In mezzo alla polla sguazzava un pesce rosso

[Nei mesi scorsi può esservi capitato, assistendo a una presentazione di Altai o de Il sentiero degli dei, di trovare un altro tavolo accanto a quello coi nostri libri: il banchetto dei comitati per il referendum sull’acqua pubblica.
I promotori di questa campagna ci hanno chiesto un segnale, una presa di posizione, un contributo di qualche tipo. Ci è venuto il ghiribizzo, pensate un po’, di scrivere un racconto. Un apologo. Una quieta distopia. Pochi giorni fa è stato pubblicato (con un’illustrazione di Fabrizio Cicero) sul sito del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, dove è disponibile anche in pdf. Lo riproponiamo ai lettori di Giap. E’ il nostro post ferragostano. Buona lettura, buon termine d’estate.]
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Sul blocco di pane nero c’era stampigliata una data: 4-4-2012. C’era anche un’altra scritta: Bundeswehr. Gli aiuti per le aree D provenivano spesso dalla Germania. C’erano würstel, barattoli di sottaceti, birra analcolica. Persino qualche bottiglia d’acqua da bere.
Forse solo le prugne sciroppate non erano di provenienza tedesca. Winston sorrise tra sé. Forse gli aiuti per le aree D in Germania – dovevano pur essercene – provenivano dall’Italia.
Winston aprì l’ugello di un fornelletto da campeggio e mise sulla fiamma una padella annerita. Tagliò una fetta di margarina rancida, ruppe i gusci di due uova sui bordi della padella, fece cadere chiara e tuorlo sul metallo sfrigolante di grasso vegetale.
Tagliò due fette dell’antico pane di segale, aprì una lattina di birra. Guardò le bottiglie d’acqua: sarebbero bastate per una settimana.
Quel che mancava era l’acqua per le altre cose. Per lavarsi, per lavare i panni. Per cucinare roba non fritta, non unta. Per lavare le pentole dopo che avevi cucinato. Se ti lavavi, addio acqua per fare la pasta.
Occorreva fare delle scelte.
A Winston non piaceva andare ai bagni pubblici. Ognuno aveva una tessera che consentiva otto ingressi al mese. Otto docce al mese, per i poveri: in quel periodo dell’anno, con il caldo e l’umidità vicina al 90%, non bastava di certo.
Winston odiava sentirsi sporco, tendeva a lavarsi più del dovuto. Così addio pasta, addio verdura cotta, addio zuppe liofilizzate, che arrivavano anch’esse, beffarde, con le razioni D. Per farle, ci voleva l’acqua.
Winston campava di würstel, tonno, pane dell’esercito tedesco fabbricato anni prima, lattine su lattine di bevanda al caffè.

L’acqua da bere era il vero problema. Era razionata, in quasi tutte le case del quartiere. Era costosa, come luce e gas. Quasi nessuno, in quel quartiere prossimo alla collina, poteva pagare acqua luce e gas. Chi poteva sceglieva l’acqua, e Winston non era tra i fortunati.
Gli accordi tra fornitori e pubblica amministrazione prevedevano due ore al giorno di elettricità sociale a tutti, e distribuzione di acqua due volte la settimana. Ma la maggior parte del tempo, gli interruttori non servivano a nulla, gli elettrodomestici dormivano inutili. In molti avevano incominciato a disfarsene. Gli apparecchi ancora decenti venivano veduti per pochi soldi. Gli altri, frigoriferi e lavatrici soprattutto, arrugginivano al sole, per strada. Le lavatrici aprivano il loro occhio attonito, e i frigoriferi non erano che cassoni vuoti. Ogni tanto un camion militare passava a tirarli su.
Winston ricordava bene com’era prima della Svolta: in fondo non era passato tanto tempo. Per molti versi, la sua condizione attuale gli ricordava le estati dell’infanzia: ore e ore, giorni e giorni senza niente di preciso da fare. Ogni tanto, arriva qualcuno e si occupa di te.
Passava il tempo peregrinando per il quartiere, nelle aeree ex-industriali, dove l’erba spaccava il cemento e all’ombra delle lamiere crescevano piante che non ricordava di avere mai visto, piante che sembravano nutrirsi dell’antico odore del ferro e della gomma, delle esalazioni di discariche improvvisate, d’acqua piovana pesante di residui chimici.

