[Il 12 agosto 2012 veniva inaugurato ad Affile (RM) il Vespasiano di Sangue in memoria di Rodolfo Graziani, macellaio d’Italia. Nonostante le polemiche, le maledizioni abissine e la revoca dei fondi regionali, il monumento è ancora lì e non più tardi del 29 giugno scorso, ha visto riunirsi a convegno un centinaio di fascisti, con il solito corredo di saluti romani. Per non dimenticare questa vergogna, nei prossimi giorni pubblicheremo qui su Giap due articoli sulla memoria del colonialismo italiano.
Cominciamo con il nuovo numero di Studi Culturali (n°2, Anno X), rivista pubblicata dalla casa editrice Il Mulino. In copertina, la notissima foto di Mario Balotelli in versione Hulk, e all’interno una “tavola rotonda” a cura di Gaia Giuliani intitolata: La sottile linea bianca. Intersezioni di razza, genere e classe nell’Italia postcoloniale. Obiettivo di questa sezione “è raccogliere suggestioni provenienti da un numero ampio e interconnesso di discipline al fine di indagare le dimensioni sia discorsive sia materiali dell’immaginario razzista italiano”. Qui di seguito riportiamo l’intervento di Sonia Sabelli – su Timira e L’ottava vibrazione – preceduto dalla “didascalia” scritta da Daniele Salerno per commentare l’immagine di copertina. Buona lettura.]
L’incredibile Hulk “azzurro”. Così molti giornali italiani e stranieri, riprendendo il titolo di El País, definirono Mario Balotelli all’indomani della semifinale dell’Europeo 2012, vinta dall’Italia grazie a una doppietta del calciatore nato nel 1990 a Palermo da genitori ghanesi e cresciuto in una famiglia bresciana.
La definizione si deve alla foto che pubblichiamo in copertina. Balotelli esulta dopo il secondo goal, quello della vittoria, segnato contro la nazionale tedesca: messa la palla in rete, il giocatore si sfila la maglia, lasciandola cadere ai suoi piedi, e tende i muscoli; sul braccio destro è ben visibile il lutto indossato dalla squadra per ricordare Manuele Braj, soldato italiano morto pochi giorni prima in Afghanistan. Le ginocchia sbucano tra i calzettoni azzurri – orlati dal tricolore – e i pantaloncini bianchi con il gagliardetto della nazionale e la scritta Italia.
In quella definizione sta tutto il meaning of Mario, per riprendere il titolo della copertina che Time dedicherà qualche mese dopo a Balotelli: un Hulk, ma azzurro; un italiano, ma nero. Due aggettivi di colore che vanno a mutare un tratto semantico dei sostantivi cui si riferiscono: l’essere verde di Hulk e soprattutto la, storicamente costruita, bianchezza dell’italiano, argomento della tavola rotonda curata da Gaia Giuliani che costituisce il cuore di questo numero di Studi Culturali.
La figura di Balotelli invade lo spazio semantico della bianchezza italiana e lo fa da un luogo discorsivo centrale dell’immaginario nazionale e maschile: il campo di calcio. E non un campo di calcio qualsiasi, ma il rettangolo di gioco dove va in scena il rito sportivo per eccellenza: l’eterna sfida Italia-Germania, che rinnova ogni volta la memoria di uno dei miti (ri)fondativi dell’identità nazionale del secondo dopoguerra, Italia – Germania 4 a 3 (anche quella una semifinale).
Come il protagonista di Autobiografia del rosso, un romanzo di Anne Carson, Balotelli costringe all’aggettivazione, così da modificare sostantivi che non ne includono l’identità e di cui il calciatore, con l’esposizione del suo stesso corpo, mette in crisi i significati: a cominciare proprio da quelli legati al campo semantico dell’italianità. La parola aggettivo, come ci ricorda sempre Carson, è a sua volta un aggettivo: epítheton che in greco significa “apposto”, “aggiunto”, e quindi “importato”, “straniero”, e il cui prefisso – epí – usiamo ancora oggi per formare la parola epidermide. L’incredibile Hulk “azzurro”, dunque. L’italiano nero. E forse, un giorno, molto più semplicemente: l’italiano.
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Quale razza? Genere, classe e colore in Timira e L’ottava vibrazione
di Sonia Sabelli
In questi ultimi giorni la stampa italiana ha definito la neoministra italocongolese Cécile Kyenge come la prima donna «di colore» (come se dire «nera» fosse un insulto e come se il bianco fosse un non-colore) ad assumere l’incarico di «ministro» (al maschile, come se un ministro non potesse essere una donna e come se la gente nera non avesse un sesso). Non è dunque un caso che l’interessata abbia dovuto ribadire di essere una donna nera e di esserne fiera. Evidentemente, come ci insegnano le femministe e le lesbiche afroamericane, sessismo e razzismo agiscono sempre simultaneamente: sono «sistemi interconnessi di dominio che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (hooks 1991, 39). A partire da questa consapevolezza, riprendo qui alcuni degli stimoli offerti dall’intervento di apertura di Gaia Giuliani sull’identificazione tra bianchezza e italianità e sulle intersezioni di genere, classe e colore, per verificare come tali temi siano rappresentati nella letteratura italiana contemporanea. Il mio intervento si concentra in particolare su due romanzi, L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli (2008) e Timira. Romanzo meticcio di Wu
Ming 2 e Antar Mohamed (2012), che testimoniano il recente interesse mostrato da alcuni scrittori molto noti per la storia coloniale italiana.
