La collana Quinto Tipo: un bilancio, un requiem e un’autocritica sul concetto di «oggetto narrativo non identificato»

titoli della collana Quinto Tipo

Alcuni libri della collana Quinto Tipo (ventidue titoli in tutto), diretta da Wu Ming 1 e Pietro De Vivo per le edizioni Alegre dal 2014 al 2024.

di Wu Ming 1

INDICE
1. A dieci anni da Diario di zona
2. In quanti radar sono entrati gli oggetti alieni?
3. Può una collana diventare un collettivo?
4. Del non vedere l’insieme
5. ONNI soit qui mal y pense
6. Che cos’è un UNO?
7. NIE wieder
8. Distruzione delle cornici
9. UNO e canone letterario italiano
10. Con ogni mezzo necessario
11. L’essenza del progetto è apparsa a metà strada
12. Se proprio devo indicare un fior fiore
13. La R di…
14. The End

Sei mesi fa, in occasione dell’uscita del libro di Paolo La Valle Gli automotivati, annunciavo la chiusura della collana Quinto Tipo delle edizioni Alegre, da me diretta per dieci anni, in collaborazione con Pietro De Vivo.

Nel farlo, rinviavo a oggi, 18 novembre, un bilancio di quell’esperienza.

A dieci anni da Diario di zona

Copertina di Diario di zona, la prima uscita di Quinto Tipo, 2014Si trattava di fare cifra tonda. Il 18 novembre 2014, infatti, pubblicammo il primo titolo della collana, Diario di zona di Luigi Chiarella aka Yamunin. Che nel frattempo ha terminato la sua seconda opera, Risto-Reich. Uscirà a gennaio nella collana Working Class curata, sempre per Alegre, da Alberto Prunetti.

L’ultima volta che abbiamo tratto il bilancio di un esperimento decennale – il tentativo, orrendamente fallito, di usare Twitter «spazzolando il mezzo contropelo» – abbiamo scritto un testo che non finiva più, praticamente una miniserie (negli ultimi giorni tornata d’attualità). A ‘sto giro non la farò così lunga.

Ogni bilancio di un esperimento deve rispondere alla domanda: è riuscito?

In quanti radar sono entrati gli oggetti alieni?

Nonostante l’impegno che ci abbiamo messo, la stragrande maggioranza della piccola minoranza che legge libri in Italia – anche libri di Wu Ming – è rimasta ignara dell’esistenza di Quinto Tipo.

Al di là dei buoni risultati ottenuti da questo o quel singolo titolo, è la collana a non essersi affermata come progetto e soggetto complessivo. Non è riuscita a spiccare, a diventare un punto di riferimento. Tra gli stessi «addetti ai lavori» se ne è parlato molto di rado. [1]

Ebbene, Quinto Tipo avrebbe meritato più attenzione. Non perché la dirigevo io, ma per la qualità di molti titoli pubblicati, per il coraggio dimostrato da autori e autrici, in gran parte esordienti, e per la funzione di scouting che ha svolto. C’è chi ha esordito lì e oggi pubblica per una major. [2]

Le ragioni per cui la collana ha faticato sono diverse. Provo a elencarne qualcuna.

Può una collana diventare un collettivo?

A monte, è fallito il tentativo di trasformare la collana in un collettivo-laboratorio. La mailing list interna si è incagliata quasi subito. Quanto al blog dedicato, dopo un po’ si è smesso di aggiornarlo. Da un lato mancavano i contenuti originali; dall’altro, la funzione di “vetrina” dei titoli pubblicati era già svolta dal sito di Alegre. Il blog era dunque un “doppione” ed è stato saggio chiuderlo.

Per fare della collana un progetto condiviso tra editore, direttori e autori, com’era negli intenti, mancavano le energie e, a monte, le premesse. La casa editrice, Pietro e io sovraccarichi di altri impegni, l’insieme di autori e autrici troppo eterogeneo e sparpagliato. [3]

Del non vedere l’insieme

Non siamo riusciti a far vivere l’idea, nobile e ricca di storia, di «collana editoriale».

