Il mondo de L’Armata dei Sonnambuli si espande e si arricchisce. Possiamo dire senza timore di smentite che nessun nostro libro aveva mai suscitato una simile discussione, una simile partecipazione dei lettori (dal vivo e in rete), una simile eterogeneità di contributi nei più disparati e imprevedibili linguaggi e discipline. Dopo le fotografie in maschera, le maschere-origami e i bastoni sono arrivati prima il Traduttore automatico dall’italiano al muschiatino (!) realizzato da Giuseppe Mazzapica (cognome temibilissimo), poi il wallpaper multiformato di Scaramouche (per computer e telefoni) realizzato da Marco Scacc, e il prossimo post sarà interamente dedicato al «Laboratorio di magnetismo rivoluzionario» di Mariano Tomatis, cioè la sperimentazione più radicale tra quelle ispirate al libro (e pare proprio che, dopo l’esordio torinese, verrà riproposto al Festivaletteratura di Mantova, settembre 2014).
In questo post proponiamo, non necessariamente in quest’ordine:
– un breve saggio di WM1 su archivio, fiction e ibridazioni ne L’Armata dei Sonnambuli, scritto su gentile richiesta di Goffredo Fofi e della redazione de Lo Straniero;
– la «recensione sonora» del filosofo e storico della psichiatria Mario Galzigna;
– estratti dalle migliori recensioni apparse in rete dopo l’ultimo florilegio (e, di nuovo, sono tante!);
– il video del reading che ha “disturbato” la presentazione romana de L’Armata dei Sonnambuli al Communia di Roma (a cura di Marco Paparella, Nexus, Claudia Salvatori e Laura Garofoli);
– le registrazioni di due presentazioni del libro: Siena e la seconda di Bologna. Quest’ultima è stata una presentazione sui generis, perché c’era anche il Wu Ming Contingent in versione «unplugged» (cajon, chitarra acustica, chitarra elettrica e voce), che non solo ha presentato l’album Bioscop, ma ha eseguito letture musicali de L’Armata. Vi mettiamo a disposizione sia l’audio completo sia gli mp3 delle diverse canzoni.
[A proposito, su YT c’è un video del pezzo Stay Human dedicato a Vittorio Arrigoni.]
Buone letture e buoni ascolti!
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Dagli «Oggetti narrativi non identificati» all’Armata dei Sonnambuli e oltre
di Wu Ming 1
[Testo apparso con un altro titolo sul n. 168 della rivista «Lo Straniero», giugno 2014]
Nella nostra scrittura, fino ad oggi, si potevano distinguere in linea di massima due filoni: quello del romanzo storico e quello del cosiddetto «oggetto narrativo non-identificato». Da qui in avanti, penso che la distinzione sarà più difficile.
«Oggetto narrativo non-identificato» è l’espressione che scegliemmo nel 2000 per descrivere Asce di guerra, l’opera che inaugurò il filone. La scegliemmo in mancanza di meglio e transitoriamente, ma è un tipico caso di transitorio non transeunte, come certe cose lasciate a metà quando traslochi o ristrutturi l’appartamento. Asce di guerra lo scrivemmo insieme al comunista imolese Vitaliano Ravagli, classe 1934, ed era per un terzo la sua autobiografia (con focus sugli anni Cinquanta, quando finì a fare la guerriglia nelle giungle del Laos), per un terzo compendio delle guerre d’Indocina (una scrittura in tutto e per tutto saggistica), e per un terzo miscuglio disomogeneo di non-fiction e romanzo sulla Resistenza in Emilia-Romagna. Erano, di fatto, tre libri i cui capitoli si alternavano e avvinghiavano tra loro. Nella parte «romanzata», con qualche adattamento, attribuimmo a un personaggio immaginario l’inchiesta che avevamo fatto noi, facendogli incontrare e intervistare i partigiani (veri) che noi avevamo incontrato. Si trattava di un primo esperimento, non del tutto riuscito, anzi, in certe parti piuttosto sgangherato. In seguito lo abbiamo analizzato con una certa severità, ma fu un passo importante, ed eravamo determinati a proseguire in quella direzione.
