I «due marò», la Corte suprema indiana e le fregnacce di casa(pound) nostra

La Torre e Girone

«Non è colpa mia, ce l'hanno con me». Il racconto dell'Italia su se stessa è un mix di tracotanza e vittimismo.

[L’articolo «I due marò: quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto», scritto da Matteo Miavaldi e pubblicato su Giap una ventina di giorni fa, ha avuto un impatto senza precedenti nella storia di questo blog. Oltre 2000 retweet, quasi 28.000 condivisioni su Facebook, e l’urto dei visitatori (60.000 IP nella sola prima giornata) ha più volte messo in crisi il server che ci ospita. Addirittura, il “rimbalzo” prodotto dai nostri link ha fatto cedere il server che ospita il sito China Files, del quale Miavaldi è caporedattore per l’India.
Dalla discussione in calce, ripresa con grande risalto anche da testate nazionali come Il Fatto Quotidiano, è partita un’inchiesta collettiva che ora prosegue su due livelli: sul blog e in un gruppo di lavoro nato ad hoc. Il gruppo sta portando avanti ricerche e scrivendo un “libro bianco” sul cortocircuito “diplomediatico”/politico e il ruolo dell’estrema destra nella gestione del caso Girone-Latorre.
Intorno a questo caso si è mosso e tuttora si muove uno strano sottobosco, una “compagnia di giro” già vista esibirsi in altre italiche pochades. Il cast include “fascisti del terzo millennio”,  bizzarre figure di “tecnici” mobilitati da politici e giornalisti amici per confezionare “analisi” a misura dei media, folgorati reporter post-missini perennemente “embedded” in settori delle forze armate etc.
Quest’interzona tra politica estera e giornalismo di guerra è così: qualunque sasso alzi, ecco una biscia che striscia via, via… invariabilmente verso il Corno d’Africa, verso il rimosso del nostro colonialismo e il rimosso ancor più rimosso del nostro neocolonialismo, verso le rotte del petrolio e di altri traffici meno menzionabili.
Questa “narrazione tossica” incrocia tutti, ma proprio tutti i temi che siamo soliti trattare su Giap, perciò continueremo a occuparcene.
Abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere un nuovo pezzo, alla luce delle decisioni prese pochi giorni fa a New Delhi e del modo in cui i media italiani le hanno riferite – cioè, ça va sans dire, a cazzo di cane. Ecco qui. Buona lettura.
N.B. il pezzo è di Matteo, il titolo e le didascalie delle immagini sono nostri. Ricordiamo che il pezzo è disponibile in versione ottimizzata per stampa/pdf ed è salvabile in formato ePub, vedi link in calce al post. — WM]

di Matteo Miavaldi

La mattina del 18 gennaio, a Nuova Delhi, la Corte suprema ha pronunciato una prima sentenza sul caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, da quasi un anno in India – fatta salva la licenza per le vacanze natalizie concessa dalle autorità indiane – in attesa di sapere dove sarà celebrato il processo che li vede imputati di omicidio.
La vicenda, a grandi linee, è nota: i due marò del battaglione San Marco in servizio sulla petroliera privata Enrica Lexie scambiarono il peschereccio St. Antony per una barca di pirati, spararono ed uccisero Ajesh Binki e Valentine Jelastine (queste le traslitterazioni più accurate dall’alfabeto malayalam, una delle lingue parlate in Kerala).
Le prime notizie trasmesse ai media italiani, apparentemente da fonti vicine alla delegazione diplomatica italiana presente nell’aula del tribunale, riportano però una versione distorta della sentenza.
A parziale discolpa, è da rilevare come il corto circuito mediatico abbia coinvolto nelle prime ore della giornata buona parte dell’informazione internazionale, televisioni indiane escluse.
Il primo lancio d’agenzia reperibile online è quello dell’Ansa, che alle 7:23 italiane dice:

«(ANSA) – NEW DELHI, 18 GEN – La Corte suprema indiana ha deciso oggi che il giudizio sui due marò italiani sia trasferito ad un tribunale speciale che sarà costituito a New Delhi. Dopo aver precisato che il Kerala non aveva giurisdizione sul caso, la corte ha stabilito quindi la creazione di tale tribunale in collaborazione col governo centrale.»

Due minuti dopo sempre l’Ansa riporta le dichiarazioni di Harish Salve, avvocato a capo della difesa dei marò in India, che si dice «molto soddisfatto per la sentenza della Corte suprema», che ha tolto la giurisdizione al Kerala e spostato il processo nella capitale.
Già qui, a rigor di logica, qualcosa non quadra. L’obiettivo dichiarato della difesa italiana era infatti riportare i due marò in patria e far celebrare il processo da un tribunale italiano. Di fronte alla notizia perentoria del «giudizio trasferito ad un tribunale speciale che sarà costituito a New Delhi», escludendo l’ipotesi di un procedimento penale in Italia, la soddisfazione del capo del pool di avvocati della difesa risulta abbastanza incomprensibile.
Ma Salve – che è un avvocato di tutto rispetto, legale di fiducia della potentissima famiglia Ambani, che controlla la multinazionale indiana Reliance – ha ragione a dirsi soddisfatto.

Mentre i lanci dei giornali italiani online rimbalzano la notizia parziale (anche Il Post, di solito molto affidabile ed attento a riportare news, lancia un post-it che recita: «I due marinai italiani arrestati in India saranno processati da un tribunale speciale a New Delhi, e non nel Kerala»), le televisioni indiane raccontano una sentenza diversa.
Il sito dell’emittente indiana in lingua inglese Ndtv pubblica infatti un articolo in cui si spiega: «La Corte suprema ha detto che lo Stato del Kerala non ha giurisdizione per procedere contro i due marò italiani – Massimiliano Latorre e Salvatore Girone – ed il Centro [si intende il governo centrale di Delhi, ndt] dovrà consultarsi col Chief Justice of India (il presidente della Corte suprema, ndt) e formare una Corte speciale». Ma soprattutto chiarisce: «La Corte ha inoltre deciso che la questione della giurisdizione, attualmente affidata alla Corte di Kollam, Kerala [la città dove si è istruito il processo fino al 18 gennaio, ndt], dovrà essere considerata dalla Corte speciale, che deciderà se i marò verranno processati in India o in Italia».
Va precisato perché alcuni hanno già provato a specularci sopra: ricorrere ad una Corte speciale, in India, è pratica abbastanza comune quando si affrontano casi particolarmente complessi o di interesse nazionale. Negli ultimi anni, ad esempio, si è ricorso alla formazione di diverse Corti speciali per affrontare casi di terrorismo, corruzione, crimini contro le donne. E’ vista come una garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali (il parlamento in primis) è ai minimi storici. Insomma, coi “Tribunali speciali”, le Corti speciali indiane non c’entrano proprio nulla [a differenza di chi ancora si richiama all’eredità del fascismo].

Quindi, chiaro come il sole fin da subito in India, la Corte suprema ha semplicemente tolto la giurisdizione allo Stato del Kerala e spostato il processo a Nuova Delhi dove, prossimamente, si ripartirà sostanzialmente da zero. La Corte speciale esaminerà i dati e le prove portate da accusa e difesa e deciderà circa la giurisdizione; eventualmente, se la giurisdizione sarà data all’India, procederà nell’istruire il processo.
Ma in Italia la questione rimane in sospeso almeno per tre ore e mezza, dalle 7:30 alle 11 di mattina, quando un nuovo provvidenziale lancio d’agenzia dell’Ansa riporta un’altra dichiarazione di Salve, a correggere il tiro precedente.
Nel limbo di quelle tre ore Francesco Storace, candidato alla Regione Lazio de La Destra, dichiara a TgCom24:

Francesco Storace«Sconcertato dalle notizie che negano la possibilità di ritorno in Italia per un processo giusto ai nostri soldati. Continua la sudditanza nei confronti dell’India grazie all’ineffabile opera diplomatica, inesistente, del ministro Terzi».

Dello stesso tenore molte delle reazioni online, come quella di Mario Vattani, capolista al Senato per La Destra in Campania, già console italiano ad Osaka, passato agli onori della cronaca come “console fascio-rock” grazie ad un’esibizione durante un concerto organizzato da Casapound nel maggio 2010.
Vattani si lamenta su Julienews dell’occasione sprecata dal governo italiano:

«A dicembre i nostri militari andavano fermati in Italia appena scesi dall’aereo e sottoposti dalla nostra magistratura a un procedimento sotto la nostra giurisdizione, come previsto dal diritto internazionale. Concedendo ai marò una insolita licenza natalizia in Italia, gli indiani ci avevano offerto su un piatto d’argento una possibilità di uscire – noi e loro – da questa impasse. Purtroppo chi ha deciso di rimandare in India i nostri marò si è presa una pesante responsabilità. Paradossale poi come sia voluta travestire questa mancanza di iniziativa da ‘senso dell’onore’, andando a scomodare addirittura gli antichi romani. L’onore qui non c’entra, qui si tratta di esercizio della sovranità nazionale […]»

Mario Vattani

Il tizio a destra è Mario Vattani, già console italiano a Osaka. Il tizio paffuto e rubizzo a sinistra è Iannone, er capo de Casapau.

Ma Vattani – assieme a Storace ed ai lettori de Il Giornale, costretti ancora una volta a sorbirsi l’ennesimo resoconto complottista dark sci-fi della redazione di Sallusti – è mal informato e, quando cita il “diritto internazionale”, inconsapevolmente centra proprio il nodo di tutta la vicenda. Peccato, a sproposito.

COSA DICE LA SENTENZA?

Gaiani in Somalia, 1993

Gaiani in Somalia, 1993

Pur essendo a disposizione delle maggiori redazioni italiane – la citano nei loro articoli online Repubblica, Corriere della Sera, Sole 24 Ore ed Il Giornale – la complessa sentenza della Corte suprema indiana è stata o riassunta all’osso, o riportata in parte o, nel caso del Sole 24 Ore, sostanzialmente travisata.
L’articolo a cui facciamo riferimento
è firmato da Gianandrea Gaiani, collaboratore del Sole 24 Ore e di Libero, fondatore e direttore di Analisi Difesa, «Magazine di Difesa, Industria e tematiche militari».
En passant, è interessante affiancare all’articolo del Sole la versione dello stesso pezzo disponibile su Analisi Difesa, dove Gaiani, libero dalle limature del quotidiano di Confindustria, si lascia andare a valutazioni personali su governo Monti ed orgoglio italiano infangato.
Se le posizioni ideologiche di Gaiani non ci interessano – ma dovrebbero interessare, forse, il direttore del Sole 24 Ore – ci interessa invece analizzare cosa racconta ai propri lettori. Primo capoverso:

«La sentenza resa nota venerdì mattina, dopo che il dibattimento in aula sulla giurisdizione del caso era terminato il 4 settembre, ha stabilito che a processare per l’omicidio di due pescatori i due fucilieri di marina italiani, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, non potrà essere il tribunale del Kerala perché i fatti sono avvenuti in acque internazionali.»

In tutta la sentenza, che abbiamo letto nella sua versione integrale – come presumiamo abbia fatto anche Gaiani – non si dice mai che i fatti sono avvenuti in «acque internazionali», bensì si indica che sono avvenuti «non in acque territoriali». Che sembra la stessa cosa, ma non lo è.
L’imprecisione ricorre in gran parte degli articoli disponibili online e che, incidentalmente, travisa tutto il senso della sentenza e dell’intera vicenda, glissando clamorosamente sulla questione della “zona contigua”, alla quale avevamo accennato per la prima volta su China Files il 7 novembre 2012, sottolineandone la centralità nel caso dei due marò.
Fatto ancora più grave, non è solo la stampa a raccontare la versione modificata delle acque internazionali, ma anche il governo italiano, in una nota ufficiale di palazzo Chigi scrive:

«L’Alta Corte ha riconosciuto che i fatti avvennero in acque internazionali e che la giurisdizione non era della magistratura locale del Kerala.»

Una frase che mette in bocca alla Corte suprema indiana parole che non ha mai detto. Che la scelta sia stata fatta peccando di eccessiva semplificazione o per insistere nel mantenere in piedi, davanti all’opinione pubblica italiana, il castello di carta delle “acque internazionali”, si rivela comunque uno stratagemma da furbetti per tirare l’acqua al proprio mulino.

Tornando al Sole 24 Ore, Gaiani non ritiene opportuno spiegare ai propri lettori come stiano realmente le cose, e infatti a metà articolo afferma:

«Stabilendo ”l’incompetenza” dello Stato del Kerala che ”non aveva giurisdizione” per intervenire dato che ”il fatto non era avvenuto nelle acque territoriali indiane”, i giudici Altamas Kabir e J. Chelameswar hanno puntualizzato che a loro avviso invece ”lo Stato centrale indiano ha giurisdizione”. Definizione paradossale considerato che non esistono acque territoriali del Kerala ma solo dell’india, e fuori da queste il diritto internazionale non prevede alcuna giurisdizione degli Stati rivieraschi.»