Collana: sottoinsieme facilmente riconoscibile, perché espressione di un progetto preciso, del catalogo di una casa editrice.

Nella maggior parte delle recensioni, anche in quelle che molto elogiavano il singolo libro (ne sono uscite eccome), la collana non veniva menzionata. Autore o autrice, titolo, casa editrice. Quinto Tipo non perveniva.

Evidentemente, non era chiaro il progetto preciso.

ONNI soit qui mal y pense

Quinto Tipo si imperniava su un concetto, quello di «oggetto narrativo non identificato». UNO, Unidentified Narrative Object. ONNI, se vogliamo italianizzare l’acronimo.

Concetto che doveva essere operativo, performativo, ma che non siamo, anzi, non sono mai riuscito a far capire bene. Prova ne sia che è spesso usato in modo impreciso.

È frequente, ad esempio, veder definire «oggetti narrativi non identificati» libri che sono inequivocabilmente romanzi.

Daniele Del Giudice (1949-2021)

Vero, il rapporto tra gli UNO e il canone in espansione della forma-romanzo è complesso. Libri oggi percepiti come non-fiction, per quanto ibrida, un giorno saranno inclusi nel canone del romanzo. È accaduto più volte. Il caso più illustre? Se questo è un uomo di Primo Levi, sul principio ritenuto una mera testimonianza, un memoriale, e oggi riconosciuto come romanzo, per vie delle tecniche letterarie scelte e utilizzate. Su questo hanno scritto parole definitive il compianto Daniele Del Giudice – si legga l’estratto da Del narrare disponibile qui – e soprattutto Marco Belpoliti.

Tuttavia, se un libro è già percepito come romanzo, allora andrebbe chiamato romanzo, non «UNO», «oggetto narrativo» ecc. Perché invece accade?

Forse perché si usano queste espressioni pensando alla semplice contaminazione tra generi– che ormai avviene di default, è un dato ambientale dell’industria culturale – oppure per descrivere qualcosa di multimediale, come se esistesse ancora qualcosa di non multimediale.

Da tempo pensavo di fare autocritica su come ho introdotto e usato il concetto. Se «oggetto narrativo non identificato» è diventato un passepartout vuol dire che il concetto non era ben messo a fuoco. Non sono stato bravo a spiegarlo, anche quando l’ho spiegato meglio non sono stato in grado di far circolare il messaggio, e almeno da un certo punto in avanti l’ho dato troppo per scontato.

Che cos’è un UNO?

Il concetto di UNO dovrebbe servire a raggruppare opere che, ciascuna alla propria maniera e con approcci radicali, mettono in pratica l’idea di «non-fiction creativa», spingendo molto in là l’ibridazione.

Col che, ribadisco, non s’intende una contaminazione tra generi letterari, tipo scrivere un giallo con un po’ di fantascienza, un romanzo storico a tinte rosa o con note horror o altre miscele del genere, ormai scontate. No, si intende l’ibridazione tra diversi tipi di testo.

Esistono diverse classificazioni dei tipi testuali. La più frequente è basata sulla loro funzione, e i tipi risultano così enumerati: narrativo, descrittivo, argomentativo, espositivo, regolativo/prescrittivo, e qualcuno aggiunge il rappresentativo.

Per come l’ho sempre vista, un UNO è un’opera che passa da un tipo all’altro in modi azzardati, che producono sorpresa, spiazzamento, straniamento.

Personalmente, i libri in cui più ho spinto verso l’UNO sono Un viaggio che non promettiamo breve (2016) e La Q di Qomplotto (2021).

Talvolta si è definito «oggetto narrativo non identificato» il nostro romanzo collettivo Ufo 78 (2022), che invece è un’operazione diversa. Ufo 78 è un romanzo che simula un UNO scritto da qualcun altro: dall’implicito soggetto, di cui nulla ci è dato sapere, che fa inchiesta su fatti avvenuti nel 1978, lavorando in archivio, intervistando testimoni diretti, ricostruendo scene e dialoghi laddove le fonti sono mute, e ogni tanto inserendo proprie considerazioni.[4]

NIE wieder

Ein Fehler, der NIE repariert werden kann.

