntate. Con Guglielmo iniziamo a seguirla a distanza e mentre la guardiamo, ci scriviamo commenti in diretta e prendiamo qualche appunto.
Le affinità ci sono e riguardano alcuni tratti dei personaggi (e i loro tormenti), la trama orizzontale e il finale. Ma credo sia fisiologico: in fondo, gialli, noir e polizieschi seguono regole ben precise, e se scegli di rispettarle almeno in parte, prima o poi ti ritrovi a maneggiare le stesse carte. La differenza la fa il gioco.
Brennero condivide diverse caratteristiche con Tutta quella brava gente (e a tratti anche con il suo seguito La parola amore uccide), ma non solo: ci sono alcuni passaggi e dialoghi che sembrano presi da un altro noir ambientato a Bolzano, L’ultima madre di Alex Boschetti (di cui uscirà la traduzione per il mercato tedesco in questi giorni) e spunti più leggeri dalla serie TV Der Bozen-Krimi in onda sul canale tedesco Das Erste a partire dal 2015.
Nota curiosa: ci sono anche nomi e cognomi dei personaggi che ritornano e, più o meno, negli stessi ruoli. Ci sono due Kofler che indagano, due figlie che si chiamano Elke… Ah, e c’è l’hockey, ma in fondo è come se in un altro giallo ci fosse il calcio…
Dal romanzo di Boschetti sembra ripresa anche la vicenda del poliziotto meridionale arrivato al Brennero negli anni Sessanta. Nella serie, è un pompiere che mette radici e costruisce una famiglia. Il nuovo comandante dei vigili del fuoco, suo figlio, racconta la storia al protagonista con dialoghi praticamente identici a quelli del libro: «mia madre voleva tornare al Sud, ma mio padre decise di rimanere…questa è una terra in cui c’è posto per tutti, diceva…». Sulla carta il poliziotto è pugliese, nella fiction calabrese (con un improbabile accento milanese, va detto), in un vortice narrativo che mescola tutto, trasformando ogni dettaglio in pura suggestione e rendendo ogni riferimento incerto e ambiguo.
Da anni, il Sudtirolo fa da scenario a prodotti televisivi e cinematografici di vario tipo. La film commission locale ha implementato una politica efficace, attirando diverse case di produzione a livello nazionale e internazionale innescando una crescita esponenziale di film, serie e documentari ambientati o girati in provincia. La strategia della commissione mira a incrementare gli investimenti nel settore, coinvolgere le imprese locali e promuovere il territorio, e ha ottenuto ottimi risultati, che però in certi casi si sono rivelati deleteri. Dopo il successo della fiction A un passo dal cielo, per esempio, il paradiso naturale del lago di Braies si è trasformato in un inferno turistico con tutte le conseguenze del caso sull’ambiente e le persone che vivono da quelle parti.
Sul versante dei romanzi, invece, non c’è trippa per gatti. Eppure, diversi scrittori hanno cominciato a “girovagare” sempre più spesso in zona. Nel giro di pochi decenni, sono arrivati sugli scaffali diversi libri ambientati in Sudtirolo. Ci sono gli sguardi interni – piuttosto eterogenei e con risultati decisamente diversi – di chi è nato e cresciuto nel territorio (Lilli Gruber, Maddalena Fingerle, Luca D’Andrea…), quelli esterni di chi per qualche ragione lo ha attraversato o ne ha subito il fascino (Francesca Melandri, Marco Balzano, Marcello Fois…) e quelli di chi era in cerca di qualcosa di esotico, come nel caso di alcuni thriller che fanno leva su quell’aura da Scandinavia d’Italia che, come direbbe Jacobean Mugatu in Zoolander, va un casino…
Si tratta spesso di storie infarcite di cliché simili a quelli dell’articolo dell’Ansa, a cui si aggiungono dettagli ridicoli sugli usi e i costumi e, ça va sans dire, la cucina locale. Il discorso non vale solo per i giallisti a sud di Salorno, ma anche per quelli a nord del Brennero, dove ovviamente, il fascino iperboreo non si percepisce e lo stereotipo si ribalta: al posto dei canederli ci sono gli spaghetti e tra le pagine fanno capolino mafiosi sui generis e commissari con cognomi da cantanti lirici.