Nella postfazione, Lucarelli presenta il suo bestseller come «un romanzo
storico ambientato in Eritrea attorno alla battaglia di Adua» (1896). Passata alla storia come una «disfatta» – secondo la prospettiva colonialista incarnata dal narratore del romanzo è «la più grande sconfitta mai subita da un esercito coloniale europeo» (Lucarelli 2008, 441) – Adua si configura piuttosto, agli occhi del popolo etiope e dei movimenti panafricani, come quella «vittoria africana» (vedi Haile Gerima, Adwa. An African Victory, documentario, Etiopia, 1999) che ha messo in questione «la “supremazia bianca” dei discorsi europei e il progetto di intensificazione dello sfruttamento dell’Africa» (Derobertis 2010, 16). Il romanzo di Lucarelli, però, col suo sguardo esotista, saturo di stereotipi razzializzanti che riecheggiano la letteratura e la fotografia di epoca coloniale, non opera quel rovesciamento dei punti di vista che ci si aspetterebbe da un romanzo contemporaneo, confermando quanto la prospettiva postcoloniale non sia una questione cronologica ma di consapevolezza critica. Timira, invece, fin dal sottotitolo, si propone esplicitamente di attraversare la linea del colore, mescolando memoria, documenti d’archivio e invenzione narrativa: nella quarta di copertina si spiega che il romanzo è stato scritto a sei mani da «un cantastorie italiano dal nome cinese [Wu Ming 2], insieme a un’attrice italosomala ottantacinquenne [Isabella Marincola, sorella del partigiano nero Giorgio] e a un esule somalo con quattro lauree e due
cittadinanze [suo figlio Antar Mohamed]» – anche se poi sarà pubblicato dopo la morte di Isabella, che perciò compare solo come protagonista e non come figura autoriale. Un particolare non secondario, se affiancato alla consapevolezza (che emerge negli «interludi») della relazione gerarchica che si instaura necessariamente tra chi detiene il potere di raccontare la propria versione delle storia e chi invece viene raccontata/o, oltre che dei rischi connessi all’interiorizzazione di una mentalità coloniale, sempre in agguato nelle nostre teste di occidentali (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 345).
Qui analizzo in particolare le rappresentazioni della bianchezza e della nerezza che compaiono nei due testi, a partire dalle loro intersezioni con la costruzione del genere e dell’italianità. La costruzione dell’italianità segue percorsi
diametralmente opposti nei due testi, per ovvi motivi di ambientazione storica:
se Timira costituisce un tentativo di decostruire l’identificazione tra colore e nazione nell’Italia dei respingimenti e del pacchetto sicurezza, L’ottava vibrazione si inserisce senza soluzione di continuità in quella tradizione letteraria che narra l’Africa come «il lato oscuro», il «cuore di tenebra» (vedi i versi in epigrafe che spiegano il titolo del romanzo) e che legge il colonialismo come una metafora avventurosa e come uno dei miti fondativi della nazione e della maschilità bianca, oppure, per usare le parole dell’autore, come «il nostro Far West» . Certo, si deve riconoscere a Lucarelli la capacità di evidenziare le continuità, spesso dimenticate, nella storia del colonialismo italiano, dall’età liberale, in cui si svolge il romanzo, all’impero fascista, che si distinguerà per l’aspetto specifico delle politiche sessuali improntate sulle leggi razziali, con la criminalizzazione delle unioni miste e il divieto di riconoscere i figli nati da esse. Inoltre, è significativa la presenza tra i soldati coloniali di un socialista che ammira Andrea Costa (il deputato che nel 1887, durante il dibattito parlamentare sul rifinanziamento della missione coloniale seguito al massacro di Dogali, aveva affermato «né un uomo né un soldo») e dell’anarchico internazionalista Pasolini, che non perde occasione per mettere in evidenza «le contraddizioni del sistema» e si rifiuta di combattere declamando ad alta voce i versi di Ulisse Barbieri: «ma non capite, o branco di cretini, che i patrioti sono gli abissini?» (Lucarelli 2008, 36 e 257). Ma vi sono altri elementi che ripropongono la funzione storica del colonialismo in quanto metafora della costruzione della maschilità italiana come bianca e coloniale. Ad esempio, la descrizione del soldato «insabbiato» Sciortino come un contadino meridionale poco intelligente, che non ha pensieri ma solo sensazioni, e agli occhi dei commilitoni «sembra un abissino» (ivi, 389), riproduce gli stereotipi razzisti sul Mezzogiorno d’Italia come sinonimo di arretratezza e sottosviluppo. Mentre l’insistenza quasi ossessiva sulle varietà regionali dell’italiano che caratterizzano la parlata dei soldati è un segno della mancanza di omogeneità linguistica e culturale di una nazione che ha appena avviato il suo processo di unificazione linguistica e culturale; in questo contesto, si inserisce la percezione della Colonia Eritrea come il luogo in cui i soldati e i funzionari coloniali che popolano il romanzo di Lucarelli possono realizzare il sogno di coprirsi di gloria e soddisfare il desiderio di provare emozioni forti, diventando degli eroi. Se è vero che queste rappresentazioni corrispondono alla necessità di costruire una memoria del colonialismo italiano, è anche vero che quella di Lucarelli – come ha affermato Paolo Jedlowski – è «una memoria che non prende posizione» oppure – come ha precisato Giulietta Stefani – «questa posizione è a tratti ambivalente», proprio per la mancanza di una problematizzazione, evidente soprattutto nelle rappresentazioni stereotipate dei personaggi, sia colonizzati che colonizzatori, e delle relazioni tra i due gruppi.
