A rigore, prima di leggere e durante l’ascolto di questo post, bisognerebbe (ri)leggere quest’altro dell’aprile 2011:
Siamo tutti il febbraio del 1917, ovvero: A che somiglia una rivoluzione?
1913, 2013, 1917, 2011… Un intrico di date, ma la questione è semplice: tra pochi giorni, e precisamente il 14 novembre, ricorre un centenario. Il 14 novembre 1913 usciva Du côté de chez Swann, primo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust.
Due anni fa WM1 e WM2 tennero una doppia conferenza in due università del North Carolina
[Oggi entrambi i testi sono inclusi nel nostro ebook Giap. L’archivio e la strada (2013).]
WM1 e WM2 parlarono dei sommovimenti allora in corso (Tunisia, Egitto), ponendo due questioni: come si riconosce una rivoluzione? E come si racconta?
Nella sua relazione, WM1 parlò a lungo – con grande sorpresa dell’uditorio – di Proust. In particolare, si soffermò su una lunga, strabiliante sequenza – già analizzata da Jacques Rancière – di All’ombra delle fanciulle in fiore (secondo volume della Recherche).
Facendo leva sul concetto filosofico di «ecceità», solo in apparenza astruso ma in realtà piuttosto facile da comprendere, WM1 descrisse quelle pagine di Proust come un “super-tropo”, una super-figura retorica, gomitolo rotolante di fili multicolori corrispondenti a tutte le figure retoriche possibili, poi ne trasse svariate implicazioni, ci costruì sopra un’allegoria profonda (l’inizio di una Rivoluzione è la passeggiata delle ragazze sul lungomare di Balbec/Cabourg) e gettò un ponte tra il “super-tropo” di Proust e i “super-tropi” di Vladimir Majakovskij.
Azzardato? Senz’altro. Eppure le descrizioni incasinate con “metafore miste” e giustapposizione di elementi eterogenei senza alcun rispetto per la gerarchia tra piccolo e grande, animato e inanimato, sono proprio ciò che Trotsky rimprovera al poeta georgiano nel suo testo – peraltro pregevolissimo – Letteratura e rivoluzione. E Majakovskij aveva un profondo rispetto per Proust. Tanto che, di passaggio a Parigi, volle andare al suo funerale.
Un giapster giovane ma di lungo corso, il pianista Luca Casarotti, lesse quel post e decise di… musicarlo. Ne nacque una composizione/improvvisazione in due parti, Haecceitas, ispirata alla descrizione della passeggiata sul lungomare. Luca la eseguì per la prima volta dal vivo alla Sala Greppi di Bergamo il 23 giugno 2011, col contributo fondamentale di Maurizio Lesmi al sax soprano. Oggi, in anticipo di qualche giorno sul centenario, vi offriamo queste pagine musicali proustiane. Live in Bergamo. Potete ascoltare in streaming gli mp3, ma è meglio ancora se scaricate in formato wav, per mantenere la migliore qualità del suono (Haecceitas.zip, 217 mega).
HAECCEITAS – PRIMA PARTE – 15’51”
HAECCEITAS – PRIMA PARTE – 15’51”
HAECCEITAS – SECONDA PARTE – 7’26”
HAECCEITAS – SECONDA PARTE – 7’26”
A seguire, le «Note per un’improvvisazione» spediteci da Luca più di due anni fa, e un testo scritto da WM1 durante l’ascolto, in un pomeriggio di primavera del 2012. Il tentativo era quello di rendere l’idea dell’ecceità, della singolarità e molteplicità di quell’esatto momento.
⁂
1.