E a questo punto i casi sono due: o Gaiani non ha letto la sentenza, e avrebbe fatto bene a non dare la sua personalissima lettura del diritto internazionale, oppure l’ha letta e ha deciso di ometterne più della metà, dato che i giudici, nella trascrizione, fanno continuamente riferimento a leggi e convenzioni internazionali che riguardano la “zona contigua”.
Al punto 17 della sentenza troviamo la definizione di “zona contigua indiana” che, secondo il Maritime Zones Act del 1976, è «l’area oltre o adiacente alle acque territoriali il cui limite […] è fissato a 24 miglia nautiche [dalla costa]». La stessa definizione viene data nell’articolo 33 della United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), convenzione internazionale che sia Italia che India hanno firmato e ratificato.
In quel tratto di mare, parte integrante della Zona Economica Esclusiva (che si estende per 200 miglia nautiche dalla costa), lo Stato del Kerala, uno degli Stati federali che compongono l’Unione Indiana, secondo le leggi indiane non ha alcuna giurisdizione e quindi non poteva indagare e processare Latorre e Girone.
Ma una notifica del 1981 ha modificato l’articolo 188A del Codice penale indiano, che da quella data recita:

«Reato commesso nella zona economica esclusiva: Quando un reato viene commesso da qualsiasi persona nella […] zona economica esclusiva […], quella persona dovrà essere giudicata per il suo reato come se fosse stato commesso in qualsiasi altro luogo sotto [l’autorità] del Governo centrale [indiano]».

L’autorità della legge indiana è quindi estesa sulla Zona contigua e su tutta la Zona economica esclusiva; il compito di indagare e processare i due fucilieri del battaglione San Marco spettava dunque all’Unione Indiana (per chiarire la dualità, la differenza tra Kerala e India è la stessa che corre tra Illinois e Stati Uniti d’America). Il processo non si doveva istruire a Kollam presso la Corte del Kerala, bensì davanti ad una Corte federale come la Corte suprema di Nuova Delhi, sede del governo centrale dell’Unione Indiana.

Ci può venire in soccorso, per capire meglio la faccenda, un paragone credo noto a tutti. Avete presente quando nei telefilm americani la polizia di uno Stato arresta dei criminali, quelli sono in manette con la testa quasi dentro la macchina della polizia e ad un certo punto spunta l’Fbi e dice: “Grazie, ora li prendiamo in custodia noi. Questo è un crimine federale”? Ecco, più o meno la situazione è la stessa. La polizia del Kerala, dopo aver arrestato i marò, avrebbe dovuto consegnarli al Central Bureau of Investigation (Cbi), l’Fbi indiana, dove si sarebbe poi istruito un processo davanti ad una Corte federale, nel caso indiano la Corte suprema.

Come mai non sono stati consegnati al Cbi immediatamente? E’ lecito pensare che il governo del Kerala a metà febbraio 2012, con le elezioni locali previste entro la fine del mese seguente, avesse avuto tutto l’interesse a strumentalizzare il caso dei marò italiani a fini politici, presentandosi agli occhi dell’elettorato come un’amministrazione forte ed autoritaria che ha a cuore le sorti dei deboli e degli ultimi. D’altronde siamo in India, ma tutto il mondo è paese. (Le elezioni locali, poi, le ha vinte il partito di governo).

Ora, eliminato lo Stato del Kerala dalla questione legale, la Corte speciale che verrà nominata dal Chief Justice of India (il presidente della Corte suprema) in accordo col governo centrale, dovrà pronunciarsi innanzitutto sulla giurisdizione.
Infatti, si legge nella sentenza, la questione della giurisdizione tra Italia e India è ancora tutta aperta.
Secondo l’articolo 97 della UNCLOS, che interessa i casi di incidente o collisione tra due imbarcazioni, si presta a molteplici interpretazioni.
Da un lato dice che «nessun arresto o misura investigativa può essere presa da un’autorità che non sia appartenente allo Stato di bandiera dell’imbarcazione interessata», nel nostro caso l’Enrica Lexie, battente bandiera italiana. Sparare ed uccidere due pescatori rientra nella casistica di “incidente o collisione”? Se la Corte speciale opterà per un sì, la giurisdizione verrà data all’Italia.

La nave a vapore francese Lotus
La Corte cita però anche l’ultimo precedente simile nella storia degli incidenti navali internazionali, il caso Lotus.
Nel 1926 il battello a vapore Lotus, battente bandiera francese, si scontrò col battello a vapore Boz-Court, battente bandiera turca. La collisione causò l’affondamento di quest’ultimo e la morte di otto turchi che si trovavano a bordo. Entrambe le imbarcazioni si trovavano in alto mare, in acque internazionali, e quando il Lotus attraccò al porto di Costantinopoli, le autorità turche arrestarono il comandante della vedetta francese e lo condannarono ad una pena detentiva.
La Francia fece ricorso, sostenendo che essendo l’incidente avvenuto in acque internazionali, la Turchia non aveva giurisdizione su un atto compiuto da un cittadino straniero su un’imbarcazione battente bandiera straniera.
All’epoca dei fatti la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, che nel 1946 diventò la Corte Internazionale di Giustizia, giudicò lecita l’azione legale della Turchia in virtù del fatto che l’atto commesso a bordo del Lotus aveva avuto compimento ed effetto a bordo del Boz-Court turco.
Secondo questo precedente, gli spari partiti dall’Enrica Lexie italiana avrebbero avuto effetto e compimento a bordo della St. Antony, uccidendo due cittadini indiani.
Se la Corte speciale giudicherà la giurisdizione basandosi su questo precedente internazionale, Latorre e Girone potrebbero venire processati in India. In verità la sentenza riconosce anche il distinguo del caso, ovvero che la St. Antony non batteva bandiera indiana, il che potrebbe complicare la lettura del precedente legale. Ma la questione verrà affrontata, appunto, in altra sede.

Infine il giudice:
– Si dilunga in una disamina sulla concorrenza di giurisdizione alla luce della UNCLOS, del Maritime Zones Act e del Codice penale indiano.
– cita l’articolo 100 della UNCLOS, che esorta le parti in causa alla “massima collaborazione”; il 94, che prevede ciascuna delle parti apra un fascicolo e collabori durante le indagini.
– cita di nuovo l’articolo 188A del Codice penale indiano, che estende l’autorità della legge indiana su tutto il tratto di mare della Zona Economica Esclusiva (zona contigua compresa), assieme al principio generale secondo il quale «nell’area dove uno Stato esercita la sua sovranità, le sue leggi prevarranno nel caso entrino in conflitto con altre leggi».
– cita una lunga serie di codici, sotto-codici, provisions e regolamenti, concludendo però che la questione dovrà essere decisa dalla Corte speciale. In poche parole, tutto rimandato.

MILITARI O “CONTRACTORS”? UN CASO DI… IMMUNODEFICIENZA

Secondo alcune interpretazioni del diritto, i marò dovrebbero godere dell’immunità funzionale in quanto militari. Se l’immunità fosse stata riconosciuta, la giurisdizione sarebbe passata all’Italia. La questione però è controversa, perché i due marò (pur non essendo in missione per iniziativa personale) non stavano certamente lavorando per conto dello stato italiano, bensì di una compagnia privata.

Notare che hanno annerito gli indiani e circonfuso i nostri due leoni di un alone bianco
«Tutta la simbologia politica e culturale di Casapound verte sul fenomeno della pirateria. Dal Cutty Sark alle bandiere nere, dal Jolly Roger alle tibie incrociate, dagli slogan sugli assalti e gli arrembaggi, i velieri stilizzati, alla figura mitizzata di Capitan Harlock, dai loro numerosi covi chiamati “Tortuga” ai nick name che si scelgono su internet, insomma sono anni che i neofascisti giocano a fare i pirati. Bastano però due militari implicati in uno scontro con qualche pescatore indiano scambiato per pirata, che subito cade tutto il cornicione di puttanate costruito in questi anni (qui possiamo farci allegre risate su un’iniziativa “contro i pirati” fatta in un posto chiamato “l’isola di Tortuga”…) . Infatti, prima ancora che la vicenda fosse chiara, i neofascisti sono corsi a difendere il militare a difesa della multinazionale del petrolio contro quelli che loro chiamano pirati. Senza neanche pensarci due volte (almeno salvando qualche parvenza di coerenza), accusano i pescatori indiani di essere pirati e i due militari di aver svolto il proprio lavoro. Che sarebbe quello di difendere la proprietà privata delle navi multinazionali dagli assalti dei fantomatici pirati. Alla faccia dell’esaltazione della pirateria. Quando il padrone chiama, insomma, il servo obbedisce.» (da «Il cazzaro nero e i pirati maledetti», Militant Blog, 11/01/2013)

La Corte suprema di fatto non si è espressa a riguardo, rimettendo nelle mani della Corte speciale anche la decisione sull’eventuale immunità. Ma l’avvocato dell’accusa Banerji, che durante il dibattimento ha rappresentato l’Unione Indiana, ha spiegato che secondo il governo indiano:

«nessuna forza armata o guardia privata straniera in servizio su navi mercantili può godere di licenza diplomatica. Né il governo indiano è parte di alcun Status of Forces Agreement (SOFA) per il quale forze armate straniere possano godere di immunità dai procedimenti penali».

I due marò, davanti alla legge indiana, potrebbero semplicemente essere considerati due cittadini stranieri che hanno sparato a due cittadini indiani, azione commessa non “acta jure imperii”, a difesa del territorio (italiano), ma “acta jure gestionis”, a difesa della proprietà privata, delle cose.

OLYMPIC FLAIR: A VOLTE RITORNANO

Pochi giorni prima della sentenza della Corte suprema, il signor Luigi Di Stefano ha aggiornato parte della sua ormai celebre Analisi Tecnica, rimettendo stoicamente mano alla sezione Olympic Flair.

Di Stefano, che è solito fregiarsi motu proprio del titolo di Ingegnere, è l’autore di una sorta di perizia fatta in casa che, nei mesi scorsi, è stata più volte ripresa dalla stampa, citata in editoriali e addirittura presentata in parlamento.
Secondo il lavoro di Di Stefano, presentato all’opinione pubblica come “consulente tecnico”, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono vittime di un tranello, accusati ingiustamente di aver sparato ed ucciso i due pescatori Binki e Jelastine.
La tesi suggestiva, pubblicata online a poche settimane dall’incidente, scagionava completamente i due fucilieri del battaglione San Marco, presentando a supporto una serie di dati, grafici e reperti video.

Sergio Romano

Sergio Romano

Il lavoro è sembrato talmente autorevole da indurre Umberto Gori – professore dell’Università di Firenze esperto di relazioni internazionali, terrorismo ed intelligence – a citarlo in una lettera ospitata ad aprile nella rubrica del Corriere “Risponde Sergio Romano”. Nella sua risposta, il celebre editorialista esaltava il contributo di Gori, che «delinea un percorso che sarebbe stato logico adottare e cita un rapporto sui tracciati radar che potrà essere utile all’indagine».

Dopo la parziale decostruzione dell’analisi tecnica di Di Stefano, che potete leggere nella prima puntata di questa controinchiesta (non solo nell’articolo ma anche nella discussione in calce), la comunità dei giapster ha fatto emergere una serie di dettagli interessanti su Di Stefano stesso. Costui risulta organico a Casapound (suo figlio Simone è candidato premier per il suddetto partito neofascista, nonché candidato presidente della regione Lazio), è tra i promotori di un comitato “pro-marò” e si trova al centro di una rete di rapporti tra la destra italiana ed ambienti della stampa nazionale.
Una minima parte di quanto venuto a galla grazie alle ricerche spontanee dei giapster è stata raccolta da Luca Pisapia in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano qualche tempo fa. Prossimamente, sempre su Giap, verrà ospitata l’intera controinchiesta, in forma di ebook liberamente scaricabile (*).

Il progetto di case popolari disegnato da Di Stefano Sr.

(L'uom. ch. tutt. credev. ing.) Luigi Di Stefano è anche autore di una «Proposta per la realizzazione di Case Popolari nell’ambito del Piano Casa della Regione Lazio». Un progetto di villaggio «ecologico» che replica in pianta la tartaruga del logo di Casapound. Per dirla con Mazzetta: «Una buffonata come non se ne vedevano da quando un sindaco leghista marchiò con il sole delle Alpi una scuola.» Questo è il dott. che due settimane fa, su un forum fascista, minacciava querele per diffamazione all'indirizzo nostro, di Miavaldi, di Luca Pisapia e del Fatto Quotidiano, per aver riportato cose sul suo conto che aveva scritto lui stesso.

Lo stesso Di Stefano (sotto lo pseudonimo “Grifo”), sul forum termometropolitico.it, annunciava “in anteprima nazionale” l’aggiornamento della sua “Analisi tecnica” e introduceva così il suo ultimo scoop:

«Si dimostra, sulla base dei documenti delle autorità internazionali che coordinano la lotta alla pirateria ICC e IMO, e una attenta disamina della vicenda della petroliera greca Olympic Flair basata sui database del sistema di sicurezza e controllo del traffico navale AIS, che fin dal giorno dei fatti le autorità indiane hanno tenuto una condotta omissiva nelle indagini, e quindi tutto l’impianto accusatorio è nullo, tale sarebbe in qualsiasi tribunale italiano.»

