1. LA FEDELTÀ ALL’EVENTO
Nel film di Guido Chiesa, una donna compie un gesto di rottura e fondazione: sottrae una nuova verità all’insieme di una comunità già esistente e definita, e ne afferma la portata universale.
Quando un evento rompe il tran tran e afferma una verità, nessun insieme storico precostituito – popolo, tribù, nazione – può ridurla a sé. Un evento del genere può essere solo “illegale”, anzi: a-legale, indifferente alle leggi che regolano quell’insieme.
Nel film, la comunità di partenza è definita dal sangue (sangue come “stirpe”, ma anche in senso più letterale: il sangue versato nei sacrifici) e da una Legge che ogni volta interviene a dividere: separa il puro dall’impuro, l’ebreo dal gentile, l’uomo dalla donna… la mamma dal neonato. Questa Legge si fonda sul calcolo e su serie ripetitive:
«Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni […] L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi del suo sangue […] Ma se partorisce una femmina sarà immonda due settimane… resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue.» (Levitico, 12, 1-5)
«Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, la sua immondezza durerà sette giorni; chiunque la toccherà sarà immondo fino alla sera. Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la sua immondezza sarà immondo; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà immondo.» (Levitico, 15, 19-20)
Et cetera.
Essere “fedeli all’evento” significa allora continuare a dichiarare la rottura. Fedeltà all’evento significa dire che:
1) Il sangue non conta (in entrambi i sensi);
2) Le divisioni non sussistono;
3) Le serie ripetitive possono essere interrotte.
E’ precisamente quel che fa la protagonista del film. L’evento a cui Maria rimane fedele è il suo diventare madre. Sa che suo figlio sarà speciale (perché c’è stata un’Annunciazione), ma lo sarà soltanto se partorito, cresciuto ed educato interrompendo la coazione a ripetere della stirpe, dei calcoli e dei rituali.
La comunità con cui Maria si scontra è quella ebraica rurale di Nazaret, Galilea, ai tempi di Augusto imperatore. La prima sfida alla Legge riguarda la circoncisione dei neonati.
Questo, com’era prevedibile, ha attirato al regista accuse di antisemitismo. Mi hanno detto che, durante la prima fiorentina del film, uno spettatore si è alzato e ha scagliato contro Guido un’invettiva free-form: “Léfebvriano!… Nazista!… Sei milioni di morti!!!”
E’ un problema che abbiamo riscontrato anche noi dopo aver scritto Altai: non si vuole capire che gli ebrei del film o, nel nostro caso, del romanzo non sono “gli ebrei”, bensì tutti noi. E’ un’allegoria profonda: la comunità rappresentata sta per qualunque comunità le cui regole vengano messe in crisi. E se nel film c’è proprio quella comunità, la comunità ebraica della Galilea di due millenni fa, le ragioni sono più che ovvie: di quale altra gente avrebbero potuto raccontare gli autori, volendo narrare la storia di Gesù? Per essere politically correct dovevano forse spostare l’azione in Brianza?
Nel film, la circoncisione sta per qualunque legge che tagli, nel senso di separare. Occorre dunque separarsi dalla legge che separa. Da qui la macchinazione di Maria, il suo “raggiro”: col pretesto del censimento, persuade Giuseppe a partire per Betlemme. In questo modo partorirà nel deserto, a debita distanza dalla tribù e dalle sue interferenze in nome della “purezza”.
Una dura battaglia sulla circoncisione – esattamente nel senso spiegato sopra – la combatterà una cinquantina d’anni dopo Paolo di Tarso. Sarà lui a dire che per essere veri cristiani non è importante essere circoncisi. In questo modo cadrà la separazione tra ebrei e gentili e la Resurrezione di Cristo potrà essere dichiarata da tutti, nella pienezza della fedeltà all’evento.
L’accenno a Paolo non è casuale: negli ultimi anni si è intensificata la riflessione sulla sua figura di “militante”, sulla sua fedeltà all’evento (la Resurrezione), sul suo sottrarre la verità a un mondo circoscritto per metterla a disposizione di un insieme nuovo e potenzialmente illimitato. Su questo ha scritto un bellissimo libro Alain Badiou (San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli 1999). E, poco più di un anno fa, Mario Tronti ha promosso e animato il convegno “La teologia di San Paolo può interessare il politico?”