La prima delle due tracce è risultata in una forma quadripartita. Ciascuna sezione è contraddistinta da un parametro musicale predominante, come mi ero prefisso nel preparare il mio contributo alla rassegna d’improvvisazione cui ho partecipato. Il primo movimento è caratterizzato da una cellula melodica di cinque note ascendenti, che trasporto su tutta l’estensione dello strumento (ad eccezione dei registri sovracuti), che ne costituisce il tema principale, da un secondo elemento tematico, pure melodico, ma questa volta improntato su due singole note discendenti poste a distanza di decima e da un terzo elemento di sviluppo, ricavato dall’armonizzazione politonale del tema pentatonico principale. Il secondo tema compare come prima idea, in apertura della traccia: dopo averlo esposto, passo all’introduzione del tema principale ponendolo in dialogo con quello precedente per poi aumentare il livello di tensione narrativa e dinamica con le armonizzazioni cui ho fatto cenno.
L’ispirazione per questo modus procedendi mi deriva dalla tecnica di scrittura impiegata da Arnold Schönberg nei 6 Klavierstücker, opus 19. Le armonizzazioni sono patrimonio comune di molti improvvisatori, Cecil Taylor tra gli altri, ciascuno con la propria voce peculiare: si parva licet, spero sia così anche per me.
Nella seconda sezione ho operato un contrasto dinamico rispetto alla prima, sostituendo un andamento essenzialmente frammentato al continuum che avevo mantenuto fino a quel momento utilizzando il pedale di risonanza. Qui è il parametro timbrico ad assumere carattere dominante. Mi sono infatti mantenuto costantemente nella porzione della tastiera corrispondente alle frequenze superiori i 500 hz ed ho impiegato un procedimento esecutivo a clusters, accentuando le dissonanze con il sollevamento degli smorzatori corrispondenti alle note che non ho suonato per far risuonare simpateticamente le corde corrispondenti. I precedenti di Kage, Berg e Nono sono quelli cui ho fatto riferimento per questa tecnica.
Nella terza sezione ho introdotto una pulsazione metronomica definita, che risultava invece assente in quelle precedenti, in cui la musica era essenzialmente libera nello spazio e priva di una connotazione ritmica stricto sensu. In questo movimento l’attenzione compositiva è infatti stata esclusivamente rivolta a questo parametro. Ho impiegato una serie di disegni ritmici asimmetrici che, cioè, non andassero a comporre cicli definiti (4/4 o 3/4 ad esempio), ma che fossero ciascuno dotato di una lunghezza variabile pur rimanendo tutti all’interno dello stesso tempo metronomico (all’incirca 160 battute per minuto). Si tratta di quel tipo di poliritmi che impiegava Elvin Jones nel costruire i suoi tappeti di batteria. In conclusione di sezione compare, quasi per inerzia, una certa connotazione armonica che ho sfruttato come ponte per procedere verso la fase conclusiva della suite. Questo quarto movimento risolve la tensione espressiva che ho cercato di creare sino a quel momento. Ho qui impiegato un’armonia più schiettamente tradizionale con una serie di modulazioni su diverse tonalità. Il risultato richiama alla mente cose jarrettiane e metheniane. Chiusura pop, certo. Niente da dire.
2.
Il secondo brano, improvvisato in duo con Maurizio Lesmi al sax soprano, è invece diviso in due parti. La prima è introdotta dal soprano che compie un lavoro melodico e suona un tema con note poste ad intervalli di quarta ascendente. Sul tessuto melodico intervengo con un ritmo su pulsazione, simile nella costruzione a quello adottato nella terza sezione del primo brano, ma questa volta con un piglio più “funk”: intendo nel tipo di intenzione, non nelle note scelte, che nulla hanno a che fare con quel tipo di idioma. Sono Ornette Coleman e ancora Cecil Taylor a fare capolino nelle pieghe della musica. La sezione che conclude l’intervento è giocata sul parametro timbrico. Il pianoforte mette in dialogo suoni del registro basso e di quello sovracuto con diverse intensità dinamiche (da piano a fortissimo). Ho accentuato il valore timbrico pizzicando talvolta con il polpastrello direttamente le corde. Il crescendo finale è condotto dal soprano in una sorta di reminiscenza delle esplorazioni sulla respirazione circolare fatte da Evan Parker.