Qualche anno dopo abbiamo scritto – e lo ribadiamo – che a interessarci non è tanto la «contaminazione tra i generi», operazione da tempo pleonastica e ormai realizzata in partenza anche nel più bieco mainstream (lo stesso Dan Brown «contamina i generi»), bensì l’ ibridazione delle tipologie testuali. Pensiamo che la collisione tra le più disparate tecniche e retoriche usate in diversi tipi di testo (narrativo, poetico, espositivo, argomentativo, descrittivo) possa sprigionare una grande potenza. Questa potenza investe da direzioni inattese i temi che vogliamo affrontare.
Fin dagli esordi uno dei nostri motti è: «Raccontare le nostre storie con ogni mezzo necessario». Solitamente queste storie le peschiamo dai «luoghi oscuri», dai coni d’ombra e dai rimossi della storia (nazionale ma non solo), e/o le troviamo interrogando le cicatrici del paesaggio. Un altro nostro motto è: «Stare tra l’archivio e la strada». Su quel materiale ci sforziamo di esercitare uno sguardo il più possibile «obliquo», sghembo, spiazzato.
Se di fronte alla storia ci limitiamo alla visione frontale, quella di primo acchito, inerziale, che avviene by design, della storia non vedremo che il monumento, ovvero ciò che è stato selezionato per produrre una retrospezione «ispirante» e dunque rosea. La storia monumentale vorrebbe dirci che «la grandezza, un giorno esistente, fu comunque possibile e perciò sarà anche possibile di nuovo; [l’uomo] percorre più coraggioso il suo cammino, poiché ora è sgominato il dubbio, che lo afferra nelle ore di maggior debolezza…» Sto citando dalla seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, che subito dopo avverte: «Quanta diversità dev’essere al riguardo ignorata […] Come violentemente l’individualità del passato deve essere compressa a viva forza entro una forma universale e smussata, ai fini della concordanza, in tutti gli spigolosi angoli e linee!» Un monumento vuole sempre raccontarci una sola storia a scapito di tante altre, imporre un unico punto di vista su tanti altri.
Faccio un esempio che conosco bene, essendo ormai triestino d’adozione: se andiamo a Basovizza, presso la più celebre delle «foibe» (che in realtà foiba non è, trattandosi di un pozzo minerario), e quivi rimiriamo il monumento, eccoci esposti a un racconto unico, quello dei barbari slavocomunisti e delle vittime italiane, uccise – come vuole la più banale delle vulgate – solo perché italiane. L’Italia è un paese incapace di raccontarsi se non come vittima, gli italiani sono sempre innocenti, nella tragedia hanno un ruolo e non è consentito che ne interpretino altri, lo dimostrano le vicende del film Il leone del deserto e del documentario Fascist Legacy. Cosa viene rimosso dal monumento a Basovizza, come del resto da tutti i monumenti dedicati ai «martiri delle foibe»? Viene rimossa l’intera storia del confine orientale dalla Grande guerra al maggio 1945: l’italianizzazione forzata, l’esproprio delle terre di sloveni e croati, l’invasione nazifascista della Jugoslavia, i crimini di guerra del Regio Esercito, la trasformazione di Lubiana in un grande campo di concentramento, l’annessione di Trieste e dintorni al Terzo Reich… Tutti «spigolosi angoli e linee» che è meglio far scomparire. L’esempio è estremo, ma non c’è monumento che non faccia questo, anche partendo dalle migliori intenzioni. Quanti monumenti alla Resistenza risultano bolsi, tronfi, ridondanti, e finiscono per allontanare quell’esperienza trasformandola in cliché?
Tuttavia, se un monumento lo aggiriamo, può capitarci di scoprire una storia diversissima, una storia alternativa. Non la consueta, banalissima, «storia nascosta», esoterica, occulta, quella che piace ai complottisti, ma la storia del conflitto che viene ogni volta rimosso, del molteplice ricondotto a forza all’Uno. Non c’è «smussatura» che possa cancellare il molteplice, perché è insopprimibile. In ogni società e fase storica il conflitto è endogeno, endemico, inestirpabile, e basta davvero poco perché l’Uno torni a essere (come minimo) due.
