Siamo al giro di boa del tour: 30 presentazioni alle spalle, 30 ad attenderci. Ricordiamo che il calendario è qui. In questo speciale, troverete molte nuove recensioni di Point Lenana e l’audio della presentazione di Pisogne (BS) del 23 giugno scorso.
Delle foto che illustrano il post, due risalgono alla nostra ascesa al Monte Kenya del gennaio 2010; una proviene dall’archivio personale di Peter Barnes, compagno di scalate di Felice Benuzzi nell’Australia degli anni Cinquanta; le altre sono testimonianze delle escursioni e camminate che in questi due mesi e mezzo hanno prolungato i mondi di Point Lenana fuori dalle pagine del libro, tra le rocce dell’arco alpino.
Le escursioni andranno avanti per tutta l’estate (in Val di Susa il 13 luglio, sui Monti Sibillini il 20 luglio, nella Marsica il 21 luglio, in Cadore, in Val Rosandra, in Lessinia, in Trentino…), perché queste sono storie di scarpinate, le abbiamo inseguite e scritte mettendoci il corpo, e bisogna continuare a metterci il corpo, bisogna continuare a scarpinare.
Ricordiamo che esistono un board su Pinterest che “mette in immagini” Point Lenana e, grazie all’opera di alcuni volonterosi lettori, un blog interamente dedicato al libro.
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Ecco l’audio della presentazione a Pisogne (BS), sera del 23 giugno 2013. Per descrivere il contenuto, usiamo le parole di Franco Berteni aka Mr. Mill, organizzatore dell’iniziativa:
“Breve introduzione mia, a seguire Maurizio Vito [ricercatore, italianista] Christian Arnoldi [sociologo, autore del libro Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini] e Wu Ming 1.
Poche le domande dal pubblico dopo tutti questi interventi, interessante però sentire cosa risponde WM1: prima sul ruolo che personalità/pensiero/scritti di Gian Piero Motti hanno avuto su Point Lenana e, rispondendo alla domanda successiva, su alcune questioni di ‘traduttologia’ in relazione a Point Lenana.”
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Girolamo De Michele su L’Indice:
Uno dei maggiori storici contemporanei, Robert Darnton, ha spesso tratto spunto per le sue innovative ricerche storiche da qualche evento singolare, bizzarro: un massacro di gatti alla vigilia della Rivoluzione francese, la circolazione di romanzetti osceni nel tardo Settecento, le discrepanze tra le narrazioni della favola di Cappuccetto Rosso. È un metodo che dà i suoi frutti anche in questo oggetto narrativo scritto da Roberto Santachiara e Wu Ming 1, che sono partiti da un curioso avvenimento accaduto durante la seconda guerra mondiale, quando uno scalatore italiano, Felice Benuzzi, rinchiuso in un campo di prigionia in Kenya, evade assieme ad altri compagni, scala il monte Kenya raggiungendo Point Lenana per piantarvi una bandiera italiana, e poi, ridisceso, si riconsegna ai britannici. Fosse stato un atto di propaganda fascista, non ci sarebbe nulla di anomalo. Ma ciò che Benuzzi intendeva fare non era esaltare, ma riscattare la propria italianità dalla vergogna del fascismo e del colonialismo, dalla parte del torto. Perché, allora, proprio con un’ascensione sul Kenya, che Benuzzi narrerà in due libri, italiano (Fuga sul Kenya) e in inglese (No Picnic on Mount Kenya), scritti durante la prigionia? È da questo interrogativo, e da una vecchia copia di Fuga sul Kenya, allora fuori catalogo, che muove le mosse la strana coppia formata da un narratore saltuario, ma esperto scalatore, e da un narratore di professione, ma uomo di pianura del tutto ignaro di montagne – e perciò predisposto all’esperienza della “prima volta” nell’ascendere il Kenya ripercorrendo la via di Benuzzi e dei suoi compagni: perché per capire la montagna bisogna entrarci, nella montagna, bisogna farne esperienza. La montagna, come la vita reale, non si sfoglia. E come la vita reale, la montagna è un oggetto narrabile solo al prezzo di avvolgere le molte storie di cui è intessuta in una corda, e lasciare che dalla corda delle storie pendano i filacci di altre storie, alcune a loro volta narrate, altre lasciate a narratori a venire. Quella che poteva essere una semplice biografia di un triestino che ha attraversato il Novecento diventa così la storia del triestino, e della città in cui nacque e che nel corso della sua vita cambiò quattro bandiere, della terra in cui sorge la montagna che scalò e di quelle limitrofe, dei popoli che l’abitavano da sempre e di quelli che li soggiogarono con ferocia inumana in nome dell’Impero d’Albione o del re e del duce di un impero da operetta, dei fiumi di sangue dei fucilati e delle nubi di gas che sterminarono a migliaia gli indigeni in nome del progresso bianco; e ancora, la storia delle idee che mossero il colonialismo italiano, e di quel coagulo chiamato fascismo che le incarnò nell’esercizio del potere, dei sommersi che perirono nei lager italo-tedeschi in Friuli o nella Jugoslavia o combattendo la dittatura fascio-bruna, e dei salvati che resistettero, o semplicemente scamparono in qualche modo, e ancora…
E la montagna? Ovvero, le montagne? Le montagne sono, in questo libro, ovunque: sono già lì quando arrivano gli uomini, per conquistarne le terre bagnate dalle loro ombre o per scalarle aprendo nuove vie; sono lì a ricordare che c’erano già, e ci saranno anche dopo; sono l’obiettivo, l’oggetto di un’ossessione, o semplicemente lo sfondo. Sono il punto di vista che permette di comprendere e narrare i movimenti di quei some insects called ‘human race’: il Novecento e gli orrori che lo hanno attraversato visti dal punto di vista della Montagna e degli uomini che per passione, per mestiere, per prendere la via delle armi contro il nazifascismo, le scalarono e finirono col farne parte. E quindi, anche – ed era inevitabile – la storia degli alpinisti, del modo in cui il loro rapporto con la montagna si è evoluto nel lungo ventesimo secolo: una storia quasi ignota ai più, ma dotata di un altissimo potenziale allegorico. Basterebbe il confronto tra l’alpinismo muscolare, eroico, statuario del maschio virile, ovvero il tentativo di imporre una fascistizzazione dell’alpinismo da parte del Regime, contrapposto all’eleganza quasi ballerina di un Emilio Comici, la cui vita è una delle storie più belle tra questa mille e una. La figura di Comici, che danza tra le pagine di questo libro come il suo corpo faceva tra le vie alpine, diventa emblema del fallimento dell’antropologia fascista, e simbolo di quell’antifascismo esistenziale, categoria mutuata dalla storiografia e ampliata alle minuzie della vita quotidiana per dimostrare il fallimento, prima dell’8 settembre, della fascistizzazione degli italiani. Un fallimento che ha una coda velenosa: la rimozione – o meglio, la forclusione – della causa ha lasciato in circolo gli effetti, le tossine disseminate sotto il mito degli “italiani brava gente”. Al fascismo criminale dei Mussolini, Graziani, Roatta, Badoglio è subentrato un microfascismo che si annida dentro di noi, le cui manifestazioni richiedono anamnesi e antidoti: narrazioni come questa valgono tanto per le une quanto per gli altri.