Ritengo invece che siano proprio le relazioni tra i due gruppi, e in particolare le rappresentazioni del colore, del genere e della sessualità, i nodi cruciali su cui si gioca la possibilità di rilevare in questi testi una prospettiva postcoloniale, che contribuisca a decostruire gli stereotipi razzisti, sessisti e disumanizzanti, oppure a rinforzarli.
In un documentario che significativamente si intitola Quale razza (A.Amadei, video-intervista con Isabella Marincola, Motoproduzioni, 2008 ) Isabella Marincola incalza così il suo intervistatore: «Io sono un’italiana, con la pelle scura. ti va bene a te? O sei anche tu un razzista? […] mi ricordo che qualcuno mi ha detto: “sei la vergogna della razza!” Allora mi sono chiesta: “quale razza?”». Gli stessi interrogativi ritornano in Timira, quando la protagonista reagisce agli insulti razzisti decidendo di dedicarsi «con grande entusiasmo» a questa particolare abilità, essere «la vergogna della razza», che ha il potere di disorientare i suoi interlocutori (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 279-80). Figlia di una donna somala e di un soldato coloniale che decide di allevare lei e il fratello in Italia, perché convinto che «il figlio meticcio, quando educato da italiano, possa aspirare
alle stesse conquiste di un italiano intero» (ivi, 50), da bambina Isabella è convinta di avere la pelle nera per via del sole di Mogadiscio (ivi, 103). Da adulta, invece, reagisce al razzismo identitario che la considera automaticamente una straniera, una «profuga in patria» (ivi, 181), perché non coincide con la norma somatica bianca, rivendicando la possibilità di identificare nerezza, meticciato e italianità.
Isabella si autodefinisce infatti come «un’italiana dalla pelle scura» (ivi, 395), ma sa bene che per la mentalità comune questo è ancora un ossimoro: «se sei italiano e hai la pelle scura, sei una contraddizione vivente. Devi dimostrare che sei davvero italiano, devi essere più italiano degli altri» (ivi, 449). Paradossalmente, lo stesso trattamento le viene riservato sia dall’amica albanese Merushe – di fronte alla quale deve ribadire di essere italiana nonostante la propria nerezza (ivi, 120) – sia in Somalia, dove la chiamano «gaal», infedele, e dove suo figlio si rifiuta di frequentare la scuola italiana perché vorrebbe dire che si vergogna di essere somalo (ivi, 425). L’unica soluzione che le permetta di sfuggire alla logica nazionalista, identitaria e razzializzante in cui si trova intrappolata suo malgrado, è quella di riaffermare una duplice appartenenza: «la mia patria era l’Italia, mentre la Somalia era la mia matria» (ivi, 282), conclude Isabella citando implicitamente Igiaba Scego: «Eravamo dei dismatriati, qualcuno – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia» (Scego 2005, 11).