Insomma dal luogo comune, non c’è scampo. A meno che non venga usato di proposito e cum grano salis, ma è possibile farlo con un prodotto destinato alla TV generalista che si nutre di stereotipi per rendere la narrazione accessibile a chiunque non abbia tempo o voglia di impegnarsi troppo a capire certi passaggi? Perché è di questo che parliamo quando parliamo di Brennero. Non dobbiamo — e non possiamo — dimenticare che si tratta di un prodotto realizzato per Rai 1, scritto, diretto e fotografato da professionisti che conoscono il loro mestiere e tra loro, va detto, c’è anche un autore bolzanino, Daniele Rielli.
Ed ecco le divergenze.
1. Una Bolzano evanescente
L’ambientazione. Sembrerebbe naturale metterla al primo posto tra le affinità, eppure vince la palma delle divergenze. Bolzano e il Sudtirolo per noi non sono solo lo scenario di una storia, sono parte integrante della trama e, anzi, rivestono un ruolo centrale al pari dei personaggi e in certi casi sono il motore che li fa agire.
Anche i manuali di scrittura più dozzinali prevedono che un personaggio debba avere tre caratteristiche di base: una divisa, un’ossessione e una contraddizione. Visto che per noi Bolzano è protagonista, proviamo ad applicare lo schema: è un’opulenta città del Nord, ossessionata dalla rimozione di un passato oscuro, che prova ad affrontare le complessità del presente.
Come da manuale, il passo successivo permette di entrare un po’ di più nel dettaglio: dietro al volto dell’efficiente socialdemocrazia, con i gerani sui balconi, si celano decenni di tensioni etniche che animano ancora certa convenienza politica, fascismi più o meno sotterranei, contrapposti vittimismi, dipendenze devastanti, micro e macrocriminalità, corruzione, gentrificazione selvaggia, lotte di potere, lotte di classe e conti con la storia in sospeso…
E nella serie RAI? In Brennero, ogni personaggio segue lo schema al millimetro (cerco di non fare spoiler): un poliziotto talmente ossessionato dalla cattura del killer da mettere in discussione il suo ruolo; una PM succube del giudizio paterno, il cui senso del dovere provoca un corto circuito; uno spietato serial killer con un obiettivo chiaro che si ritrova a fare i conti con la propria coscienza dopo una scoperta… E Bolzano?
La Bolzano di Brennero ha una divisa, è una città di provincia del Nord, ma non ha ossessioni né contraddizioni. Lo ha evidenziato bene un articolo del quotidiano locale online Salto: è una presenza fantasmatica, uno sfondo evanescente annegato in una fotografia didascalica che illumina di luce glaciale solo scorci impersonali in arrivo da una dimensione astorica. Potrebbe trovarsi in qualunque regione settentrionale, se non fosse per certi guizzi d’esotismo in cui vengono inquadrate le case popolari tristi per gli sfigati (italiani) e le magioni dall’aria gotica (!) per i benestanti (tedeschi), in una sorta di psico-geografia manichea.
Non c’è uno sguardo esterno come quello di Tanino Barcellona, capace di contestualizzare il luogo, i suoi abitanti e le dinamiche con il giusto distacco, mescolando curiosa ironia e rispetto. E non c’è nemmeno uno sguardo interno, come quello di Karl, che sappia andare oltre la superficie e addentrarsi nei meandri dell’inconscio collettivo locale, dove dimorano i numi tutelari più sotterranei, affascinanti e, perché no, spaventosi. In Brennero, queste presenze restano evanescenti, assenti nella loro indicibile potenza carsica.