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Loredana Lipperini recensisce Point Lenana su Lipperatura (a proposito: forza, Ollie!)
Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara (Einaudi Stile Libero, pagg.596, euro 20) inizia soffiando nei polmoni del lettore l’aria gelida del Monte Kenya, ma non prosegue raccontando la storia attorno a cui il libro ruota: ovvero, la fuga di tre italiani da un campo di prigionia inglese in Africa, nel 1943, l’ascesa – con mezzi che definire di fortuna è riduttivo – fino a Punta Lenana, la volontaria riconsegna dopo 17 giorni. Quella storia è già in un libro, Fuga sul Monte Kenya, scritto da uno dei protagonisti: Felice Benuzzi, nato a Vienna, cresciuto a Trieste, alpinista, funzionario ad Addis Abeba, infine diplomatico, viaggiatore, scrittore, e soprattutto polo del magnete che attira a sé la storia italiana (e non solo) del Novecento (e non solo). Point Lenana si pone come “altro”, e in quanto “altro” non è incasellabile in alcuna definizione predisposta (libro sulla montagna, saggio, inchiesta, romanzo): si svolge, come l’alpinismo secondo una definizione degli autori, “in un’intersezione”, a scarti, generando narrazione dopo narrazione, tappa dopo tappa, come in un’ascensione che porta dal basso verso l’alto.
Dal basso si parte, infatti: quando Santachiara invia a Wu Ming 1 la copia di Fuga sul Monte Kenya è il 2009, e il ricevente si trovava – come molti – sotto una cappa che “risucchiava le energie buone” lasciando a terra “i vapori nocivi, gli umori più cupi, le inettitudini più resilienti, i rancori più facili da coltivare”. Messo a parte del progetto, lo accoglie con perplessità, sia per l’impresa di Benuzzi, che sulle prime sembra la classica e fascistissima esibizione di muscoli, ma anche per quello che sarà il motore del libro stesso: i due Roberti avrebbero ripercorso la via verso Punta Lenana, uno già esperto di montagne, l’altro uomo di terre basse e scrivania. C’è perplessità anche fra i colleghi e gli amici (fra cui chi scrive, che avrebbe atteso con non poca ansia il messaggio sms che, nel gennaio 2010, annunciava che la cima era stata raggiunta). Ma andare è necessario, per comprendere la “metafora primaria” (“verso su” è bene, “verso giù” è male) che è alla base non solo dell’alpinismo, ma di tutti i nostri pensieri e discorsi.
Se la scalata degli autori è il punto di partenza, la ricostruzione della vita di Benuzzi è il sentiero che tiene insieme altre vicende, piccole e grandi. L’aereo del pediatra di Atlanta che si schianta sul Monte Kenya e che diventa il pretesto per una catena di truffe telematiche. La rivolta dei Mau Mau, di cui una generazione intera conoscerà solo la versione dell’impero (gli assalti ai civili bianchi) e non le migliaia di impiccati o le decine di migliaia torturati e castrati nei campi di concentramento britannici. E poi la comunità slovena, e l’irredentismo, e il mito virile delle colonie, e Gea della Garisenda che canta A Tripoli coperta solo di una bandiera tricolore, e il vecchio Pascoli che incita alla conquista, e Carducci, e D’Annunzio e tutti i poeti che “a contatto col nazionalismo tirano fuori il peggio di sé”, e le fiamme dell’Hotel Balkan. Adolescente, Felice Benuzzi fa le prime ascensioni al Monte Nero di Caporetto mentre la storia gli scorre accanto, e vede i segni di quella da poco trascorsa guardando gli alberi fatti a pezzi dalle artiglierie. Adulto, si incanta alle piroette di Rogers e Astaire in Seguendo la flotta, mentre Rodolfo Graziani erige forche, piaga carni con l’iprite, massacra monaci e cantastorie. Point Lenana segue le curve di ogni sentiero, sale e scende raccontando (anche attraverso interviste a familiari e testimoni) i primi trent’anni di Benuzzi e quelli che che seguiranno la sua liberazione, fino alla morte. Aggira il fulcro “con una manovra a tenaglia”, oscura gli anni del campo inglese e la manciata di giorni dell’avventura indagandone il senso: Felice Benuzzi, Giovanni Balletto ed Enzo Barsotti “andarono su” per sfuggire al tedio e all’abbrutimento della prigionia, per ridare senso al tempo, per ritrovare la fiducia e la capacità di meraviglia. Per Felice funzionò, a quanto sembra: e funziona per il lettore, che infine si meraviglia davvero, e almeno spera di ritrovare fiducia. Di pensare, dal basso, a quel che c’è in alto.