La cosa che più mi ha colpito è che questo film attribuisce a una donna (anzi, una ragazza) e a una madre quel che di solito si attribuisce a Paolo. Il cambiamento di genere e lo spostamento del punto di vista non sono poca cosa: rendono il discorso ancora più forte.
Certo, la rottura con la comunità non può essere completa, portata ciecamente alle estreme conseguenze. In fondo, quella comunità è – direbbe Badiou – il “sito” dell’evento. Non può esserci un evento senza un sito. Maria è calata nella sua realtà, è ebrea, prega il Signore che hanno sempre pregato gli ebrei, si reca al tempio, manda Gesù a lezione dal rabbi. Ma è nei suoi “effetti di verità” che l’evento deve rendersi indipendente dal sito, dunque Maria insegna a Gesù a mettere in discussione quel che ascolta dal sacerdote, a fare e farsi domande, a testimoniare un diverso approccio alla fede. E’ così che il Signore di Gesù (e di sua madre) pian piano si diversifica da quello vetero-testamentario. Perché quel che accade sulla terra retroagisce su Dio. Noi siamo, in tutto (per gli atei) o in parte (per i credenti), la storia di Dio.
Detto ciò, ho la forte impressione che il film mi sia piaciuto per motivi diversi da quelli per cui è stato scritto. Mi sento fuori posto nelle interviste che rilascia Guido, e gliel’ho detto. Mi sembrano da un lato troppo… “religiose” (ma chi fa battute sulla “crisi mistica” di Guido e Nicoletta è un imbecille, perché questo è un film ragionato e ragionante), dall’altro troppo focalizzate sul rifiuto di spargere sangue, la non-violenza etc. Tema che nel film è ben presente, ma che per me (ripeto: per me) non è quello centrale. In questo film io vedo principalmente un evento, la fedeltà a quell’evento, un soggetto femminile che afferma la verità di quell’evento contestando la Legge. [WM1]
2. IL BORDO DEL POZZO
L’aspetto che colpisce nell’ultimo lavoro di Guido Chiesa è il coraggio di fondo dell’impresa. Narrare ai giorni nostri, e per questa generazione d’uomini, la vicenda della nascita di Gesù Cristo comporta infatti due trappole potenziali che si guardano l’un l’altra allo specchio. Da una parte la neutralizzazione, il “come se”, l’interpretazione del ruolo e della vicenda sotto il segno della metafora: “come se” Maria fosse vergine, perché assolutamente pura di cuore e di intenti; “come se” Gesù fosse il figlio di Dio, perché grande maestro in qualche modo definitivo dell’umanità, eccetera. Dall’altra la trappola della fedeltà alla lettera evangelica, con tutti i rischi anche politici che tale scelta, oggi, comporterebbe.
Il film prova ad evitare l’impasse guardando tutto da un’angolazione idealmente e tecnicamente forte: la storia è un racconto, il racconto della madre di un maestro che i discepoli riterranno un essere divino, anzi Dio stesso. E’ la voce della donna ormai vecchia che ripercorre i nodi salienti della vicenda.
Primo dato: non c’è il sovrannaturale, nella narrazione della donna. C’è anzi la stabile connessione con una virtualità profonda, innata, che pare profondamente naturale. E’ l’ osservazione del parto di una capra, per esempio, che insegna a Maria “come” partorire. L’uomo che fa irrompere il divino nella Storia è il detentore della pienezza potenziale della condizione umana, nel senso potente e profondo che in realtà il parto di Cristo è un parto normale, naturale, libero dall’anomalia in cui lo collocherebbe il miracolo della concezione per opera dello Spirito di Dio. Qualunque sia stata la sua concezione, il parto del bambino avviene nel modo che dovrebbe essere giusto per tutti: una madre consapevole, sveglia, attenta.