Se fissiamo il Nettuno del Giambologna da una particolare angolatura, di scorcio, vedremo realizzarsi una magia: il pollice sinistro spunta dal fianco e diviene un fallo eretto con tanto di glande enfio e turgido. Una leggenda locale parla di uno scherzo del Giambologna alle monache dell’adiacente convento: guardando dalle finestre, vedevano il dio esibire una poderosa erezione. Ecco che irrompe il conflitto, ecco che l’Uno (la statua) diventa due (lo scultore irriverente e le suore), e poi molti, perché uno pensa al potere committente, alle persone che sapevano della burla, a quelli che se ne sono accorti da soli, a chi tramanda la leggenda, e poi, chissà se è davvero «solo» una leggenda… Ecco un’allegoria di quanto cerchiamo di fare nei nostri libri.
Molti lettori si sono fermati ai nostri romanzi storici di gruppo, da Q ad Altai, ma è nell’altro filone – meno seguito – che hanno avuto luogo le sperimentazioni importanti e fondative. Sperimentazioni che hanno influenzato il nostro ultimo (in tutti i sensi) romanzo storico, L’Armata dei Sonnambuli, nel cui «quinto atto» irrompe il perturbante e si realizza la convergenza dei due percorsi.
Abbiamo cercato di raccontare la Rivoluzione francese aggirandone il monumento (peraltro abbandonato e pieno di sterpaglie), il contromonumento reazionario (la solfa sulla povera Maria Antonietta, su Robespierre assetato di sangue e così via) e l’antimonumento revisionista eretto a suo tempo da Furet e dai Nouveaux Philosophes, che è forse la costruzione più impositiva e mononarrativa di tutte. Se il contromonumento reazionario ci dice che la Révolution fu crudele, asserzione a cui si può sempre rispondere con un plebeo «Grazie al cazzo!», l’antimonumento revisionista ci dice che la Révolution fu inutile, ed è un enunciato ben più pericoloso. Noi abbiamo cercato di mettere in campo il molteplice, le diverse rivoluzioni dentro la Rivoluzione. Fino al quinto atto si può credere di aver letto un «semplice» romanzo storico (per quanto selvaggio e plurilingue esso sia), poi nel quinto atto succede qualcosa…
Da anni ci muoviamo in una terra di nessuno tra il «romanzo di non-fiction», la saggistica, il giornalismo, la poesia, il travelogue e chissà cos’altro.La tradizione è qualcosa che si sceglie, e noi rivendichiamo il carattere distintamente italiano della nostra «non-fiction creativa». La storia della letteratura italiana, per quanto possa sembrare strano, è in larga parte una storia di non-fiction scritta con tecniche letterarie, o di ibridazione tra fiction e non-fiction. Questo sempre si parva licet, naturalmente: ci arrampichiamo sulle schiene di giganti. Molti dei «classici» nostrani non sono romanzi, ma memoriali, trattati, autobiografie, investigazioni storiche, miscele impazzite dei più svariati elementi: la Vita nova, Il Principe, la Vita dell’Alfieri, lo Zibaldone di pensieri, la Storia della Colonna Infame, Se questo è un uomo, Un anno sull’altipiano, Cristo si è fermato a Eboli, Il mondo dei vinti, Esperienze pastorali, La scomparsa di Majorana, L’affaire Moro, per arrivare al caso Gomorra. Se la «non-fiction creativa» di oggi può essere percepita come più «selvaggia», grezza, dinamitata, è perché le opere appena elencate sono nel canone. All’epoca in cui furono scritte erano selvagge anch’esse, e comunque inetichettabili. Non rispettavano i confini canonici, spiazzavano le definizioni.