Innanzitutto, ci scusiamo con i lettori per aver derubricato la questione Olympic Flair con troppa fretta, fidandoci delle dichiarazioni perentorie della Marina greca che escludeva ogni tipo di attacco pirata. Un rapporto dell’International Maritime Organization (IMO), consultabile da tutti online previa registrazione gratuita al sito dell’Imo, indica chiaramente che la petroliera Olympic Flair, battente bandiera greca, è stata vittima di un attacco pirata proprio il 15 febbraio 2012, alle 22:20 orario indiano.
Secondo la mappa disegnata da Di Stefano incrociando i vari dati circa tempo e posizione delle due petroliere, alle 22:20 l’Enrica Lexie, «scortata dai due pattugliatori Shamar e Lakshimi Bahi e dall’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228» si trovava a sole 3 miglia nautiche dall’Olymipc Flair, ancorata al largo del porto di Kochi.
Di Stefano conclude quindi che:

«Le autorità indiane avevano il dovere di lanciare l’allarme, allertare i mezzi militari navali e aerei, e per mezzo dei rilevamenti radar avviarli verso la Olympic Flair, tanto più che erano già sul punto preciso dove era avvenuto l’agguato e dove la Olympic Flair sosteneva di stare.
Avrebbero dovuto fare esattamente quello che avevano fatto poche ore prima nei confronti della Enrica Lexie. Ma non l’hanno fatto.
Qualunque ne sia il motivo (colpa o dolo) l’impianto accusatorio costruito nei confronti dei due militari italiani manca dell’indagine su almeno uno dei possibili colpevoli: è omissivo.
E quindi l’intero impianto accusatorio sarebbe dichiarato nullo in qualsiasi tribunale.»

Ma le cose, ancora una volta, non stanno così.

Di Stefano, per fissare il punto d’inizio del tragitto dell’Enrica Lexie, prende per buone le coordinate contenute nel rapporto “trasmesso” dai marò. Il dato, come indica la nota del punto 2 della mappa, arriva da Il Giornale, unica fonte italiana delle cinque inserite nelle note e, curiosamente, l’unica senza link.
Presumiamo Di Stefano si riferisca a questo articolo di Fausto Biloslavo, pubblicato su Il Giornale il 21 febbraio 2012.
Nel rapporto – «41 righe inviate a Roma e scritte apparentemente in tempi non sospetti» – si legge che, secondo Latorre, l’Enrica Lexie si trovava “a 20 miglia nautiche dalla costa al largo di Allepey (India)”.

Attenzione, perché questa è la pietra angolare sulla quale Di Stefano costruisce gran parte della sua “Analisi Tecnica”.
Collocare la petroliera italiana in quella precisa posizione gli permette, tramite grafici ed incroci di dati di posizionamento della St. Antony, di sostenere che gli indiani si sono inventati tutto, che l’Enrica Lexie e la St. Antony non si sono mai incrociate e quindi, evidentemente, a sparare non sono stati i due marò. E’ stato qualcun’altro.
E’ da notare però che solo il giorno prima, sul Corriere della Sera, un articolo di Fiorenza Sarzanini, citando il «report trasmesso a Roma» scritto sempre da Latorre, colloca l’Enrica Lexie a »33 miglia dalla costa sudovest dell’India».

Ma quindi la nave era a 20 o a 33 miglia dalla costa? Ed era o non era al largo di Allepey? Come mai Di Stefano prende per buona un’informazione contraddetta il giorno precedente dal Corriere della Sera? Quanti rapporti ha mandato Latorre a Roma?

Ancora una volta dobbiamo rilevare la totale inaffidabilità delle fonti utilizzate da Di Stefano.
Il cosiddetto “ingegnere” costruisce impressionanti grattacieli di pseudo-analisi tecniche su fondamenta quantomeno traballanti. Qui ci potremmo già fermare, contestando che nell’impossibilità di Di Stefano – e nostra – di determinare con certezza la posizione iniziale dell’Enrica Lexie, occorre fidarsi della perizia ufficiale indiana, senza provare a mettere la petroliera italiana di ritorno a Kochi e l’Olympic Flair attaccata dai pirati contemporaneamente nello stesso luogo.
Il caso della Olympic Flair e quello dell’Enrica Lexie sono due eventi assolutamente distinti, sia nel tempo (la petroliera greca sventa un attacco pirata alle 22:20, i marò sparano ai pescatori della St. Antony intorno alle 16:30) che nello spazio (l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, l’Olympic Flair a 12,5 miglia nautiche dal porto di Kochi).
E’ quello che il povero impiegato della compagnia armatrice greca ha provato a spiegare a Gian Micalessin, giornalista de Il Giornale, nella telefonata pubblicata da Di Stefano in coda alla sezione dell’Analisi Tecnica dedicata alla Olympic Flair. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

IL RAPPORTO CHE… NON C’È

Nel corso di questa ennesima decostruzione del presunto lavoro scientifico di Di Stefano, giudicata in un primo momento operazione noiosa ed irritante alla luce del fatto che nemmeno la difesa dei due marò contesta più la dinamica dei fatti, ci siamo imbattuti in un dettaglio cruciale che, precedentemente, ci era sfuggito.
Immedesimiamoci nel Di Stefano: proprio non volendosi fidare della valanga di dati e prove fornite dall’accusa indiana, si sarebbe potuta prendere per buona la posizione dell’Enrica Lexie contenuta nel rapporto trasmesso dal capitano dell’Enrica Lexie, Umberto Vitielli, subito dopo aver respinto il presunto attacco pirata (che, sappiamo ora, attacco pirata non era).
Nell’argomento di difesa consegnato alla Corte del Kerala da Latorre e Girone, citato tra gli altri anche dal Times of India, si indica che:
«Il Capitano ha anche attivato lo Ship Alert Security System (SASS), mandano segnali all’Italian Marine Rescue and Coordination Centre (MRCC). Il Capitano fece anche rapporto dell’incidente alla mercury chart che mette in contatto e trasmette informazioni alla comunità [navale], comprese i dipartimenti di Marina del mondo impegnati nella lotta anti-pirateria, compreso il quartier generale della Marina indiana. E’ stato stilato anche un “Rapporto militare”. Un altro rapporto è stato mandato al Maritime Security Center Horn of Africa. Siccome l’attacco era stato respinto, l’imbarcazione ha continuato verso la rotta prestabilita».

Abbiamo controllato nel registro dell’IMO, database pubblico che contiene i rapporti di attacchi pirati trasmessi dalle imbarcazioni di tutto il mondo alle autorità competenti (dove Di Stefano ha trovato il rapporto “incriminante” dell’Olympic Flair), ma del rapporto dell’Enrica Lexie non vi è alcuna traccia.
Non siamo stati gli unici a farlo. Il giudice dell’Alta Corte del Kerala P.S. Gopinathan, respingendo gli argomenti della difesa dei marò, ha spiegato:

«E’ pertinente notare che non è stata prodotta nessuna prova a testimonianza del fatto che i marò, prima di sparare ai pescatori, abbiano comunicato al Capitano dell’imbarcazione il pericolo di un attacco pirata, o che il Capitano ne abbia fatta menzione nel registro. Inoltre non esiste nessun documento a supporto dell’argomentazione di difesa che sostiene il Capitano abbia attivato lo Ship Alert Security System o che alcun segnale sia stato trasmesso al Marine Rescue and Coordination Centre, alla Mercury chart o a qualsiasi Marina in tutto il mondo».

Ci sono abbastanza elementi per dubitare che il rapporto sia mai stato trasmesso, dettaglio che apre uno scenario inedito della dinamica dell’incidente e del cosiddetto “tranello indiano”.

IL “TRANELLO” CHE NON C’È STATO

La vulgata italiana costruita nell’ultimo anno ha riconsegnato all’opinione pubblica un resoconto dell’incidente dove i marò hanno ricoperto il ruolo dei “buoni”, servitori dello Stato vittime di un madornale errore di valutazione, “hanno sparato, credevano fossero pirati, si sono sbagliati ma erano in buona fede” – Binki e Jelastine, le due vere vittime, non rientrano più nel quadro – e del “tranello” teso dalla Guardia costiera indiana.

Il ministro degli Esteri Terzi, in una lettera aperta pubblicata sull’Eco di Bergamo lo scorso ottobre, scriveva: «L’ingresso della nave Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, che ha richiesto al comandante della nave di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati.»
Come già hanno notato su Wikipedia
, la dichiarazione stride non solo con la versione indiana dell’accaduto, ma anche con la ricostruzione corrente del ritorno al porto di Kochi dell’Enrica Lexie.
Secondo larga parte della stampa il ritorno della petroliera al porto di Kochi è stato un “segno di buona fede”, un gesto volontario per facilitare le indagini alle autorità indiane. In un’ interessante intervista rilasciata al canale televisivo indiano IBN Live , il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura lo dice quasi con le stesse parole:

 

Ma la dinamica dei fatti ricostruita dalla stampa indiana, basandosi sui dati presentati al processo dall’accusa e sulle dichiarazioni degli ufficiali della Guardia costiera indiana, racconta una storia diversa.

1) Alle 16:30 del 15 febbraio qualcuno spara al peschereccio St. Antony

2) La St. Antony lancia l’allarme alla Guardia costiera indiana, descrivendo grosso modo l’imbarcazione dalla quale provenivano gli spari.

3) La Guardia costiera inizia le indagini, cercando di capire quali navi in quel momento si potevano trovare nei pressi della St. Antony.

4) Intorno alle 19:00 la Guardia costiera restringe il cerchio delle possibili navi coinvolte nella sparatoria a quattro imbarcazioni: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze. Le raggiunge tutte via radio, chiedendo se erano state coinvolte in un presunto attacco pirata.

5) L’unica nave a rispondere affermativamente è l’Enrica Lexie (che, come abbiamo visto sopra, aveva già infranto la procedura standard che prevede di fare immediato rapporto alle autorità nel caso di attacco pirata). Sono le 19:30 e la petroliera italiana, senza aver detto niente a nessuno, aveva proseguito nella propria rotta verso l’Egitto per quasi tre ore, allontanandosi dalla “scena del delitto” di ben 39 miglia marittime, più o meno 70 km.

6) La Guardia costiera indiana intima all’Enrica Lexie di tornare indietro e probabilmente, vista la mancata denuncia dello scontro a fuoco da parte della petroliera italiana, ordina ai due pattugliatori Shamar e Lakshmi Bhai e all’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228 di inseguire la nave italiana, intercettarla e riportarla in porto. (parentesi per Di Stefano: ecco perché la Guardia costiera non manda le navi e l’aereo anche all’Olympic Flair: la nave greca non si era lasciata due cadaveri alle spalle, avevano respinto un attacco pirata senza esplodere un colpo di fucile, stavano tutti bene ed avevano diligentemente fatto rapporto immediato alle autorità marittime).

7) L’Enrica Lexie comunica all’armatore italiano l’incidente e, contro gli ordini della Marina italiana, inverte la rotta e torna verso il porto di Kochi.

Alla luce di questi eventi, giudicati come “fatti” dalla giustizia indiana, descrivere il ritorno dell’Enrica Lexie a Kochi come un gesto volontario di buona fede appare una conclusione abbastanza fantasiosa.
Possiamo addirittura spingerci a considerare la scelta del Capitano Vitielli come un provvidenziale rinsavimento, un ritorno opportuno al senso di responsabilità. Se l’Enrica Lexie avesse dato retta alla Marina italiana, il 16 febbraio i giornali indiani – e internazionali – avrebbero titolato “Petroliera italiana spara contro pescatori indiani e fugge verso l’Africa, è caccia aperta”. Eventualità che avrebbe complicato non poco gli equilibrismi della diplomazia italiana davanti alla comunità internazionale.

Sandokan e i due marò

CARCERE… CARCERE FORSE… CARCERE NO

Per chiarire, speriamo una volta per tutte, la questione del regime di detenzione dei marò – molti credono ancora siano stati rinchiusi in carcere, nonostante diverse fonti, sia italiane che indiane, dicano il contrario – siamo andati a ripescare un articolo uscito incredibilmente su Il Giornale lo scorso 21 aprile.

Fausto Biloslavo, inviato del quotidiano della famiglia Berlusconi, si reca in Kerala per visitare in carcere i due marò e racconta quello che ha visto nel pezzo «Il Giornale nella cella dei nostri marò in India»). A metà pezzo si legge:

«Fra le pal­me che circondano il forte­prigio­ne fanno lavoretti utili. Solo quan­do alle spalle dei marò si chiude il portone in legno massiccio del car­ce­re capisci che non è una passeg­giata. Da una feritoia due paia di occhietti dei secondini all’interno si agitano incuriositi e una tabella ottocentesca indica il numero dei prigionieri maschi, 933. Oltre il portone, stile Alì Babà, non ci può andare nessuno a par­te i carcerati. I marò raccontano di stare in un piccolo compound, da soli, con le sbarre alle finestre ed una rete metallica tutt’attorno sor­montata dal reticolato. Dormono su dei tavolacci, che saranno anco­ra quelli inglesi, con l’unica como­dità di un materassino. I problemi più grossi sono il caldo e le zanza­re. La ventilazione è garantita dal­le vecchie pale, ma i fucilieri di ma­rina vengono addestrati a ben al­tro.
“Da casa è arrivata una caffettie­ra e gli abbiamo fatto avere anche degli attrezzi per la ginnastica. Niente computer e tv, però. Solo li­bri e le migliaia di lettere e messag­gi di solidarietà che arrivano dall’ Italia”, racconta il capitano di fre­gata Donato Castrignano. Vetera­no del San Marco si è offerto volon­tario per occuparsi delle necessi­tà quotidiane. A cominciare dal menù italiano preparato dal risto­rante Casa Bianca: spesso fettucci­ne con la crema di funghi, lasagne alla domenica, pollo e macedonia alla sera. I marò hanno pure un “amico” dentro il carcere, che de­ve scontare ancora un anno dei 15 che si è beccato. Mr. Mani possie­de una radio e informa gli italiani degli sviluppi giudiziari del caso. I fucilieri offrono il caffè e gli india­ni ricambiano con le ciapati, una specie di piadina farcita di cocco tritato. “Hanno preparato il caffè italiano anche al sovrintendente del carcere”, sottolinea Castrigna­no.»