Certo il pericolo dell’idealizzazione della figura materna è dietro l’angolo, ma qui si tratta di una madre dai tratti culturalmente lontanissimi dalle abitudini del nostro tempo e della nostra periferica forma culturale. Maria non si frappone mai tra il bambino e le sue ripetute nascite simboliche, nel corso della storia. E’ per questo che il bambino percorre il bordo del pozzo senza cadere, è per questo che il bambino sviluppa il coraggio spirituale che lo motiva.
A mio parere il punto critico del film è rappresentato dal lungo episodio dell’arrivo dei sapienti. Da una parte la ricerca di segni rimanda al discorso della profezia, al discorso ebraico; dall’altra i sapienti parlano greco e paiono alla ricerca di un futuro maestro eminente più che del Messia degli ebrei. La loro presenza è per questo ambigua, e confesso che avrei bisogno di un’altra visione per capire meglio il ruolo che il regista assegna a questo personaggio collettivo nell’economia della narrazione. Si tratta comunque di un film che ha una ricchezza di temi e di rimandi prodigiosa, insolitamente appagante, affermativo, facile da seguire. Quella che si suole definire un’opera matura. [WM5]
3. LA SACRA FAMIGLIA SVANISCE
L’aspetto che più colpisce, in Io sono con te, è scoprire come la narrazione evangelica possa essere ancora liberata da stereotipi, dopo duemila anni di interpretazioni e riscritture. Si entra in sala ben sapendo che ci si troverà davanti a una Madonna “fuori dall’iconografia” e così l’elemento di vera sorpresa non è tanto nel personaggio di Maria, per quanto riuscitissimo, ma nella totale ridefinizione della cosiddetta “Sacra Famiglia”. Siamo abituati a immaginare l’infanzia di Gesù come un Presepe permanente e a raccontarci la crescita del Cristo in un contesto familiare molto simile a quello odierno, con la mamma, il papà e l’unico figlio. Io sono con te manda in pezzi questo quadretto e ci riporta alla dimensione storica di una famiglia allargata e patriarcale, dove il nucleo più ristretto deve confrontarsi giorno per giorno con fratelli, nonni, cugini, parenti.
In questa prospettiva, nella grotta di Betlemme avviene un fatto eccezionale, fortemente voluto da Maria, ed è la nascita di un bambino fuori dalla famiglia, così come allora la si concepiva. Se non fosse che il termine ormai ripugna, si potrebbe dire che quella grotta fu una TAZ, una zona temporaneamente autonoma. La “Sacra Famiglia” come la intendiamo noi non dura più di una decina di giorni, il tempo necessario a salvare il neonato dal piccolo supplizio della circoncisione (che qui è metafora di ogni violenza). Passato quel breve periodo, Maria & Giuseppe devono tornare a fare i conti col parentado, vivendo fianco a fianco con uomini e donne che li tormentano a causa delle loro scelte.
Il modello del Genitore Premuroso si scontra così in campo aperto con quello del Padre Severo e riesce ad avere la meglio, grazie alla forza di entrambi i componenti della coppia: Maria con la sua quieta e disarmante determinazione, Giuseppe che “si fa rispettare” dal fratello maggiore e resiste allo stigma del gruppo: “non sai tenere tua moglie al suo posto”, non hai le palle per educare tuo figlio come si deve.
Ancor più forte, se possibile, la scelta di Zaccaria & Elisabetta, convinti anche loro da Maria a non far circoncidere il figlio Giovanni (futuro Battista). Zaccaria infatti è anche sacerdote, e pagherà la sua decisione con l’ostracismo di tutta la comunità.
Come risultato di questa “rivoluzione copernicana”, la vicenda di Gesù – infanzia compresa – viene restituita pienamente alla sua dimensione di rottura, non solo della tradizione religiosa, ma anche di quella familiare, e dunque della famiglia stessa: “sono venuto a mettere il padre contro il figlio, la donna contro l’uomo, il fratello contro il fratello”. Per Gesù Nazzareno, insomma, la famiglia era tutt’altro che Sacra.