⁂
Haecceitas di Luca Casarotti è una riflessione in musica su questo momento. Aghi di pino. Di cosa è fatto un momento? Un mazzetto di lavanda per confondere, far perdere la traccia agli insetti. Cosa rende il momento questo, quando stacchi il pilota automatico della giornata da-mane-a-sera e ti fermi a pensare che ci sei? Cinque formiche nello spazio compreso tra due ciuffi d’erba, le loro traiettorie sembrano casuali ma c’è un confine non visibile oltre il quale non si spingono. L’ecceità è l’unicità molteplice del momento, l’interazione di tutti gli elementi percepiti nel loro gioco. Grani di pepe, minuscole pozzanghere d’aceto, un monticello di polvere di caffè, un manto di foglie di pomodoro triturate: sono i residui di un tentativo ecologicamente non troppo scorretto di allontanare le formiche dal giardino. A volte la musica ci fa avvertire l’ecceità dell’istante, ed è un paradosso, perché la condizione per avvertire l’ecceità è scordarsi che la musica è musica, ovvero scansione, divisione del tempo in misure, organizzazione di un avvicendarsi di suoni, compromesso tra movimento lineare e movimento ciclico. Le cinque formiche fanno lo slalom tra gli odori che detestano. L’ecceità stessa è un paradosso, perché il linguaggio è inadeguato a descriverla: un singolo, irripetibile momento avvertito nella sua pluralità, nel suo brulicare di differenze. Tutto ciò è inquadrato con lo sguardo rasoterra, ad altezza di gatto mezzo appisolato ai piedi del pino, tra gli aghi. C’è singolarità del momento, ma il momento è nel divenire, nella progressione che altera gli equilibri. Il gatto non è del mondo delle formiche, e nemmeno del mondo dell’umano che tenta di scacciarle. I vari elementi che giocano insieme per rendere il momento questo (haec) e non altri – non quello prima, né quello dopo, né quello percepito dalla persona accanto a me – giocano insieme adesso, in questo preciso battito di ciglia, e all’istante cambia tutto, arrivano nuove immagini, nuovi suoni e profumi (o puzze), il pensiero corre lungo altre vie di sinapsi. Il gatto è in un terzo mondo, non comprende né si cura della lotta in corso in questo preciso attimo, questo attimo uguale a nessun altro. Forse la musica improvvisata si presta maggiormente a «fotografare» l’istante, ma se ascoltiamo una registrazione, allora non si tratta più dell’istante in cui viene improvvisata, ma di quello in cui viene ascoltata. Il gatto se lo gode, vive nella singolarità, interessandosi dei suoni e odori tutt’intorno. Noi sappiamo che la musica che ci entra nelle orecchie è stata improvvisata, e questo momento si concatena a quel momento. Il gatto ama in particolare le frequenze sopra i cinquecento hertz, anche se nel suo mondo non esiste il cinquecento (il concetto di «cinquecentità») e non c’è alcuna misura in hertz. Io sono qui, Haecceitas è la colonna sonora dell’istante, ma l’istante è fatto anche di pensiero che corre al 23 giugno 2011, una sala di Bergamo, un pianoforte, un sassofono. A poca distanza dal giardino, una specie di ticchettio zoppo: sarebbero centosessanta battute nell’ultimo minuto, se nei mondi del gatto e delle formiche nervose esistessero la divisione in minuti e la centosessantità. Il sole è alto ma velato dalla cappa di umidità che veleggia sul paesino. Che cos’è quel ticchettio? E’ la lamella allentata di una veneziana mossa dal vento.
Più tardi, nel pomeriggio, il gatto non è più al suo posto, le formiche non si vedono, la miscela di odori a esse sgradite, pepe aceto caffè pomodoro e lavanda, non dispiace alle narici dell’umano, si avverte un equilibrio nelle essenze (e dunque nell’offensiva contro il formicaio), non vi è stata esagerazione. Adesso una radio è accesa, ma dalla veranda si sente appena. Tappeti orientali di voci. [WM1]
A rileggere le cose che scrivevo più di due anni orsono, da una parte sorrido e dall’altra m’incazzo.