In entrambi i romanzi, l’affermazione della bianchezza come sinonimo di
italianità è complementare alla svalutazione della nerezza, considerata come
la quintessenza dell’alterità. Nell’Ottava vibrazione, in particolare, l’avanzare
dell’esercito del Negus ad Adua, anticipato dal rombo assordante dei tamburi e da un «puzzo aspro e feroce» che è l’«odore di altra gente, di altri soldati», è descritto come «un’onda nera», una «marea che cresce, un flusso inarrestabile, che arriva di corsa, urlando» (Lucarelli 2008, 425-426), quasi a riprodurre le immagini minacciose e inquietanti di «orde» ed «esodi biblici» spesso associate alle migrazioni contemporanee. In perfetta continuità con l’immaginario coloniale, i soggetti colonizzati sono rappresentati sempre come esseri inferiori e animaleschi: c’è un ascaro con la «faccia da cavallo» (ivi, 16, 19), il piccolo Berè squittisce «come un topo» (ivi, 69), un altro bambino è «nero e irsuto proprio come una scimmietta» (ivi, 242) e Sabà si aggrappa al suo soldato «come una scimmia» (ivi, 138), fino all’estremo di Aicha che, dall’inizio alla fine del romanzo, è apostrofata soltanto come «la cagna nera» (ivi, 11, 12, 14, 80, 194, 446). secondo il narratore «Aicha è un animale, è una iena, un gatto nero, che filtra il mondo attorno soltanto con i sensi» (ivi, 233) e come un animale non possiede nemmeno la capacità di parlare: «Aicha non ha parola, non ha pensieri, solo sensazioni, come una iena o un gatto nero» (ivi, 235). Più in generale, le rappresentazioni delle donne nere oscillano tra le due figure femminili tipiche dell’immaginario coloniale – Aicha, la prostituta «nuda, sporca e nera» (ivi, 13), dalla «sensualità selvaggia e rovente» (ivi, 87), che esiste solo per soddisfare i desideri sessuali dei maschi italiani, e Sabà, la madama dolce e servizievole, che è un gradino più in alto nella gerarchia razzializzante perché «non è una selvaggia, è
una donna, è la madama di un ufficiale italiano» (ivi, 71), e infatti parla l’italiano e si prende cura del soldato Branciamore come se fosse sua moglie, anche se «lui ce l’ha già una moglie, in Italia» (ivi, 137). Comunque, entrambe le figure sono sempre posizionate in una relazione di inferiorità gerarchica con l’apparente candore, peraltro solo esteriore, delle donne bianche e italiane, come nel caso di Cristina (ivi, 86-87 e 96-97), la moglie del cavalier Leo Fumagalli, «bello e ricco e troppo preso dal sogno di fare un giardino della Colonia italiana d’Eritrea» (ivi, 24). Le donne nere rimangono dunque imprigionate nei soliti stereotipi razzisti, sessisti e disumanizzanti: «le negrette […] con le poppe di fuori […] la Venere nera, la Circe
d’Africa […] vado in Colonia e me le trombo tutte» (ivi, 35); mentre gli uomini neri sono rappresentati come «i negroni […] che hanno fatto a pezzi gli inglesi […] così cattivi, ma così cattivi, che si limano i denti a punta per mordere […] vi tagliano l’uccello […] ve lo schiaffano nel culo […] un’orda di negri disumani» (ivi, 35-36), e dunque come una minaccia costante per la virilità bianca e italiana, che deve proteggersi dal rischio di una castrazione non solo simbolica (ivi, 118). Le uniche figure maschili che trasgrediscono la rappresentazione esclusivamente eteronormativa della sessualità – la coppia omosessuale composta dai due zaptiè (carabinieri indigeni) Ahmed e Gabrè, che in realtà sono spie del Negus, e il maggiore Flaminio, l’ufficiale «effeminato» che si eccita alla vista del sangue giovane – rimangono piuttosto marginali e appaiono come delle mere eccezioni che servono a riconfermare la regola e la superiorità di una maschilità bianca, italiana ed eterosessuale.
Decisamente più complesse appaiono le rappresentazioni del genere, della classe e del colore in Timira, non solo in virtù del più dilatato arco temporale in cui si sviluppa il romanzo ma soprattutto grazie alla moltiplicazione delle voci e dei punti di vista, che offrono a chi legge la possibilità di una seria presa di distanza critica e non un mero rispecchiamento della prospettiva colonialista.
La lettera con cui il maresciallo Marincola annuncia al fratello la decisione di far allevare in Italia i figli «meticci» ci restituisce immediatamente l’assurdità di un razzismo paternalista che serve a confermare il potere civilizzatore del colonizzatore bianco. Inoltre, la reazione del suo superiore ribadisce subito il nesso già rilevato sopra tra affermazione del potere coloniale e conferma della maschilità bianca ed eterosessuale: «per quanto lo riguardava una sola cosa era fondamentale: che lo sfogo della nostra maschile esuberanza non facesse venire meno la virilità, la spina dorsale e il prestigio, senza il quale centinaia di migliaia di individui non resterebbero sottomessi a poche migliaia» (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 51).