Ora se c’è una pecca, nel film, sta nel voler presentare queste tesi in maniera fin troppo evidente. La narrazione ha una chiave ben precisa, e per quanto ricca, finisce col chiudere l’allegoria, schiacciandola su un’interpretazione determinata. Forse è inevitabile che una riscrittura evangelica risulti più ristretta rispetto al testo di partenza, proprio perché l’interesse di una narrazione del genere sta nella novità della rilettura, e tale novità, pertanto, deve saltare all’occhio e trovarsi sempre in primo piano. Per questo ho trovato eccessivamente esplicativa tutta la parte con i sapienti, dove la “tesi” del film viene enunciata a chiare lettere, spiegata nel suo significato profondo. Chiesa ha voluto tenere fuori dal suo film la dimensione sovrannaturale: chi vuole può vedercela, ma nel racconto tutto è razionale. Sono convinto invece che proprio l’esperienza del sacro – non come banali superpoteri, ma come mistero – avrebbe vaccinato Io sono con te dal rischio di voler per forza “dimostrare” qualcosa. [WM2]
4. LA MAMMA PERFETTA
A fronte degli innegabili meriti di un film coraggioso come Io sono con te, è opportuno affrontare anche il punto critico più evidente, e cioè l’esaltazione del rapporto primigenio madre-figlio.
Inutile negare che di questi tempi un’elegia sulla maternità, qual è il film di Guido Chiesa, comporta dei rischi. Tanto più quando si prende la Madonna come prototipo materno: madre perfetta in relazione perfetta con un bambino che si chiama Gesù (mica Jacopo o Mattia). Gesù al quale, nel film, uno dei personaggi saggiamente fa notare che “Non tutti hanno avuto una madre come la tua!”. Osservazione indispensabile, dato che in quella relazione primaria si trova spesso la radice non solo del bene che ci viene trasmesso ab origine, ma anche dei guai che ci accompagneranno per il resto dei nostri giorni.
D’altra parte quella antica storia ci viene nuovamente raccontata oggi, e si fatica a non connetterla a certi aspetti culturali e psichici del presente.
Il ruolo di Maria nel film di Guido Chiesa è fondativo proprio a partire da una nuova concezione della maternità. Quella che avviene è una trasmissione per via femminile di modelli comportamentali e relazionali differenti che Gesù si incaricherà di comunicare fuori dalla soglia domestica: rifiuto della violenza e della vendetta, repulsione per il sangue, misericordia, libertà, superamento delle compartimentazioni imposte dalla legge e dei precetti educativi patriarcali, etc. Tuttavia sappiamo che una nuova idea pedagogica e dei rapporti umani che coinvolga figli maschi e mariti (nel film Giuseppe è un uomo che si lascia cambiare, senza per questo essere passivo) è condizione quanto mai necessaria ma non ancora sufficiente a migliorare il mondo. Tanto più quando il mondo, là fuori, appare come un groviglio caotico.
L’insicurezza relazionale diffusa, l’allentamento dei legami sociali, il disincanto per le sorti collettive, la perdita dei ruoli, la precarizzazione delle condizioni lavorative, sono tutti fattori che concorrono a determinare la tendenza attuale a “rifugiarsi” nella certezza di una relazione biologica e affettiva primaria. E benché questo includa anche i padri dell’ultima generazione (che per la prima volta instaurano relazioni diverse con i figli, condividono ruoli tradizionalmente femminili, etc.) è ovvio che non c’è niente di più certo, rassicurante, del legame madre-figlio (mater semper certa est) e che le donne sono le vere protagoniste di questa riscoperta. Riscoperta che in sé non avrebbe nulla di negativo, se non fosse che da un lato può trasformarsi in un ritorno volontario ai ruoli di prima, ancorché riveduti e corretti, ovvero resi accettabili a una sensibilità attuale; dall’altro lato compensa il disorientamento esterno focalizzando il nostro agire e il nostro investimento psichico – in particolare quello femminile – sul legame “ombelicale”.
Non sono poche, tra le donne che possono permetterselo, quelle che scelgono di tornare a fare le mamme casalinghe (o quasi), di realizzare le proprie aspirazioni e capacità esclusivamente dentro le mura domestiche, all’interno delle relazioni famigliari, rinunciando completamente a farlo anche fuori, nella società. Una società che, invece, di presenze e interventi femminili ha sempre più bisogno.