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Luca Gianotti sulla newsletter della Compagnia dei cammini:
Regimi, alpinisti e libertà
Per chi non ha mai letto niente dei Wu Ming
Questo libro è scritto da Wu Ming 1, del collettivo di scrittori Wu Ming di Bologna. Insieme a Roberto Santachiara, agente letterario e appassionato di alpinismo e viaggi.
L’idea di Santachiara è stata: scegliere un bravo scrittore che ha il fiuto del segugio, ripercorrere una storia incredibile come quella di Felice Benuzzi che nel 1942 scappò dal campo di prigionia inglese in Africa per scalare con due compagni di cella il Monte Kenya, per poi riconsegnarsi alle autorità britanniche. E raccontarla. Santachiara e Wu Ming 1 hanno scalato come prima cosa il Monte Kenya, per immedesimarsi nel protagonista. Per Wu Ming 1 è stata la prima occasione in vita sua per misurarsi con cose “di montagna”. Poi hanno cominciato a investigare la storia di quest’uomo, che – come la storia di ogni uomo – attraversa periodi storici importanti, incontra protagonisti di quel periodo. La storia di un uomo e la storia di un popolo si intrecciano, in questo libro che Wu Ming 1 definisce un “oggetto letterario non identificato”.
Per chi già conosce i Wu Ming
Wu Ming 1 è di formazione uno storico. E si vede. Questo libro rispetto agli altri libri che ho letto dei Wu Ming (ho letto tutti quelli del collettivo, e come opere soliste solo quelli di Wu Ming 2) l’impronta storiografica è molto più preponderante. È un libro di storia, ma non è un libro di storia. Parla del passato per parlare al presente, come sempre sanno fare i Wu Ming. Nel ripercorrere la vita di Felice Benuzzi, il libro ci racconta i dettagli dell’irredentismo di Trieste, la “fedelissima” che diventa italiana; ci racconta tante storie di alpinisti, soprattutto di Emilio Comici che era quasi-amico di Benuzzi, era il più grande scalatore del periodo ante guerra, ma non era un fanatico fascista, era un rocciatore e basta, e il CAI, fascistissimo, lo emarginò; ci racconta la storia delle guerre coloniali di conquista, in Africa, per costruire l’impero mussoliniano, dei massacri folli di Graziani e Badoglio, e smonta la teoria che noi italiani siamo stati meno terroristi delle altre nazioni, portando le prove storiche dell’uso dei gas chimici in modo massiccio, anche se la comunità internazionale li aveva vietati, l’Italia fu l’unica a usarli sterminando migliaia di innocenti.
In tutto questo, Felice Benuzzi ne esce come un uomo mite, dedito al suo lavoro di funzionario, dedito alla famiglia, una bella famiglia, e alla passione per i viaggi e per la montagna.
Ma il libro ci racconta indirettamente anche l’Italia di oggi, paese che ha perso la memoria. Abbiamo fatto una operazione di rimozione gravissima, e ne stiamo pagando alto lo scotto. Perché la memoria di quegli anni potrebbe insegnarci tanto. Ma abbiamo preferito far finta di niente, non sapere. Non sapere cos’è successo in Etiopia o nelle altre “colonie” del nostro misero Impero. Troppo poco sappiamo del periodo fascista, troppo poco insegniamo ai nostri figli. Da quell’esperienza potremmo far emergere i valori migliori, capire il valore della pace, della condivisione, del senso di comunità. La cultura della non memoria ci porta invece verso il baratro dell’egoismo. Il baratro ce l’abbiamo sotto gli occhi. La memoria storica, e libri come questo, ci aiutano a pensare che un altro modo di vivere non solo è possibile, ma è necessario e urgente.
P.S. Per chi vuole ascoltare Wu Ming 1 presentare il suo libro, e conoscerlo personalmente, noi organizziamo una giornata con Wu Ming 1 al Casale Le Crete, Tagliacozzo (Abruzzo), domenica 21 luglio. Cammineremo insieme il pomeriggio, in una facile camminata aperta a tutti, poi alle 18 presentazione del libro nel teatro degli asini, costruito con le balle di fieno. E per finire piccolo aperitivo. Ecco la pagina web dell’evento e la pagina facebook.