Ed è proprio questa paradossale sfocatura a renderla nitida, illuminata da un bagliore tutt’altro che monocromatico. A differenza della rappresentazione glaciale virata al ciano della serie TV, la Bolzano di Karl Rottensteiner osservata dall’alto è questa: «Le luci della città sono un unico bagliore al sodio solcato dai tre fiumi che formano un’immensa bacchetta da rabdomante in cerca di qualcosa che non c’è.» Questo senso di ricerca, di tensione verso qualcosa di inafferrabile, è la vera anima del luogo, una presenza che resta sullo sfondo, ma che non smette mai di influenzare ciò che accade. In Brennero, al contrario, il nitore cianotico delle immagini sfoca e soffoca.
2. La Storia
La Bolzano di Brennero è priva di genius loci. È Bolzano solo perché la trama si basa su alcuni eventi del passato accaduti esclusivamente lì. È Bolzano perché, oltre alle allettanti condizioni offerte dalla film commission, il fascino stantio dei cliché, come quelli sciorinati da Tamberlich nel suo articolo, è il modo più semplice per dare un pizzico di originalità a un poliziesco sui generis. Ed ecco la seconda divergenza: la storia. Anzi, la Storia.
Se la Bolzano di Brennero non è Cuneo, Aosta, Udine, Belluno, ecc, è solo perché ha bisogno del volano narrativo legato agli anni delle bombe, il periodo che va dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Sessanta, quando il Befreiungsausschuss Südtirol, il Comitato per la liberazione del Sudtirolo, mise a ferro e fuoco il territorio, facendo saltare tralicci, infrastrutture, monumenti e relitti fascisti. La risposta dello stato italiano fu feroce, con rastrellamenti, soprusi, vessazioni, minacce, torture e metodi che ricordavano la RSI e anticipavano Genova 2001.
Prima dello statuto di autonomia del 1972, nonostante la costituzione prevedesse la tutela delle minoranze, la situazione per la popolazione di lingua tedesca non era molto diversa da quella vissuta durante il ventennio fascista. Certo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale venne abrogato il divieto di parlare tedesco (e ladino), di praticare usi e costumi locali, ecc. ma in termini di diritti, i sudtirolesi erano ancora soggetti a un’apartheid alimentata dal freddo fuoco della burocrazia.
Quando gli attentati dinamitardi fecero le prime vittime, il Comitato si spaccò e l’Italia si accorse di avere un’appendice a Nord di cui sapeva poco o nulla e i processi a Milano alla fine degli anni Sessanta accesero i riflettori sulla questione altoatesina. Nel frattempo, la partita si era allargata: lo scacchiere era diventato internazionale e tra i giocatori c’erano anche i servizi segreti, la CIA, Gladio, i neofascisti, i neonazisti. L’irredentismo sudtirolese passò così da una fase di rivendicazione dell’autonomia a una visione pangermanista. La bibliografia sull’argomento è ampia, e non sarò certo io a sintetizzarla qui (a questo proposito, un ottimo punto di partenza è il saggio Terra Italiana dello storico Andrea Di Michele).
In Brennero, il serial killer uccide esclusivamente persone di lingua tedesca, e il suo movente sembra legato alle vicende del BAS. In una serie TV il margine di manovra per andare in profondità è più limitato di quello garantito dal romanzo. Richiede un certo sforzo, ma c’è. Gli autori della fiction Rai hanno scelto un metodo rapido e indolore: uno spiegone ridotto ai minimi termini. Insomma, strappano il cerotto in fretta e furia. Solo che a volte lo strappo provoca lacerazioni peggiori, che richiedono ulteriori cure. E così, qua e là, mettono un punto di sutura, senza accorgersi che l’ago è infetto.