Forse l’equivoco di fondo parte da qui: il testo più letto in cui parlavo di UNO resta lo sventurato «memorandum» sul New Italian Epic (2008-2009).

In quegli appunti, in realtà, degli oggetti narrativi dicevo pochissimo: poche righe buttate lì giusto per svilupparle insieme, per aprire una discussione.[5]

Ben più dettagliato era il testo di presentazione di Quinto Tipo, che purtroppo è stato molto meno letto.

I tre paragrafetti che seguono provengono da quel testo.

Distruzione delle cornici [2014]

Cosa sono gli «oggetti narrativi non identificati»? C’è bisogno di un’espressione del genere?

Non più di quanto vi sia bisogno di «incontri ravvicinati del quinto tipo». Ma ancora: che ce ne frega a noi? Usiamo le metafore che ci pare, e quando non ci parrà più, passeremo ad altre. Per il momento, questa ci serve ancora. Soprattutto, per dare il nome alla collana.

Ma non abbiamo risposto alla prima domanda: cosa sono gli oggetti narrativi non-identificati?

Se lo sapessimo, non li chiameremmo «non identificati».

Eppure tentativi di identificarli ce ne sono stati tanti…
«Non-fiction novel».
«Creative non-fiction».
«Reportage narrativo».
«Faction».
«Docufiction».
«Docudrama».
«Mockumentary».
È solo un piccolo campione di locuzioni – alcune ormai «storiche», altre più recenti – usate per indicare narrazioni ibride, nate in una «terra di nessuno» tra i reticolati dei generi, dei macrogeneri e delle tipologie testuali. Terra di nessuno che attraversa tutto il mondo ed è frequentata da sempre più autori – scrittori, registi, videomaker, ma anche giornalisti, storici, antropologi etc. – che vogliono raccontare le loro storie con ogni mezzo necessario.

Se la «contaminazione tra i generi» è ormai faccenda pleonastica, ovvia e realizzata in partenza anche nel più piatto mainstream (in parole povere: anche Dan Brown «contamina i generi»), la distruzione delle cornici, premessa all’ibridazione delle tipologie testuali – saggio/romanzo, guida turistica/inchiesta militante, biografia/mappa, reportage/videogame and so on – può ancora avere effetti perturbanti.

La collisione tra le più disparate tecniche e retoriche usate in diversi tipi di testo (narrativi, poetici, espositivi, argomentativi, descrittivi) sprigiona una grande potenza. Potenza che investe da direzioni inattese i temi affrontati e – grazie a numerosi slittamenti negli approcci e nei punti di vista – incoraggia la (ri)scoperta di un mondo.

UNO e canone letterario italiano [2014]

Una tradizione è qualcosa che si sceglie, in primis una tradizione rivoluzionaria, e va rivendicato il carattere distintamente italiano di questa «non-fiction creativa». La storia della letteratura italiana è in larga parte una storia di non-fiction scritta con tecniche letterarie, o di ibridazione tra fiction e non-fiction. Molti dei «classici» nostrani non sono romanzi, ma memoriali, trattati, autobiografie, investigazioni storiche, elzeviri impazziti, miscele dei più svariati elementi: la Vita nova, Il Principe, la Vita dell’Alfieri, lo Zibaldone di pensieri, la Storia della Colonna Infame, Se questo è un uomo, Un anno sull’altipiano, Cristo si è fermato a Eboli, Kaputt, La pelle, Il mondo dei vinti, Esperienze pastorali, Scritti corsari, La scomparsa di Majorana, L’affaire Moro[6]

Se la «non-fiction creativa» di oggi può essere percepita come più perturbante e azzardata, è perché le opere appena elencate sono da tempo nel canone. All’epoca in cui furono scritte erano azzardate anch’esse, e comunque inetichettabili.