Chi scrive vive in India da quasi un anno e mezzo, nella località di Santiniketan, a tre ore e mezza da Calcutta, Bengala occidentale. Ecco qui sotto alcune foto dell’abitazione dove attualmente risiedo assieme alla mia compagna.
Le sbarre alle finestre, tipiche in tutto il subcontinente, sono una misura di sicurezza sia contro i ladri che, soprattutto, contro le scimmie.

Sbarre alle finestre della casa di Miavaldi

I letti a reti metalliche o con assi di legno sono una rarità, ad uso e consumo della classe abbiente. Il resto della popolazione, carceraria e non, quando se lo può permettere, dorme su un materasso appoggiato sopra un “tavolaccio inglese” e, per le zanzare, si utilizza una sorta di zanzariera a baldacchino. Chi non si può permettere il “tavolaccio inglese”, dorme direttamente per terra, magari su una stuoia di bambù.

Il tavolaccio sul quale dorme Miavaldi

Se i ventilatori nelle aree urbane sono parte dell’arredamento standard, nelle zone rurali sono indice di benessere. Molti, durante il giorno, ne fanno a meno. E di notte, semplicemente, spostano il “tavolaccio inglese” fuori dalla porta di casa (anche se, ammettiamo, nella stagione calda la differenza di temperatura tra interni ed esterni è davvero risibile).

Le pale del ventilatore di Miavaldi

Per ovvi motivi, intorno alla nostra casa non c’è il filo spinato.

Anche davanti alla testimonianza diretta di Biloslavo, il suo stesso quotidiano ha insistito per quasi un anno a descrivere i due marò “sbattuti in cella”, “dietro le sbarre”, assieme al resto della stampa nazionale impegnata non a raccontare la verità, ma a polarizzare l’opinione dei lettori ed insistere nella narrazione propagandistica della vicenda dei due fucilieri.

Il prode Fausto Biloslavo

Il virile e - a dispetto del cognome che racconta di avi allogeni - italianissssimo Fausto Biloslavo from Trieste, immortalato da qualche parte ove si pugna pei valori occidentali. Interessante il ritratto di costui leggibile nell'articolo di Claudia Cernigoi «Forza Nuova e dintorni» (sul web si trova anche col titolo «Nuova destra, radici vecchie»). Per leggerlo, cliccare sulla foto.

Il fatto che succeda in un Paese democratico dovrebbe essere motivo di preoccupazione per l’opinione pubblica e, volendo, anche per l’Ordine dei Giornalisti, corporazione della quale molti – compreso chi scrive – già stentano a riconoscere l’utilità in condizioni di normalità e che, davanti alla sistematica campagna di disinformazione che abbiamo esposto, continuano a chiedersi quale ruolo l’Ordine, effettivamente, sia chiamato a ricoprire.
Sulle condizioni di detenzione dei due fucilieri si è espresso in modo inequivocabile anche il sottosegretario agli Esteri De Mistura. Nel video proposto sopra, intorno al minuto tre, dice che i marò non sono stati detenuti “in una prigione”, ma “in un ambiente militare”.

ERRATA CORRIGE & CREDITS

Nell’articolo precedente, come ci ha fatto notare Alessandro Marzo Magno, occasionalmente si è usato a sproposito il termine Esercito per riferirsi alla Marina. Ci scusiamo per l’imprecisione.

Questa seconda puntata della controinchiesta sul caso Enrica Lexie non sarebbe stata possibile senza la collaborazione della comunità di lettori di Giap. Negli ultimi venti giorni, togliendo tempo agli studi o al lavoro, diversi giapster hanno contribuito alla ricerca ed analisi di fonti, documenti ufficiali, sentenze, codici penali, articoli di giornale. Non riesco a pensare ad una migliore applicazione del concetto di intelligenza collettiva. Grazie a tutti/e, il lavoro continua.

Uno screenshot a caso dalla pagina FB di Iannone.
* NdR: intanto, si leggono sempre nuovi dettagli sulla natura di Casapound, sul suo giocare di sponda col «centrodestra» che pure attacca a parole e, dulcis in fundo, sui miliardari che la finanziano, ad esempio «un camerata che possiede 40 pizzerie a Napoli e provincia». Qui sopra, uno screenshot a caso dalla pagina FB di Iannone: la mascella di Bruce Willis.

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38 commenti su “I «due marò», la Corte suprema indiana e le fregnacce di casa(pound) nostra

  1. I fascisti non hanno altro che l’essere italiani per vantarsi di essere vivi, perché trincerarsi in confini che escludano gli altri pare loro l’unico modo per sentirsi i migliori. Gli individui che custodiscono i disvalori che, per mostrare la loro infamante vergogna, non avrebbero nemmeno avuto necessità di ornare la storia del mondo dei milioni di cadaveri trucidati con una malvagità senza confini, questi custodi del male difendono le pulsioni più basse di cui è preda la debolezza intellettuale e l’animo capriccioso di chi ha scambiato la propria inadeguatezza per superiorità razziale. Conto persino che tra questi individui ci sia anche qualche persona che abbia una seppur flebile speranza di poter cambiare, un giorno, tornando in superficie a galleggiare nel liquame di quei gelidi valori razziali per respirare, anche soltanto per un momento, il tepore dell’amore al quale devono la loro esistenza.

  2. scusate se forse mi sono perso qualcosa, a questo punto l’unico elemento rimasto in piedi sembrerebbe essere il calibro dei proiettili, sbaglio?

    • Penso che verrà smontato pure quello. Si era già iniziato a farlo nel vecchio thread, ma non ho competenze in quel settore e lascio volentieri la parola a chi ne stava discutendo.

  3. da una discussione con un amico.
    ecco i suoi punti non chiari.

    – miavaldi ha letto integralmente la sentenza, fregando tutti quanti gli altri, ma si guarda bene dal virgolettare, figuriamoci postare un PDF.

    – immunità diplomatica, i militari? Ma di che parlate? Al massimo è immunità funzionale.

    • La sentenza integrale della corte suprema è linkata nel post e scaricabile in .doc (è il formato in cui ci è pervenuta, il font è courier e non avevamo tempo di ri-impaginare e fare un pdf). Cliccare su “complessa sentenza della Corte indiana”.

      Dov’è che Miavaldi parla di immunità diplomatica per i militari? Non riesco a trovare quest’affermazione…

      In ogni caso, anche avesse sbagliato aggettivo, la sostanza del discorso è che per l’India i due marò sono equiparati a contractors, perciò privati cittadini.

      Se le “spigolature” al testo sono di questo genere, vuol dire che si è fatto un ottimo lavoro.

      • Abbiamo sentito Miavaldi e scoperto la svista: per errore era rimasto un link alla Convenzione di Vienna, che invece non c’entra direttamente, viene citata nelle discussioni sulla “immunità funzionale” soltanto come termine di paragone, come ad esempio si vede qui.
        Abbiamo tolto il link, grazie della segnalazione.

  4. Spero di non essermi persa niente e quindi di non fare una domanda stupida. Ma non c’erano anche dei periti italiani in India? Per capirci, quelli che citavano i Radicali nell’interrogazione parlamentare in cui chiedevano conto della relazione del presunto ing. Di Stefano.

  5. Forse sono Off-topic ma vi segnalo questo bell’articolo su Roma, Casapau e prossime elezioni
    “Fascismo quotidiano sui muri di Roma. Ecco dove vuole pescare il Cavaliere”
    http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/28Jan2013/28Jan20138c904bec6904637970b421acc9bac004.pdf

  6. Una spigolatura sul progetto di villaggio ecologico a forma di testuggine: una buffonata degna della piazza di Tresigallo (Fe) a forma di D[ux].

  7. decisamente e molto OT, ma ho trovato un esempio di narrazione tossica e la segnalo.

    Io scrivo da Berlino, ma il confronto si può fare in rete, senza troppa conoscenza del tedesco e anche in maniera approssimata.

    LA notizia è un allarme falso ad Alexanderplatz, per due netturbini che si sono sentiti male nei pressi di una stazione dei bus e si è pensato a qualcosa di pericoloso nell’aria, si è dato l’allarme ma si è rivelato falso.penso questa sia una buona traduzione
    http://www.ilmitte.com/alexanderplatz-chiusa/

    La Repubblica pubblica la notizia così:
    http://www.repubblica.it/esteri/2013/01/29/news/berlino_attacco_con_acido_fluoridrico_a_bus_in_centro-51496866/?ref=HREC1-10

    non analizzo qui tutte le parole ma si legge chiaramente che l’uso di certi aggettivi (indagini frenetiche degli agenti, il pazzesco gesto di qualcuno isolato, …) è terribilmente residuo di cultura di destra, per dirla con Jesi, e che nel crescendo di questo tono si arrivi al collegamento con il terrorismo internazionale, ad Al Queida, alla Germania che ha paura, all’Europa che va difesta etc etc. cosa che mi pare inaudita.

    Allora sono andata a vedere un paio di giornali tedeschi online.

    Die Welt -> non mette la notizia in prima pagina ma la mette in una riga accanto http://www.welt.de/vermischtes/weltgeschehen/article113204766/Alexanderplatz-nach-Fehlalarm-abgesperrt.html
    L’articolo riporta la notizia e un approfondimento sull’acido in questione. nessuna parola su terrorismo.

    Die Berliner Zeitung -> http://www.berliner-zeitung.de/berlin/polizei-im-einsatz-falscher-saeurealarm-am-alexanderplatz,10809148,21583088.html
    che tradotto è quello che c’è sul Mitte, primo link qui. Nessuna menzione a terrorismo e messo come decima notizia.

    Die Spiegel sembra non riportare la notizia, ma ammetto di non stare facendo un lavoro filologico, ma di condividere un altro esempio di narrazione tossica.

    Siccome è lo stesso procedimento di questa storia dei Marò, molto meno complesso, lo condivido qui così che si possa vedere appunto che il procedimento è analogo, o almeno a me risulta tale.

    (e grazie giap che qui e insieme si può!)

    • Anch’io stamattina ho fatto quel confronto (aiutandomi con il traduttore di Google, che il tedesco putroppo mi manca). Aggiungo che alla stessa ora altre grandi testate online europee non facevano menzione della notizia (Guardian, Independent, Le Monde).

      E ho pensato (e non ho riso) che stiamo sempre dando tutta la colpa ai soliti noti, quando invece il giornalismo italiano odierno è uno sviluppo naturale di queste cose qui:
      http://goo.gl/go2O3
      http://goo.gl/ElsYP
      http://goo.gl/3apbK
      http://goo.gl/28QSY

      Molti di voi non erano ancora nati, e la mala pianta stava già mettendo radici…

      • Ciao Vecio,
        dalla pagina di Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Il_Male), delle immagini che hai linkato, le ultime tre sembrano essere degli esilaranti falsi creati dalla rivista satirica Il Male, e non delle bufale riprese dai quotidiani. La prima, del Tognazzi capo BR, sì.
        (peraltro pazzesca, che risate!)

        • Non volevo essere criptico: erano *tutte* copertine de Il Male (io c’ero ogni singola volta quando sono uscite, e le ho usate a dovere sul bus che mi portava a scuola, e ho rimpianto di non essere polacco quando portarono in Polonia una Tribuna Ludu, si dice nascosta nelle gomme dell’auto, pressappoco con “Gierek si dimette, Wojtyla sale al trono”).
          Il senso voleva essere: quello che una volta si faceva per ridere ora è diventato un metodo, se non “il” metodo. Prima sparare il cazzatone, poi contare fino a dieci e vedere di nascosto l’effetto che fa. Fact checking zero. Tanto la gente si bevono tutto, no?

          • Oggi mentre cenavamo un mio collega, che ricopre il ruolo di responsabile nel luogo dove lavoro, mi ha raccontato un simpatico aneddoto occorsogli qualche anno fa.
            Informato che una collega si era sentita molto male “ed era il caso che lui fosse presente” si è recato nella stanzetta relax dove l’infortunata era stata ricoverata, in forte stato di agitazione.

            Ora, il posto dove lavoro è un grosso centro commerciale, e la malcapitata era stata avvicinata da un cliente di probabile origine Mediorientale che aveva bisogno di chissà quale informazione; ma l’evento aveva dato la “stura” all’ansia da assedio terrorista che permeava una parte del discorso pubblico, e quindi la poveretta aveva dato fuori di matto iniziando a chiamare i colleghi per allertarli dell’attentato imminente, della presenza di una cellula islamica in negozio, per fare in modo che si procedesse all’evacuazione.

            Il mio collega ricorda il tono messianico, ancora presente ad una certa distanza di tempo dall’”evento”.

            Ecco, era solo un piccolo aneddoto, uno dei piccoli “effetti che fa”.

  8. In un paese normale, non affetto da fascismo sottopelle, un articolo del genere starebbe una settimana in prima pagina, verrebbe pubblicato a ripetizione, starebbe sul sito del giornale che lo pubblica per due settimane almeno. Ha ricevuto grande attenzione, segno che il pubblico avrebbe risposto in modo positivo, ha fatto crollare dei server, di un blog senza pubblicità.
    Gente, questo è un grande servizio alla comunità. Per questo, vi ricordo che sotto la moneta con la faccia di Thomas Müntzer potete sostenerli, che se li meritano un sacco. Loro sono timidi, ma io ho la faccia come il c… e dai dai dai.