Nel racconto delle suore missionarie che la accompagnano in Italia, Isabella è
descritta, secondo il cliché colonialista, come una «bimba selvaggia» dal «musetto d’ambra» (ivi, 64-67), mentre agli occhi di Flora Virdis, la moglie del padre, appare come «l’immagine del peccato di suo marito» (ivi, 68) ed è «stupida come una scimmia» (ivi, 91). Per il figlio Antar, che si prende cura di lei quando ritorna in Italia da «profuga nel suo paese», questa donna indipendente e appassionata rappresenta una presenza scomoda e ingombrante, che arriva a mettere in crisi anche il suo rapporto di coppia; mentre per lo scrittore Wu Ming 2 è una fonte inesauribile di storie da raccontare. La stessa protagonista, a tratti, interiorizza lo sguardo razzializzante che fa della nerezza un disvalore, simbolo di bruttezza e animalità (ivi, 94), tanto da convincersi di essere sterile, secondo la peggiore propaganda fascista «che descriveva muli e mulatti come una razza bastarda di ibridi infecondi» (ivi, 307). Poi però ci regala pagine esilaranti, quando riesce a ironizzare sugli atteggiamenti sessisti, razzisti ed esotizzanti degli italiani: sul datore di lavoro che identifica la sua pelle nera con «promesse di sesso facile, selvaggio e caldo come una notte equatoriale» (ivi, 128) e sull’ossessione degli italiani per «il culo delle donne somale» (ivi, 295); su coloro che negli anni Trenta la vezzeggiano «come una bertuccia ammaestrata» perché vedono in lei «l’icona dell’avventura coloniale» o sul commerciante che la sceglie per reclamizzare degli occhiali con la montatura d’avorio «perché il bianco risalta bene sulla pelle nera o perché l’avorio, gli elefanti, l’Africa, la venere nera…» (ivi, 169); su coloro che ridono della sua eleganza perché ai loro occhi evoca «l’immagine di una scimmia con gli occhiali» (ivi, 170) o su chi si stupisce della sua cultura «perché una morettina così ben istruita, capace di tradurre dal greco e dal latino, non poteva discendere da una stirpe di cammellieri e bingobongo» (ivi, 205); ma anche su chi dà per scontato che lei e il fratello Giorgio debbano avere l’antifascismo nel sangue, perché «figli della colonia», mentre durante il ventennio Isabella è impegnata su un altro fronte, a combattere la sua «resistenza da camera contro un duce in gonnella» (ivi, 187-188). La matrigna è infatti colei che vorrebbe confinarla nei ruoli di «mignotta» o «servetta» (ivi, 206) che sono stati storicamente attribuiti alle donne nere e immigrate, quegli stessi ruoli che le verranno offerti quando intraprenderà la carriera cinematografica, interpretando proprio una schiava. Quando si trasferisce in Somalia, Isabella si rende conto che «l’alternativa secca tra madre e puttana non conosce confini» (ivi, 355) mentre, quando ritorna in Italia, si trova costretta a lavorare come assistente domestica per un’anziana signora che, paradossalmente, si chiama Itala (ivi, 211). A partire dal rifiuto di omologarsi alla norma che ammette le donne nere e immigrate nel mercato del lavoro solo come «colf» e «badanti» (unica alternativa: lo sfruttamento nel mercato della prostituzione), tutta la vita di Isabella Marincola potrebbe essere letta allora come una strategia di resistenza contro sessismo e razzismo, come un rifiuto a lasciarsi imprigionare nei ruoli imposti dalle linee di genere, classe e colore.
Certo, non si può fare a meno di rilevare che Isabella Marincola era una donna anziana mentre i due autori di Timira – che si propongono di disseppellire lo scrigno di storie intrecciate tra Europa e Africa di cui lei è portatrice – sono giovani e maschi (vedi Randall 2012). Inoltre, la riflessione conclusiva che propone la condizione di profuga come una metafora del presente italiano, in cui saremmo tutte e tutti profughi in quanto cittadini di uno stato che non c’è (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 458-465), risulta piuttosto forzata, proprio perché rischia di cancellare le differenze e le gerarchie di potere inscritte sulle linee di genere, classe e colore. Ma, nel complesso, il risultato di quest’esperimento di scrittura collettiva (ivi, 344-346) è un’efficace contronarrazione, che funziona come un potente antidoto contro il persistere della mentalità razzista e sessista, contribuendo attivamente all’affermazione di una consapevolezza postcoloniale nella letteratura italiana contemporanea. Per questo credo che Timira debba essere letto anche alla luce dell’emergere, negli ultimi venti anni, delle scritture migranti e postcoloniali nella letteratura italiana: da Nassera Chora e Geneviève Makaping, fino a Gabriella Ghermandi e Cristina Ali Farah, solo per menzionarne alcune, le opere di autori e autrici afroitaliane e originarie dalle ex colonie sono infatti i luoghi culturali chiave in cui oggi si costruisce una memoria critica del passato coloniale italiano e si decostruisce l’idea che la bianchezza sia «il colore legittimo» nell’Italia contemporanea. La presa di parola dei soggetti che sono stati razzializzati è infatti una strategia di resistenza contro il persistere di quegli stereotipi razzisti e sessisti che storicamente sono serviti a giustificare il colonialismo e che oggi invece sono funzionali a gestire i flussi migratori in tempo di crisi: influenzano la percezione della violenza maschile contro le donne e i discorsi pubblici sull’immigrazione (, stratificano il mercato italiano del lavoro secondo le linee del genere, della classe e del colore (vedi Curcio e Mellino 2012) e riproducono disuguaglianze sociali che limitano l’accesso ai diritti di cittadinanza. Sono queste le soggettività che ci ricordano quanto sia necessario e urgente «parlare di razza» nell’Italia contemporanea, interrogarsi sui diversi significati che questa costruzione culturale assume e sugli effetti che produce, illuminando anche i nessi con la costruzione del genere e dell’identità nazionale.
