Robin e Skip salutano Elmore Leonard, 1925 – 2013

Elmore Leonard

Skip disse a Robin che il giorno dopo, se c’era bel tempo, doveva far saltare in aria un’auto sul Belle Isle bridge, e poi avrebbe finito. Quel genere di ripresa si chiamava “kush”. La macchina sarebbe corsa oltre il parapetto, per poi esplodere a mezz’aria in una grande palla di fuoco, ed entrando nel Detroit river avrebbe fatto: “Kussssshhhhhhh“, e a quel punto si sarebbe alzato un gran fumo.
– Figata, – disse lei – Ti piace il tuo lavoro, eh?
– Beh, insomma, – rispose Skip – Sono stronzate, lo sai, è cinema. Però è abbastanza divertente. Sicuramente più di lavorare come comparsa, tutto il giorno sotto il sole mentre il regista cazzeggia con la star.
– Oggi ho letto una notizia sul giornale e mi sei venuto in mente tu – disse Robin – Hai sentito del tipo saltato in aria?
– Sì, ho visto. Qualcuno gli ha ficcato della dinamite sotto il culo. Ma non sono stato io, stavo lavorando. – Skip sorrise e addentò un grissino – E’ almeno da… beh, insomma, è un bel pezzo che non uso la dinamite.
– Però scommetto che ti ricordi come si fa.
Skip sorrise ancora: – Certo, però non lo usiamo quasi mai, quel tipo di esplosivi.
Aspettavano la cena al ristorante “Da Mario”, in midtown Detroit, tra tavoli con tovaglie bianche e dipinti a olio di paesini del Sud Italia. Skip beveva vodka e mangiava i grissini intingendoli nel burro. Robin fumava, sorseggiava vino rosso e guardava Skip dietro lenti brunite.
– Per esempio, nelle scene di guerra, tipo granate o colpi di mortaio, usiamo la polvere nera e la accendiamo con una miccia elettrica. Per le scene tipo kush, o le volte che vedi una macchina che va giù da un burrone poi scoppia, ci leghiamo sotto delle bottiglie di plastica piene di benza, tipo dieci litri, e le facciamo saltare a distanza. Basta pigiare un bottone, come quando apri il garage.
– Io parcheggio in strada – disse Robin.
– Come no, come ai vecchi tempi. Mi ricordo che c’erano il garage di papà, il garage di mammina e il garage della signorina Robin, uno in fila all’altro, accanto a quella reggia che avevate a Bloomfield Hills.
– Lo sai che in galera mi ci ha portato mamma in macchina?
– Non sapevo nemmeno che si potesse.
– Sì, tutto il tragitto fino a Huron Valley. Per il viaggio si era comprata un tailleur grigio, un gessato. Lei e il giudice speravano che mi mandassero ad Alderson, cazzo, fino in West Virginia, ma papà ha convinto qualcuno del Dipartimento di Grazia e Giustizia.
– Per averti vicino a casa. – disse Skip – Molto carino da parte sua.
– Io speravo di andare a Pleasanton, California. Almeno prendevo un po’ di sole.
– Li vedi ancora, i tuoi vecchi?
– Papà è andato al Creatore, ha avuto una trombosi. La mamma non la vedo quasi mai, lo capisci anche tu il perché. In questo periodo è in crociera intorno al mondo. E’ quello che fa adesso: viaggiare.
– Tua madre era un viaggio – disse Skip – Aveva sempre quel modo sarcastico di parlare. A te riesce anche meglio.
– Oh, grazie mille – disse Robin. Sbuffò il fumo in direzione di Skip e bevve un altro sorso di vino.
– Io al carcere di Milan ci sono andato su un pullman del governo – disse Skip – Mia madre non so neanche dove fosse, quel giorno. Il pullman aveva reti di plastica ai finestrini, nel caso ci fossimo liberati delle manette e dei ceppi. Eravamo io più cinque o sei ispanici con le braccia piene di solchi. Ho pensato: cazzo ci faccio io qui con ‘sta gente? Sono un prigioniero politico. Avrebbero dovuto mettermi in una di quelle prigioni di lusso tipo country club, dove hanno mandato gli stronzi del Watergate, ma mi sa che mi consideravano cat-ti-vo.
– Tu eri cattivo – disse Robin – Secondo me quando hai fatto saltare il Palazzo Federale, quelli un po’ si sono incazzati.
– Sì, chiaro, però la cauzione che si sono tenuti quando ci siamo fatti di nebbia, insomma, bastava a risarcirli dei danni. Almeno in parte. – Skip continuava a mangiare grissini, aveva briciole nella barba – Pensa che roba, quando ci hanno presi per la seconda volta, se solo avessero saputo la metà delle cose che avevo fatto… Cazzo, tutti quegli anni in clandestinità…