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Carmen Pellegrino recensisce Point Lenana su Book Detector:
Che i conti con gli scheletri del Novecento italiano – e in parte anche dell’Ottocento – non siano ancora stati fatti è un dato irrefutabile. L’uso pubblico della storia si avvale quasi sempre di una lettura del passato per singoli brandelli, decontestualizzati e presi e lasciati cadere a seconda delle opportunità del momento. Con una regolarità sconcertante, per esempio, riaffiora nel dibattito pubblico la nenia del “fascismo bonario”, della “dittatura all’acqua di rose”, di Mussolini grande statista sostenuto da un vasto consenso popolare. Oppure – e qui siamo al classico – degli “Italiani, brava gente”, rimuovendo con tenacia i molti e efferati crimini di cui tanti italiani – per esempio negli anni che vanno dall’unificazione nazionale alla fine della seconda guerra mondiale – si sono macchiati contro popolazioni ritenute barbare o subumane. Si pensi all’Africa, ai massacri, alle rappresaglie condotte contro “mandrie di negri spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge”, ordinate dal gerarca Rodolfo Graziani. Oppure, se si vuole, ai matrimoni con bambine eritree comprate e godute senza remore; matrimoni di cui i contraenti-acquirenti non si sono mai vergognati, nemmeno nel caso di contraenti dalla mente acuta. Su questi, come su molti altri buchi neri della storia italiana, fa luce il poderoso ultimo libro di Wu Ming 1, scritto in collaborazione con Roberto Santachiara, agente letterario e appassionato di storia e alpinismo. L’occasione intorno alla quale lievita l’imponente corpus documentale che gli autori redigono con metodo da storico orco – l’unico raccomandato agli storici che non siano antiquari, diceva Marc Bloch – è una storia minima, di quelle poco rilevanti sul piano della grande storia, eppure molto nota in certi ambienti, per esempio nel circuito dell’alpinismo. Nel 1943, in piena guerra mondiale, tre prigionieri italiani in Africa – Felice Benuzzi, Giovanni Balletto e Enzo Barsotti – evadono da un campo di prigionia inglese, il Pow di Nanyuki, e s’incamminano verso Punta Lenana, la terza vetta del Monte Kenya, con la precisa intenzione di tentarne la scalata. Restano fuori dal campo per più di due settimane, poi si riconsegnano agli inglesi. Felice Benuzzi narrerà l’impresa in Fuga sul Kenya, tradotto da lui stesso nella versione inglese No Picnic On Mount Kenya, una versione molto diversa da quella italiana che godrà di un notevole successo internazionale. Con un abile uso della tecnica a incastro (entrelacement), la narrazione di Point Lenana viene continuamente sospesa e poi ripresa nei collegamenti fra le varie storie. Si parte dalla Vienna in cui Benuzzi è nato e si giunge alla Trieste in cui è cresciuto; si prosegue per Roma, per l’Africa, poi l’Australia, poi l’Antartide, ricostruendo insieme alla vita dei protagonisti lo stridore di una storia pubblica che ha ben poco di edificante. Così, affiorano le vicende legate al colonialismo (liberale e fascista), l’irredentismo giuliano, le campagne libiche e etiopiche, lo scramble for Africa, ovvero la spartizione del continente fra le potenze europee che si contendono i pezzi migliori. Nella prima parte viene introdotto Benuzzi con il racconto breve della fuga sul Kenya – l’impresa vera e propria non viene raccontata, perché lo ha già fatto Benuzzi nel suo libro. Nella seconda e nella terza parte vengono raccontati i suoi primi trent’anni di vita. Negli interludi compaiono le incursioni nel futuro, che danno la spinta propulsiva alla narrazione. Il periodo etiope-kenyano viene raccontato al passato e al futuro, ovvero il lettore che arriva a leggere la vita di Benuzzi durante la guerra e poi lo segue nella fuga sul Kenya è già avvertito dei suoi trascorsi dal 1946 al 1988. È un procedere, dunque, à rebours, uno scandaglio al contrario del divenire storico. L’oggetto è sempre l’uomo, o meglio gli uomini nel tempo, perché tutto il resto è buon antiquariato. Così, archiviata la temporalità degli eventi, archiviato il superficiale metodo della raccolta di fatti senza una precisa volontà di cercare le grandi correnti nascoste nella vita umana; scovato il falso e l’errore perché – come ben diceva Bloch – dietro la superficie del falso appare la storia profonda, Point Lenana è un perfetto esempio di narrazione composita che supplisce alle mancanze di una storiografia che è sempre più una sottospecie di sotie e sempre meno analisi e comparazione. Sicché, scorrendo le quasi seicento pagine del libro, si ha come la sensazione di essere là dove l’uomo è passato, là dove ha lasciato qualche debole impronta (fosse anche l’orma sopra una vetta che è quasi un miraggio), perché là è la Storia.
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Il compagno Avvocato Laser recensisce Point Lenana sul suo blog:
“Ciao, ti ricordi qual è il punto più alto che abbiamo raggiunto sulle Dolomiti di Brenta due anni fa? Per caso abbiamo fatto una ‘via del camino’?“.
“Boh, sarà stato 2700, non ricordo, dovrei rivedere le mappe. Abbiamo fatto i sentieri Benini e Sosat, non la via del camino“.
Rebus si sbaglia di poco, sull’altezza: il sentiero Benini, scopro in rete, tocca quota 2910 metri. La raggiunsi insieme a due amici più esperti nell’agosto 2011, alla mia prima escursione alpina. Ricordo che arrivai stremato, dopo non meno di 7 ore tra cammino e ferrata (secondo il CAI ne occorrono 4 e mezzo), incapace di muovere anche solo un passo in più.
Non saprei dire come arrivò Felice Benuzzi sulla cima Tosa, ben oltre i 3000 sulle stesse Dolomiti di Brenta, quando la raggiunse nell’estate del 1924, ma immagino che a 14 anni fosse un alpinista ben più capace di me a 31, dal racconto che ne fanno Wu Ming 1 e Roberto Santachiara nel loro Point Lenana.
Chi fosse Felice Benuzzi è proprio l’argomento del libro, che ne percorre le vicende ricomponendo una serie di tracce e documenti, che sono allo stesso tempo collegamenti, link a pagine di Storia più o meno rimossa, e di storie poco note: soprattutto storie di montagne.
Il primo indirizzo, la pagina da cui comincia e che costituisce il vero motore della ricerca e della narrazione, è un altro libro: Fuga sul Kenya (No picnic on Mount Kenya, nella sua edizione – non mera traduzione – inglese), in cui Benuzzi racconta della fuga, sua e di altri due compagni, da un campo di prigionia britannico in Africa Orientale durante la seconda guerra mondiale, con il solo fine di scalare il vicino monte Kenya per poi tornare e riconsegnarsi ai propri carcerieri.