Là dove la periferia annegava nell’indistinto minerale e vegetale, blocchi di cemento sconnessi e intrico di rovi, Winston si sentiva bene. Aveva recuperato la conoscenza precisa, perfetta del territorio attorno a casa che hanno i bambini sugli otto-dieci anni, quelli a cui è stato consentito di vagare, e conosceva ogni anfratto, ogni luogo dove sedersi all’ombra per sorseggiare soda al caffé, i posti buoni per accendersi una sigaretta e guardare il fumo ascendere, e lasciare andare il tempo, giorno dopo giorno.
Uscì di casa nella vampa delle tre del pomeriggio. La via era muta, l’asfalto pieno di buche bruciava. Difficile incontrare qualcuno a quell’ora. Nello zaino, un po’ di pane tedesco, della cioccolata a scaglie, lattine al caffé. Senza un piano preciso, i passi lo portarono nell’area dove un tempo aveva funzionato la fabbrica di biscotti, il magazzino dove da ragazzo era capace di entrare, attraverso i tetti, e l’altra fabbrica, quella grande, dove facevano il ferro, in diverse pezzature: sbarre, tondini, bulloni, chissà che altro. Il rumore di quelle fabbriche, il ronzio simile a un aeroplano della ventola sull’altissima facciata aveva accompagnato i lunghi pomeriggi di quel tempo andato. Winston ne udiva ancora il fantasma.
Scivolò attraverso un buco nella rete arrugginita e si ritrovo all’interno dello stabilimento. Un branco di randagi attraversava alla spicciolata lo spiazzo dove un tempo si erano fermati gli autocarri. Non era il loro territorio, gli animali procedevano in fretta, trotterellando, smagriti, forse impauriti. Winston si premurò di non incrociare i loro sguardi, attese la loro scomparsa oltre la siepe dilagante che chiudeva alla vista la strada tempestata di crateri che portava verso la città. Sul lato in ombra dell’edificio doveva esserci un bel fresco, pensò Winston. Aveva piovuto forte, la sera prima. L’aria s’era fatta ancora più torrida ma forse dietro il muro, all’ombra, il cemento e la terra erano ancora umidi. Un buon posto per sedersi, fumare una sigaretta e pensare.
Mentre avanzava nello spiazzo, Winston notò che i cani avevano lasciato orme. Orme bagnate, che evaporavano in fretta. Incuriosito, aumentò il passo. Il pane di segale e le uova pesavano sullo stomaco, e Winston si ritrovò madido di sudore.
Girò l’angolo, e si trovò all’ombra. Si appoggiò al muro, colpito da una stanchezza insolita. In quell’area dell’antico stabilimento, c’erano gradini addossati al muro che portavano in basso, verso una porta di lamiera arrugginita. Un corrimano di ferro dipinto in rosso doveva facilitare ascesa e discesa, ma era rotto, piegato malamente in più punti. Dalla scala in ombra proveniva un suono che non riusciva a distinguere. Si avvicinò, e capì che era lo scrosciare dell’acqua. Un rumore simile a una fontana.
Quando era stato un bambino, un tempo, l’acqua era talmente abbondante che c’erano fontane, nel centro della città, e fontanelle, e uno se aveva sete ci poteva bere.
Già. L’acqua delle fontanelle era buona da bere.
Si avvicinò, e scese qualche gradino. Sì, era acqua, e filtrava da sotto la porta in lamiera, il cui bordo inferiore era piegato e sollevato dal pavimento di qualche centimetro. L’area rettangolare tra porta, muro e gradini era piena d’acqua. Un’area di un metro quadro allagata da sette-dieci centimetri d’acqua. Fresca, non stagnante. Winston si avvicinò ancora. All’ombra, temette che la vista gli facesse un brutto scherzo.
In mezzo alla polla sguazzava un pesce rosso.

Quella notte, Winston sognò la città prima della svolta. La percorreva in motorino, fino in centro: era possibile accedervi in tutte le ore del giorno e della notte, uno non era confinato, o quasi, nell’area D. Nel sogno, le ruote passavano veloci sull’asfalto, sulla pavimentazione antica, sulle pozze d’acqua, e Winston si sentiva libero e felice. Era come se la mente volasse, a pochi metri dal suolo, e si dislocasse a piacimento nei luoghi della memoria. La vasca del palazzo Comunale, piena di carpe boccheggianti. La porta di S. Maria della vita, nascosta tra i vicoli e l’odore di pesce che saliva dalle bancarelle. Poi il motorino e la mente presero ad ascendere, la strada portava in alto, in collina, ma Winston non aveva alcun interesse al panorama, alla città che si offriva alla vista giù in basso, oltre le curve. Giunse a una specie di chiesa, un convento diroccato. Lo percorse con la mente, in volo, anfratto dopo anfratto. C’erano uccelli, tra le rovine. Riconobbe piccioni, e smunti rapaci, implumi, che osservavano il mondo, aperto loro innanzi, con occhi di lavatrice.
Winston guardò il cielo e pensò che sarebbe piovuto. L’acqua fredda, lattea, dei suoi sogni.