La serie ricorre, infatti, a un paio di espedienti narrativi problematici. In una scena, per esempio, la PM e una poliziotta, entrambe di lingua tedesca, parlano tra loro nel palazzo di giustizia. La prima, con tono severo, ricorda alla seconda che nei luoghi istituzionali devono usare l’italiano (e la scena si ripeterà in altre puntate). Gli autori, in questo modo, prendono due piccioni con una fava: oltre a ricordarci che la questione etnica è sempre sul tavolo, eliminano il fastidioso problema dei sottotitoli (che in prima serata su Rai 1 sono un anatema). Peccato che non sia vero, come dimostrano alcune polemiche già sollevate in provincia. In questo caso, Brennero supera persino l’articolo dell’Ansa, introducendo un nuovo stereotipo: in Alto Adige, negli uffici pubblici, è obbligatorio parlare italiano, anche se tutti i presenti sono di madrelingua tedesca.
In un’altra scena, sempre ambientata in un ufficio pubblico, il commissario protagonista reagisce male a un collega che gli parla in tedesco: Non siamo mica alla questura di Innsbruck... È un’uscita estemporanea, poco in linea con il personaggio, ma è uno dei tanti punti di sutura di cui parlavo prima. Lo stesso vale per l’atteggiamento di un altro personaggio, un vecchio burbero che odia gli italiani e si comporta come una caricatura, simile ai milanesi che ce l’hanno con i meridionali nei vecchi film anni Cinquanta.
3. Poteva essere qualunque città
Mentre i tasselli vanno al loro posto, puntata dopo puntata, gli autori spingono lo spettatore a simpatizzare con il killer. Siamo a un passo dal baratro, a un soffio dal cliché dei tedeschi cattivi – italiani buoni. Per fortuna, si fermano un attimo prima di precipitare in questo vuoto desolante grazie a un meccanismo narrativo ex machina. Ma questo non è il punto. Il punto è che non era necessario scomodare gli anni delle bombe e la vicenda complessa del territorio se l’obiettivo era solo quello di offrire allo spettatore un innesco per una trama che, a conti fatti, poteva essere ambientata ovunque, senza tener conto del contesto geopolitico e storico. La stessa storia si poteva raccontare altrove, con attentati e bombe di altra matrice – mafiosa? neofascista? psicopatica? – e non sarebbe cambiato nulla.
Tutta quella brava gente, al contrario, non poteva che essere ambientato in Sudtirolo. Karl deve fare i conti infatti anche con la parte più recente della storia locale, una parte spesso rimossa e legata al terrorismo irredentista post-BAS. Tra gli anni Ottanta e Novanta, con lo statuto di autonomia già in vigore, Ein Tirol alzò il livello dello scontro portando il terrore in città. Non più tralicci o monumenti, ma scuole, banche, case popolari, sedi sindacali, uffici pubblici… Non si trattava più di un movimento di emancipazione, ma di una frangia neonazista altamente pericolosa. Quando si parla di terrorismo in Sudtirolo, si pensa subito agli anni Cinquanta e Sessanta, ma quasi nessuno ricorda che l’ultima bomba, parte di una lunghissima serie, è esplosa negli anni Novanta. L’ho raccontato con il regista Armin Ferrari anche nel documentario Südtirock e nel romanzo si tratta di un evento centrale che segna in modo indelebile la vita del protagonista. Nella serie RAI, invece, non se ne fa menzione: si passa dagli eventi degli anni Sessanta direttamente al presente.
4. La Bolzano di oggi non c’è
Il presente, già… La Bolzano di Brennero non esiste né nello spazio né nel tempo. Dopo la caduta del muro di Berlino, la nascita della nuova Europa e la scomparsa del confine del Brennero, Bolzano ha cambiato volto e si è aperta. Da città operaia è diventata una città con un’economia basata sul terziario: sono arrivate l’università, un centro di ricerca internazionale, un museo d’arte contemporanea, il nuovo teatro comunale, festival di livello mondiale, il parco tecnologico… Certo, molta gente si arena ancora al bancone del bar, ma la cappa plumbea che pesava sulle loro teste si è in parte dissolta.