Dal nostro laboratorio, nel 2010, è uscito Il sentiero degli dei di Wu Ming 2. Si tratta di un romanzo di viaggio composto da racconti collegati tra loro, e al tempo stesso è – a tutti gli effetti – una guida per escursionisti con tanto di mappe, foto, consigli, indirizzi e contatti utili – e simultaneamente, senza soluzione di continuità, una controinchiesta su com’è stato deturpato e devastato l’Appennino tosco-emiliano. Ci sono tutti i danni e gli scempi causati da TAV e Variante di Valico. Qualche tempo dopo sono usciti il «romanzo meticcio» Timira, di Wu Ming 2 e Antar Mohamed, e Point Lenana, scritto da me e Roberto Santachiara. Questi ultimi due libri, usciti rispettivamente nel 2012 e nel 2013, compongono un dittico: entrambi affrontano il nostro rimosso post-coloniale, l’amnesia selettiva della nazione, i crimini del colonialismo italiano in Africa, anche se non parlano solo di questo. Point Lenana racconta il nazionalismo italiano, il fascismo, le guerre mondiali, le vicende del confine orientale, facendo passare ogni raggio attraverso un particolare prisma, quello del rapporto tra gli italiani e la montagna. E’ anche un libro sull’alpinismo, e sulla sua dimensione politica. Tommaso De Lorenzis lo ha definito «il risultato più estremo del lavoro di Wu Ming sull’ibridazione dei tipi testuali», ed è vero che abbiamo utilizzato tutte le tecniche che ci venivano in mente, tutti i tropi della scrittura saggistica, narrativa, lirica… In realtà ne L’Armata dei Sonnambuli andiamo oltre, solo che la faccenda è più sottile.
In fondo a molti nostri libri c’è una sezione chiamata Titoli di coda, dove segnaliamo le nostre fonti, elenchiamo le letture fatte, i viaggi, gli archivi consultati. In un certo senso «rilasciamo il codice sorgente del libro», affinché il lettore possa intraprendere un suo percorso di approfondimento, o andare alla deriva, oppure fare verifiche, fact-checking, «ingegneria inversa». Sebbene anche nei Titoli di coda le narrazioni proseguissero, il titolo e un certo salto stilistico li collocavano fuori dalla cornice del testo principale. Erano un addendo, un’appendice. Invece, ne L’Armata dei sonnambuli, i titoli di coda sono diventati il quinto atto dell’opera. Li abbiamo portati dentro la cornice del romanzo.
Manzoni chiama «Introduzione» la parte iniziale de I promessi sposi, ponendola fuori dall’intelaiatura del romanzo, ma quel testo è dentro la finzione dell’opera, l’estratto del documento secentesco è invenzione, è scritto imitando l’italiano di duecento anni prima. Oggi siamo smaliziati, sappiamo bene che quello stratagemma narrativo è frequente nel romanzo storico, anche perché su quella strada si è andati molto avanti, passando per Poe e arrivando alla fiction travestita da saggio (da Borges a La letteratura nazista in America di Bolaño passando per Sciascia, solo i primi riferimenti che mi vengono in mente hic et nunc). Oggi sappiamo anche distinguere il documento simulato dai documenti realmente reperiti negli archivi (le grida contro i bravi riprodotte nel primo capitolo). Anche i famosi «venticinque lettori» a cui Manzoni si rivolgeva erano smaliziati e in grado di cogliere la finzionalità e lo stratagemma, perché Manzoni lo riprendeva da Cervantes e Walter Scott. Il romanzo, dopo un lungo periodo di estrema «elasticità» nel definirlo, aveva da tempo trovato la propria forma e andava formando il proprio canone. Tempo addietro, la confusione tra fiction e non-fiction era frequente: nel 1719 De Foe aveva pubblicato il Robinson Crusoe spacciandolo per storia vera. È una volta terminata la confusione, una volta che il romanzo conquista la distinguibilità da altre forme, che può interrogarsi a fondo e con rigore su tale distinguibilità, e quindi sui confini tra fiction e non-fiction. Su questo Manzoni rimane un punto di riferimento, anche oggi, nell’era della testualità «liquida», dell’archivio infinito, della radicale prossimità e reciproco, rapidissimo interpellarsi di autori e lettori.