Sorrido perché sono appunti a metà tra l’ingenuo e il pretenzioso, con tutti questi riferimenti ad opere e autori, come se volessi continuamente dire: ecco, vedete, siccome Jones e Nono hanno fatto così, posso farlo anch’io. L’argomento ex autoritate, insomma, quella roba che critico a parole. Poi mi rileggo ed eccolo lì. Avevo ventidue anni, nel frattempo spero di aver imparato a scrivere meglio.
M’incazzo perché in questi appunti mi imbozzolavo in un linguaggio tronfio, pomposo anzi pompato, pseudo-saggistico, in realtà solo brutto.
Avevo mandato il testo a WM1 in accompagnamento al disco. Non pensavo che sarebbe stato pubblicato, altrimenti l’avrei depurato del profluvio di avverbi, avrei sciolto i tecnicismi. Diciamo che è un esempio di ecceità anche questo. Ecceità di un momento in cui ero molto avvezzo alla prosa dei manuali universitari e poco a scrivere.
Meglio parlare della musica e di quel che l’ha ispirata. A proposito: questi due complicati brani sono stati eseguiti non solo per la prima, ma anche per l’unica volta in quella rassegna di Bergamo. La registrazione era stata precaria, ma l’ottimo Maurizio Giannotti ha fatto un gran lavoro di Mastering e ha ridato vitalità al suono.
Sei troppo severo con te stesso :-) Gli appunti sono appunti. Se fosse stato un testo compiuto e perfetto, non avresti usato parole come “appunti”, “note” etc. Per giunta sono appunti datati, contestualizzati, è detto chiaramente che sono di ormai quasi tre anni fa. I riferimenti ad altri artisti e compositori sono utili a orientarsi, anche a spanne, in una musica che per molti non è subito penetrabile. E leggerli serve a far capire a chi non ci aveva mai pensato prima quanto pensiero e quanto lavoro ci siano dietro un’improvvisazione.
E’ vero, l’improvvisazione è sovente fraintesa anche da noi musicisti. C’è la tendenza a pensare improvvisazione e composizione come due metodi distinti: mentre la composizione presuppone una lunga preparazione a tavolino, nell’improvvisazione puoi suonare quel che ti viene in mente. Invece anche l’improvvisazione totale (cioè senza nulla di predefinito, nemmeno un tema e degli accordi) dà i suoi esiti più fecondi quando ha alle spalle una riflessione preliminare, una progettualità.
L’anno scorso avevo fatto qui su Giap un’analisi di Ascension di Coltrane: in quei 37 minuti di materia musicale densissima non c’è una sola nota scritta, eppure tutto funziona secondo una logica ferrea.
Non diversamente dalla composizione, si può concepire l’improvvisazione a partire da un tema, che prende forma estemporaneamente e poi viene sviluppato, ampliato, variato. Con una complicazione in più: chi compone può pianificare prima questo sviluppo, chi improvvisa deve suonare e intanto pensare a quale direzione vuole dare a ciò che sta suonando. Momento compositivo e momento esecutivo coincidono. Con il rischio di dover accettare tutto quel che si suona e di dover correggere il tiro durante l’esecuzione.
“Non diversamente dalla composizione, si può concepire l’improvvisazione a partire da un tema, che prende forma estemporaneamente e poi viene sviluppato, ampliato, variato. Con una complicazione in più: chi compone può pianificare prima questo sviluppo, chi improvvisa deve suonare e intanto pensare a quale direzione vuole dare a ciò che sta suonando.”