Alla mattina, la domanda che gli girava in testa era la stessa di quando era andato dormire. Come si era prodotta la sorgente giù alla fabbrica, e come aveva fatto un pesce rosso a finirci dentro? La risposta più plausibile, che corrispondeva quasi per certo al vero, se n’era convinto, lo lasciava però insoddisfatto.
Un bambino aveva dovuto rinunciare al pesce rosso, perché la famiglia non era più in grado di pagare l’acqua. Dovevano avergli detto di far sparire il pesce, prima che morisse asfissiato nella boccia piena di liquido ormai senza ossigeno. Allora il bambino, vagando con un sacchetto di plastica, acqua sporca e pesce, si era imbattuto nel fenomeno, aveva lasciato il pesce al suo destino. Almeno sarebbe morto nell’acqua fresca. Oppure il bambino veniva ogni giorno a nutrirlo: Winston lo avrebbe fatto. Oppure era stato il bambino stesso, sgattaiolando dentro la fabbrica, a produrre il fenomeno, la perdita d’acqua. Del resto, le tubature erano marce.
Uscì di casa nell’aria ancora fresca del mattino. Da poco era cessato il coprifuoco notturno; i pochi che lavoravano uscivano per raggiungere i confini dell’area D, mostrare i lasciapassare, prendere i mezzi pubblici, andare a badare dei vecchi o pulire pavimenti. Winston sperava di incontrare il bambino, quella mattina. Forse sarebbe tornato per dar da mangiare al pesce rosso: allora Winston avrebbe capito come stavano le cose. Oppure, avrebbe trovato il modo per entrare nella fabbrica in rovina- quell’area da fuori sembrava inaccessibile. Forse sarebbe occorso forzare la porta in lamiera. Dentro, Winston avrebbe visto se l’acqua era buona da bere.
Si affrettò. Varcò lo spiazzo dove il giorno prima aveva incontrato i cani, svoltò l’angolo, e incrociò una selva di sguardi stupiti.

Uomini in divisa gialla, con lo stemma del Munifico Comune. La divisa era una specie di assurda cerata gialla.
Pompieri. Quelli che intervenivano in caso di furto d’acqua. In pochi istanti gli furono addosso.
– Quando si dice la fortuna –, disse l’unico in divisa da funzionario.
– Nemmeno la fatica di andarselo a cercare, il ladro d’acqua.
Lo sedarono. Le gambe cedettero, Winston vacillò. Prima di perdere i sensi, vide uno degli uomini tenere in mano, all’altezza degli occhi, un sacchetto di plastica trasparente.

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10 commenti su “In mezzo alla polla sguazzava un pesce rosso

  1. […] Vi postiamo qui solo l’introduzione: per il racconto vi rimandiamo a Giap! […]

  2. Micidiale!

    Grazie: come sempre

  3. […] da In mezzo alla polla sguazzava un pesce rosso Guardò le bottiglie d’acqua: sarebbero bastate per una […]

  4. E’ in questi casi che la scrittura fa la differenza

    http://www.storiacontinua.com/autori/artisti-per-lacqua/

  5. Prima di perdere i sensi, vide uno degli uomini tenere in mano, all’altezza degli occhi, un sacchetto di plastica trasparente.
    ‘perplesso’ è forse il termine adatto per descrive in quale stato mi abbia lasciato questo finale. Son arrivato a una mia interpretazione che probabilmente non sta né in cielo né in terra e magari saprete meglio illuminarmi voi: ho visto una doppia se non triplice privazione della libertà, per primo il protagonista che viene arrestato; per secondo, se si considera il pesce rosso che sguazza nell’acqua simbolo di libertà, il sacchetto di plastica in mano al ‘pompiere’ è funzionale a prendere il pesce e quindi è come se venga distrutto il simbolo stesso della libertà; infine il terzo punto è il motivo che attraversa tutto il racconto, le persone son private del bene fondamentale per la loro stessa esistenza, l’acqua.