Il quinto atto de L’Armata dei sonnambuli non è chiamato «quinto atto» a caso, ma per segnalare che siamo ancora dentro la cornice del romanzo: gli scrittori entrano nel romanzo, il gioco prosegue e il lettore è sfidato a compiere le proprie esplorazioni, per capire dove passano i confini dopo la nostra ibridazione di archivio e finzione. Ci rivolgiamo a lettori partecipi e attivi, ai lettori «smaliziati» di oggi. Pensando a loro, abbiamo cercato di scrivere un libro che fosse pieno di bombe a tempo, di mine che esplodessero solo al secondo o terzo passaggio. Un libro che, una volta terminato, prima o poi chiamasse alla rilettura, grazie all’ultima parte «perturbante». Siamo lieti che questo stia succedendo. Quella che vogliamo far detonare è la consapevolezza del molteplice, contro ogni «smussatura» mononarrativa. L’alternativa all’imposizione di una storia è raccontarne mille altre possibili. Timira e Point Lenana hanno lavorato a fondo: i due percorsi della nostra produzione convergono, indietro non si torna. [WM1]
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«Poi c’è la questione del linguaggio. Qui ci sarebbe tanto, troppo da dire, e sinceramente non me la sento. In queste righe estendo solo alcune sottolineature. L’Armata è uno di quei libri che si inventano una lingua. Una lingua che poi quando chiudi il libro ti rimane in testa e ti obbliga a continuare a dire svitoddio e soquanti. Anzi, più d’una lingua. Perché non c’è solo una voce narrante che ci conta soquanti fatti ed è un primo eccezionale livello di impasto linguistico, con prestiti dal bolognese e neologismi a iosa e calchi traduttivi dal francese. Già questo è brillante. Ma poi c’è il gergo fighetto dei fottuti muschiatini che pa’ola mia pa’ano come se avesse’o uno stecco nel sede’e: evitano la erre per spirito controrivoluzionario e vengono castigati da Scaramouche e dal bastone di Marat che le eRRRe le calca tutte di bRutto e a fuRoR di gengive (ma è quasi un Cirano dei poveri con lo scroscio abbondante, questo Leo-Scaraouche che è anche un po’ un tamarro bolognese, direi). E Scaramouche calca la erre ma anche la strada perché il teatro negli anni della rivoluzione scende in strada e non si fa mica solo nei manicomi, ormai è living theatre. E allora di teatro ce n’è tanto, sia quello ribelle che quello che simula la rivolta. C’è il proletariato e c’è la plebe. C’è la libertà e la costrizione della volontà, in questo libro. C’è quel popolino felice che ricorda Les enfants du paradis, quelli del loggione, il film capolavoro di Marcel Carné, che parla di teatro e di gerarchie (il paradiso è la zona più rumorosa e più alta e sfigata del teatro, dove vanno i poveri, mentre la platea è per i borghesi); e c’è lo spettacolo dei mesmerizzati, avvinti da una forza autoritaria come quella che promana dallo spettacolo dei media di massa. Non sono proletariato infatti quelle genti mesmerizzate e sonnambulizzate, manodopera plebea e robotica nelle mani del primo mesmerizzatore (contro)-rivoluzionario che farà del popolo un pubblico passivo del proprio teatro-spettacolo-politico.»
– Estratto da: Alberto Prunetti, Omaggio a Marie Nozière, recensione apparsa sul blog Il lavoro culturale.
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«Wu Ming è, come sempre, attento ai controtempi storici, ai rimbalzi tra le epoche della ricezione della storia della Rivoluzione e ancora di più del suo mito e dei diversi miti rivoluzionari (e controrivoluzionari). Nel recente Utile per iscopo? di Wu Ming 2 si legge che il romanzo storico non cerca né il vero né l’utile ma punta a «falsificare la narrazione dominante, mostrarne le stratificazioni, sostituire allo stereotipo il conflitto» e l’obiettivo è pienamente centrato, grazie a un uso dell’anacronismo consapevole, volutamente spinto per interagire con altri tempi alla ricerca della dialettica con il lettore.
Se il lettore è sempre istanza attiva nei confronti del testo, quest’affermazione sembra essere ancora più centrata in questo caso rispetto al modo di intendere la vita delle storie raccontate. L’atto quinto, Come va a finire, è qualcosa di più dei consueti “titoli di coda” nei quali si rivelano fonti e modalità di lavoro dei singoli pezzi: il romanzo è disseminato di “botole” o “varchi temporali” che intendono spingere i lettori a rileggere, indagare e seguire i percorsi tracciati, magari per aprirne di nuovi e inattesi.
Membri di una comunità di lettori affamati di racconti che parlino ancora di un ‘noi’ (anche perché orfani di altre comunità?) ci ritroviamo addosso il desiderio di continuare il lavoro sul mythos interpretandolo e portandone alla luce virtualità inespresse, fino a far coincidere Wu Ming con We Ming.»