Con ogni mezzo necessario [2014]

La chiave è proprio nel motto «con ogni mezzo necessario». «Necessario» esclude «superfluo» e «fine a se stesso». Necessario è ogni mezzo che consenta alla narrazione di rimanere tale, senza sbordare e diventare un mero cut-up o una poltiglia di sintagmi. L’ibridazione dev’essere al servizio della storia che si vuole raccontare, deve porsi come obiettivi l’efficacia, l’empatia, la condivisione, e illuminare l’esemplarità di una o più vicende umane.

L’essenza del progetto è apparsa a metà strada

«Ci sono Lulu, la lampada, il coltello del pane, Jack lo squartatore…»

Nel primo capitolo de L’immagine-movimento. Cinema 1 (Ubu Libri, 1984) Gilles Deleuze scrive:

«Si sa che le cose e le persone sono sempre costrette a nascondersi, sono sempre determinate a nascondersi quando cominciano. Come potrebbe essere diversamente? Esse sorgono in un insieme che ancora non le implicava, e devono evidenziare i caratteri comuni che conservano con l’insieme, per non essere rigettate. L’essenza di una cosa non appare mai all’inizio, ma in mezzo, nel corso del suo sviluppo, quando le sue forze sono consolidate. Questo Bergson lo sapeva meglio di ogni altro […] Per esempio, diceva che la novità della vita non poteva apparire agli inizi, perché all’inizio la vita era assolutamente costretta a imitare la materia… Non è forse la stessa cosa per il cinema? Il cinema ai suoi inizi non è forse costretto a imitare la percezione naturale?»

Anche Quinto Tipo ha trovato la propria personalità nel mezzo del cammino, quando, seguendo l’esempio dei titoli già usciti, autori e autrici han deciso di correre più rischi, premendo sul pedale dell’ibridazione. È accaduto più o meno da Una cosa oscura, senza pregio in avanti.

Se proprio devo indicare un fior fiore

Stradario Hip-Hop, uscito in Quinto Tipo nel 2020.Il catalogo è diseguale. C’è qualche titolo prescindibile, non sarebbe giusto dire quale. Se sono prescindibili, è responsabilità del direttore di collana.

Ce ne sono poi altri che ho amato e sono di grande spessore ma non erano davvero UNO, non lo erano abbastanza o non lo sono più per la sensibilità di oggi.

Gli oggetti che rimangono non identificati mi sembrano Una cosa oscura, senza pregio di Andrea Olivieri, Pozzi di Selene Pascarella, Stradario Hip-Hop di Nexus, Senza titolo di viaggio di Filo Sottile, Se vi va bene bene se no seghe di Valerio Minnella (con gli zampini del sottoscritto e di Filo Sottile) e Gli automotivati di Paolo La Valle.

Un’operazione davvero azzardata è stata la riedizione in forma di odierno UNO di un’opera che fu UNO ai suoi tempi, Dynamite! di Louis Adamic. Unico testo nella storia dell’editoria, a quanto mi risulta, a uscire simultaneamente in due collane. Infatti è un libro double-face.

Aggiungo al novero Diario di zona, che sempre resterà nel mio cuore, La farina dei partigiani di Piero Purich e Andrej Marini, La vita umana sul pianeta Terra di Giuseppe Genna, Le conseguenze del ritorno di Luca Giunti e La controfigura di Luigi Lollini.

Questi libri – dodici dei ventidue che sono usciti – formano la rosa che consiglio di odorare, e onorare, per prima.

Tornando alla domanda cruciale: l’esperimento è riuscito?

Pensando agli intenti sbandierati all’inizio, la risposta è: in prevalenza no. Ma valutando titolo per titolo, mi viene da rispondere: spesso sì.

La R di…

La lettera R, con cui iniziava il testo di ogni bandella di Quinto TipoQuinto Tipo era fatta anche di piccoli vezzi e messaggi subliminali. Oggi che ha chiuso, possiamo far notare che il testo di ogni bandella cominciava con la R. Una contrainte mantenuta fino all’ultimo con coerenza.