  9. Avete visto come, nelle ultime due settimane, centrodestra e #casapound hanno abbassato il profilo sulla vicenda? Eppure sarebbe un cavallo di battaglia perfetto per vellicare i bassi istinti di un certo elettorato… Forse perché non ci sono notizie fresche (e icastiche, ben rappresentabili) da strumentalizzare? O forse il caso non appare più così “neutro” e “apolitico”, nazionale “al di sopra delle ideologie”, e al tempo stesso si è rivelato una patata più bollente del previsto (prima pensavano di poterla sbucciare direttamente in pentola), e quindi meno maneggiabile in campagna elettorale, meglio aspettare il dopo-elezioni? Voi come ve lo spiegate?

    • Per questo fenomeno ho elaborato una teoria simile a quella che spiega come mai nel Kerala chi pesta a piedi nudi una merda di elefante si fa silenzioso e timido.

      • Come si è detto più volte, il vittimismo è un elemento basilare della retorica fascista. Anche #casapound ha quel tipo di comunicazione, la chiave è il “ce l’hanno tutti con noi”. Provate a seguire l’hashtag #casapound su Twitter in questi giorni… [E’ un esercizio salutare, serve anche a capire che su Twitter i casapoundiani attivi non sono più di una decina]. E’ tutto un fare le vittime, “siamo piccoli e neri” (come Calimero), tutti ordiscono congiure ai nostri danni etc.

        In questo, il fascismo è stato ed è veramente una sintesi di arci-italianità deteriore. Già Leopardi, quasi duecento anni fa, descriveva gli italiani come

        «delicatissimi sopra tutti gli altri sul conto loro: cosa veramente strana, considerando il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi. Cagione di ciò è sicuramente in gran parte che gl’italiani misurando gli altri da se medesimi (i quali camminando sempre addietro degli altri, non sono ancora così lontani da’ pregiudizi e dall’animosità verso gli stranieri, e certo li conoscono e studiano di conoscerli cento volte meno che essi non fanno verso loro) attribuiscono sempre ad odio e malvolenza e invidia ogni parola men che vantaggiosa che sia profferita o scritta da un estero in riguardo loro.»

        Arrivo al punto:
        forse, da quando si è iniziato a chiarire alcuni punti sulla vicenda #duemarò e si è iniziato a disvelare alcune reputazioni, è diventato (almeno un po’) più difficile fare le vittime?

  10. Articolo interessante, che fornisce molti tasselli non sufficientemente o adeguatamente spiegati sulle testate giornalistiche nazionali e internazionali.
    Devo dire che leggendo la stampa italiana, o quella indiana maggiormente rappresentativa, non è facile farsi un idea chiara degli eventi. Le ricostruzioni di parte italiana peccano di innocentismo mentre quelle indiane sembrano propendere per una interpretazione revanscista.
    Come premesso, la vostra ricostruzione fornisce numerosi elementi su cui riflettere. Ciò che si coglie dalle vostre righe (al di là della condivisibile messa in berlina delle viscerali opinioni degli esponenti più beceri della destra nostrana) è però una sostanziale aderenza alle tesi indiane, sia del Kerala ( che erano prive di fondamento sin dall’inizio) che federali, e un complessivo rigetto delle informazioni e delle posizioni, anche ufficiali, nazionali.
    Oddio, spesso dalla nostra parte la pavidità degli esponenti governativi , in altri casi, ha presieduto ad atteggiamenti e posizioni se non ambigui ,equivoci, e, anche in questo caso, certe corse in avanti ad uso e consumo dell’opinione pubblica nazionale sono state come minimo controproducenti, anche se la barra mi sembra essere stata sostanzialmente mantenuta ( accettare lo stato dei fatti e manovrare per ottenere, nella peggiore delle ipotesi, almeno una estradizione dei militari).
    Da questo però a considerare come oro colato la versione indiana, sia nazionale che federale, però…….
    L’India a livello istituzionale si è spesso dimostrata un paese facilmente influenzabile e influenzato da considerazioni che non hanno niente a che vedere con la verità dei fatti e sovente, nelle polemiche e controversie con l’estero, soprattutto nei confronti di ex potenze coloniali, l’esigenza di salvare la faccia a tutti i costi, ad uso interno ma anche per affermazione internazionale, ha condizionato l’esito di giudizi e controversie varie.
    Ho letto con attenzione la ricostruzione fatta dal Di Stefano, indubbiamente viziata da un pregiudizio ideologico e minata dall’impossibilità attuale di accedere alle fonti di prova.
    Però liquidare in toto queste ipotesi in virtù della contiguità del personaggio a una certa inquietante formazione di estrema destra mi sembra strumentale a sostenere l’adamantina solidità delle tesi indiane.
    Un elemento fra tutti, emerso tuttavia solo attraverso l’esame delle fonti giornalistiche, mancando riscontri periziali.: i giornalisti indiani, attraverso successive e discordanti dichiarazioni, hanno prima affermato che i proiettili provenissero da armi di calibro 7.62 o 7 e 65 mm..
    Poi quando è emerso ,( dopo le ispezioni a bordo) ,che il team italiano era privo di armi di tale calibro, hanno indicato il calibro 5,56 effettivamente in uso, e un’arma, l’arx della beretta da cui sarebbero partiti i colpi. Peccato che l’Arx non è in uso ai nostri militari.
    Al momento dei fatti l’Arx era in valutazione presso le autorità militari indiane , in concorrenza con deludenti ma molto sponsorizzati politicamente , prodotti locali.
    L’indicazione di tale arma appare, dunque strumentale per indebolire il concorrente italiano a favore dell’industria e degli sponsor indiani.
    Solo dopo la constatazione che a bordo non si trovavano arx, i giornalisti hanno iniziato a puntare il dito verso gli SC 70/90 Beretta effettivamente in dotazione.
    Ciò mi sembra un indizio per non fidarsi acriticamente delle indiscrezioni e delle ricostruzioni che emergono e vengono fatte filtrare da parte indiana, liquidando, di conseguenza come inattendibili o faziose, quelle nazionali.

    Comunque la situazione è in continua seppur lenta evoluzione e si spera i fatti apparranno nella loro chiarezza. In atesa di ciò, considerata la contraddittorietà delle informazioni che emergono credo dsia meglio rimanere sul terreno solido e non avventurarsio nelle sabbie mobili di ricostruzioni viziate da spirito di fazione, antimilitarismo e senso di colpa postcoloniale.

    • Questa cosa del calibro dei proiettili mi sembra veramente l’ultima spiaggia a cui si stanno aggrappando gli innocentisti. Non è una novità che i militari – in particolare quelli usati in missioni “anomale” come questa – si equipaggino come gli pare e piace, al di fuori delle dotazioni ufficiali, e se ti trovi sopra una massa d’acqua profonda molti metri non è particolarmente difficile trovare un modo per liberarti dell’arma del delitto. Tutta la discussione è dunque alquanto oziosa: che i marò abbiano sparato lo han detto loro stessi, che i due pescatori siano morti mi sembra indiscutibile, la prova balistica avrà certo un valore giudiziario ma giornalisticamente mi sembra un aspetto alquanto secondario.

      Ad ogni modo, Luigi Di Stefano non dice affatto che i giornalisti indiani abbiano iniziato parlando di un calibro 7,62-7,65 e solo più tardi abbiano tirato fuori dal cappello il calibro 5,56. Di Stefano sostiene invece proprio che la prima notizia uscita sui mass-media indiani da lui consultati è che il calibro fosse 5,56. Cfr. http://www.seeninside.net/piracy/it-bali.htm

      Del calibro 7,62 Di Stefano parla più avanti, a proposito dell’autopsia del dott. Sasikala. Di Stefano ha visto questa autopsia? No. Lui ha letto un articolo del Corriere di molti giorni più tardi dell’autopsia (che è stata il 16 febbraio) il cui autore, Giuseppe Sarcina, dice di aver avuto accesso, “tramite una fonte indiana” non meglio specificata, al documento autoptico: http://archiviostorico.corriere.it/2012/marzo/04/Maro_doppia_verita_anche_dall_co_8_120304026.shtml

      Sarcina ha letto male? La sua fonte gli ha venduto una patacca? Non lo so. Ma quel che è sicuro è che questa notizia non è uscita nel modo che dici, sembrerebbe anzi che tutti tranne Sarcina (e di conseguenza Di Stefano) concordino sul fatto che dall’autopsia sia uscito un calibro 5,56.

      La teoria del complotto anti-italiano sull’ARX mi sembra ancora più debole.

      • In realtà il mio riferimento a Di Stefano non era rivolto alle sue tesi sul calibro dei proiettili ( che sono in più punti affrettate e contraddittorie). La posizione di Di Stefano, in generale e a priori, non è liquidabile in toto in relazione al suo schieramento politico.
        Io mi riferivo ai calibri dei proiettili e al tipo di armi così come apparsi sulla stampa indiana (prevalentemete sul Times of India).
        Certo i giornali non sono le fonti ufficiali ma in India come da noi i giornalisti si nutrono di indiscrezioni, fughe di notizie e non sono immuni da influenze politiche pertanto le loro notizie possono e sottolineo il possono non essere completamente attendibili.
        In materia di forniture militari l’India è periodicamente scossa da scandali legati alla corruzione delle commissioni agiudicatrici e molte volte contratti già vinti da aziende straniere sono stati risolti in favore di prodotti meno competitivi dell’industria nazionale.

        per la verità io non ho una posizione precostituita in merito alla colpevolezza o all’innocenza dei due militari e mi aspetto, indipendetemente dagli sviluppi sulla competenza, che gli esiti processuali permettano di circoscrivere i fatti e le relative responsabilità.
        Avendo un minimo di dimestichezza con gli ambienti militari nostrani mi riesce tuttavia difficile immaginare che i militari italiani, sicuri di essere sotto l’egida delle leggi nazionali potessero avere più armi rispetto alla nutrita panoplia fornita dai loro comandi.
        Pertanto l’ipotesi che si siano liberato di ulteriori armi detenute mi sembra paracomplottista, anche considerato che le autorità del kerala hanno già affermato che fra le armi sequestrate ci siano alcune che hanno sparato.
        Può tuttalpiù immaginarsi che i marò detenessero più munizioni di quelle ufficialmente assegnate e che, pertanto, i dati relativi al numero di proiettili saprati non siano completamente attendibili.

        Ripeto, io ho espresso dubbi, non assunto una posizione colpevolista o innocentista. Provo fastidio infatti, tanto nella grottesca mitizzazione dei due militari fatta in generale e al loro temporaneo rientro in Italia in particolare ( a proposito, urge un consulente d’immagine per la Marina militare, certe foto alla Fabrizio Corona non giocano a favore dei due marò), quanto alle tesi apoditticamente colpevoliste in chiave antimilitarista e
        antigovernativa.

        • Be’, Adrian, questa mi sembra un po’ la filosofia di un colpo al cerchio e uno alla botte. Ma se si tratta di ricercare la verità la “par condicio” non serve a niente.

          Nessuno ha *mai* detto che siccome Di Stefano fa parte di un fazioso comitato pro-marò, siccome è di CasaPound e siccome si spaccia per ingegnere senza esserlo, allora tutto ciò che dice è falso. Miavaldi è sceso sul merito della sua analisi spiegando perché non regge, e anche nella mia ultima risposta sono sceso sugli aspetti di merito della faccenda dei calibri. Anche cronologicamente, abbiamo scoperto chi era Di Stefano *dopo* averne smontato le teorie. Dire che Di Stefano è quel che è serve a capire *come mai* scrive delle cose così sbagliate e quindi a fare un ragionamento anche sull’informazione italiana che usa personaggi simili come sue fonti.

          Sulla faccenda dei militari italiani, leggo che hai “un minimo di dimestichezza” con loro. Possiamo sapere cosa intendi? Perché se usi questo punto come argomentazione per dare credibilità alle tue affermazioni, allora devi darci gli elementi per valutarlo. Altrimenti cancelliamo quella frasetta e basiamoci sui dati di fatto. Con una ricerca su Google di pochi secondi ho trovato per esempio questo interessante articolo, del bravissimo Fabrizio Gatti de “l’Espresso”, che racconta delle armi illegali ammassate dai nostri integerrimi militari in una caserma di Udine: http://www.forzearmate.org/documenti/2006/rassegna_stampa/armi_udine_espresso_12012006_06122006.php

          Altro articolo interessante sulla stessa rivista è questo: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/al-fronte-col-teschio-sul-volto/2198764 Vi si racconta come tra i soldati occidentali vada di moda andare in guerra con una maschera che rappresenta un teschio, che evidentemente non fa parte della dotazione ufficiale – e mi sembra pure indicativo dello spirito prettamente fascista con cui queste persone vanno a combattere “per la democrazia”.

          Proprio per quanto riguarda l’uso fuori controllo di armi nella lotta contro la pirateria nell’Oceano Indiano, è istruttivo questo articolo del “Guardian” che parla dell’esistenza di “armerie galleggianti” utilizzanti per rifornire più o meno illegalmente le navi che hanno una scorta armata contro i pirati, aggirando il problema dei controlli portuali: http://www.guardian.co.uk/world/2013/jan/10/pirate-weapons-floating-armouries In pratica ci sono navi pieni zeppe di armi da cui ci si rifornisce direttamente durante la navigazione; non dico che questo sia fatto abitualmente dai soldati italiani, ma mostra che lì c’è il Far West.

          Insomma, va bene non avere “pregiudizi colpevolisti”, ma usciamo anche dal regno delle favole patriottiche.

          • Chiedo scusa del ritardo. Cercherò di ribattere alle garbate controosservazioni formulate

            Su Di Stefano e le sulla fondatezza o meno delle sue teorie non mi sono espresso e non mi voglio esprimere.
            Spero che dalle inchieste ufficiali emergano elementi idonei a chiarire gli aspetti della vicenda, la sussistenza e il grado di responsabilità.