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Qualche link per approfondire:
WM1 recensisce L’ottava vibrazione su Nandropausa
Paolo Jedlowski, La memoria pubblica e i media: il caso del passato coloniale italiano.
Giulietta Stefani, Eroi e antieroi coloniali. Uomini italiani in Africa da Flaiano a Lucarelli.
Ascolto consigliato durante la lettura:
Gabriella Ghermandi, Atse Tewodos Project.
Stupenda soundtrack, direi (posso asserire di comprendere meglio un certo filone della produzione solistica di Stratos, ora che ne ho assaggiato qualche radice)… a questo proposito, anche se leggermente out of thread, posso chiedervi se il progetto ha avuto seguito e il cd è stato pubblicato? Ho letto che il concerto si è tenuto, ma l’ultimo aggiornamento del sito data al 2012, così come la possibilità di sostenere la produzione e di guadagnarsi così l’accesso al prodotto finito… ne sapete qualcosa?
So per certo che il CD verrà prodotto e che il gruppo sta incidendo tutti i pezzi, ma non ho idea di quando uscirà. Di sicuro, ne daremo notizia anche qui, perché si tratta di un progetto davvero interessante.
Condivido tutto quello che è stato scritto su Timira. Mentre le critiche a “L’ottava vibrazione” mi sembrano un po’ severe. A me è piaciuto, a parte alcune scelte sulla trama che non specifico perché non c’entra col discorso che si fa qui e perché non voglio spoilerare per chi non l’ha letto. Innanzitutto ha il merito di essere uno dei pochi tentativi, insieme a La presa di Macallè di Camilleri, di riportare alla luce un argomento scabroso come il colonialismo italiano da parte di scrittori letti anche dal grande pubblico. Poi è vero che alcuni personaggi africani sono stereotipati, ma mi è facile immaginare che agli occhi del colonizzatore bianco nella vita quotidiana si presentassero solo questi stereotipi. Non avendo rapporti alla pari con le popolazioni locali, credo che difficilmente gli italiani entrassero in contatto con le persone che uscivano dalla posizione di servilismo nei confronti degli invasori (che è comune alla puttana, al servitore, alla madama e anche alla spia) e credo fossero principalmente queste le relazioni possibili tra i gruppi (colonizzati e colonizzatori) al di fuori ovviamente di guerre e rivolte. Infine non sono d’accordo sul fatto che Sciortino rappresenti lo stereotipo del meridionale ignorante. Ho letto il libro tempo fa e posso sbagliarmi, ma mi sembra di ricordare che il povero Sciortino fosse da sempre emarginato anche nel suo paese, era l’idiota del villaggio già nel suo stesso villaggio. Mi sembra difficile quindi che possa essere considerato un rappresentante indicativo di una popolazione.
Anch’io ho apprezzato L’ottava vibrazione e mi ha stupito notare che diversi studiosi, in ambito postcoloniale, riservano al libro critiche severe. Secondo la loro prospettiva il romanzo fallisce come contronarrazione del colonialismo perché adotta il punto di vista dei colonizzatori, ma non segnala in modo chiaro la distanza tra quella prospettiva e la posizione dell’autore. In questo modo, solo un lettore che sa già dove “collocare” Lucarelli può costruire la giusta distanza critica dalla voce del narratore e dei protagonisti, mentre un lettore meno informato – e magari benevolo rispetto all’impresa coloniale – non si sente messo in crisi, non capisce che il testo assume, ma critica, una certa visione.
Io su questo non so prendere posizione, avrei bisogno di analizzare il libro in maniera più profonda, ma alla prima lettura – sapendo appunto come collocare l’autore – la sua presa di distanza mi era parsa evidente.
concordo. Anch’io ho letto L’ottava vibrazione anni fa e non lo ricordo benissimo ma mi parve un romanzo riuscito, con personaggi (italiani e africani) credibili (anche nelle dinamiche tra loro) coerenti col tipo di storia, con le atmosfere e il contesto storico che Lucarelli intendeva ricostruire
Ciao a tutti.