«Raccontare Torino e l’Italia dei nuovi anni 10 dal basso delle strade, coi piedi sui pedali, e da più in basso ancora, dai seminterrati, dal buio delle cantine, dalle spelonche sotto l’asfalto dove si annidano loro.» (Diario di zona)

«Rózsa. È il cognome di Eduardo, non ancora trentenne dirigente del Partito socialista operaio magiaro, o meglio, della sua organizzazione giovanile. È l’anno 1988, l’Europa è alla vigilia di sconvolgimenti epocali, ma pochi guardano l’orizzonte e capiscono. Eduardo forse è tra questi.» (La controfigura)

«Ricordiamo Louis Adamic soprattutto come l’autore di un libro “di culto”, di quelli che è facile fraintendere, che a maneggiarli scottano le dita, che incatenano i loro autori a immagini stereotipate: Dynamite: The Story of Class Violence in America» (Una cosa oscura, senza pregio)

«Rap (o MCing), DJing, writing, breaking. Le “quattro discipline” dell’hip-hop, secondo una nomenclatura affermatasi negli anni Ottanta. Oggi ha ancora senso parlare di hip-hop? E che cos’è l’hip-hop?» (Stradario Hip-Hop)

«Rivolta nello stile, non solo nel contenuto. Scrivendo di sabotaggi e scioperi selvaggi, delle sommosse di un proletariato multietnico e reietto, di repressione, uccisioni e racket, di cinquant’anni di guerra di classe negli Usa, Louis Adamic (1898-1951) non poteva adottare il punto di vista “obiettivo” del mitico “giornalismo anglosassone”. (Dynamite!)

Perché quell’immancabile iniziale?

C’è chi ha detto che stava per «Roberto», ma è una cazzata.

L’avvio di Quinto Tipo fu coevo all’uscita de L’Armata dei Sonnambuli. In quel romanzo, pronunciare o meno la R ha una certa importanza. È la R di Révolution.

The End [7]

Pietro De Vivo, condirettore di Quinto Tipo.

Siamo al dunque, si chiude.

Abbiamo chiuso a maggio, in realtà, ma il bilancio andava tratto nel decennale secco.

Grazie a tutte le autrici e autori, e a tutte le persone che nel progetto hanno messo l’anima.

Grazie a Giulio Calella e Salvatore Cannavò per avermi offerto, a suo tempo, l’opportunità; a Pietro De Vivo per l’intenso lavoro fianco a fianco; ad Alessio Melandri per le lisergiche copertine.

Il lavoro con Alegre prosegue in altri modi. Dettagli a seguire.

Naturalmente, i titoli pubblicati in questi anni continueranno a stare nel catalogo e verranno ristampati ogni qualvolta necessario.

Per chi non ce li ha presenti: sono tutti qui.

Buone scoperte, a chi vorrà farle.

Nico (1938-1988)

NOTE

1. In questi anni più di un amico mi ha detto: «molti non parlano della collana per partito preso, perché gli sta sulle palle Wu Ming». Mah. Ci sarà del vero, ma penso che le vere ragioni siano altre.

2. Un «grazie» non avrebbe fatto schifo, ma pazienza 🙂.


3. Va pure ricordato che il biennio del Covid ha colpito duro. Per via delle posizioni prese da Wu Ming sulla gestione dell’emergenza, alcuni autori di Quinto Tipo ci hanno sferrato attacchi o vi hanno partecipato, o comunque hanno scritto cose che abbiamo giudicato gravi, indegne. Noi siamo buoni e cari, ma c’è gente con cui preferiamo non avere più a che fare. Così va la vita.


4. Anche Gli uomini pesce è già un romanzo. Non sarebbe scritto così se prima non mi fossi cimentato con gli UNO, ma è già un romanzo.


5. Discussione che invece incontrò mille ostacoli, perché subito partirono attacchi scomposti. La denigrazione proseguì per anni, tanto che di quel memorandum non ho più parlato.


6. Citavo anche opere di autori che non stimo. Malaparte mi fa venire l’orticaria, ma un libro come La pelle è senz’altro un UNO dei suoi tempi.