Molto interessante: anche da un punto di vista filosofico, si tende a pensare che sia soltanto la composizione ad avere a che fare con “strutture” piu’ o meno rigide, mentre l’improvvisazione sembra piu’ essere legata a “gestures”, mentre effettivamente, come fai notare, le due cose non sono per niente nettamente separate. Ultimamente questa separazione sembra stia diminuendo, almeno nell’area a cavallo tra la musica e computer science, attraverso la pratica del “live coding”: in tempo reale si improvvisano algoritmi che descrivono strutture di vario tipo (armoniche, etc.), quindi sorta di microcomposizioni, che vengono poi usate per generare suoni, o controllare strumenti. Un esempio interessante e’ questo
http://www.youtube.com/watch?v=b-8Cmd6k4_M
del tipo “foglio bianco”, cioe’ si comincia da zero e si improvvisa via via il codice. Come per l’improvvisazione classica, ovviamente, dietro c’e’ molto studio compositivo e del linguaggio stesso.
Il titolo suggerisce un’ispirazione al famoso Keith… :)
Complimenti Luca, mi sono piaciuti entrambi i pezzi, il primo più del secondo perché credo che il secondo avesse una maggiore forza energetica dal vivo dato che nasceva da un’interazione tra due musicisti, tra due anime in una sorta di rapporto sensual-musicale tra loro, con momenti di master e di slave che credo potessero essere percepiti e condivisi più nella vibrazione di quell’istante (possiamo dire nella sua “ecceità”?) rispetto al primo, che essendo invece solo un tuo “donare” si recepisce con più facilità anche a posteriori; nel senso, tu davi, gli ascoltatori prendevano, che è lo stesso rapporto “energetico” che si può cogliere nell’ascoltarlo adesso, a distanza di anni, anche senza essere stati presenti in quella sala.
Non pretendo che si capisca il senso di quello che ho scritto, ehm… :o)
Comunque in effetti la prima parte della primo brano mi ha ricordato un difficilissimo concerto di Cecil Taylor con Joe Locke che per puro masochismo andai a sentire 14 anni fa a Orvieto Jazz [masochismo soprattutto perché il vibrafono mi dà l’orticaria :o) ] però in realtà la tua improvvisazione prende dopo poco il largo, e cresce moltissimo di variazione in variazione, fino a un finale proprio bellissimo e ricco suggestioni per me molto “nordiche”, alla Esbjoern Svensson, per dire. Sui tuoi appunti, sono molto d’accordo con WM1: non li ho letti come un ex cathedra ma come un tentativo di fornire un’indicazione in qualche modo sì, pure “sborona”, ma anche alla ricerca di una condivisione, come qualcuno che facesse vedere i suoi album di figurine Panini a un nuovo compagno di giochi che ama il calcio: godiamoci insieme una cosa che ci piace. E se il tuo livello musicale di esecuzione e di ascolto è così “alto”, non è certo una tua colpa: e semplicemente ciò che sei. Non sarà per tutti, ma chi ci arriva se la gode moltissimo.
E cmq, sono già al terzo ascolto del primo brano, a partire dal minuto 7, perdonami, ché i primi mi fanno un po’ l’effetto si una messa a fuoco più che un’esecuzione [ma spesso l’improvvisazione mi fa questo effetto… come se il musicista dovesse carburare un po’ :o)], e lo riascolterò ancora. E quindi grazie per la condivisione!
PS.: A proposito di progressione e variazione, il tuo pezzo mi ha ricordato un po’ questo gigantesco brano del giovane Marius Neset, stellina norvegese in grande ascesa del jazz nordico (ha appena suonato, per dire, con i restanti membri dell’Esbjoern Svensson Trio -Magnus Oestroem e Dan Berglund – in un concerto sinfonico di tribute all’E.S.T.), se hai voglia, ascoltalo! http://www.youtube.com/watch?v=gSir05KwGw0
Grazie dell’accostamento. Se avessi dovuto pensare a delle composizioni che in qualche modo somigliano alla prima delle due improvvisazioni, a un brano del genere non ci sarei mai arrivato. Invece Svenson può tranquillamente figurare a fianco degli autori che ho citato negli appunti.
