[Ci manca sempre di più, Valerio Marchi (1955 – 2006). In questi giorni di rinnovati e pericolosi sproloqui su curve tifoserie daspo Genny ‘a Carogna – sproloqui funzionali a distrarre l’attenzione del cetomediume titillandone le pulsioni autoritarie – è addirittura frastornante l’assenza di quella voce, ruvida che più ruvida non si poteva.
Negli anni a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, un libraio skinhead e comunista, sociologo col culo nelle strade di Roma, cercò di mappare i nuovi rapporti tra antagonismo sociale, stadio, culture giovanili e resistenza simbolica attraverso i rituali. Quel lavoro è ancora valido, è un’indicazione di metodo, è una bussola etica.
Ebbene, bisogna essere riconoscenti a Cristiano Armati e alla Red Star Press per la riedizione di Teppa. Storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, ricostruzione ambiziosa eppure agile (160 pagine) dei fenomeni di teppismo che hanno accompagnato la nascita e la crescita del capitalismo e della società borghese.
Teppa torna in libreria con una prefazione di Wu Ming 5. Ve la proponiamo qui di seguito.]
Non occorre che un’opera d’arte, un libro, un film o una musica siano “belli” per incarnare una temperie o per illuminare particolari in ombra nel gioco scenico dei vari presenti che si succedono e che per accumulo formano il passato e quindi la nozione ideologica che ne abbiamo, cioè la Storia. Così accade che un film autoindulgente e innocuo racconti un racconto del paese che significa in modo esemplare tutta l’impotenza apparente che pervade la nostra vita di italiani , qualsiasi cosa voglia dire, del 2014. Già. A dispetto del fastidio che si prova nel vederlo, bisogna ammettere che La Grande Bellezza dice bene molte cose.
Tipo: in una scena il protagonista, Gambardella, l’autore che dopo l’acclamato romanzo d’esordio non ha scritto più nulla, riduce al silenzio, in un salotto romano, un’autrice impegnata, che aveva svolto la sua carriera sotto l’egida del Partito. Un intellettuale organico, insomma. L’attacco di Gambardella è spietato. L’unico merito della donna è l’asservimento, tutto ciò che ha scritto non ha valore. Fa parte di un ceto di fastidiosi grilli parlanti che in realtà sono uguali, nella propensione al compromesso o alla vera e propria prostituzione, ai ceti, alle classi o agli individui sui quali, per mestiere, moraleggiano. Privilegiati, in malafede e rompicoglioni, quindi: in più, incapaci di godersi la vita, proni ai sensi di colpa. Il protagonista del film di Sorrentino sintetizza in modo esemplare quello che molti fabbricanti d’opinione, molti ideologi della borghesia pensano di una parte dell’intellettualità italiana, quella, per l’appunto, che una parte ce l’ha. Lo fa con estrema durezza, con ripugnante machismo, con il livore che si deve a una donna che “non sta al proprio posto”.
Il film ha vinto l’Oscar, capace come è di fornire una visione esotica, decadente e estetizzante, adatta a una fruizione compiaciuta, estatica, come quando si mangia molto formaggio, si beve molto vino e magari si fuma una canna subito dopo. Film adatto a un paese che da decenni tiene la testa dentro il buco del culo, e che anche in questo incarna una paradossale avanguardia mondiale. Il film del resto conferma uno stereotipo classico sull’Italia-Babilonia e non stupisce che il mondo anglosassone ne sia stato così compiaciuto.
È chiaro che quasi tutti quelli che fanno un uso pubblico della ragione, gli intellettuali del mondo reale, vivono vite lontanissime dallo stereotipo che il film di Sorrentino ci spaccia ancora una volta. Un ceto vastissimo che non per forza finisce sulle pagine dei quotidiani nazionali pronta a fornire un’illuminata, filosofica opinione sulla crisi ucraina, sulla crisi dell’Inter, sulle elezioni o su qualche tema etico, magari in compagnia di un prete o di uno sbirro.