7. Consigliata la versione di Nico, 1974.

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8 commenti su “La collana Quinto Tipo: un bilancio, un requiem e un’autocritica sul concetto di «oggetto narrativo non identificato»

  1. Così come le diverse civiltà hanno cercato di raggruppare gli astri in costellazioni dalle forme e dai nomi più o meno plausibili, così a volte non sempre un paradigma risulta facile o almeno possibile da cogliere; ma ciò non toglie nulla alla luce delle singole stelle (o delle singole opere).
    Inoltre, non esiste progresso senza sperimentazione, ma non esiste nemmeno sperimentazione senza insuccessi: e chissà che dagli errori fatti in passato non si riesca in futuro a creare e proporre qualcosa di ancora diverso che centri l’obiettivo.
    Giusto quindi, al di là della (auto)critica, onorare gli sforzi compiuti finora.

  2. Un tentativo necessario. Appunti sintetici sulla chiusura della collana Quintotipo e sulle forme della riflessione femminista scritta

    di Filo Sottile

    https://filosottile.noblogs.org/post/2024/11/18/un-tentativo-necessario-appunti-sintetici-sulla-chiusura-della-collana-quintotipo-e-sulle-forme-della-riflessione-femminista-scritta/

  3. Una riflessione sulla chiusura di Quinto Tipo e sui dieci anni di Diario di zona

    di Luigi Chiarella (Yamunin)

    https://yamunin.com/una-riflessione-sulla-chiusura-di-quinto-tipo-e-sui-dieci-anni-di-diario-di-zona/

  4. Ciao, mi sono registrato solo ora, anche se vi seguo da anni, perché la chiusura ella collana è una notizia che mi ha colpito. Come Monsieur Jourdain parlerò in prosa. Per me Quinto tipo è stata utile, un’apertura, un’occasione anche di riconsiderare situazioni vissute, da me, da un’altra angolazione. Mi spiace se gli obiettivi teorici che erano alla base dell’impresa non siano stati raggiunti, onestamente non ho gli strumenti per entrare nel merito della questione, ma se è vero che quel che conta è continuare a fallire ogni volta meglio, questa esperienza è stata un passo avanti decisivo. Buon lavoro e grazie.

  5. È possibile che l’ONNI pretendeva troppo dal lettore medio? A vedere gli scaffali delle librerie, le classifiche di vendita e la letteratura contemporanea in genere, sembra che il lettore voglia il plot intrecciato su personaggi piuttosto stereotipati, uno sviluppo narrativo lineare nel solco del consueto. Le serie, poi, hanno contribuito a plasmare un gusto che desidera colpi di scena, iperboli narrative, realtà “aumentata”, insomma, un prodotto che porti l’asticella dell’interesse immediato e immediatamente fruibile sempre più su. L’ONNI richiede applicazione, quasi studio, e una buona dose di tenacia. Personalmente, dei titoli indicati, oltre a “un viaggio”, ho letto solo quello di Genna, che all’inizio mi ha spiazzato e irritato, e solo con una buona dose di volontà l’ho riletto, apprezzandolo. Se il presente e il futuro immediato sono e saranno dominati dalla letteratura d’evasione, l’ONNI era o in ritardo o troppo in anticipo sui tempi. Ma il tentativo in sé non merita un’autocritica senza scampo come questa. Del resto, se ci pensiamo, oltre al citato “se questo è un uomo”, un esempio di ONNI potrebbe essere Gomorra, che il favore del pubblico lo ha incontrato, solo che lì gli scopi erano diversi, non c’era quello che nel pezzo viene indicato come “approcci radicali [che] mettono in pratica l’idea di «non-fiction creativa», spingendo molto in là l’ibridazione”. È stato questo osare, forse, che ha scoraggiato “la stragrande maggioranza della piccola minoranza che legge libri in Italia”.

    • Non penso che il problema siano stati i titoli. Non è affatto detto che un UNO molto “azzardato” non sia anche scorrevole e godibile, lo dimostra la storia del “romanzo di non-fiction” e, come fai notare, lo dimostrano anche casi recenti.