Ecco dunque che il film, mentre afferma con forza una cosa crea anche la zona d’ombra proiettata dalla cosa stessa. Il “prodigio” enunciato da uno dei sapienti, e cioè “una madre che crede fino in fondo nel suo bambino”, rimanda immediatamente alla necessità e alla forza rivoluzionaria di un modello educativo non repressivo e non apprensivo, ma evoca anche l’investimento psichico incondizionato e la dedizione assoluta al rapporto con i figli, adorati come Gesù. Investimento e adorazione magistralmente sintetizzati da Cormac McCarthy ne La Strada, quando il personaggio del padre, lontanissimo da qualunque misticismo, dice del proprio figlio: “Lui è Dio”.
Insomma, il margine di rischio assunto dal film di Guido Chiesa carica la storia di un potenziale polemico a noi molto prossimo, ben prima di entrare nel vivo delle questioni religiose. Ma questo evidentemente lo rende più interessante anziché no. E’ quel che si dice far lavorare una storia archetipica. [WM4]
***
Io sono con te, Italia, 2010.
Prodotto da Colorado Film e Magda Film in collaborazione con Rai Cinema.
Scritto da Guido Chiesa, Nicoletta Micheli e Filippo Kalomenidis.
Diretto da Guido Chiesa.
Il sito ufficiale di Guido Chiesa:
guidochiesa.net
Se intervengo su un post riguardante un film che non ho ancora visto, non è per ingrossare la schiera dei tuttologi, ma perchè al centro (del post, forse anche del film) non è il cinema nè il vangelo nè la maternità, ma la questione ermeneutica, cioè la fenomenologia dell’evento in quanto accadere simbolico.
Questione che mi sta molto a cuore, questione centrale.
Quel che accade si può leggere riportandolo alla grammatica del passato (e allora risulterà conforme o non conforme), oppure può essere l’evento stesso, con la sua eccentricità, a manifestare l’inadeguatezza della grammatica, proponendosi come “simbolo” che può aprire nuove possibilità d’esistenza, a patto di suscitare una “metanoia”, cioè una trasformazione, un rinnovamento della coscienza interpretante.
Il fatto che poi questa coscienza si pre-disponga a un ascolto sempre rinnovato e pronto ad abbandonare l’hortus conclusus dei propri assetti grammaticali, configura precisamente la struttura della pasqua ebraica (si mangia l’agnello coi calzari ai piedi, sempre pronti a partire) ma anche della rivelazione cristiana (è lo Spirito che assiste l’interpretante a garantire la fedeltà non meramente letterale al Vangelo).
Se il settarismo talmudico e l’intolleranza confessionale dei cristiani hanno poi pervertito questa struttura originaria, ciò non toglie che in essa l’occidente abbia introiettato una volta per tutte la storicità dell’esserci.
Su questo ho scritto un romanzo allegorico, che è in uscita.
A mia volta sviluppando idealmente la fenomenologia del simbolo contenuta in un capolavoro del Novecento, che è il Quinto Evangelio di Mario Pomilio. Di cui oggi ho postato (non casualmente, visto che andrò a Trento con Giulio Mozzi a parlare di questo libro venerdì) un brano significativo.
http://valterbinaghi.wordpress.com/2010/11/21/il-quinto-evanegelio1-di-mario-pomilio/
Valter, a Trento registrate?
Vallo a vedere il film, è un’uscita importante.
Non so, è Giulio che organizza.
Il film è sicuro che lo vado a vedere (e non solo per il sottotesto)
:-)
Forse nel mio paragrafo c’è un passaggio dato troppo per scontato, me l’ha fatto notare WM4.
Quando scrivo che il film attribuisce a Maria quel che di solito si attribuisce a Paolo, mi riferisco *specificamente* all’infrazione e al superamento della vecchia Legge, alla dichiarazione senza possibilità d’equivoco che un evento portatore di verità rende obsoleti i vecchi segni e rituali.