Le particelle di italiani e tedeschi continuano a vibrare a velocità diverse, ma l’astio di un tempo è evaporato. Ci sono voluti decenni di convivenza (e benessere, va detto) per capire che il bilinguismo è un’opportunità più che un’imposizione. C’è chi ancora ci marcia sopra, ma le persone sono andate oltre. Le scene di Brennero di cui parlavo prima sono anacronistiche. E, in un certo senso, offensive.
Anche perché di tutte le città della penisola, Bolzano è forse quella che più sta facendo i conti con il passato, i relitti fascisti legati al concetto di italianità e i cascami del colonialismo. In questo contesto, gli interventi che hanno ri-significato il famigerato bassorilievo e il Monumento alla Vittoria costituiscono un esempio emblematico.
Nel primo caso, un intervento in chiave artistica ha disinnescato settant’anni di gravame fascista, con tutte le sue implicazioni etniche: sull’enorme facciata in Piazza Tribunale, che celebrava l’impresa coloniale italiana con Mussolini a cavallo e incitava a credere, obbedire e combattere, è apparsa una scritta, che non altera il bassorilievo e si illumina di notte. È una citazione in italiano, tedesco e ladino di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire». L’effetto catartico è sorprendente.
Nel secondo caso, il monumento è stato trasformato in un percorso museale che si concentra sulla doppia dittatura subita dalla città: quella fascista prima, e quella nazista dopo. In città ci sono altre tracce che, seppure valorizzate da targhe, lastre di vetro e monumenti, meriterebbero più attenzione: il Lager, i binari della zona industriale da cui partivano i convogli per Auschwitz, i luoghi degli scontri tra partigiani e soldati tedeschi, quello dell’eccidio degli operai della Lancia… Insomma, tutt’altro che un posto senza personalità… Ma questa è la proverbiale altra Storia…
La questione dell’alterità, invece, è sempre presente, ma oggi riguarda soprattutto il fenomeno della migrazione. Il capoluogo sudtirolese ha una vivace comunità multietnica, ma anche notevoli problemi di integrazione. Senza entrare in ulteriori questioni sociologiche, va notato che la città rappresentata nella serie invece è completamente bianca, tranne per un personaggio secondario utile a una delle trame verticali. Gli americani, che hanno un termine per tutto, parlerebbero di tokenismo, la quota nera..
5. Legge e ordine
Il giallo poliziesco è un genere reazionario in cui il caos va ricondotto all’ordine. Brennero, anche in questo, dimostra una scrittura cristallina. È consolatoria e chiude il cerchio a tutti i costi, rinunciando a ogni asperità. Non c’è spazio per alcun taglio politico, sociale o esistenziale nel palinsesto RAI, il giallo non può avere sfumature di noir.
Nelle nostre storie, invece, i personaggi devono confrontarsi con ciò che fanno e con ciò che sono, perché l’ambiente in cui operano è estremo, impervio e contraddittorio, un confine geografico e umano in cui riportare il caos all’ordine è un’impresa che rasenta l’impossibile e anzi, mentre in Tutta quella brava gente il punto di rottura è evidente, ma non superato, in La parola amore uccide l’entropia dilaga.
E il plagio?
I nostri romanzi sono arrivati sulle scrivanie di vari addetti ai lavori; può darsi che qualcuno abbia pensato di trasformarli in serie o film, ma poi abbia desistito, dicendo: Nah, troppo casino, scrivo qualcosa io. Tuttavia, alla fine, due più due non fa mai cinque: le affinità sono poche e le divergenze consistenti. La fiction della TV generalista non riesce a liberarsi dai propri schemi, e Brennero non fa eccezione. Poteva osare molto di più, ma forse, in tal caso, non sarebbe andata in onda. Per restare dalle parti dei CCCP, visto il titolo di questa scorribanda tra narrazioni: non tutti possono, tendendo le braccia, afferrare la sorte e schiaffeggiarle la faccia.