            Riguardo al minimo di dimestichezza, mi riferisco a trascorsi personali: ho avuto e continuo ad avere una certa contiguità con il mondo militare nazionale, sia quello prima della “sospensione della leva” sia quello attuale e seguito ad avere contatti con taluni amici di adolescenza, ora saldamente inseriti in quel mondo.
            L’ambiente militare nazionale è, e riflette esattamente, il panorama istituzionale nostrano. Esso è composto principalmente da una massa di conformisti, di professionisti in senso buono e in senso cattivo.
            Dal punto di vista politico propende fisiologicamente verso un blando conservatorismo ma, soprattutto nei gradi medio alti , prevale quasi sempre una cautela diplomatica e una sostanziale fedeltà verso il detentore del potere governativo di turno. Ciò non significa che non esistano gli estremisti dell’uno e dell’altro senso.
            La bassa forza (detto in termini non dispregiativi) tende, con le ovvie eccezioni, a riflettere l’orientamento e il modo di pensare dominante delle aree geografiche di provenienza e del gruppo sociale di origine.
            Fatta questa premessa, in assenza di conferme, l’articolo linkato sulle scorte di armi rivela una aberrazione, individuata e repressa peraltro dalla giustizia militare, non è rappresentativa nè consente di sostenere un atteggiamento generale nè una congenita tendenza alla cospirazione e all’insurrezione dei militari italiani.
            Una volta i circoli e i corridoi dei comandi delle caserme (ricordi di naja) rigurgitavano di panoplie di vecchie armi, in alcuni casi nemmeno decentemente disattivate, appese ai muri con discutibile intento decorativo.
            Una buona parte derivavano dalle leggi contro il terrorismo degli anni 70 che avavano impedito ai militari di professione la libera detenzione di armi e collezioni personali, in altri casi erano stati il modo di riutilizzare ( e liberarsi) armi di vietata detenzione, detenute in casa in momenti storici meno tranquilli ( vedi anni dal 43 al 45).
            Ai tempi della missione in Somalia correva più di una voce tanto riguardo alla ricerca del “souvenir” da parte dei militari, soprattutto quelli dei reparti di elite, che delle preoccupazioni dei vertici e delle conseguenti perquisizioni interne nelle caserme, tese a sequestrare queste armi, evitando sia i guai che il clamore esterno, pertanto non escludo che taluni militari in zone di missione bellica siano tentati aportarsi indietro il “ricordino” soprattutto perchè gli avvicendamenti avvengono per mezzo di trasporti militari con un gran numero di colli per bagagli e materiali, spesso containerizzati e di superficiale controllo.
            Ma il caso dei team di marinai di scorta alle navi mercantili è diverso. Sono gruppi esigui, più facilmente controllabili. Spesso il personale viene concentrato nei punti ove avverrà il cambio o l’imbarco, dopo aver fatto un viaggio su voli di linea con bagaglio controllato attraverso le normali dogane.
            Per questo mi sembra difficile immaginare che disponessero di altre armi oltre al nutrito arsenale di cui già disponevano.
            Diverso è invece il discorso delle munizioni.

            Per quanto riguarda le armerie galleggianti è del tutto verosimile che ci siano, ma è un problema che riguarda le guardie giurate, o contractors, che dir si voglia.
            A differenza dei team militari, infatti, le guardie armate civili non sono accettate da molti paesi del’area e pertanto è più che possibile che le società che li armano o l’impiegano abbiano escogitato stratagemmi per evitare l’arresto dei loro dipendenti.
            Che le acque internazionali siano un far west è sempre stato vero, ma i trattati hanno sempre accuratamente evitato di porre regole troppo rigide.

            Riguardo al comportamento di taluni militari francesi in Mali, simile a quello di singoli militari di altre nazioni in missioni estere, non mi sembra però essere indicativo della attitudine della totalità dei militari indipendentemente dalla nazionalità.
            Riguardo all’episodio, che tuttalpiù è indicativo dell’allignare di taluni atteggiamenti in alcuni reparti francesi, non necessariamente si deve pensare che sia un indizio di uno spirito o inclinazione prettamente fascista: può anche essere semplice cattivo gusto, stupida goliardia, esemplare coglionaggine e tant’altro.
            Ritengo però che non sia qualcosa da cui trarre facili generalizzazioni.

            Con questo non voglio escludere che in Francia come in altri paesi, soprattutto in reparti professionali a forte connotazione specialistica, una parte consistente dei membri non abbia, con le ovvie gradazioni, una maggiore propensione verso idee o atteggiamenti di destra.
            Del resto, essendo reparti a composizione volontaria è ipotizzabile che abbiano maggiore spinta a farne parte soggetti che condividano o accettino idee autoritarie.
            Sta a chi utilizza questa gente e questi reparti, di incanalare e mantenere queste propensioni in un alveo strumentale agli scopi delle missioni e ai principi politici e alle regole morali nazionali, prevenedo e castigando eccessi e comportamenti aberranti.

            • Perfettamente d’accordo con le opinioni di Adrian, ma visto che è stata sollevata l’eccezione di “esprimibilità” della filosofia “un colpo al cerchio ed uno alla botte” mi spingo a considerare che l’articolo di Miavaldi è ancora più incoerente e parziale delle considerazioni di Di Stefano, proprio nel momento in cui dice sostanzialmente che, dato che non ci capisce niente di balistica la questione si può tranquillamente e definitivamente derubricare.

              Che la prova balistica sia l’ultima spiaggia? Nella mondo reale è sempre così.

              Almeno Di Stefano (di certo non ho alcuna simpatia per lui o i suoi associati) ha fatto emergere dei grossolani elementi falsificati sui documenti mostrati dal Kerala ai telegiornali italiani (http://www.seeninside.net/piracy/it-inba-doc.htm), e giustamente ha fatto emergere il fatto che il primo “post-mortem report” parlava di 24 mm di circonferenza e 31 di lunghezza (calibro 7,62×54 simile a quello di un Dragunov SVC).

              Di fatto, in questi ultimi giorni, le autorità del Kerala sono state pesantemente sbugiardate dalle autorità federali indiane sul tema della territorialità (peccato che con un annetto di ritardo) e condivido con Harish Salve che si tratta del miglior risultato possibile in queste condizioni, visto che, come sapevano tutti quelli meglio informati sia di Miavaldi che di Di Stefano, aspettarsi un giusto processo in uno staterello indiano in piene elezioni sarebbe fantascienza.

              L’articolo in se per se (mi riferisco alle intenzioni originali di scrivere sulla differenza comunicativa tra media Italiani ed Indiani) è molto interessante, ma il fatto che, sostanzialmente, nell’articolo che sto commentando, si dice che lo stesso elemento che la causa sia stata presa in carico da dei neofascisti, implica necessariamente la colpevolezza dei due marinai (e che nessuno mi neghi questo, per favore ;-) ), dimostra solo che nelle menti degli autori e lettori del presente blog è avvenuto lo stesso corto-circuito mentale, ma di segno diametralmente opposto, a quello avvenuto tra i pochi neuroni di Casa Pound all’udire la parola “Marò” (immagino non il vecchio refran di Albertino, ma gli stravecchi racconti del nonno in montagna, fosse egli rosso o nero).

              Per caso con questo voglio suggerire che comunisti e fascisti sono la stessa cosa? Ma credi di essere in un film di Alberto Sordi?
              Ebbene si, tutto questo assomiglia ad un film di Alberto Sordi con soggetto di Ennio Flaiano.
              Peccato, pensavo di essere su di un sito serio!

              P.S. Pieno accordo però sul fatto che l’anomalia “personale della marina a protezione di interessi privati” è un’anomalia tutta italiana di soldati chiamati a fare il ruolo di contractors, ma anche nel perfetto stile di forze armate con le scarpe con le suole di cartone e le pezze sul di dietro, costrette a guadagnarsi il pane proteggendo lo stupido capitano di una petroliera napoletana (lui si, colpevole di mancata denuncia dell’incidente!).

              • Mactire, nella discussione in calce alla prima puntata dell’inchiesta sono già state fatte, discusse, controargomentate TUTTE le cose che hai scritto in questo commento, senza eccezione alcuna. Proprio tutte. Si è anche smontata, dal punto di vista logico e metodologico, tutta la storia della “falsificazione” dei documenti. Quanto alla questione “Di Stefano è un neofascista ergo i Marò sono colpevoli”, bastava leggere per constatare che l’appartenenza politica di Di Stefano è emersa dopo. Quanto al fatto che i due marò abbiano sparato, non lo nega nemmeno il collegio di difesa. Riguardo alla sentenza della corte suprema, avrà anche sbugiardato il Kerala ma non ha certo sbugiardato Miavaldi, dato che nella sentenza ci sono in buona sostanza le cose che aveva già scritto lui. Per accorgersi se un sito è serio, bisogna prima leggere cosa c’è scritto sopra. A meno che non si sia dei troll, e in quel caso ci pensa Saint-Just.
                Oops! Ho nominato Saint-Just!
                Ciao.

    • Adrian (ti do del tu, per comodità, spero vada bene), sollevi molti punti che meritano una risposta separata. Cerco di rispondere qui sotto man mano.

      “Come premesso, la vostra ricostruzione fornisce numerosi elementi su cui riflettere. Ciò che si coglie dalle vostre righe (al di là della condivisibile messa in berlina delle viscerali opinioni degli esponenti più beceri della destra nostrana) è però una sostanziale aderenza alle tesi indiane, sia del Kerala ( che erano prive di fondamento sin dall’inizio) che federali, e un complessivo rigetto delle informazioni e delle posizioni, anche ufficiali, nazionali.”

      Dissento e ti esorto ad uscire dalla dinamica del giornalismo da tifoseria alla quale, purtroppo, i media italiani ci hanno abituato. Il fatto che vengano esposte le posizioni indiane non è questione di aderenza, ma completezza ed accuratezza del lavoro giornalistico. Siccome la giustizia indiana si sta basando su quello che abbiamo raccontato nei due pezzi, e non sulle fantasie di Di Stefano e compagnia danzante, crediamo sia utile ed interessante per il pubblico italiano sapere di cosa si sta parlando quando si parla di “caso dei due marò”; giusto per farsi un’idea con la propria testa.
      Di quali tesi del Kerala prive di fondamento fin dall’inizio stai parlando?
      Il rigetto delle informazioni italiane ed ufficiali deriva dal fatto che le presunte informazioni purtroppo non lo sono, o sono imprecise, o sono informazioni a metà (e se dobbiamo rispiegarne l’imprecisione o la falsità una per una, lo rifaremo di nuovo).

      “L’India a livello istituzionale si è spesso dimostrata un paese facilmente influenzabile e influenzato da considerazioni che non hanno niente a che vedere con la verità dei fatti e sovente, nelle polemiche e controversie con l’estero, soprattutto nei confronti di ex potenze coloniali, l’esigenza di salvare la faccia a tutti i costi, ad uso interno ma anche per affermazione internazionale, ha condizionato l’esito di giudizi e controversie varie.”

      Questo “spesso” sarebbe da precisare, specie circa questioni con ex potenze coloniali (parliamo del passato recente? Che lasso di tempo vogliamo darci per dire che l’India “spesso” si è mossa per salvare la faccia verso l’occidente (ex) colonizzatore? Vogliamo citare dei casi specifici? Perché ci sono, ma non mi sento di dire che l’India “spesso” si comporti così. Forse abbiamo un’idea diversa di “spesso”). La strumentalizzazione del governo locale del Kerala è stata palese e l’abbiamo scritto, lo stesso non si può dire per il governo centrale per il quali anzi, secondo il sottoscritto, questa storia dei marò è stata una spina nel fianco per alcune settimane. Poi l’India, che è grande come un continente ed ha altre questioni ben più pressanti e gravi da affrontare prima di “perseguitare” i nostri marò, semplicemente è passata ad altro, tanto che fino a quando i Latorre e Girone non hanno ricevuto la licenza per passare le vacanze di Natale in Italia (ripeto: due persone in attesa di giudizio accusate di omicidio ricevono dallo Stato che li sta processando una licenza per passare le vacanze di Natale a casa loro, e poi parliamo di salvare la faccia a tutti i costi a livello internazionale?!) il caso dei due marò, per la stampa indiana e per il Paese, per molti mesi è stata una non-notizia, manco da trafiletto a pagina 20.

      “Ho letto con attenzione la ricostruzione fatta dal Di Stefano, indubbiamente viziata da un pregiudizio ideologico e minata dall’impossibilità attuale di accedere alle fonti di prova.
      Però liquidare in toto queste ipotesi in virtù della contiguità del personaggio a una certa inquietante formazione di estrema destra mi sembra strumentale a sostenere l’adamantina solidità delle tesi indiane.”

      Sbagli la cronologia dei fatti. Abbiamo liquidato in toto le ipotesi di Di Stefano perché sono costruite su fondamenta o inventate o traballanti, e l’abbiamo dimostrato. Solo dopo abbiamo scoperto che Di Stefano era legato a Casapound – facciamoli sti nomi – e faceva parte di un gruppo pro-marò, e a quel punto c’è stata la quadratura del cerchio.
      Qui non si fa il tifo per nessuno e non si sostengono le tesi indiane per diletto; si racconta cosa dicono i giornali indiani, cosa dicono le sentenze indiane, cosa dicono le analisi tecniche indiane e quali sono gli elementi che la Corte suprema (e ora la Corte speciale) ha davanti a sé per formulare un verdetto.