Perché questo libro? Tutta una serie di indizi, dall’argomento – l’impresa eroica di “coloni” italiani in barba ai perfidi albionici, con tanto di tricolore issato sulla punta Lenana – alla casa editrice della prima pubblicazione, al (modesto) uso propagandistico che della vicenda venne fatto in pieno conflitto, “puzzano” di fascismo. Eppure altri elementi stridono con questo comodo pregiudizio, primo fra tutti il successo dell’opera all’estero, specialmente nei paesi anglosassoni, molto maggiore della sua celebrità in Italia. E poi basta sfogliarne le prime pagine per rendersi conto che il libro di Benuzzi ha toni tutt’altro che epici o retorici, è ricco di sensibilità e di pietà.
Il contrasto fra il contesto a cui ci si aspetta che Fuga sul Kenya debba appartenere e l’effettivo carattere del libro è stridente, ed è uno stridore fecondo: le tracce di Felice Benuzzi, nato suddito dell’imperatore d’Austria e Ungheria, trasferito da piccolo nella Trieste prima asburgica e poi italiana, quindi avviato alla carriera di funzionario civile nei territori dell’”impero” italiano in Africa, introducono e intersecano una narrazione suggestiva dell’epoca fascista. Si comincia a Trieste, che con la sua tradizione irredentista e il nazionalismo interessato della grande borghesia, è fin dal Biennio Rosso una vera e propria palestra di quello che sarà il regime e aiuta a capirne origini, sostegno, declino; ma come tutti i territori di confine, al crocevia di popoli e di lingue, di mare e di montagne, la Venezia Giulia riassume in sé le contraddizioni e la complessità che caratterizzano tutto il racconto di WM1 e Santachiara.
Se la vita di Felice Benuzzi è uno dei percorsi, l’altro sentiero che parte dalla fuga sul monte Kenya è quello che conduce in montagna e attraversa tutti i temi raccontati: è un filtro originale e affascinante attraverso cui osservare il fascismo nella sua ascesa (la montagna come simbolo di purezza ed eroismo nella propaganda del regime, la fascistizzazione del CAI epurato da alpinisti ebrei e slavi) e nella sua caduta (le montagne della Resistenza).
La montagna, oltre che cornice narrativa, è la chiave anche stilistica del libro. La stesura di Point Lenana appare un’impresa simile all’ascesa alla Punta Lenana: la sfida a un tema complesso e ricco di sfaccettature, la lunga preparazione, la ricerca degli strumenti necessari, ricordano l’approccio di un alpinista alla parete da scalare. E arrivati in cima, dall’alto, è più facile gettare lo sguardo in basso e ricomporre i pezzi del puzzle. Si può procedere a piacimento, in avanti o indietro nel tempo, cambiando registro e punto di vista, passando dal dialogo al documentario, “montando” la storia come se fosse un film a più voci.
Dopo un veloce passaggio nella Roma che negli anni Trenta si autoproclama capitale di un impero – l’impero più sfigato della storia, sicuramente – il cursus honorum di Benuzzi prosegue in Africa, ed è l’occasione per descrivere l’Italia fascista nella sua compiutezza. Soprattutto, la figura di Benuzzi consente di mettere in luce e cercare di spiegare il legame fra il regime e i cittadini: un rapporto molto più complesso di quanto venga spesso rappresentato (con la tesi del “consenso di massa” quasi incondizionato almeno fino alla guerra), fatto certamente di subordinazione e compromessi, ma allo stesso tempo, in casi tutt’altro che isolati, di gesti individuali di rifiuto, che costituiscono i precedenti necessari per comprendere il sostegno collettivo che avrà successivamente la Resistenza.
Un lavoro di ricerca colossale sostiene la descrizione minuziosa delle atrocità del regime, dalla sua ascesa fino ai suoi ultimi sussulti, attraverso le deportazioni di massa, il genocidio della popolazione libica, lo sterminio di quella etiope, con l’utilizzo delle armi chimiche vietate da ogni convenzione internazionale per la loro crudeltà. Del resto il progetto, documentato, di deportazione di massa della popolazione slovena nei territori slavi occupati durante la guerra, non ha davvero nulla da invidiare ad altre analoghe “soluzioni finali”.
Viene così smontata pezzo per pezzo la narrazione costruita e rinforzata da decenni di rimozione collettiva del “colonialismo dal volto umano” e del “fascismo sostenuto da un consenso di massa fino alla guerra”: una narrazione iniziata praticamente dal giorno stesso della caduta di Mussolini, considerato da troppi l’unico responsabile di tutto ciò che non è possibile “giustificare” in un comodissimo scarica-barile, proseguita dopo la guerra con il reinsediamento del personale fascista nelle questure e nelle prefetture, galvanizzata dall’amnistia concessa da Togliatti fin dal 1946.
[“Voglio… amnistiare i fascisti“, recitava un post-it appeso da un anonimo trotzkista nel circolo del PRC di Pavia durante la campagna di Bertinotti per le primarie dell’Unione nel 2005].
Contro una memoria ricostruita a uso e consumo delle larghe intese, inquinata dal revisionismo sempre più istituzionale, Point Lenana è una sorprendente boccata di aria pulita: aria di montagna, appunto. Approfittiamone, perché non capita spesso di respirarne.