* Jadel Andreetto, nato e cresciuto a Bolzano, da anni vive a Bologna. È parte dell’ensemble narrativo Kai Zen e tra i membri fondatori del cantiere culturale Resistenze in Cirenaica. Insieme a Guglielmo Pispisa ha firmato un trittico dedicato al Sudtirolo, composto dai due romanzi Tutta quella brava gente e La parola amore uccide e dal podcast Morte di un giallista bolzanino. Lo spettacolo del Bhutan Clan e Wu Ming 1, Radio UFO 78, è il risultato di un crossover tra UFO 78 e i due libri della serie. Il suo ultimo lavoro è il documentario Südtirock, realizzato in tandem con Armin Ferrari, il regista di A noi rimane il mondo. Sui sentieri della Wu Ming Foundation.
I pregiudizi italiani sul Süd-Tirol sono una costante con cui, purtroppo, mi scontro spesso anche io, pur non essendo nativo. Avendo una conoscenza diretta e non occasionale di luoghi e persone sud-tirolesi (di qualsiasi origine), la prima reazione è di sommo fastidio, poi subentra il tentativo di smontare almeno gli stereotipi più ottusi e/o offensivi, spesso vano. Ricordiamo la campagna vergognosa contro Jannik Sinner, l’anno scorso (in parte sopita, ma pronta a riemergere). Probabilmente me la prendo così a cuore perché da tempo mi tocca combattere sul fronte dei pregiudizi sulla Sardegna e, fatti i debiti distinguo, osservo dinamiche e comportamenti analoghi. La cattiva coscienza del nazionalismo italiano produce mostri. Purtroppo non è un problema solo della destra. Spesso i più accaniti sciovinisti si trovano a sinistra. In questo periodo dalle mie parti è un festival, con la mobilitazione popolare in corso contro l’aggressione coloniale energetica malissimo raccontata oltre Tirreno, soprattutto a sinistra, appunto (vedi articoli sul manifesto e altro ancora). Giusto affrontare il tema di petto.
Qua a Trieste e dintorni c’è da farsi venire il mal di fegato. Per il mainstream borghese nazionale Trieste è “cara al cuore di tutti gli italiani” oppure “mitteleuropea”, a seconda dei gusti. Per certi compagni, poi, è una città di fasci, punto. A ovest dell’Isonzo si ignora completamente il fatto che a Trieste nel secolo scorso ci fosse una classe operaia cosmopolita e internazionalista, e che da queste parti la lotta armata contro il fascismo è cominciata prima che in qualunque altra città, come reazione degli sloveni e dei croati alle poltitiche italiane di persecuzione delle minoranze. Soprattutto, si ignora che alla classe operaia triestina non gliene importava niente della nazione e dei suoi sacri confini, e che entrare in clandestinità nelle formazioni partigiane jugoslave col socialismo come orizzonte era la cosa più naturale anche per un proletario italofono. E’ questa ignoranza che ha fatto sì che i vari Fassino, Napolitano e Violante abbiano preso per buona la narrazione revanscista delle associazioni degli esuli istriani e abbiano inflitto al paese un tormento e un’umiliazione come il giorno del ricordo. (continua)
Ma il problema non riguarda solo l’immaginario sul passato. Una dimostrazione pratica dell’incapacità del mainstream nazionale di capire cosa succede da queste parti l’abbiamo avuta durante l’emergenza pandemica. Quando da Trieste, durante il lockdown, denunciavamo la rimilitarizzazione dei confini e del territorio, e esprimevamo la nostra insofferenza per i controlli e per i militi del Piemonte Cavalleria che presidiavano le strade, certi compagni dal centro del paese ci davano dei nazisti eugenetici collaboorazionisti del covid. Nell’arco di un paio di anni si è visto che avevamo ragione noi, e che la rimilitarizzazione dell’immaginario ha portato all’accettazione passiva del riarmo reale. Poi sono esplose le manifestazioni popolari contro il green pass, che Andrea Olivieri ha raccontato su giap, e quegli stessi compagni sono venuti a “spiegarci”, a centinaia di kilometri di distanza, che quelli in piazza a Trieste erano tutti fasci. Ma quel che noi vedevamo coi nostri occhi era molto diverso, prova ne sia che a Roma le manifestazioni contro il green pass erano guidate da forza nuova e sono sfociate nell’assalto alla sede della CGIL, mentre nella suppostamente fascista Trieste i fascisti non sono mai stati nemmeno vicini a poter prendere la guida dei cortei (che sono nati ingovernabili e tali sono rimasti, carichi di rabbia e di contraddizioni, strambi magari, ma espressione di una sofferenza e di un conflitto reale).