      Se guardiamo ai libri usciti nella collana, svariati hanno avuto recensioni più che lusinghiere e sono andati in ristampa, anche più volte. Non parliamo certo di vendite stellari, ma quelle nemmeno ce le aspettavamo. No, vendite che in Italia possono essere ritenute più che decenti, per titoli pubblicati da piccole case editrici indipendenti. Nel 2019 Una cosa oscura, senza pregio è stato votato “libro del mese” da ascoltatrici e ascoltatori di Fahrenheit ed è stato il secondo titolo più votato come “libro dell’anno”. Ciò dovrebbe dimostrare che non era una lettura particolarmente astrusa.

      Come detto nel post, se prendiamo in considerazione le singole uscite, sovente – direi, tagliando con l’accetta, nel 50% dei casi – l’esperimento è riuscito, sotto diversi aspetti.

      Il problema è che l’esperimento non riguardava solo i singoli titoli, ma anche e soprattutto l’intera collana. Imporre la collana come soggettività riconosciuta, come punto di riferimento, e grazie a questo impostare un discorso complessivo su cosa siano questi UNO. Invece la collana è rimasta pressoché invisibile, la discussione non è partita, e dopo dieci anni è stato ragionevole concludere che le probabilità che partisse si erano esaurite.

  6. Grazie a Wu Ming 1, Pietro de Vivo e lo staff e l3 autor3 Alegre per questa avventura editoriale che ha impresso comunque le sue orme. Iniziamo dal costruens:

    Stradario hip-hop è uscito nel luglio 2020, nello spiraglio aperto dal post-lockdown per essere travolto poco dopo dallo tsunami emergenziale. Un libro che parlava di hip-hop in un mondo dove era vietato farlo, figuriamoci presentarlo. Non pago, lo Stradario era un ibrido fra saggio accademico e racconto di vita di strada, e risultava alieno sia alla fanbase politicizzata di Alegre, sia ai fieri b-boy. La contromisura fu di organizzare una dozzina “presentareading”. E andò bene. Il libro ebbe una discreta circolazione negli scaffali ma non abbastanza per tagliare il traguardo della seconda edizione. Quando Danno mi chiamò per dirmi che Stradario “era il miglior libro sull’hip-hop scritto in italiano”, quell’elogio non influì minimamente sulle vendite del libro ma mi sostenne nell’affrontare i disgraziati anni pandemici.

    – Era questa la parte costruens?

    No. La cosa bella è che Stradario ha mantenuto in ritmo di vendita e circolazione lento e costante e a 4 anni e mezzo dall’uscita, torna a essere. Nel frattempo, avevo trasformato il libro nel manuale del mio corso di Storia dell’hip-hop presso l’UDA di Roma e molt3 dancer della nuova generazione si erano format3 attraverso questo ostico UNO. Sebbene molt3 si lamentassero di dover leggere Stradario con il “vocabolario a portata di mano”, il libro e i suoi contenuti – fra cui il rapporto fra vogueing e breaking, i nuovi orizzonti del femminismo hip-hop e una storia dell’hip-hop raccontata dalla prospettiva di un breaker anziché un rapper – ha fatto sì che il testo circolasse anche fra la componente studentesca.

    Dopo che l’anno scorso mi sono trasferito a Torino per lavorare come ricercatore, da poco ho iniziato a seguire le prime tesi di laurea sull’hh con student3 che vengono da me perché hanno scoperto che l’autore di Stradario hip-hop è il “prof. Gatti” del Dams. Stradario è forse un ponte fra street & academic knwldg che potrebbe contribuire all’ingresso della cultura doppia h nei programmi universitari: un nuovo orizzonte pienamente quintotipico!

  7. Ho finalmente trovato il tempo per leggere l’articolo. Certo, non è la precisione che ci si aspetterebbe dal condirettore di Quinto Tipo ma la FOMO non ci appartiene! Mi ha sempre fatto ridere, tra l’altro, che il condirettore di una collana le cui bandelle, per scelta, iniziavano con «R», non sappia pronunciare la erre.