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Franco Berteni/Mr. Mill, dopo avere organizzato e introdotto la presentazione di Pisogne ha scritto una lunga e densa recensione di Point Lenana e l’ha messa su Anobii, social network purtroppo agonizzante:
UNA VOLTA IN CIMA TOCCA SEMPRE SCENDERE
«A te piace dissotterrare le storie, no?» Un affastellarsi di storie, di voci. Un accumulo che mentre procede la lettura prende forma, in cui ogni elemento lascia un segno nell’esperienza di lettura che via andando – pagina dopo pagina – traccia una mappa. Dispiegandosi la mia personale mappa, vi ho trovato più di un invito a seguire un percorso che portava oltre quello che mi trovavo sotto agli occhi, oltre i bordi di una narrazione che, seppur dai tratti poliedrici, è per definizione chiusa, essendo compressa in un “oggetto libro”. Non è facile scrivere di Point Lenana, perché invita il lettore a essere quanto mai attivo e recettivo, per la stratificazione della narrazione, e perché l’accumulo di stimoli si connette con vissuti personali, interessi ed esperienze. Nel mio caso, sono nato e cresciuto fra le montagne, mi sono appassionato negli anni alla letteratura *di montagna*, durante l’infanzia in estate per anni venivo ospitato da parenti – Giugovaz (!) – a Trieste, la mia genealogia famigliare è segnata dall’«salire in montagna». Va aggiunto che ho avuto il piacere di prestarmi come lettore di prova per Point Lenana, così da intrecciare, nei miei giusti tempi, i quadri narrativi contenuti nel libro con questo mio vissuto, tracciando poi su sollecitazione di questa lettura delle narrazioni che nascevano nel libro ma prendevano corpo fuori da questo, eccedendolo: la memoria del colonialismo italiano rintracciata nei luoghi in cui sono cresciuto, i conflitti su questa memoria, l’esperienza resistenziale nella sua complessità di guerra civile, di liberazione e di classe, storie del confine orientale riflesse in oggetti che conservo. It’s been a long strange trip è la frase che apre i “Titoli di coda” di Point Lenana: lo è stato anche per me, e spesso in maniera sorprendente.
«Non mi ero mai interessato di montagna. Roberto si, eccome.» Gli autori di Point Lenana sono uno scrittore cantastorie nato e cresciuto in pianura, un appassionato di montagna che di mestiere fa l’agente letterario. Dall’iniziale condivisione di un’idea, dal dono di un libro, prende origine un movimento che connessione dopo connessione si sviluppa e produce un testo, mediante un processo di ricerca – delle fonti, nell’immedesimazione fisica, delle forme e dei registri narrativi – in cui il lettore è accompagnato attraverso una metanarrazione: sensazioni, considerazioni, riflessioni, sono tutte fuse in un unico io-narrante. Come nella progressione in cordata, a guida alternata e in conserva, Santachiara e Wu Ming 1 si muovono simultaneamente, svolgendo contemporaneamente il ruolo di chi assicura e di chi è assicurato, accettando e condividendo i rischi, mettendo in comune la propria specifica esperienza. Raccontare una storia – quella di Felice Benuzzi e del suo Fuga sul Kenya. 17 giorni di libertà ¬ diventa così il pretesto per moltiplicare i piani narrativi e, di storie, raccontarne molte. L’elenco dei personaggi che compaiono in Point Lenana – il cui racconto di sprazzi delle singole biografia tesse uno sfondo di contestualizzazione storica e sociale – è lungo e vario, e ognuno, in modi differenti, orbita attorno alla vita di Benuzzi, rafforzando la complessità del personaggio e garantendo un sicuro appiglio al lettore, quando mai ne sentisse il bisogno. Ad ogni modo «in questo libro, nessuno e menzionato a casaccio», ogni personaggio è un tassello che trova la sua collocazione nella narrazione e che apporta a questa maggiore ricchezza e, al contempo, ne amplifica la complessità.
«Questa storia è così, ovunque ti giri trovi alpinisti». Point Lenana è un libro che parla di montagne e di alpinisti, lo fa portando questo mondo fuori dalla nicchia in cui in Italia rimangono sovente rinchiusi i libri etichettati come “letteratura di montagna”, cosa che, fra i tanti, è successo anche a Fuga sul Kenya, non favorendone certo la diffusione. Eppure guardare a come è mutato l’andare per montagne, alla «metafora primaria» del «verso su» e del «verso giù», offre uno sguardo obliquo e sghembo sul mutare di un’intera società; interrogare poi il rapporto unico fra alpinismo e scrittura, fra azione e margini dell’azione, scavare nella rappresentazione di quel intramondo in cui l’alpinismo di svolge, scriverne a propria volta, significa occuparsi anche di cosa cazzo voglia dire sentirsi un essere umano. A questo proposito si rintraccia in Point Lenana un filone dark, esistenzialista, nella figura stessa di Felice Benuzzi, ma soprattutto in quella di Emilio Comici: il più grande scalatore italiano della sua epoca, rivoluzionario del VI grado, personaggio controverso, sfuggevole a ogni tentativo di inquadramento, incline a momenti di blues e cadute profonde nel suo spleen. Le pagine a lui dedicate sono quelle che più mi hanno colpito, per desiderio d’autenticità e per intimità, si potrebbe arrivare a dire di femminilità. A proposito va nominato un personaggio che è citato marginalmente nel testo – almeno in proporzione alla sua influenza da me percepita in filigrana in Point Lenana, un’influenza che possiamo dire determinante – ma a cui Point Lenana stesso è dedicato: Gian Piero Motti, alpinista e scrittore torinese, appartenente con altri alpinisti al cosiddetto “Circo volante”, colui che teorizzò il “Nuovo mattino” – portando nell’alpinismo, praticato e scritto, le spinte libertarie dei movimenti protestatari degli anni Sessanta e Settanta – caratterizzandosi sempre per uno sguardo critico sul suo mondo – quello dell’alpinismo – che è parallelamente anche critica sociale. Negli scritti dell’epoca di Motti – raccolti nel volume I falliti ed altri scritti – si trova la stessa sensibilità umana che Wu Ming 1 Santachiara attribuiscono, a mio parere correttamente, a Comici, ma anche al Benuzzi di Non solo sassi contagiato dal relativo bacillo; una sensibilità lontanissima da quella dell’alpinismo eroico con le sue ossessioni da superuomo di derivazione romantica, amplificate poi nella retorica fascista e rimaste intatte in Italia fino alla metà degli anni Settanta. Motti, chiaro e senza lasciare possibilità di fraintendimenti, nel 1974 scriveva: «Sarei felice se su queste pareti potesse evolversi sempre più quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostata invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza» (G. Motti, Scandere).