La grottesca vicenda di Sinner è solo la punta dell’iceberg. Molti atleti sudtirolesi hanno subito lo stesso trattamento, con la differenza che non hanno avuto la visibilità del tennista. Se vincono, sono ‘azzurri’, se perdono, si ritirano, ecc. diventano traditori della patria. E guai se, per qualsiasi ragione (non necessariamente legata a una presa di posizione ideologica o politica), non cantano l’inno nazionale. Di episodi simili, che sembrano usciti dal Sottosopra di ‘Stranger Things’, ce ne sono a bizzeffe, e non solo in ambito sportivo. Di solito, tutto passa attraverso il sensazionalismo di certi titoli e il vittimismo. Le varie testate online, e non solo, ci vanno a nozze. La storia è sempre la stessa, fateci caso: un professionista X italiano costretto a lasciare l’Alto Adige perché non parla tedesco. Tuttavia, quando si va a scavare un po’, si scopre che il professionista X si trovava in qualche valle abitata al 99,99% da germanofoni e non ha mai neanche provato a parlare una parola di tedesco. Il Leitmotiv (ops) è sempre quello: siamo in Italia, devono parlare italiano… e magari pure ringraziare.
Confermo per esperienza personale. Discorso sentito moltissime volte. Anche da persone sarde, che pure una questione linguistica bella pesante se la vivono in casa propria. Ma spesso senza averne la precisa coscienza. Per dire, i social hanno avuto l’esito involontariamente positivo (e accessorio) di favorire l’uso diffuso della lingua sarda scritta e l’abbattimento delle barriere (recenti ma robuste) tra parlate locali diverse dello stesso sistema linguistico sardo. Ebbene, non manca mai il commento di chi si sente offeso/a dal fatto che si stia discutendo in sardo (perché siamo tutti italiani, dobbiamo parlare italiano!). Poi però bisogna emanare un regolamento specifico per i concorsi pubblici in ambito sanitario che prescrive come criterio di valutazione una conoscenza almeno passiva del sardo, dato che l’utenza, perlopiù anziana, è in larga parte sardofona e ha problemi a spiegarsi o a capire in un’altra lingua (ovviamente, apriti cielo!). La questione linguistica, nei suoi risvolti locali e generali, è uno dei nodi mai sciolti della storia contemporanea italiana. E si lega ad altre questioni, come quella dei “margini” (qua dentro sapete a cosa mi riferisco) o alla stessa lotta di classe, e in definitiva ai deficit nella formazione dello stato unitario e alle carenze profonde della sua classe “dirigente”. Inevitabile che tutto ciò si riverberi al livello della produzione culturale di massa, con guasti assortiti e sempre un po’ troppo sottovalutati.
I confini sono molto più complessi da raccontare di quanto si pensi. Sembrano netti, con caratteri definiti dalla loro stessa natura di margine, ma in realtà sono fluidi, sfuggenti e oscuri. Prima della nuova ondata di romanzieri e sceneggiatori di cui parlo, pochi si erano avventurati a scrivere del Sudtirolo, e con risultati molto diversi tra loro. Tra i grandi nomi del Novecento europeo mi vengono in mente John Galsworthy e Sándor Márai. In Italia, Sebastiano Vassalli ha affrontato la questione e, naturalmente, Josef Zoderer, sudtirolese di lingua tedesca tradotto in italiano.