Un esempio di uso pubblico, e critico, della ragione è la vita e l’opera di Valerio Marchi. Difficile pensare a un intellettuale più lontano dallo stereotipo disegnato dalle parole di Sorrentino/Gambardella. Chissà cosa avrebbe pensato e detto Valerio di un film simile.
Uno storico del conflitto. Un’intelligenza acuta, capace di muoversi sullo street level, sul piano dove il conflitto si esplica, si annoda, si scioglie e riannoda nel quotidiano, nelle vite di tutti e di tutte. Non è lecito aspettarsi che l’accademia riconosca la portata del suo lavoro, e in fondo non ha nemmeno molta importanza. Niente Oscar di nessun tipo, nessun riconoscimento ufficiale per libri come questo. A pensarci bene, è una fortuna Quello che conta davvero è che le parole di Valerio, le sue idee e la sua visione continuino a circolare, a essere fruite e rideclinate, che contribuiscano alla riflessione e perchè no alla formazione di quelli che di fronte alla pervasività del conflitto non si tirano indietro e sono pronti a giocare una parte dalla parte dei molti, cioè dalla parte giusta. Già, le cose diventano interessanti se Lenin, Gramsci, la scuola di Birmingham e Dick Hebdige escono dai corsi di storia o di sociologia o dalle sedi di minuscoli partitini e ci arrivano davvero, sullo street level, cioè sul piano dove avveniva negli ultimi anni la quasi totalità dell’azione intellettuale e politica di Valerio Marchi, intellettuale di strada. Tutto diventa interessante se libri come Teppa, che Red Star provvede opportunamente a ristampare, diventano piccoli breviari storici per sostenere la capacità di riflettere, analizzare, e quindi resistere e attaccare.
Figlio di un’altra temperie, Teppa ha ancora molto da dire al lettore contemporaneo, anche grazie alla cifra fruibile e apertamente narrativa. Merita nuovi lettori, dovrebbe essere consegnato a una generazione più giovane perché un filo rosso, quello della resistenza e della ribellione, non si perda, perché la bellezza dei corpi in rivolta non scompaia dalle nostre vite, inghiottita dal vaniloquio del potere, dalla voce meccanica dei suoi gadget mortiferi.
Negli anni in cui apparve, gli anni novanta del secolo scorso, si stava producendo un fenomeno interessante. Membri delle sottoculture stilistiche (dei culti, per dirla all’inglese) di cui parla il libro incominciavano a produrre discorso in prima persona. Le sottoculture, quella skinhead in particolare, giungevano hegelianamente all’autocoscienza. Con questo, da una parte, la purezza (preoccupazione in fondo borghese) era perduta, ma dall’altra si aprivano nuove possibilità, che gli anni successivi hanno cominciato ad esplorare. A metà anni novanta era possibile pensare in termini non meramente resistenziali. Appena dopo (il libro è del 1998) sarebbe esploso il movimento altermondialista.
Teppa, storie del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, si presenta come una carrellata di stili, una narrazione di corpi che si assoggettano a disciplinamenti alternativi, alle volte in aperto antagonismo rispetto a quelli del potere, e che negli interstizi della legge erigono spazi di vivibilità simbolici e concreti, biotopi nei quali forme di vita alternative proliferano, si diffondono, si contraggono e si espandono, subiscono mutazioni, attraversano filiazioni e riscoperte. In realtà tutti gli stili sottoculturali di cui parla il libro, dai Merveilleux agli Zazous agli Skinhead fino, in maniera già autocosciente, al Punk, incarnano l’equilibrio precario che è la rappresentazione/risoluzione simbolica del conflitto. Che può sfociare, e spesso sfocia, in conflitto aperto, ma fondamentalmente risiede nel rapporto tra sé e identità individuale e sociale. Rapporto che è segnato dall’appartenenza di classe, se è vero come è vero che in una società divisa in classi ogni pensiero ha un’impronta di classe. Stili che conoscono pregnanze effimere, che dicono simbolicamente tutto il loro dicibile nel volgere di una stagione, ma che poi si radicano, diventano opzioni percorribili, significative per molte generazioni, che conoscono evoluzioni e storie che coprono interi decenni. Stili che, come ci si diceva in un’estate romana di molti anni fa, sono ancora capaci di incarnare una problematica, non compiacente bellezza all’interno della metropoli globale. Questo, in tempi di autoassolutorie, sedicenti Grandi Bellezze continua a essere un dato importante.