– Ah, vivere là fuori con la maggioranza silenziosa – disse Robin – Io lo so perché stanno in silenzio: non c’hanno un cazzo da dire. Pensa che ho cominciato a rubare nei negozi, così, per passare il tempo. Ho addirittura rubato un reggiseno, una volta.
– Io vivevo in una comune vicino a Grants, New Mexico – disse Skip – con reduci del flower power che si scazzavano tutto il tempo. Morivo di noia. Sono salito a Farmington e ho trovato lavoro ad aggiustare televisori, ché almeno continuavo a lavorare con cavi e corrente. Quel giorno mi sono detto: amico, se sei un criminale ricercato, perché non ti dai direttamente al crimine? Così mi sono trasferito a Los Angeles.
– Sei mai entrato in un ufficio postale a cercare la tua faccia?
– Sì, però non l’ho mai vista.
– Nemmeno io. – Robin appoggiò i gomiti sul tavolo e si chinò verso Skip. – Quando finalmente ho trovato il tuo numero, e ho saputo che eri a Detroit…
– Non ci potevi credere, eh?
– Sai, non sei mica cambiato tanto.
– Magari sono di mezzo passo più lento, – disse Skip – ma ho ancora tutti i capelli. A casa faccio un po’ di pesi, mi tengo in forma.
– Mi piace la tua barba.
– Delle volte la tengo, delle volte la taglio. Me la sono fatta crescere in Spagna, ci sono andato appena uscito di gaiba. Ho cominciato come comparsa nei film, poi sono diventato stuntman, e poi tecnico degli effetti speciali. Un tipo di nome Sidney Aaronson stava girando un kolossal, Il sacco di Roma. In realtà, nel sacco c’era solo merda. Sai quante volte mi hanno ucciso, in quel filmaccio?
Robin lo vide fare un cenno al cameriere che passava con un carrello di vassoi. Skip ordinò un’altra vodka e una bottiglia di Valpolicella. Il cameriere, basso e sulla cinquantina, rispose con accento italiano: – Solo un minuto, solo un minuto, per favore – e si allontanò.
Skip fece l’occhiolino a Robin: – Fai partire il cronometro. Ha un minuto esatto.
– No, non sei cambiato per niente. – disse Robin.
Skip Gibbs sorrise. Un ragazzino di trentott’anni: capelli biondi raccolti in una coda dietro la nuca, briciole tra i peli della barba. Skip “Uomo Lupo”, con addosso un giubbino satinato nero e sulla schiena la scritta rossa “Speedball”. Era il titolo di un film in cui aveva lavorato: effetti speciali, far scoppiare polvere nera, caricare pistole finte. – E tu sei ancora un gran pezzo di fica – disse a Robin, stringendo un po’ gli occhi azzurri. – E’ sempre bello vedere una donna magra con le tette grosse – Lo sguardo era rivolto alla felpa tanè di cotone, tre bottoni slacciati in cima. – E vedo che stanno ancora al loro posto.
– Basta mettere su le cassette di aerobica di Jane Fonda – disse Robin – Ti siedi, le guardi e rimani in forma. E’ automatico.
– Ah, ecco. – disse Skip – Basta che tu non sia diventata una lesbo-femminista vegetariana o roba del genere, ok? Ho bellissimi ricordi di noi due a letto. E anche sul pavimento. E nei sacchi a pelo, e in macchina…
Adesso era Robin Abbott a sorridere, vaga, senza concedere troppo. Quieti occhi nocciola dietro occhiali da sole, viso pallido e attraente, capelli castani raccolti in un’unica, grossa treccia. Ogni tanto ci giocava, la arrotolava intorno alle dita, se la portava al petto.
– I capelli sono diversi – disse Skip – Ma a parte quelli… – Strinse ancora gli occhi – La prima volta che ti ho vista, al Lincoln Park di Chicago… E’ stato un bel po’ di tempo fa. Avevamo… quanti anni, diciannove?
Tu ne avevi diciannove. Io solo diciotto. – disse Robin – Era il sabato prima della convention democratica. Ventiquattro agosto del ’68. – Robin annuì, persa nel ricordo – Il Lincoln Park…
– Migliaia di persone, – disse Skip – ma io ti ho notata subito. Oh, ma guarda un po’, c’è una bella furetta dell’Università del Michigan. Portavi una canottiera, tenevi alto un cartello con la scritta “ESERCITO DI MERDA”, e lo sventolavi in faccia agli sbirri. Io continuavo a guardarti, ti si vedevano i capezzoli, e avevi capelli lunghi fino al culo. Mi sono detto: questa devo proprio conoscerla.
– Anche i tuoi capelli erano più lunghi – disse Robin – Gli sbirri cercavano di afferrarli, per bloccarti. Siamo riusciti a scappare, e io te li ho legati in una coda.