«E Felice: – I shave him every day.» In qualche modo, Motti – Comici – Benuzzi, seppur separati spazialmente e temporalmente, parlavano la stessa lingua, sia per quanto riguarda la concezione dell’alpinismo (certo, non in modo perfettamente sovrapponibile) che più in generale per una certa tensione a un modo di vivere la vita che è risonante fra loro; questa tensione era anche un’inquietudine, quella che spinge ad andare in montagna e trovare lì, nell’azione e nella realizzazione di vie nuove o da ripetere, un riempitivo per le ansie quotidiane, un senso di pienezza che fa sentire vivi. Nella solitudine e nel silenzio della montagna, distaccati dal vociare e dagli eventi mondani, l’azione può diventare feticcio e a volte, come scriveva Motti, “onanismo” o “masturbazione spirituale”, distacco solipsistico, dipendenza. L’azione concentrata, come scrisse Benuzzi, distrae, ma non risolve, l’azione che “realmente guarisce, non esiste”, è illusione, perché all’azione “non bisogna domandarle di più di quello che può dare”; la conclusione di Benuzzi è doppiamente rivoluzionaria quanto lapidaria: fare dell’azione concentrata “un’idolatria è folle”, “esiste il campo di concentramento, ma non l’azione concentrata!”. Questa consapevolezza maturata da Benuzzi nel salire e poi scendere dal Monte Kenya, nel riconsegnarsi al campo e accettare la condizione di prigioniero di guerra, rappresenta il limite all’idea stessa del condurre una vita al di fuori della possibilità – parafrasando Sartre – di decidere cosa fare con ciò che ci è stato fatto. Il rapporto del singolo con il tritacarni della storia, quella dalla esse maiuscola, che consuma le singole esistenze e a cui il gesto individuale di distinzione, se non quando proprio di dissenso, paga pegno, ricadendo sulle spalle di chi lo compie con coraggio e responsabilità, è il costo della libertà. Motti e Comici, al di là del possedere la consapevolezza così ben esposta da Benuzzi, scelsero il suicidio, mascherato o meno che fosse (Se [Comici] fosse sopravvissuto alla depressione senza farsi saltare le cervella…); stesso epilogo lo incontriamo in Point Lenana nelle 118 persone suicide nella Trieste redenta del 1920; in Giuàn Balletto che con Benuzzi aveva raggiunto la Punta Lenana; nelll’alpinista Matthias Zurbriggen di cui Benuzzi scrisse una biografia; in Antonia Pozzi, poetessa alpinista.
«La testa scoperchiata e il cielo dentro.» Point Lenana è un libro che scuote dal torpore, dal tedio, in una parola dall’alienazione, esorcizzando il suicidio che è riparo, senza condanne e senza puntare il dito contro la fragilità umana, rivestendola anzi di un valore politico; la scelta – la consapevolezza delle scelte – e le conseguenze di questa, là fuori dai nostri regni formato cranio, segnano l’intero arco temporale di una vita e, per chi diffida del pensiero sistematico, rendono la vita almeno dignitosa, una buona vita spesa a non dimenticare che “azione è uscire dalla solitudine” (L. Pintor).
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Il giornalista, scrittore e storico dell’alpinismo Enrico Camanni recensisce Point Lenana su dislivelli.eu:
Wu Ming 1, ormai celebre scrittore bolognese, è molto più avvezzo alle suggestioni urbane che al richiamo delle cime. Roberto Santachiara, al contrario, è quel che si dice un “patito di montagna”, nel senso che si diletta e si strugge a salirla, leggerla e raccontarla. L’incontro tra uno scrittore sperimentale e un alpinista appassionato e colto sarebbe già motivo di curiosità, di per sé, se non fosse maturato per di più all’ombra di una storia mitica e strampalata come la scalata del Monte Kenya per piede di Felice Benuzzi e compagni nel 1943, tutti giovani internati in un campo di prigionia africano. La Punta Lenana è stata una fuga-scalata così insensata e allegorica da diventare un romanzo, un film e ora una specie di viaggio di formazione storica e culturale, nel dipanarsi del racconto di Wu Ming e Santachiara che mischiano la biografia di Benuzzi e le autobiografie personali, citazioni letterarie e luoghi autentici, dissertazioni filosofiche e brani di vita vera, a cavallo tra Trieste e l’Africa, e tra la seconda guerra e oggi. Ne esce un racconto senza soluzione di continuità come negli altri libri di Wu Ming, una “scorribanda nel Novecento” che corre liberamente nello spazio e nel tempo attaccandosi a tutte le storie che incontra. Un libro da leggere per imparare, se si vuole (la bibliografia è importante), oppure per il puro piacere di vivere in altri posti e in altre vite.
E se la cosa va in porto, il 31 luglio farò il sentiero attrezzato del Vaio scuro, sui Monti Lessini, sicuramente l’escursione più impegnativa del tour.