Avere uno sguardo contemporaneamente interno ed esterno, soggettivo e oggettivo, su territori come questi è difficile. C’è chi alla fine cede al fascino esotico del luogo e chi invece cerca di approfondirlo. Molti autori sono riusciti a cogliere il Genius loci senza essere nativi, mentre alcuni scrittori del posto non ci sono ancora riusciti.
Interessante, e per certi versi appropriato, il parallelo con la Sardegna, che potrebbe sembrare l’antitesi del Sudtirolo… Eppure un autore sardo, Fois, ha ambientato un suo giallo proprio a Bolzano…
Leggiamo sulle pagine altoatesine del Corriere della Sera una dichiarazione di Rosario Rinaldo, amministratore delegato di Cross Productions Srl, la casa che ha realizzato la serie Brennero, a commento di quanto scritto da Jadel Andreetto:
«Non posso non apprezzare la serietà di un autore come Andreetto, ma è evidente che se dovessero ravvisarsi opinoni che vadano nella direzione del plagio, per proteggere la professionalità, la serietà e la buona fede nostra e dei nostri autori non potremo fare a meno di sostenere le nostre buone ragioni nelle sedi opportune».
La solita minaccia di azione legale, insomma. Contro Jadel e di conseguenza contro chi ha pubblicato il suo articolo, cioè noialtri. Dejà vu, e la tentazione è di replicare con uno sbadiglio e nient’altro. Da tempo non le contiamo più, reazioni di questo genere, che non si sono mai e poi mai concretizzate in nulla.
Per serietà, andiamo oltre lo sbadiglio, riportando anche qui la conclusione del pezzo di Jadel:
«I nostri romanzi sono arrivati sulle scrivanie di vari addetti ai lavori; può darsi che qualcuno abbia pensato di trasformarli in serie o film, ma poi abbia desistito, dicendo: Nah, troppo casino, scrivo qualcosa io. Tuttavia, alla fine, due più due non fa mai cinque: le affinità sono poche e le divergenze consistenti. La fiction della TV generalista non riesce a liberarsi dai propri schemi, e Brennero non fa eccezione.»
Che farà la casa di produzioni, adirà le vie legali… perché qualcuno ha scritto che un suo prodotto è stereotipato e banale?
A onor del vero, è colpa anche dell’effetto “telefono senza fili”: a quanto sembra, a Rinaldo l’analisi di Jadel non è arrivata direttamente, ma per il tramite di un riassunto piuttosto crudo e scandalistico che ne ha fatto il suddetto Corriere, con un titoli sensazionalistico – «Brennero, le accuse di Andreetto», in prima pagina locale – e il catenaccio «lo scrittore altoatesino accusa la serie tivù Brennero di essere “troppo simile” al suo romanzo. La replica: “Non è plagio, ci difenderemo”».
La questione della querela è una tempesta in un ditale da cucito con dentro una goccia d’acqua. Rimane tutto il resto che Jadel ha scritto, ed è su questo che fin dall’inizio abbiamo invitato a riflettere.
Sarò tetragono ai colpi di ventura… mi permetto anche di aggiungere una brevissima considerazione Il titolo e l’articolo del Corriere dicono cose diverse. Ho lavorato come giornalista per anni e non ho mai dato un titolo ai miei articoli. O meglio, ho smesso di farlo, perché era inutile: c’era sempre un “titolista”, a volte fin troppo zelante, che interveniva prima della stampa. È un problema diffuso. Strilloni, locandine e titoli spesso divergono, se non addirittura contraddicono, i contenuti degli articoli creando diverse distorsioni, come in questo caso. Sembra che io accusi di plagio Brennero, quando in realtà non è così.