“L’unica soluzione che le permetta di sfuggire alla logica nazionalista, identitaria e razzializzante in cui si trova intrappolata suo malgrado, è quella di riaffermare una duplice appartenenza: «la mia patria era l’Italia, mentre la Somalia era la mia matria» (ivi, 282), conclude Isabella citando implicitamente Igiaba Scego: «Eravamo dei dismatriati, qualcuno – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia» (Scego 2005, 11).”
Su questa cosa della Somalia come “matria” di Isabella Marincola, io non sono tanto d’accordo. E secondo me c’è qui un fraintendimento interessante e rivelatore.
La questione era già stata affrontata, in maniera molto maldestra, su Nazione Indiana (http://www.nazioneindiana.com/2012/08/23/matria-patria-dismatria/) e in uno dei commenti si metteva in evidenza come quel “matria” sia piuttosto ironico. In effetti, Isabella si trova davanti al dittatore Siad Barre per elemosinare un lavoro come insegnante di italiano, ma il dittatore le ricorda che, per essere insegnanti nell’istruzione somala bisogna conoscere il somalo, l’italiano non basta. Ma Isabella, in trent’anni di Somalia, il somalo non l’ha mai imparato. Così, per giustificarsi davanti al dittatore, Isabella tira fuori questa “matria” per salvarsi in calcio d’angolo, per risolvere un problema molto concreto, pratico: legittimare la sua presenza e la ricerca di un lavoro in Somalia.
In effetti, la posizione di Isabella di donna nera italiana la costringe puntualmente a dover risolvere problemi pratici di questo tipo: scappare di casa, trovare un lavoro, una casa, un marito, non farsi mettere la mani addosso dal pittore di turno, eccetera eccetera. Cosa fa, come campa una donna nera italiana dal fascismo a oggi?
Isabella è lontanissima dai problemi di una “ricerca di identità” che la “matria” avrebbe il ruolo di risolvere. Ed è questa secondo me anche una grande differenza tra Timira e i testi della cosiddetta “letteratura della migrazione” italiana, spesso (non sempre) incentrati su questi problemi di tipo “identitario”, di definizione dell’entre-deux, del dialogo tra diverse culture, arrivando a volte a a riaffermare gli stereotipi che pretendevano decostruire (basti guardare i romanzi di Amara Lakhous, ormai ritenuto tra i principali autori migranti…).
Timira entra in dialogo, certamente, con questo insieme di testi della “migrazione”, ma ribalta i termini della questione. Isabella non è una “migrante”, non si pone mai il problema di una “integrazione”, non ha da configurare il rapporto con “l’altro” italiano. Isabella è una donna e nera: in quanto tale occupa la posizione del subalterno nella società italiana e deve così lottare per la sopravvivenza. E, nella lotta, tutti i mezzi sono ammessi, anche il cinismo.
Questo è secondo me il grande merito di Timira: riportare il dibattito letterario sulla migrazione alla realtà concreta, alle iscrizioni sociali del migrante. Parlare di “culture” e di “identità” non ha più senso con Timira. C’è stato un cortocircuito.
E questo lo si vede anche dalla struttura del romanzo. Si ha sempre l’impressione di essere seduti a tavola con Wu Ming 2 e Isabella che racconta (le lettere intermittenti, che esplicitano il processo di scrittura, servono ad instaurare quella scenografia). In questo dialogo si gioca la relazione dei due, le cui condizioni pratiche sono dettate dai rapporti di dominazione che vengono così rimessi in questione (il maschio, acculturato scrittore, bianco, giovane e la vecchietta, donna, nera, non del mestiere). La scrittura stessa viene così riportata alla relazione interpersonale su cui si fonda e viene proposta come pratica comune in cui si rimettono in questione i rapporti di dominazione (razziali e di genere) della società italiana e che i narratori incorporano.
Ti ringrazio per quest’analisi, la trovo molto interessante. In effetti, credo proprio che il tema centrale di Timira non sia la costruzione di un’identità meticcia, ma piuttosto come quell’identità viene vissuta in Italia e in Somalia, dagli anni Trenta agli anni Novanta, da parte di una donna che si considera italiana, ha una madre somala e non è bianca.
[…] la miniserie di due post – il primo è qui – dedficati alla memoria del colonialismo italiano, per non dimenticare il Vespasiano di Affile, […]
Se vado *troppo* OT fischiate fallo, però:
da alcune ore vedo un sacco di chiacchiere online sulla “scandalosa performance” ballereccia della ex-brava ragazzina Disney Miley Cyrus agli MTV awards.
Ovviamente non me ne frega una mazza, è ovvio che il tutto sia una efficace campagna promozionale per passare a un pubblico più ampio e di età maggiore dei bambini/ragazzini che la seguivano tramite Disney. Tanto che The Onion ci ha scritto sopra un articolo-parodia che è perfettamente azzeccato, dove una dirigente del sito di CNN “fake” (ma nemmeno troppo) spiega come funzionano queste cose. Qui c’è la traduzione sul Post: http://www.ilpost.it/2013/08/27/miley-cyrus-mtv-awards/
Però oggi una amica ha retwittato un articolo da un blog americano, che mi ha fatto leggere tutta la vicenda con un’altra ottica, facendomi riflettere non poco.