Sotto questo aspetto, mi è parsa significativa la coincidenza dell’oggetto della polemica: in entrambi i casi la sfida avviene sulla circoncisione, benché per motivi diversi: Maria vuole interrompere la coazione a ripetere del dolore e del sangue; Paolo vuole rimuovere un ostacolo alla conversione dei gentili.
Non vorrei però aver dato l’impressione che Maria e Paolo… dichiarino lo stesso evento. Non è così.
Nella vita di Paolo l’evento è la folgorazione sulla via di Damasco, l’istante in cui comincia a credere alla Resurrezione; momento tanto sconquassante e “fusionale” che le due cose diventano una sola: l’evento è la Resurrezione stessa. Nelle sue lettere lo ripete ad nauseam, non fa nessun riferimento alla vita di Gesù, alla sua infanzia, ai suoi miracoli; non nomina Maria; c’è la Resurrezione, la Resurrezione e basta.
Nella vita di Maria l’evento è restare incinta, diventare madre, avere questo figlio potenzialmente speciale, che (come del resto tutti i bambini) diverrà speciale se *lei* lo crescerà nel modo che sente giusto, dandogli fiducia etc.
Quel che mi interessava rilevare era questo: ad accomunare questi due percorsi c’è la sfida alla vecchia Legge che separava. Il che non è certo poco.
Un paio di riflessioni/domande, una “nel”, l’altra “intorno” al film.
Oltre agli aspetti segnalati con precisione dagli ‘appunti’, ciò che mi ha molto colpito è la forte interrogazione, che riguarda l’oggi, verso il maschile, il suo ruolo. La sua possibile novità, rigenerazione.
La figura di Giuseppe, (e quella di Zaccaria), ci mostra una forza riflessiva. Wm4 scrive, nel giusto, capace di cambiare.
E’ facile scambiarla con una posizione subalterna, secondaria, vicina all’irrilevanza.
Al contrario, io la trovo fortissima. Dirompente. Non meno
dell’irruzione del femminile capace di far saltare schemi e strutture ataviche e consolidate dell’ordine patriarcale.
Perchè contiene sia la crisi che il suo superamento. Perchè non nega il conflitto, la perdita di privilegio e certezze, ma lo ripropone anzi ad un livello più alto, dentro e fuori il contesto di appartenenza, facendosi scudo, garante e attore stesso di quel conflitto.
“Tu hai fatto grandi cose”, gli dice Maria, e credo abbia ragione.
Via via che la storia procede Giuseppe è sempre più sicuro di sè, convinto. Direi, liberato. Capisce cioè non solo e non tanto che ciò che fa è giusto, ma che gli fa bene. Proprio a lui. Che forse quel potere, quel privilegio, la cui perdita appare così sconvolgente, sono la negazione di ogni serenità, ogni felicità possibile.
E termina il film sorridente, guardandoci negli occhi.
La seconda invece, in forma di domanda è: qual è lo spazio, al di là delle questioni industriali e distributive, per un film come questo, oggi?
Intendo spazio cognitivo, ed emotivo. Tempi e luoghi per la fruizione, l’assimilazione, la digestione di storie che hanno simili caratteristiche, attitudini, richieste verso coloro che le ricevono?
Si avvicina alla follia la fiducia con cui Guido, Nicoletta, lo stesso produttore Totti, ci offrono questa narrazione convinti che quello spazio saremo capaci di trovarlo.
Anche solo per questo sarebbe importante ringraziarli. Premiarli.
L.
Allora andrò di sicuro a sentire Binaghi a Trento visto che ci vivo (in provincia di) e ho appena preso Il quinto evangelio.
Volevo commentare un brano (senza avere visto il film, che per me come per molti, credo, è impossibile da vedere, a meno che non decidano di farlo passare anche per di qua, TN)
“Perché quel che accade sulla terra retroagisce su Dio. Noi siamo, in tutto (per gli atei) o in parte (per i credenti), la storia di Dio.”