Trovo molto interessante stabilire un parallelismo con “La grande bellezza”, un film che marca una distanza abissale tra classi, anzi meglio oscura l’esistenza dei poveri, nasconde alla nostra vista quella sofferenza diffusa e capillare che sempre più ci circonda. La povertà è un’indecenza, uno spettacolo ripugnante, meglio concentrare l’attenzione sulle sofferenze di questi poveri ricchi che, anche loro, piangono. In un momento di grande e profonda frustrazione emerge e vince un film che ha lo scopo di disegnare, con grande ed “elegante” cinismo, un immobilismo filosofico ed esistenziale come prerogativa nostalgica di una classe sociale benestante che sparge a piene mani e con generosa malinconia il suo stato d’animo su tutto, soffocando qualsiasi pretesa rivoluzionaria. Ci chiudono la bocca anche così, costruendoci intorno un immaginario che non ci appartiene, confondendo le acque. Ognuno al proprio posto è il messaggio, meglio non smuovere le acque. E’ per questo che, dopo aver letto la tua recensione, acquisterò “Teppa” di Valerio Marchi, che non conoscevo, come strumento utile a riportare ordine in questa confusione sistematica e funzionale di prospettive ed orizzonti di lotta, si, ognuno al suo posto… speriamo di combattimento.
Già, chissà cosa avrebbe detto Valerio de “la grande bellezza” o di mille altri argomenti.
Chissà che lettura avrebbe dato lui del film e dei personaggi, lui che era così acuto e incredibilmente capace di trovare nuove forme e nuovi codici di lettura, mai banali, sempre interessanti, talvolta assolutamente illuminanti.
Lui che era in grado di stupire in qualsiasi conversazione cambiando registro, rivoltando un argomento, trovando contatti incredibilmente inesplorati, ricordando eventi persi nella nebbia dei tempi.
Tante volte ho pensato “qui ci sarebbe voluto Valerio”, il Valerio della libreria, delle trasmissioni di Radio Onda Rossa con Roberto (anche lui ci manca, da 13 anni), il Valerio che la sera si poteva incontrare in giro per i bar di San Lorenzo; grandissimo narratore ed ascoltatore, in grado di interloquire con il fascistello dei boys come con il professore universitario, creatore di tormentoni e soprannomi.
Mi manca Valerio, soprattutto mi manca il conforto di potersi confrontare con uno come lui.
Grazie a Wu Ming 5 per aver prefatto il libro, grazie ad Anna per aver concesso la ristampa e grazie a Cristiano per averci creduto.
Valerio Marchi è una di quelle figure che più manca ai frequentatori delle curve (o agli ex come nel mio caso) che ogni volta devono turarsi il naso davanti allo sdegno ad orologeria dei benpensanti che si “godono” fatti come quelli dell’Olimpico del 3 Maggio. Mi permetto di segnalare un post scritto “a caldo” (come testimoniato dall’enfasi) sugli avvenimenti (http://www.sentierierranti.com/2014/05/morte-allultra-untore-meglio-se-brutto.html) e il testo di una relazione (più ragionata) sul binomio “ultrà/moralismo” scritta per il 4° ciclo di incontri “La psicoanalisi senza lettino”, sul tema “Il tempo del conflitto.Quando la parola viene meno” organizzato da LiberaParola, Centro multidisciplinare di psicoanalisi applicata, Modena 13 maggio 2014 (http://haecceitasblog.files.wordpress.com/2014/05/caccia-allultrc3a0-relazione-liberaparola.pdf).