1968convention
– Perché, credi che non mi ricordo? – disse Skip toccandosi la nuca – Mica li porto così, di solito, ma questa era un’occasione speciale.
– Ti riconoscerei ovunque – disse Robin – Te la ricordi la prima volta? Nella macchina di quel tale?
– Come no, con gli sbirri che si son messi a picchiarci sopra. – Skip sorrise – Un’intera squadra di sbirri coi caschi blu. Io alzo lo sguardo e vedo ‘ste facce da suini, uno picchia sul finestrino e mi domanda: “Che stai facendo lì dentro?”, e io: “Perché, non si vede? Sto trombando!”, e in quel momento cominciano a prendere a calci la fiancata, poi arriva il proprietario e non ci può credere: “Ehi! Che cazzo state facendo alla mia macchina?!”, poi si butta contro gli sbirri e quelli lo manganellano a sangue e lo buttano sul cellulare. – Skip si strofinò un occhio col dorso della mano – Se ci penso, piango ancora dal ridere.
– E l’ultima volta che siamo stati qui, te la ricordi? – chiese Robin.
Riapparve il cameriere con il drink e la bottiglia di vino. La aprì e ne versò un poco nel bicchiere di Skip, per l’assaggio. Robin guardò Skip tenere il sorso in bocca, lui le fece l’occhiolino, e per un attimo lei pensò che avrebbe sputato e messo in piedi una scenata col cameriere. Skip adorava le scenate. Invece mandò giù e le fece un sorriso.
– Nah, figurati se davo di matto, quello è un cameriere vero, c’ha pure lo smoking, facile che fa ‘sto lavoro da tutta la vita.
Robin ritentò, con pazienza: – Ti ricordi l’ultima volta che siamo venuti qui a cena?
Skip dovette pensarci un momento. Robin lo vide guardarsi intorno, in cerca di un appiglio per la memoria. – Dunque, ci hanno arrestati nel ’78… Non è stato dopo che ci hanno riportati…
– No, infatti, è stato prima. Prima della clandestinità.
– Cazzo, un bel po’ di tempo fa.
– Siamo venuti qui il quindici dicembre del ’71. – disse Robin – Una settimana dopo il ritorno da New York. – Aspettò ancora mentre Skip aggrottava la fronte e si concentrava – Eravamo andati a New York per quell’iniziativa contro la guerra.
Skip si riscosse: – Ah, già, in quella grande cattedrale.
– St. John the Divine – disse Robin – Tu stavi alla porta a vendere i biglietti e te la sei svignata con quasi novecento dollari.
– Anche di più.
– Mi avevi detto quasi novecento.
– Era il Comitato Popolare per questo e quell’altro, vatti a ricordare.
– Comitato Popolare per la Pace e la Giustizia.
– Esatto. C’erano tutte quelle celebrità, ognuno a fare il suo discorsetto. Era una pallazza mortale e non accennava a finire, per questo ho deciso di fotterli.
– Però quando siamo venuti qui a cena, eri già in bolletta.
– Avevo comprato una tonnellata di acido e qualche chilo di streppa.
– Ricordo che mi hai detto: “Conviene mangiare rapidi e alzare i tacchi”, e io ti ho risposto: “Potresti fare una colletta ai tavoli”.
Skip riprese a guardarsi intorno: – Merda, è vero. Mi ricordo anch’io adesso.
Robin lo vide fissare lo sguardo su tre musicisti che vagavano per il ristorante. Bassi e tarchiati, con gilet rossi. Due con la chitarra, uno col contrabbasso. Cantavano The Shadow of Your Smile attorno a un tavolo di gente che cercava di ignorarli.
– Ho vuotato il cesto del pane e tu lo hai usato per fare colletta, – disse Robin, riattirando l’attenzione di Skip – Sei andato davvero da un tavolo all’altro.
Skip sorrideva: – Sì, c’era una coppia, gli faccio: “Domando scusa, non è che mi mettereste qualcosa nel cestino?”. Il tizio capisce che ho finito il pane e mi dice di rivolgermi al cameriere ché me ne porta lui dell’altro. Volevo morire.
– Lo sai che ti è tornato l’accento da campagnolo dell’Indiana? – disse Robin – E’ più marcato di una volta.
– Eh, a forza di girare con quei due stuntmen texani. Casinari, ma bravi. Prima che il signor Mario mi dicesse di tornare al mio tavolo, ho tirato su cinquanta o sessanta dollari.
– Trentasette – lo corresse Robin – E la cena, drink inclusi, ci è costata trentadue e cinquanta. Potevi pure lasciare la mancia, ma mi sa che non l’hai fatto.
– Non è possibile, ti ricordi la cifra esatta?