– Estratto da: Enrico Manera, L’Armata dei Sonnambuli, apparso sulla rivista on line Doppiozero.
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Siamo tutti #Scaramouche. Gli effetti della Termodinamica della Fantasia al #WuMingLab #Fantarchivo di CupraM. (AN) pic.twitter.com/CgZa0ZCkOM
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) June 22, 2014
Bella presentazione de L’#ArmatadeiSonnambuli di @Wu_Ming_Foundt a Massenzatico. Ora però mi sono perso per la bassa reggiana. AIUTO.
— Gnarrrgh! (@Gnarrrgh) June 20, 2014
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«E le donne, diverse, uguali, l’hanno iniziata loro la cagnara, donne in cerca di una strada, in cerca di una Rivoluzione nella Rivoluzione a partire dallo strappo, dal taglio, dall’eccezione. La controrivoluzione, che, per qualcuno, non è l’opposto di una rivoluzione: la controrivoluzione è la rivoluzione opposta. E il Terrore. E la parte smerda, che «Terrorista» era chiunque rammentasse al prossimo che anche i ricchi cagano. La parte smerda perché, tanto, eravam tutti te’o’isti. E la fame, quella che la testa non funziona più come prima, s’incaglia. E frasi come stilettate, come sassi lanciati lontano con notevole precisione. Parole che eccitano gli animi e causano turbamento dell’ordine pubblico, perché il potere rivoluzionario rispetta la libertà d’opinione, ma attenzione a quel che si dice. Una narrazione in armonia con lingua e linguaggio, ricercata e colma di dettagli che creano un’insieme compatto, tangibile, fin negli odori, fin nella massa, nel popolo, che si muove, avanza, arretra, ancora avanza, vive, muore, ride, piange e fa la Storia.»
– Estratto da: Mia Parissi, L’Armata dei Sonnambuli, una (non)recensione.
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«Insomma, il romanzo si sostiene sulla farsa, in un senso che sa andare anche oltre l’aspetto tematico e che si dipana in domande implicite sulla veridicità di quanto narrato. Come sono andate veramente le cose durante la Rivoluzione Francese? Chi affermava cosa, e con quale obiettivo? E i personaggi di cui leggiamo, quelli che si muovono tra i vari Robespierre e Leclerc, sono realmente esistiti? L’ultimo atto è un’appendice storio-biografica in cui gli autori si dilungano sulle sorti dei protagonisti come Léo, D’Amblanc e Marie, citando fonti d’archivio e anagrafiche, e non dimenticando di ragguagliarci anche sulle successive vicende della rivoluzione e dei reali di Francia. Dell’esistenza di questi uomini e queste donne si parla con la stessa naturalezza con cui si racconta di eserciti ipnotizzati e di guardie stroncate col flusso magnetico. Ma allora, a cosa dobbiamo credere? Cosa è stato inventato, cosa descritto?»
– Estratto da: Francesco Corigliano, La rivoluzione di Wu Ming.
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Audio completo della presentazione alla biblioteca «Casa di Khaoula» di Bologna, 11 giugno 2014.
Audio completo della presentazione alla biblioteca «Casa di Khaoula» di Bologna, 11 giugno 2014.
Durata: 2h 24′ 15″. 207 mega.
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@Wu_Ming_Foundt #ArmatadeiSonnambuli ecco come appare sul cell. Un po’ forte. Preso spunto da pag 634 e 637 pic.twitter.com/LSWncAgaTm
— Marco Scacc (@MScacc) June 21, 2014
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APPUNTI PER IL PROSSIMO TRENTENNIO :-)
APPUNTI PER IL PROSSIMO TRENTENNIO :-)
Mario Galzigna introduce la presentazione de L’Armata dei Sonnambuli a Padova, 30 maggio 2014. Durata: 10’30”.
Docente di storia della scienza e di epistemologia clinica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, Galzigna è autore di numerosi saggi, l’ultimo dei quali è Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo (Bollati Boringhieri, 2013). Ha tradotto e curato le edizioni italiane degli ultimi corsi di Michel Foucault al College de France, Il governo di sé e degli altri e Il coraggio della verità, entrambi pubblicati da Feltrinelli. Sempre per Feltrinelli, ha curato la raccolta di saggi Foucault oggi.