Fosse un video, ci sarebbe in sovraimpressione #solidarityisforwhitewomen (come l’hashtag che la cosa si porta appresso), e poi primi piani di Miley Cyrus, Rhianna, e il buon vecchio Amiri Baraka / Leroy Jones che parla in sottofondo.
Il razzismo nel femminismo mi mancava… quindi condivido il link, che magari interessa a qualcuno parlarne:
http://groupthink.jezebel.com/solidarity-is-for-miley-cyrus-1203666732?action_type_map=%5B%22og.likes%22%5D&fb_action_types=og.likes&fb_source=other_multiline&action_object_map=%5B155252038013239%5D&action_ref_map=%5B%5D&fb_action_ids=10200674489208193
grazie a wu ming 2 per aver pubblicato il mio articolo.
e grazie a tutte/i per i commenti (è solo l’inizio di un lavoro in corso, perciò ne terrò conto mentre continuo la ricerca).
la versione completa, con tutti i riferimenti bibliografici, è qui: http://sonia.noblogs.org/?p=2632
e qui invece potete leggere l’indice della “tavola rotonda” curata da gaia giuliani: http://sonia.noblogs.org/?p=2656
a cui ha partecipato, tra gli altri, anche simone brioni.
sonia
Grazie della segnalazione!
Consiglio a tutti di leggere l’articolo nella sua versione completa e ipertestuale sul blog di Sonia Sabelli: link preziosi e utili suggerimenti per continuare a leggere.
Sono una vostra attempata lettrice fin dai tempi di Q. Ho apprezzato molto Altai, sto finendo Timira; non riesco a capire il vostro utilizzo del dialetto scritto – piemontese, trentino, bolognese, – nel vostro corpus narrativo. Qual è la necessità di adoperare un linguaggio che si vuole popolare, ma risulta al contrario coltissimo in quanto la lettura è apprezzata soltanto da certi linguisti sopraffini? Il popolo lettore normale ha tutte le ragioni di non adeguarsi a questo vezzo forse eccessivamente snob. Il problema della lingua colta magniloquente dell’Impero vuole essere messa in contrasto con l’intimo disagio dei fonemi arcaico – regionali tristissimi di suore, di baristi e di dementi. Nonostante tutto siete sempre bravissimi.
Nel caso di Timira l’uso dei dialetti ha una ragione molto semplice e diretta: rendere conto dello spaesamento provato da Isabella/Timira nei suoi incontri ravvicinati con gli italiani. Isabella si sente italiana non certo per via del padre italiano, quanto piuttosto grazie alla lingua, alla cultura, alla perfetta dizione da attrice. E invece si trova a fare i conti con gente che pensa di essere molto più italiana di lei – per via della pelle bianca, o del sangue, o del suolo – epperò come lingua corrente e quotidiana usa il dialetto.
Se il lettore prova fastidio, o fatica, di fronte a quelle parti dialettali, allora prova esattamente l’emozione che volevamo trasmettergli.
Attenzione però: in nessun caso si tratta di un dialetto filologico, da glottologi. Qui a Bologna, per esempio, c’è chi ha criticato la parlata di Itala perché non è completa di tutti i segni diacritici del bolognese intramurario standard! Al contrario, tutte le parti dialettali del libro sono state addomesticate e imbastardite in modo da rendere la comprensione faticosa, ma possibile, e finora abbiamo avuto solo testimonianze in tal senso, di lettori che con un po’ di sforzo hanno estratto da quelle pagine il loro significato e sono riusciti a seguire perfettamente lo svolgersi della narrazione.
Spiegatemi, allora, l’utilizzo del mediatore / traduttore Simone Franchino – “pericoloso ribelle della Val di Susa” – come accento politico eccessivo o operazione di marketing? Alla pari di Celentano che oggi 21 settembre compra una pagina intera del “Corriere” contro le “Grandi Navi” a Venezia? Statemi bene.
Facci capire, hai usato il viatico di una polemica un po’ speciosa sui dialetti, e di un accenno ironico a un amico, per rimproverarci il sostegno alla lotta No Tav? Spero di no, perche’ un simile, strumentale contorcimento mi farebbe un po’ pena… Ti prego di fugare i miei sospetti, cosi’ l’umore non mi si abbassa di un’altra mezza tacca.
forse vi farà piacere sapere che Timira è citata come esempio nella call for papers per una sessione sull’intersezionalità nella letteratura italiana contemporanea, proposta da Silvia Camilotti per la conferenza annuale dell’American Association for Italian Studies. qui il testo della call:
http://sonia.noblogs.org/?p=2716