Per Wu Ming1 (e chi altri voglia). Ho appena finito di leggere Point Lenana. Avevo letto “Fuga sul Kenia” anni fa, rimanendone incuriosito, ma senza particolari entusiasmi. Point Lenana mi ha invece divertito, appagato, ipnotizzato. Una lettura che rimane dentro e fa crescere divertendo. Un paio di precisazioni: POW italiani provenienti dall’AOI sono stati (e sono morti) in campi di prigionia inglesi anche in Rhodesia (oggi Zimbabwe) che invece è omessa dalla lista dei paesi sede di campi POW che appare nel libro. Io stesso ne ho visitato uno nel 1997.
Mutilazioni genitali femminili: per quel che ne so la cliterodoctomia (escissione della clitoride o circoncisione femminile, cioè l’asportazione totale o parziale della clitoride) è cosa diversa dalla infibulazione, Quest’ultima, praticata soprattutto in Somalia e immediati dintorni, consiste in una specie di cucitura delle labbra della vagina praticata appunto con una fibula, una grossa spina o strumento simile. Nel libro le due pratiche vengono sottintese come coincidenti, ma non lo sono sotto molti aspetti. Chiedo venia per la pedanteria.
Visto che a WUMING1 piacciono le storie scomode e le cerca io, se vuole, posso suggerirne una. Riguarda il primo comandante della formazione garibaldina romagnola, veneto di origine, fucilato da altri partigiani, coperto di infamia, mai riabilitato, almeno in Romagna. Riguarda la fuga di un gruppo di POW, inglesi e generalissimi questa volta (fra cui una medaglia d’oro olimpica e un conte campione di tennis), che vagano per la Romagna occupata dai nazifascisti da settembre a dicembre del ’43 fino a passare le linee e ricongiungersi con le forze alleate. Riguarda la trafila di solidarietà e di organizzazione clandestina in Romagna che permise la riuscita della fuga degli inglesi. Riguarda l’incontro fatale fra il comando partigiano e i generali inglesi. Riguarda il supporto spontaneo e capillare delle popolazioni della montagna romagnola ai militari alleati in fuga. Riguarda diverse visioni della lotta armata e dell’opposizione al governo di Badoglio e del Re. E altro ancora. A WuMing1: se questa storia ti può interessare te la racconto. (rgaleotti2003@libero.it).
Grazie davvero per l’apprezzamento e per le osservazioni. In effetti hai ragione, è improprio usare “infibulazione” e “clitoridectomia” come sinonimi, visto che sto preparando una lista di correzioni per la ristampa, posso includere anche una riformulazione delle tre frasi dove questo succede. Anche la tua descrizione, comunque, mi sembra imprecisa: a quanto mi consta, l’infibulazione comprende la clitoridectomia: l’intero processo consiste nell’escissione di clitoride e grandi labbra e poi cucitura della vulva. L’infibulazione in Kenya è praticata, anche se non presso i Gikuyu, dove si pratica “solo” la clitoridectomia.
Riguardo all’altra questione, in Point Lenana non ricordo liste di paesi sede di campi POW, a quale passaggio ti riferisci?
Storie scomode di partigiani ne abbiamo raccontate e frequentate tante e non ci tiriamo mai indietro quando si tratta di conoscerne un’altra! Per favore, raccontacela, l’indirizzo è wu_ming@wumingfoundation.com
a pag. 509 di Point Lenana è riportata una lista di paesi in cui si trovavano POW italiani alla data dell’8 settembre. Fra questi non è inclusa l’allora Rhodesia (oggi Zimbabwe). Il campo POW di italiani che ho visitato si trova alla periferia di Masvingo. Quello che rimane è una chiesetta, dedicata a S. Francesco ( se non ricordo male), costruita dai reclusi, ancora ben tenuta, circondata da una corte/giardino recintato. All’interno e all’esterno della chiesetta le lapidi dei POW italiani morti durante la prigionia.
Ok, ritrovato. Direi che è senz’altro il caso di aggiungere la Rhodesia, grazie.
E’ solo da pochi mesi che vi conosco (voi Wu Ming) e che seguo questo sito. Purtroppo.
Non mi odiate ma temo di essere diventato un vostro fan. Vi volevo ringraziare per come scrivete, per quello che scrivete… 54 è straordinario, Point Lenana.. raramente ho letto qualcosa di più avvincente. Più che libri, le vostre opere sono antidoti alla schifezza culturale e all’ignoranza che quotidianamente ci sovrasta. Siete tutti riusciti a dare una voce alla mia coscienza, al mio essere “di sinistra”. Spero tanto di poter partecipare all’escursione sui Sibillini e stringerti la mano di persona.
Saluti! Continua così. Continuate così!!!
Non ho trovato nuove storie di partigiani però dopo Point Lenana ho letto Sette Anni in Tibet di Harrer e ho trovato un frammento che mi ha fatto pensare.
Nelle prime pagine del libro Harrer parla del suo compagno del primo tentativo di fuga dal campo POW di Dehradun in India, un certo generale Marchese, e dice che questi gli aveva parlato diffusamente della guerra di Etiopia.
Sto leggendo Point Lenana da quando lo acquistai una sera a al Communia, durante la presentazione degli autori.
Purtroppo vado molto piano perché ogni 2 pagine trovo un argomento interessante da approfondire.
Non so neanche se riuscirò mai a finirlo di sto passo, visto che mi sto perdendo appresso a polemiche tra alpinisti, storia militare della prima guerra mondiale (la prendo larga sempre purtroppo), irredentismo, esperienza fiumana e colonialismo.
Volevo segnalare comunque un libro che mi ha fatto conoscere molto riguardo alla violenza dell’occupazione italiana ” Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951)”. @ kumar Harrer per me è un enorme testa di cazzo