      ” In atesa di ciò, considerata la contraddittorietà delle informazioni che emergono credo dsia meglio rimanere sul terreno solido e non avventurarsio nelle sabbie mobili di ricostruzioni viziate da spirito di fazione, antimilitarismo e senso di colpa postcoloniale.”

      Contradditorietà? Nel senso che le informazioni indiane dicono una cosa e sono comprovate da dati ed analisi – e accettate dalla difesa italiana dei due marò – mentre le “informazioni” date da Di Stefano e da una certa stampa italiana sono state volutamente parziali ed approssimative per fare il gioco politico di qualcuno?
      Le ricostruzioni fatte qui non sono viziate da nulla e sono state fatte mettendo in fila tutti i dati certi e disponibili in rete, accessibili a tutti, scegliendo le fonti e scartando quelle inaffidabili. Lo spirito di fazione, l’esaltazione a priori dei militari e l’orgoglio della razza fanno parte del bagaglio “culturale” di chi, fino ad ora, ha raccontato una versione completamente distorta della vicenda. Non facciamo di tutta l’erba un…mazzo.

      • Sciogliendo la riserva, rispondo punto per punto:

        “Dissento e ti esorto ad uscire dalla dinamica del giornalismo da tifoseria alla quale, purtroppo, i media italiani ci hanno abituato. Il fatto che vengano esposte le posizioni indiane non è questione di aderenza, ma completezza ed accuratezza del lavoro giornalistico. Siccome la giustizia indiana si sta basando su quello che abbiamo raccontato nei due pezzi, e non sulle fantasie di Di Stefano e compagnia danzante, crediamo sia utile ed interessante per il pubblico italiano sapere di cosa si sta parlando quando si parla di “caso dei due marò”; giusto per farsi un’idea con la propria testa.
        Di quali tesi del Kerala prive di fondamento fin dall’inizio stai parlando?
        Il rigetto delle informazioni italiane ed ufficiali deriva dal fatto che le presunte informazioni purtroppo non lo sono, o sono imprecise, o sono informazioni a metà (e se dobbiamo rispiegarne l’imprecisione o la falsità una per una, lo rifaremo di nuovo).”

        Evidentemente mi sono espresso in modo poco chiaro. Il mio intervento era o voleva esprimere dubbi circa certezze e posizioni di fazione, lungi e contro ogni logica di tifoseria quale anche una apparente sostanziale aderenza alle tesi indiane. A questo proposito, in particolare, intendevo proprio quello che ho affermato: dalla lettura dei vostri pezzi la posizione indiana sembra già essere “La Verità” assodata sui fatti.
        Non sono d’accordo su questo aspetto e ne spiego il perché più avanti.
        Secondo me, indipendentemente dalle vicissitudini processuali e dall’esito della questione delle competenze, la vicenda è ancora lontana dalla sua conclusione è c’è ancora spazio per sorprese.
        Il fatto di esprimere dubbi sulla certezza della posizione indiana non significa automaticamente sostenere la fondatezza e verosimiglianza della posizione del Di Stefano.
        In questo senso, il circoscrivermi immediatamente fra i sostenitori delle tesi di quel signore per il fatto di aver espresso dubbi su quelle indiane, così come appaiono dalla loro stampa, mi sembra ( ma posso ovviamente sbagliare) un evidente tentativo di incasellarmi secondo un ottica settaria.

        “Questo “spesso” sarebbe da precisare, specie circa questioni con ex potenze coloniali (parliamo del passato recente? Che lasso di tempo vogliamo darci per dire che l’India “spesso” si è mossa per salvare la faccia verso l’occidente (ex) colonizzatore? Vogliamo citare dei casi specifici? Perché ci sono, ma non mi sento di dire che l’India “spesso” si comporti così. Forse abbiamo un’idea diversa di “spesso”)”.

        Il lasso di tempo che ho preso in considerazione intercorre, ovviamente, dall’indipendenza indiana – e conseguente costituzione dell’unione omonima- al caso Enrica Lexie.
        Ammetto di non poter dare una panoramica di tutte le controversie sorte fra l’India e altri paesi, in particolare ex colonialisti od occidentali. Ritengo, comunque, che l’atteggiamento indiano abbia sempre subito il condizionamento del suo passato di colonizzato e del desiderio di affermare o riaffermare il proprio ruolo e la propria importanza, con una più o meno spiccata suscettibilità verso atteggiamenti e comportamenti interpretati quali espressione di superiorità o imposizione.
        (Un esempio fra i tanti dei toni di revanscismo post coloniale presenti nei media indiani http://www.firstpost.com/india/murder-of-fishermen-tiny-keralas-win-over-mighty-italy-226890.html ,senza contare le veementi accuse dell’influente commentatore Veeresh Malik, riprese e moltiplicate da molti gli organi di informazione indiani, ove termini quali colonialismo, arroganza occidentale, omicidio a sangue freddo, sono esplicitamente e più volte ripetuti nel testo
        http://www.moneylife.in/article/killing-of-indian-seafarers-in-cold-blood-off-keralamdashthe-case-of-the-st-anthony-and-enrica-lexie/23712.html )

        Le frange e i partiti nazionalisti indiani, così come appare anche dai loro giornali, si esprimono e agiscono in modo violento ed aggressivo e non è pensabile che gli esponenti di governo, pur non condividendo, magari, le posizioni più estremiste non ne tengano conto nel loro agire.
        Il “salvare la faccia” è un atteggiamento estremamente diffuso e apertamente riconosciuto in Asia in generale e in India in particolare e viene costantemente tenuto in considerazione dai privati quando trattano o si confrontano con gli indiani, nonché oggetto di istruzione del personale.
        Normalmente ciò si estrinseca in difficoltà nell’ammettere apertamente errori o sbagli, conseguente tendenza ad “aggiustare” i dati di performance e risultati o addirittura di negazione dell’evidenza.
        Dubito che tale impostazione non possa avere riflessi sull’operato dei vari attori coinvolti, quali poliziotti, forze armate, giudici ed avvocati locali e conseguentemente, al netto delle convenienze politiche, sulle posizioni di volta di volta assunte dagli esponenti governativi, locali e federali ,

        “l’India, che è grande come un continente ed ha altre questioni ben più pressanti e gravi da affrontare prima di “perseguitare” i nostri marò, semplicemente è passata ad altro”

        Non mi sembra di aver detto che l’India sovrastimi o, al contrario, sottostimi la vicenda né che perseguiti i nostri militari.
        La connessa trattazione giornalistica ha avuto lo stesso ondivago rilievo che avrebbe avuto da noi. Incandescente – con risalto sempre più ampio quanto più ristretto era l’ambito geografico di risonanza mediatica- nell’immediatezza; via via meno d’interesse, in assenza di novità significative e colpi di scena; di momentaneo risalto, in occasione di (anche improvvide o maldestre ) iniziative nostrane (risarcimenti, bandierine sulle Ferrari ecc,) o significativi pronunciamenti politici o giudiziari.

        “Abbiamo liquidato in toto le ipotesi di Di Stefano perché sono costruite su fondamenta o inventate o traballanti, e l’abbiamo dimostrato. Solo dopo abbiamo scoperto che Di Stefano era legato a Casapound – facciamoli sti nomi – e faceva parte di un gruppo pro-marò, e a quel punto c’è stata la quadratura del cerchio.”

        Mi sono espresso male, non intendevo dire che le posizioni del Di Stefano sono state liquidate per la sua dissimulata militanza, ma proprio quello che voi ora affermate, cioè che la sua appartenenza sembra essere la riprova della infondatezza delle sue affermazioni.

        “Qui non si fa il tifo per nessuno e non si sostengono le tesi indiane per diletto; si racconta cosa dicono i giornali indiani, cosa dicono le sentenze indiane, cosa dicono le analisi tecniche indiane e quali sono gli elementi che la Corte suprema (e ora la Corte speciale) ha davanti a sé per formulare un verdetto”.

        Di questo non sono del tutto convinto.
        La sostanziale aderenza alle tesi indiane, senza che sia ancora iniziato il contraddittorio ( e in assenza, ancora, di sentenze sui fatti) mi sembra una precisa scelta di campo.
        Senza ripercorrere i tratti salienti del fatto, riassumo e sintetizzo la questione per come la vedo io:
        la vicenda ha due piani, uno attiene alla legalità e una alla giustizia.
        Al primo appartiene ogni decisione riguardante la competenza e non si entra nel merito della responsabilità delle persone coinvolte.
        Al secondo la vicenda della morte dei due pescatori, l’individuazione dei responsabili e la punizione dei colpevoli secondo il grado di gravità della condotta.
        E’ nel campo della legalità che, prima di tutto, le pretese del Kerala erano del tutto infondate e gravemente influenzate da un pregiudizi politici: l’interesse di mostrare decisione a un opinione pubblica locale esacerbata da continui ammazzamenti di pescatori da parte di marine (Sri lanka) straniere; l’esigenza di negare pirateria nelle acque locali, per scongiurare flessioni nel mercato turistico (a questo proposito le autorità indiane sottolineano che gli assalti alle navi nelle acque territoriali indiane sono da addebitare non a pirati ma a banditi e che non esiste pirateria lungo le coste), l’esigenza di dimostrare che guardia costiera e polizia hanno il controllo della situazione ( a questo proposito si veda: http://articles.timesofindia.indiatimes.com/2012-02-15/kochi/31062687_1_yachts-marina-pirate ove si parla del timore delle conseguenze che la paura delal pirateria potrebbero avere sull’economia locale del kerala, articolo, peraltro, precedente l’episodio, ovvero: http://www.thehindu.com/news/national/india-wants-eez-out-of-war-zone-list/article2932073.ece o ancora http://www.thehindu.com/todays-paper/tp-national/tp-kerala/robbery-on-ships-stains-kochi-ports-image/article2911897.ece ove si esprime la premura indiana a negare l’esistenza della pirateria nella loro zona economica esclusiva, malgrado ciò sia internazionalmente riconosciuto e statuito con l’inserimento di tale area nelle zone pericolose – un esempio che parla dell’attacco all’Olympic Flair – delle preoccupazione indiane per la “buona reputazione” delle loro acque territoriali ).
        E tutto questo al di là del quasi scontato esito della decisione della corte suprema, almeno sulla competenza delle autorità giudiziarie del Kerala stesso.

        Nel campo della giustizia, in cui non ci si è ancora processualmente addentrati, la vicenda è ricostruibile solo dalle dichiarazioni e indiscrezioni emerse sui mezzi di comunicazione. Pertanto evidenze e certezze son ben lungi dall’essere conseguite al riguardo.
        Gli unici punti fermi sono la morte di due pescatori e le dichiarazioni di parte italiana di aver sparato solo colpi di avvertimento.
        La stampa indiana e le autorità del Kerala sono state da subito colpevoliste e non hanno manifestato alcun dubbio sulla responsabilità dei marò, ora parlando di omicidio a sangue freddo ( si vedano gli articoli già linkati a questo proposito), ora ammettendo un errore di identificazione della minaccia e ora una eccessiva reazione ad un pericolo inesistente.
        Le autorità italiane hanno avuto un atteggiamento sfumato a questo riguardo, non negando ma nemmeno ammettendo, temporeggiando in attesa della risoluzione della controversia ( piano legale) sulla competenza.
        Le autorità italiane hanno, però, compiuto dei passi che autorizzano interpretazioni contraddittorie : hanno effettuato un risarcimento unilaterale alle famiglie dei pescatori, e, nel lungo periodo hanno concluso un accordo con l’India per l’estradizione reciproca di eventuali condannati per far scontare i residui di pena nello stato di origine. Ciò ha consentito ai media indiani di parlare di assunzione di responsabilità e indotto a ritenere che, dietro le quinte, le nostre autorità sapessero che erano stati i marò a sparare,. Esse, d’altra parte, hanno tributato ai due marinai onori e riconoscimenti che sembrerebbero spropositati se questi fossero responsabili, anche solo a titolo di colpa, di un duplice omicidio e di uso scriteriato delle armi, atteggiamenti che, invece, autorizzano a pensare che dietro le quinte vi siano elementi idonei a giustificare o addirittura esonerare da responsabilità i marò.

        La posizione italiana è molto debole e le leve sulle autorità indiane sono molto poche.
        Ritengo che, in questo frangente (e al contrario della destra forcaiola nostrana – che ha parlato di troppa arrendevolezza – e di una certa sinistra che ha lamentato, al contrario, la riluttanza del governo ad assumersi subito- e, senza tentennamenti – tutta la responsabilità del fatto, forse per fare ammenda per essere un paese capitalista e occidentale nonché con un bieco passato di sfruttamento coloniale) le autorità governative nostrane si siano mosse con una certa accortezza, hanno ottenuto un trattamento di favore per gli arrestati; hanno disinnescato, muovendosi nel perimetro legale indiano la possibilità che il caso fosse gestito a livello locale pur non procurando ( per ora) un riconoscimento della non competenza indiana; hanno scongiurato, extragiudiziariamente, tramite i risarcimenti erogati che i familiari degli uccisi potessero ostacolare le iniziative quale parte in causa; hanno raggiunto un accordo, quello sulla possibilità di scambio reciproco dei condannati fra i due paesi, che potrà, nell’ipotesi di esito peggiore per la diplomazia e per i nostri militari, assicurare, comunque, un rientro in patria dei marò.