In effetti è come dici tu: i primi minuti sono una messa a fuoco, la temperatura espressiva non si è ancora definita, un po’ come nella sequenza della Recherche, con cui l’improvvisazione ha l’ambizione di procedere in parallelo.
Scusami, avrei dovuto rispondere al secondo dei tuoi commenti, ma ho sbagliato. E ho scritto Svensson con una sola S. Commento troppo corto, ora Giap me lo blocca! Ah no, eccolo!
Ahahaahahah!!! La “s” singola non te l’avrei mai fatta notare :o))) Senti ma c’entrate in macchina tu e il tuo super-io, tutti e due?
Grazie per i commenti, cmq, lo vedi che sei un “condividuo” come dicevo io? Il termine condividuo come giapista doc lo devi conoscere per forza, lo ha coniato WM2 se non erro! Presto uscirà un mio pezzo sul nuovo album di Oestroem, spero avrai modo di dirmi che ne pensi se lo leggerai! Buon weekend, e mandami altra musica se vuoi!
Credo che il termine condividuo risalga addirittura all’epoca blissettiana. In macchina ci devono entrare l’io, il super-io e uno che guidi, altrimenti della macchina non saprei che farmene. :)
La parola “condividuo” compare per la prima volta in Mind Invaders, libro firmato “Luther Blissett” uscito nel 1995. WM2 era tra gli autori del libro, ma sbrisga ricordarsi chi di noi venne fuori con la parola…
Su questo sito fasista non solo non si può mettere un like, ma manco un commento breve di ringraziamento! Siete teribbili, e molto out-of-date, ma vi voglio bene uguale, e me ne vado a sentire Luca Aquino alla Casa del Jazz. Saribbe! :o)
Questa musica mi getta sempre in grosse difficoltà intellettuali.
Quando devo descrivere la musica che mi piace (le caratteristiche della musica che mi piace) la mia profonda ignoranza del tema mi blocca rapidamente, e mi limito a parlare di testi (quindi non di musica) o di concetti vaghi come “innovativo” o “inconsueto”. Che peraltro fanno riferimento a uno sfondo (il consueto, il già noto) che non saprei descrivere a sua volta.
Eppure questa musica, Haecceitas, mi piace. Anche se non sono capace di indicarne le caratteristiche piacevoli.
Ho un approccio troppo intellettuale (troppo poco hacceistico) al piacere estetico?
Mi stavo chiedendo perché avessi voluto musicare proprio quel post. Perciò sono andato a rileggermelo, a distanza di tempo.
Credo che a colpirmi sia stata in generale l’idea ardita che lo sottendeva: aprire una linea di ragionamento che include Proust, l’ecceità e Majakovskij nel bel mezzo di una disamina sui caratteri della rivoluzione è qualcosa che spiazza, che non può lasciare indifferenti.
Lo stimolo decisivo veniva dalla pagina proustiana:”[il corteo delle ragazze che passeggiano sul lungomare] era confuso come una musica in cui non avessi potuto isolare e riconoscere al passaggio le frasi, distinte ma dimenticate subito dopo”. Le parole del narratore della Recherche, “dell’io trascendentale” com’è stato chiamato, entravano in risonanza, appunto, con gli studi musicali che facevo allora (e che faccio tuttora).
Studiavo sia la partitura, sia, soprattutto, l’improvvisazione in un modo che tra molte virgolette si può definire strutturalista o post-strutturalista. Pintarelli, Chimenti e altri… Se mi leggete, perdonate l’uso disinvolto dei termini.
L’orecchio dell’ascoltatore occidentale è abituato a sentire, di una musica, prima di tutto la melodia e il ritmo: la melodia è quella che si ricorda più facilmente, che si può canticchiare o riprodurre in un altro semplice modo; il ritmo è quello che ci fa battere il piede, muovere la testa o compiere tutti quei gesti disarticolati che faccio anch’io quando suono (infatti ad un certo punto, nella registrazione, si sente un piede molesto che pesta a tempo il pavimento: è il mio).