    Scherzi a parte, devo dire che per me codirigere Quinto Tipo è stato un grande onore, uno stimolo professionale e critico enorme, fonte di continua riflessione, crescita e anche gioia, oltre che terreno di incontri (letterari e umani) spesso fecondi e che in molti casi continuano tutt’oggi.

    Uscendo dal mio dato personale, condivido l’analisi di Wu Ming 1 ma con un poco meno di criticità. Credo che – facendo la tara ad alcuni innegabili intoppi strutturali da lui evidenziati – il problema della collana non fosse *nella* collana in sé quanto nella collocazione/posizione del concetto stesso di collana nella *attuale configurazione del panorama letterario, editoriale e in genere culturale italiano* (ovvero: una merda).
    A parte le persone addette ai lavori e qualche lettrice/ore particolarmente avvezzo/a, per il resto in giro non c’è minimamente interesse o attenzione su cosa sia una collana, rispetto agli anni gloriosi dell’editoria italiana della seconda metà del Novecento.
    Di conseguenza, gli editori sempre meno creano e curano collane ben strutturate, riconoscibili e con dietro un progetto, preferendo singoli libri su cui puntare (letterariamente/contenutisticamente o – soprattutto – economicamente). È, purtroppo, la miope visione a brev(issimo)e termine della cultura in Italia, paese in cui un *vero* dibattito su letteratura ed editoria è praticamente assente.
    A cascata, anche critici letterari e giornalisti culturali sorvolano su questi “contenitori” per focalizzarsi su singoli libri o – spesso – singoli e specifici autori o autrici, nell’individualismo narcisista imperante che ci caratterizza. Di conseguenza non si è quasi mai parlato della collana come luogo di ricerca e sperimentazione, semmai dei suoi singoli libri.
    Che alcuni titoli di Quinto Tipo siano riusciti meglio di altri è innegabile (dal punto di vista dell’ibridazione, sia chiaro, e non come valore; perché alcuni erano di alto valore ma non ibridati). Ma è normale, perché la concezione stessa di collana come laboratorio prevede andamenti sinusoidali circa la riuscita degli esperimenti. E il fatto che con gli anni la qualità degli UNO in quanti tali aumentasse conferma che i tentativi, uno dopo l’altro e grazie anche ai fallimenti, portavano a dei risultati. Ma nel panorama coevo si vive di successi (di pubblico e vendita) immediati ed estemporanei e non c’è pazienza per ragionamenti di lungo corso. Uno dei motivi che ha spinto a decidere di chiudere la collana che – appunto – come contenitore non aveva più senso (anche se rimane il senso di scrivere e pubblicare degli UNO).
    Se a questo aggiungiamo il fraintendimento che definirei ormai storico circa gli UNO (ben spiegato da WM1 nel testo: ovvero prima una confusione tra mescolamento di generi e ibridazione di tipologie testuali; e poi un’altra confusione tra mera giustapposizione di generi/tipologie e vera e propria ibridazione) il piatto è servito.
    Spesso, oltre a quella ormai nota della cassetta degli attrezzi, abbiamo usato la metafora dell’aprire le porte della cucina e mostrare il dietro le quinte di come si scelgono, preparano, assemblano e cucinano gli ingredienti per arrivare alla pietanza finita. Be’, il fatto che spesso clienti del ristorante e critici gastronomici non entrino in cucina non vuol dire che quella cucina non crei piatti di gran gusto e molto apprezzati. Ora una cucina ha chiuso ma – diversamente dal caso dei ristoranti – per fortuna i piatti che ha preparato (qualcuno un po’ crudo o bruciacchiato ma la maggior parte gustosi e nutrienti) si possono ancora assaggiare. Buon appetito a chi vorrà mangiarne ancora un po’ e magari parlarne con noi a tavola nella convivialità che sempre ha caratterizzato la nostra idea di riflessione e discussione.
    Ci si reincontra sulle pagine e soprattutto nelle strade.

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