  6. Ciao,
    lo so che la polemica Einaudi-Mondadori-Berlusconi è trita e ritrita ed avete risposto in tutte le salse, ma immagino abbiate visto questo articolo:
    http://www.repubblica.it/politica/2010/08/21/news/io_autore_mondadori_e_lo_scandalo_ad_aziendam-6407472/?ref=HREC1-5
    e direi che chiama in causa alcune questioni sulle quali sarebbe opportuno prendere una posizione. Io ho seguito solo in parte la questione (sul Manifesto), ma credo che ci sia trippa per gatti; purtroppo si tratta di trippa marcia e per i soliti gatti

  7. Abbiamo i nostri tempi, e non sono quelli della cronaca.

    Non abbiate fretta.

    Nessuna questione che ci riguarda rimarrà inevasa.

  8. So che riceverete molte altre sollecitazioni sul tema.
    So anche che non ci sarebbe bisogno di farlo, ma vorrei invitarvi a dare l’importanza che merita, cioè nessuna, all’ennesima versione di una querelle che da più di dieci anni va avanti senza costrutto alcuno, se non quello di attestare l’ipocrisia e l’inconsistenza di una parte di intellettualità, alla quale nulla interessa davvero tranne la salvaguardia delle propria lauta o miserabile rendita di posizione.
    Periodicamente s’affaccia qualcuno che, folgorato dalla scoperta del letale e ignobile intreccio tra affari politica interessi e ricchezze e privilegi e appropriazioni del comune, chiede conto ad amici parenti sodali e colleghi del proprio operato.
    Una cosa che fa ridere, che fa piangere, che dà la nausea.
    L’unica notizia, per restare alla cronaca, è che il teologo Mancuso, nell’agosto 2010 e grazie a un articolo di Massimo Giannini sul giornale dove scrive da anni, ha scoperto la spinosa questione del conflitto di interessi. Ne fa un caso di coscienza, e lo rovescia su colleghi e addetti ai lavori.
    Si può accettare questo? Si può accettare da parte di persone che negli ultimi venti anni non abbiano partecipato a missioni spaziali che li hanno tenuti fuori dalla galassia? Io dico di no, e che bisogna dare un taglio a tale vergognosa pantomima.
    E’ almeno dal 1984, entrata in vigore della legge Mammì, che la questione, in ambito di comunicazione e editoria, è presente e drammatica. B. era imprenditore politico criminale ben prima della presunta ‘discesa in campo’. E poi con l’acquisizione di Mondadori, pochi anni dopo.
    Solo chi andò via subito è rispettabile. Fece una scelta, la motivò. Altri, in un dibattito pubblico, giunsero a una posizione diversa. La motivarono. Moltissimi fecero finta di nulla.
    Altri ancora, giunti nel panorama editoriale in epoca un poco successiva, argomentarono da subito, e nel dettaglio, la natura e la filosofia di una posizione “entrista”. Nella piena consapevolezza e nell’assunzione di responsabilità, nonchè della contraddizione in essa contenuta.
    Chi dice che oggi le cose sono diverse è un ipocrita schifoso, e difende solo sè stesso.
    Non si può rispondere per tutta la vita alla stessa domanda. Soprattutto a chi non ha alcun titolo per porla. E gli italiani, tutti, bisogna che si rassegnino al fatto che oggi gli unici titolati a quell’interrogazione sono coloro che hanno meno di vent’anni.
    Siate impietosi con gli ipocriti. Essi non sono estranei alle macerie che ci seppelliscono.
    L.

  9. Solo per dire che i WM non hanno davvero nulla da aggiungere e niente da ‘giustificare’; solo per scrivere che è sempre un piacere leggere i post di Luca.
     

  10. Eugenio Scalfari, “Gli scrittori, i libri e il conflitto”:

    http://bit.ly/d1qhjr

    Noialtri WM, qualche mese fa:

    http://bit.ly/cLYsLV

    «Io appartengo a una tradizione che preferisce essere cacciata, piuttosto che rinunciare spontaneamente alla battaglia culturale […] ci sono case editrici che per tradizione e libertà delle persone hanno resistito alla proprietà. Per questo bisogna resistere con loro, aiutarli anziché complicare le cose.» Alberto Asor Rosa, tre giorni fa.

    Ci volevano un vecchio liberale e un vecchio ex-operaista per riportare un po’ di raziocinio in questo demenziale dibattito.

    C’è altro da aggiungere?