Ma la musica non è fatta solo di melodia e ritmo: ci sono anche l’armonia e il timbro, cioè il modo in cui è prodotto un certo suono, la pasta di cui è fatto.
Quando leggo una partitura o quando improvviso, considero anzitutto questi quattro elementi basilari, che negli appunti ho chiamato “parametri”. Se ho davanti una partitura, ciò mi serve a decidere quale parametro deve avere più enfasi, magari resistendo all’abitudine di guardare prima alla melodia, poi all’armonia e così via. Se improvviso, tenere a mente che la musica non è fatta di un solo parametro, ma di tutti e quattro insieme, mi allontana da certe coazioni a ripetere.
Anche perché sentire prima la melodia e poi tutto il resto è nulla più di un’abitudine. Siamo abituati a battere il tempo solo in un certo modo: per questo, ad esempio, una tabla indiana ci sembra il più delle volte incomprensibile. Siamo abituati solo ad un certo tipo di armonia: per questo una composizione di Boulez o di Barraqué (nome che non faccio a caso, su Giap se n’è parlato nel post dedicato alla “serata Foucault”) ci pare astrusa.
Scardinare una certa gerarchia, dunque. Sgombrare il campo da certe precomprensioni che ci bloccano l’ascolto, potremmo chiamarle “frame musicali”? Prendere lo sfondo e portarlo in primo piano. Anzi, far saltare la distinzione tra primo piano e sfondo. Volevo provare a fare questo. L’immaginifica sequenza della Recherche e il concetto di ecceità erano lo spunto ideale.
“Non io, tu, non soggetti proprietari e corpi dominati, ma Hans divenire cavallo, una muta chiamata lupo, vespa incontrare orchidea”. (Millepiani, p. 384? Vado a memoria).
Mi fermo qui, ché sto già monologando. Se interessa, ne parliamo.
Lascio un commento per ringraziare Luca Casarotti per aver condiviso – via Giap – la sua performance d’improvvisazione musicale. Dopo averla scaricata l’ho ascoltata varie volte, essendo un profano di musica (in senso stretto) e improvvisazione posso solo dire – ma non mi par poco – che l’ascolto è stato per me piacevole, così come interessante è stato leggere il commento qui sopra dove Luca si interroga sulle ragioni che gli hanno ispirato Haeiccitas: è sempre un piacere imparare qualcosa di nuovo, anche se magari proprio tutti i riferimenti non sono alla propria portata… aggiungo anche che ero molto curioso perché le due conferenze di WM1 e WM2 in North Carolina già ai tempi mi sembrarono segnare un traccia densa e fertile. Ricordo qui anche un terzo contributo, che su Giap venne presentato come il “terzo intervento americano” (anche se venne presentato a Roma) proprio perché sulla stessa linea di svolgimento delle due conferenze citate. Il post – con audio – era questo: http://bit.ly/1gDmukn
Credo di non sbagliare nel dire che l’intervento a Roma di WM1 – Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico – non è stato mai sbobinato. Nei tempi vuoti lavorativi da un po’ di tempo a questa parte io lo sto facendo, perché mi aiuta a seguire meglio il ragionamento, e se mai arriverò a portare a termine questo compito ve lo segnalerò… ;)
Leggendo WM1 della primavera 2012 e frammenti di Marcel Proust in “All’ombra delle fanciulle in fiore” (1919) mi sembra di osservarne un ecosistema, comunità di organismi le cui proprietà essenziali nascono dalle interazioni e dall’interdipendenza delle loro parti. Rispettando l’ottica del pensiero Sistemico, le proprietà dei sistemi viventi sono proprietà del tutto, che nessuna delle parti possiede; così le formiche e le ragazze ma anche la nave a vapore ed il gatto risiedono nel loro “Umwelt”, non solo ambiente ma vero e proprio universo soggettivo, ed è l’interazione narrativa del tutto a tessere nella mente del lettore un “gomitolo rotolante di fili multicolori” o rete.