        • Gentile Adrian,
          continui a confondere il lavoro del giornalista con quello dell’opinionista. Provo a ripeterlo di nuovo: il fatto che abbia presentato le posizioni ufficiali indiane non necessariamente comporta che le consideri come La Verità, come dici tu. La differenza abissale, che saremmo tutti tenuti a considerare, è che le posizioni indiane che ho presentato non sono fantasiose o complottiste, ma arrivano da una serie di esami ed indagini ufficiali, accettate anche dalla difesa dei due marò. Provo a spiegarlo ancora meglio: la versione indiana non è “la versione della stampa indiana”, ma “la stampa indiana che riporta le dichiarazioni e gli stralci dei documenti ufficiali utilizzati dalla Corte suprema per arrivare alla prima sentenza”; la differenza mi pare abbastanza palese da non dovermici soffermare.

          Per questo ognuno è libero di dubitare quello che vuole, come Di Stefano è libero di costruire delle analisi tecniche fallaci e alcuni giornali italiani di riprenderle indicandole come La Verità – loro sì. E’ una questione di coscienza, deontologia e rispetto per i propri lettori.

          Sull’analisi psicologica dell’Asia, che mi pare abbastanza confusionaria ed arraffazzonata – pescando un po’ tra i luoghi comuni e un po’ a casaccio sulla stampa – e la conseguente reductio alla questione indiana, in un ragionamento che parte con un’ammissione di ignoranza e finisce con un perentorio “Normalmente ciò si estrinseca in difficoltà nell’ammettere apertamente errori o sbagli, conseguente tendenza ad “aggiustare” i dati di performance e risultati o addirittura di negazione dell’evidenza.” direi che lascia un po’ il tempo che trova, non sei d’accordo? Io prima di esprimere un’opinione o un giudizio scrivo 12 pagine di confronto, ricerca fonti, traduzioni, consulenze legali e tecniche, e tu mi rispondi con “eh ma gli indiani vogliono salvarsi la faccia e sono revanscisti!”. Mi pare un po’ squilibrato come confronto.

          Sulla questione del Kerala sono in parte d’accordo con te, e – ancora – il fatto della strumentalizzazione del caso due marò da parte della politica locale è stato sottolineato a più riprese in più articoli. Difatti la Corte suprema ha escluso il Kerala dal dibattimento e quindi continuare a parlarne è abbastanza ridondante.

          Dici: “Nel campo della giustizia, in cui non ci si è ancora processualmente addentrati, la vicenda è ricostruibile solo dalle dichiarazioni e indiscrezioni emerse sui mezzi di comunicazione. Pertanto evidenze e certezze son ben lungi dall’essere conseguite al riguardo.
          Gli unici punti fermi sono la morte di due pescatori e le dichiarazioni di parte italiana di aver sparato solo colpi di avvertimento.”

          Perché le dichiarazioni dei pescatori, degli ufficiali della Guardia costiera, le rilevazioni satellitari, gli esami della balistica e tutto quello che è stato riportato dai media non sono punti fermi? La parola dei marò vale più di quella di un pescatore o del tecnico della balistica di Kochin? Lo vedi allora che faccio bene ad incasellarti nell’ottica settaria, come dici tu?

          Sulla condotta della nostra diplomazia non mi dilungo: uno Stato che accoglie e applaude un’iniziativa becera e gretta come quella avanzata da una testata come Il Giornale (parlo delle bandiere della Marina sulle Ferrari) si mostra inevitabilmente per quello che è. E ognuno, sempre in coscienza propria, tira le somme che vuole tirare.

          • Replico alla garbata, ma non indulgente, controreplica:

            La differenza fra giornalista e opinionista mi è abbastanza chiara, e ammetto anche che il giornalista, possa, -nel senso che ne ha il diritto- esprimere proprie opinioni tanto esplicitamente quanto attraverso il taglio della notizia o della narrazione.
            In questo senso presentare ( anche senza alcuna malizia) come incontrovertibili dati di fatto elementi indiziari che, per la maggior parte, devono ancora passare attraverso il vaglio processuale
            può già rappresentare una scelta di campo non equanime.
            Ma ciò non mi disturba in alcun modo né lo trovo scorretto, qui intendo meglio definire la mia posizione e chiarire punti dove mi sono spiegato non chiaramente.

            Tu dici:

            “analisi psicologica dell’Asia, (…..) abbastanza confusionaria ed arraffazzonata………”.

            Non credo si possa definire confusionaria e “arraffazzonata”, tutt’al più succinta.
            La mia opinione, per quanto non sostenuta da esperienze dirette, non è frutto di preconcetto né di superficiale stereotipo etnico, essa trova supporto non solo in letture personali, ma anche da concordanti opinioni.
            Di seguito – e a conferma- fornisco alcuni variegati esempi, frutto di una rapida e assicuro non selettiva ricerca in rete:
            http://indiathink.com/indias-business-culture-loss-of-face-and-how-to-avoid-it/
            http://journals.worldnomads.com/responsible-travel/story/73142/India/Understanding-Culture-A-Lesson-in-Saving-Face
            http://www.intercultures.ca/cil-cai/ci-ic-eng.asp?iso=in
            http://www.globalnegotiationresources.com/cou/India.pdf
            http://www.rln-london.com/pdf/country/India.pdf
            http://globaladjustments.com/wpblog/?p=302
            http://programmers.stackexchange.com/questions/161784/understanding-indian-culture
            http://www.culture-4-travel.com/saving-face.html
            http://www.culturebriefings.com/pubstore/cbininfo.html
            http://www.rln-east.com/documents/culture/India_Business_Culture_Field_Report_July_2010.doc.

            “Io prima di esprimere un’opinione o un giudizio scrivo 12 pagine di confronto, ricerca fonti, traduzioni, consulenze legali e tecniche, e tu mi rispondi con “eh ma gli indiani vogliono salvarsi la faccia e sono revanscisti!”.

            Non ho mai affermato che tu abbia posizioni superficiali, mi sono espresso riguardo alla possibilità che la posizione indiana sia influenzata anche da atteggiamenti poco interessati alla verità dei fatti e ho addotto alcuni esempi a supporto della mia asserzione.
            Non mi è sembrato il caso, in questo contesto, di fare un trattato sull’approccio indiano nei rapporti fra occidentali e orientali.

            Non ho la pretesa di sostenere che sia una verità incontestabile e non ho perentoriamente affermato né che gli indiani “vogliono salvarsi la faccia” né che siano “revanscisti”. Mi sono limitato ha fornire degli esempi ove si può arguire che, nell’approccio interpretativo indiano alla vicenda, ci sono posizioni espresse che presentano aspetti di tale genere e autorizzano le ipotesi esposte.

            Non mi piacciono le generalizzazioni e cerco di non cadere in prese di posizione simili, a cui corrispondono, all’opposto, analoghe pretese sulla colpevolezza dei due marinai, unicamente perché appartenenti alla società militare, rinvenibile in molti dei commenti più esagitati ai due pezzi che hai fatto sulla vicenda, che, invece, ritengo sostanzialmente onesti e ben argomentati.

            “Perché le dichiarazioni dei pescatori, degli ufficiali della Guardia costiera, le rilevazioni satellitari, gli esami della balistica e tutto quello che è stato riportato dai media non sono punti fermi? La parola dei marò vale più di quella di un pescatore o del tecnico della balistica di Kochin? Lo vedi allora che faccio bene ad incasellarti nell’ottica settaria, come dici tu?”

            No, non fai bene, in quanto ritengo che non possano rappresentare, per ora, dei punti fermi, perché non sono stati ancora oggetto di esame in sede processuale.
            Ripeto che ,sino ad ora, la vicenda ha ruotato attorno alla competenza sulla prosecuzione dell’azione penale, pertanto si è deliberato solo in considerazione del luogo dove sono o sarebbero accaduti i fatti ( bada bene a questo proposito, che non mai parlato di – né contestato- dati satellitari), senza entrare nel merito.
            Allo stato la parola dei marò non vale più di quella dei pescatori, ma neanche di meno, mentre i risultati della perizia balistica, al di là delle indiscrezioni e delle dichiarazioni unilaterali degli inquirenti indiani, devono essere ancora esaminati ed eventualmente confutati.
            Io ritengo che, prima di affermare con sicurezza la colpevolezza dei marò e di operare, come altri hanno fatto, una scelta di fazione, bisogna vedere ciò che effettivamente verrà presentato ed emergerà nelle sedi competenti.

            Per quanto attiene i media indiani essi avranno fatto più o meno bene il loro lavoro, ma da quello che è reperibile su internet ( almeno quello che ho letto io), hanno riportato, commentato – o speculato sopra- le dichiarazioni ufficiali e le indiscrezioni delle autorità inquirenti.
            Ritengo che pur considerando la differente tradizione reciproca, essi possano avere più o meno gli stessi pregi e difetti degli organi di informazione nostrani e, pertanto, possano travisare fatti e dichiarazioni, peccare di semplificazione, utilizzare e interpretare impropriamente decisioni e affermazioni.
            Leggendo, ad esempio, dichiarazioni dei legali (indiani) e diplomatici di parte italiana, come riportate dalla stampa del subcontinente e dalle fonti giornalistiche nostrane, sono emerse, spesso, differenze sostanziali di relazione e esposizione, di solito univocamente suffraganti la posizione indiana- sui giornali di quel paese- , a sostegno della convinzione italiana- su quelli nostri.

            “Sulla condotta della nostra diplomazia non mi dilungo: uno Stato che accoglie e applaude un’iniziativa becera e gretta come quella avanzata da una testata come Il Giornale (parlo delle bandiere della Marina sulle Ferrari) si mostra inevitabilmente per quello che è.”

            Su questo concordo in pieno, è stato un passo falso, inutile e di indubbio pessimo gusto.
            Però, mi guardo bene dall’esprimere un giudizio sui contenuti morali dell’azione diplomatica complessiva, ho evidenziato altre iniziative che ritengo complessivamente efficaci in ordine la conseguimento dello scopo di riportare in patria i due militari.
            Trovo del tutto prive di senso tanto le virulente prese di posizione di matrice politica o giornalistica che hanno lamentato e continuano a sostenere una presunta fiacchezza della nostra diplomazia, quanto quelle che sostengono il contrario .
            In una posizione perdente ( militari già nelle mani indiane e senza una concreta possibilità di ottenerne il rilascio unilaterale) la diplomazia nazionale, a meno di cospargersi subito il capo di cenere ed effettivamente abdicare ad ogni prerogativa, consegnando senza obiezioni delle persone ( che per carità, potrebbero aver interpretato male o addirittura infranto i limiti del loro mandato) che si trovavano lì in base ad ordini (non erano turisti annoiati su un megayacht che facevano il tiro al piattello- o al pescatore- per intenderci) si è mossa in modo coerente agli scopi da ottenere.

            Aggiungo infine, per meglio chiarire la mia posizione, che ho sempre considerato avventata la scelta di far scortare, da team militari a bordo, le navi mercantili italiane, pur nell’ambito della difesa del traffico nazionale già posta in essere dalle unità militari in missione.
            Tuttavia la decisione dei nostri vertici politici e militari, oltre a emulare quella già adottata da nazioni (ad esempio dall’Australia sulle rotte indonesiane) o in via di adozione e, peraltro, condivisa anche dalle autorità indiane (http://www.thehindu.com/news/national/india-wants-eez-out-of-war-zone-list/article2932073.ece) è figlia anche della riluttanza ad impiegare contractor per paura di critiche a livello politico ( il governo italiano autorizza mercenari armati sulle navi mercantili!) e del desiderio della Marina Militare, di non perdere la visibilità e il rilievo scaturenti dal gestire le iniziative di scorta e sicurezza nell’area.

            Non ho la pretesa di imporre a tutti i costi la mia posizione e non vorrei estenuarti con continui rilanci.
            Pertanto, in assenza di elementi nuovi, leggerò volentieri una tua eventuale contro contro replica, ma nell’augurarti un buon lavoro e buon soggiorno indiano, aspetterò gli sviluppi del caso per esternare ulteriori opinioni.

  11. Chiedo scusa del ritardo,
    (nessun problema per il tu)
    senza alcun spirito polemico nè con la pretesa di aver ragione ad ogni costo, sto cercando di riordinare alcune fonti per meglio chiarire e supportare alcune mie affermazioni.
    A presto

  12. Un mese di permesso elettorale per i due “eroi”.

    Uno studente all’estero per il programma Erasmus invece non può votare.

    No comment.

  13. Pare anche che non rientreranno… ammesso che questo non sia un pesce d’aprile fuori stagione

    http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2013/03/11/Maro-restano-Italia-annuncia-Terzi_8380909.html

  14. E alla fine abbiamo coglionato l’India, facendo la solita pessima figura di merda da italiani vili e bugiardi. Che vergogna, che tristezza.

  15. Congratulazioni a Giulio Terzi che sta riuscendo nella difficilissima impresa di farci quasi rimpiangere Frattini…Non pensavo che potesse farcela, ma con l’ultimo trucchetto alla Totò si è davero superato.
    Massì, compromettiamo le relazioni diplomatiche e commerciali
    con una uperpotenza mondiale – l’importante è che i “nostri ragazzi” siano a casa…

  16. […] Girone non torneranno in India, preferisco che leggiate un utile, per quanto relativamente datato, riassunto della vicenda. Che sennò ci ritroviamo a ragionare su “dati” prodotti da un ingegnere […]

  17. […] sono oggi alcuni fatti accettati anche dalla difesa dei due marò in India. L’Enrica Lexie, intorno alle […]

  18. […] sono oggi alcuni fatti accettati anche dalla difesa dei due marò in India. L’Enrica Lexie, intorno alle 16:30, […]

  19. […] Alessandro Gilioli  e prima ancora via Wu Ming un libro con una versione… decisamente inedita di come potrebbero essere andati i […]