– Dopo che abbiamo parlato al telefono ho controllato sul mio taccuino. Trentadue e cinquanta.
– Ah, è vero, i tuoi taccuini. Ne hai riempiti un bel po’, a forza di scrivere quella rubrica.
– Sopra c’è tutto quello che abbiamo fatto, – disse Robin – dall’estate del ’68 a Chicago al giugno del ’72 quando ci hanno arrestati e siamo scappati. Ci sono anche i nomi di ogni persona che abbiamo frequentato, compreso chi ci ha smollati.
– Mi è sempre piaciuta la tua roba, faceva ghignare. Scrivi ancora?
– Per i primi due anni ho scritto le “Note dalla clandestinità”, le diffondeva il Liberation News Service. Dopo la galera ho scritto quattro romanzi d’amore. Mai sentito parlare di Nicole Robinette? Fuoco di smeraldo? Fuoco di diamante?
– No, mi pare di no.
– Beh, Nicole Robinette sono io.
– Perché non scrivi la tua, di storia? Sarebbe più eccitante.
– Ho un’idea migliore – disse Robin.
Attese la reazione di Skip, lo guardò prendere la vodka, berla quasi tutta e scuotere il ghiaccio nel bicchiere. Era lì, ma non ascoltava ogni parola. In mezzo alla barba era comparso un sorrisetto.
– Cazzo, ci siamo divertiti, eh? Sex & drugs & rock’n’roll. Il vecchio Mao e Carlo Marx ci hanno provato a starci dietro, ma non avevano speranze contro Jimi Hendrix, i Doors, i Grateful Dead, Janis, Big Brother & the Holding Company… Per non parlare della mia band preferita, lo sai qual era: gli MC5. Cazzo, gli MC5. Quelli erano veri fuorilegge.
Robin sentì il trio di suonatori finire Don’t Cry for Me, Argentina. – E i viaggi con la dinamite? Eri fattissimo, in quelle sere.
– Dovevo esserlo, con la macchina piena di esplosivi. La prima volta, quando tornavamo da Yale, Michigan… Sulla M19, due corsie. Vedevo la strada che spariva e riappariva, come se si aprisse una voragine di fronte alla macchina, e pensavo: “Merda, stiamo per morire”, però poi mi ricordavo che era un trip e brancavo il volante che pareva mi scoppiassero le nocche. Però ti dico: mai fatto un brutto trip in vita mia, mai con l’acido. Gli unici brutti trip che mi ricordo erano quando non ero in trip. Svegliarsi in una cella piena di cazzoni che si salutano con le dita a V, quello è un brutto trip.
E Robin: – Anche quando sei entrato qui, prima, mi sembravi un po’ in là.
– Giusto un poco. Dopo il lavoro, solo una canna e un po’ di birra. Mi piace ancora l’acido, ma non sempre ne trovo. Ogni tanto, quando sono a L.A., rimedio un po’ di blotter. Non è male, ma una buona purple Owsley, o un po’ di gelatina di quella di una volta, ti mettono in contatto coi tuoi antenati. Adesso per strada vogliono venderti solo crack e merda del genere, che ti fotte il cervello. Invece l’acido ti fa bene, basta che non esageri, sennò ti strini i neuroni. E’ tipo un lassativo per il cervello, ti rilassa e intanto spurga la testa.
Robin bevve un sorso di vino. – Me ne è rimasto un po’ – disse, e vide il sorriso di Skip erompere dalla barba, e gli occhi azzurri mandare un lampo.
– Sai, io soffro di claustrofobia. Paura di non poter andare fuori.
– Casa mia è dietro l’angolo.
– Troppo bello per essere vero. Di che tipo è?
Blotter. C’è un piccolo “1” stampato sopra.
– Merda. E io che devo tornare al lavoro. Fanno le riprese in notturna.
– Beh, quando lo vuoi, è lì. – disse Robin.
Skip la guardò divertito: – Mi stai lanciando l’esca, non è così? Hai in mente qualche trucco e ti serve l’aiuto del vecchio Skip.
Robin gli concesse il solito sorriso vago.
Quando arrivarono i suonatori in gilet rosso, decise di star zitta e lasciar fare a Skip. Lo vide fissare il capo mentre quello chiedeva, con accento italiano, come stavano il signore e la signora e se avevano una richiesta particolare. Vide l’espressione spensierata di Skip mentre chiedeva: – Ragazzi, ve la ricordate una band di queste parti che si chiamava MC5? – L’italiano si sforzò. MC5? Non ne era sicuro. Che canzoni avevano fatto? E Skip, coi suoi occhi chiari e innocenti: – La più famosa si chiamava Kick Out the Jams, Motherfuckers. La conoscete? – E Robin pensò: dìo, quanto mi sei mancato.