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«Non è propriamente un dormire: il sonnambulismo è un altro modo di stare svegli. Non è un essere passivi e abulici, anzi è un attivismo incessante, produce dinamismo, quasi fossero proprio il godimento e l’azione a spingere la nostra marcia. Il sonnambulismo si mescola a una sindrome del fare, condotta anche fino al limite della violenza, a una specie di ubriacatura collettiva. I segnali non sono difficili da captare, dal parossismo tecnologico che ha ormai ipnotizzato giovani e meno giovani generazioni fino all’inebriamento di massa per i circenses sportivi.»
– Estratto da: Pier Aldo Rovatti, «Una società di sonnambuli», apparso su «Il Piccolo» del 20/06/2014.
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«Il confronto tra aspirazioni ideali e necessità materiali che vivificò il processo rivoluzionario non si risolse mai nella prospettiva di un ritorno al rassicurante ordine precedente e sono proprio quegli aspetti che più assecondarono le tensioni alla rottura con il passato che la rivoluzione ha lasciato come migliore eredità ai posteri . Un lascito in tutti gli ambiti, politico, economico e culturale, enorme, che la subdola restaurazione termidoriana non riuscì ad eliminare del tutto e a cui ancora oggi è necessario fare riferimento […] Quando fu spodestata, l’aristocrazia non era che la parodia del ceto che per secoli aveva guidato il continente, ma a decretarne la fine furono, tra i vari motivi, anche gli errati presupposti ideologici, le tare che si portava con sé da secoli, rappresentate dall’ironica fine di Luigi XVII, discendente di re taumaturghi morto per la scrofola. La borghesia, la classe in ascesa, portava a sua volta con sé quei limiti che oggi la condannano, riassumibili nell’inesauribile contraddizione tra la difesa della proprietà privata e l’aspirazione ideale alla libertà, anche economica, della società.»
Vittorio Saldutti, dalla recensione apparsa su Falcemartello.
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«Le quasi 800 pagine dei Wu Ming risuonano di una musicalità impressionante: “il ritmo è così incalzante – interviene Presini – che si può quasi riconoscere il rap, o il rock progressivo degli anni ‘70”, ed è chiara come la scrittura sia permeata dal “laboratorio sperimentale di musica” degli stessi autori, impegnati nel progetto, estraneo ad un semplicistico divertissement degli autori, Wu Ming Contingent. E così, mentre “per gli edulcorati, Cura Robespierre” resta il testo di una canzone del nuovissimo album Bioscop, le parole de ‘L’armata dei sonnambuli’ suonano di ritmi e assonanze, respiri e rime, ed una lettura attenta riconosce persino settenari ed endecasillabi “poi sporcati, come parti liriche subliminali, perché amiamo i metri di poesia nella prosa”. L’allegoria è dunque aperta: il sangue delle ghigliottine bagna i ciottoli di una Parigi in subbuglio e colora ‘lo spirito di Marat’, il bastone con cui l’attore Scaramouche, uno dei protagonisti, si improvvisa “macchina ammazza-cattivi” rendendo l’intera città teatro della sua commedia […] La nube di transmedialità del romanzo incorpora il presente, si articola e si snoda oltre il piatto moralismo, perché “una rivoluzione non può essere decaffeinata, pacifica, una rivoluzione è una rivoluzione”.»
Estratto da: Silvia Franzoni, L’Armata dei Sonnambuli, sperimentazione dei Wu Ming.
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Vuoi più bene ai #Mondiali2014 o alla #ArmatadeiSonnambuli? #nonsa #nonrisponde #nonlegge
— Fab (@j0hngr4dy) June 17, 2014
Spe’pe’a’e muschio pe’ edifica’e p’esepi è uno sga’bo olt’emodo volga’e!
Pa’ola mia.
P.S.
Provato subito e funziona alla grande.
Però ‘sto traduttore può creare dipendenza…
il file “Audio completo della presentazione alla biblioteca «Casa di Khaoula» di Bologna, 11 giugno 2014”..non è scaricabile…purtroppo.
Nell’URL c’è un carattere che il plugin riconosce per lo streaming ma non per il download, vai a capire il perché… Grazie della segnalazione, risolviamo appena possibile.
Sistemato, adesso il download funziona!