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Avete appena letto il cap. 2 di: Elmore Leonard, Freaky Deaky, 1988. Ed. it. Einaudi Stile Libero, 2007, traduzione di Wu Ming 1.

TRADURRE ELMORE LEONARD – di Wu Ming 1 (2003)

POSTFAZIONE A MR. PARADISE di Wu Ming 1 (2004)

SE SUONA “SCRITTO”, LO RISCRIVO. LA SFIDA DI ELMORE LEONARD AI TRADUTTORI ITALIANI – di Wu Ming 1 (2006)

COME TRADURRE ELMORE LEONARD
COME TRADURRE ELMORE LEONARD
Intervento telefonico di Wu Ming 1 all’incontro su Elmore Leonard organizzato a Cagliari dal circolo “Mieleamaro”, nell’ambito del ciclo “Un mercoledì da lettori”, 3 marzo 2010, ristorante Manàmanà.
Mp3 160k, 5 mega, 5:43 min.

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2 commenti su “Robin e Skip salutano Elmore Leonard, 1925 – 2013

  1. Come Wu Ming 1, anch’io ho avuto il grande piacere di tradurre non pochi libri di Leonard. E, anche da traduttore, con Elmore non si scherzava; mai abbassare la guardia o lui era capace di fregarti in men che non si dica.
    Adesso ho cambiato mestiere, ma tradurre Leonard (e, soprattutto, conoscerlo di persona e andarci assieme a cena, con lui che – magro come un chiodo – si demoliva pian piano ma senza pietà un’incredibile cofana di pastasciutta) è stata e tuttora è una delle grandi soddisfazioni della mia vita.
    Buon viaggio, Elmore.
    LC

  2. E’ brutto scoprire solo ora, due mesi dopo l’accaduto, della morte di uno degli autori contemporanei che più apprezzo, pur conoscendo solo i libri tradotti da Wu Ming 1 (dispiace anche non vedere commenti sotto una notizia del genere). Un grande ringraziamento a entrambi.