Mi sembra che questa frase, peraltro condivisibile, abbracci un punto di vista che è esclusivamente quello delle tre religioni monoteistiche, lasciando quindi da parte una vasta parte di mondo che si riconosce in altro. Chi coltiva un interesse anche vago per l’Advaita o per il Buddismo, per esempio, non si può riconoscere né in nella parte né nel tutto della storia di Dio, in quanto il concetto di Dio lì non esiste, senza che la questione della rottura di una coazione a ripetere da parte di una madre sia meno interessante. Ora, è chiaro che qui si sta parlando della koinè all’interno della quale si è formato il codice culturale che ancora oggi predetermina azione e pensiero per la vasta parte di mondo che vi si riconosce o che vi si oppone (quindi riconoscendolo in ogni caso). Tuttavia, nel codice genetico di questa koinè, e in parte anche nella tradizione del pensiero cristiano, c’è anche l’altra piccola parte, cioè quella che si occupa dell’Essenza e quindi non di Dio. Sono fuori tema perché qui si parla di una donna che rompe le regole, ma la frase è inserita in maniera un po’ apodittica all’interno di un discorso in cui quel “noi” dovrebbe rivolgersi a una comunità che riconosce il codice, nella quale è tuttavia presente anche chi pur riconoscendolo vi rimane indifferente, e non in virtù del suo ateismo, ma di un diverso approccio a essenza e manifestazione.
Detto ciò (che probabilmente è incomprensibile e troppo personale), vado ancora più OT segnalando che la questione della “visione a mosaico” è stata ripresa e sviluppata qui: http://precariementi.splinder.com/post/23638646/appunti-per-una-narrazione-che-accomuni
@ Claudia,
quella frase forse troppo “zippata” è riferita al fatto che per un ateo Dio è in tutto e per tutto creazione dell’uomo, quindi un prodotto storico che cambia a seconda delle condizioni storiche; per un credente (credente nel Dio dell’universalismo cristiano, non in altro) Dio è sì trascendente ma, nel momento in cui decide di creare il mondo come altro-da-sé e poi di intervenirvi direttamente (incarnandosi e facendosi egli stesso umano), accetta di farsi cambiare dalla vicenda terrena, da questo rapporto con noi. Il Dio cristiano non è una divinità irraggiungibile e indifferente, come Olodumare nel culto Yoruba o altri distantissimi creatori che stanno nell’empireo più remoto e impercepibile: il Dio cristiano è partecipe della storia terrena, e si lascia cambiare da essa.
Colgo l’occasione per invitare chi ha già visto il film a esprimersi, e chi non lo ha già visto ad andarlo a vedere, e se gli è impossibile andarlo a vedere, almeno passi parola.
@Claudia
Una precisazione forse un po’ pedante.
Il concetto di un Dio personale per l’advaita vedanta esiste, ma in quanto realtà non-suprema. Shankara, il nome del massimo filosofo non-dualista, è anche uno dei nomi di Shiva. Il concetto di Dio esiste anche per il buddismo, solo che non è ammesso come esistente, perchè ciò che è senza causa e condizione non-esiste.
In queste forme di pensiero secondo me la rottura della coazione a ripetere non può avvenire “nel mondo”, perchè il mondo è soggetto a leggi cicliche inalterabili. La comparsa di un avatar o di un buddha è un evento, ma non un Evento, perchè gli avatar sono molteplici e i buddha anche. La loro comparsa rientra, per così dire, nelle regole del gioco cosmico e non le muta in alcun modo. L’unica rottura della coazione a ripetere è la così detta illuminazione o liberazione in vita, che non ha che fare con l’ambito sociale.
Domani ore 15.15 sarò in sala.
Mi piacerebbe già analizzare il trailer del film con voi, ma stasera mi è impossibile.
Faccio tutto cras.
Vorrei riprendere alcuni spunti nello scambio tra Claudia e Wu Ming 5. In particolare il concetto di coazione a ripetere. la premessa è comune: non ho visto il film, e quindi sto a quanto viene riportato. Maria rompe con la tradizione, si allontana, nel deserto. Ovvero interrompe la coazione a ripetere, la rimasticazione dell’eterno ritorno dell’identico di nietzschiana memoria, il tempo del sacro e del rito. Ovviamente questo non può avvenire “nel mondo,perchè il mondo è soggetto a leggi cicliche inalterabili”. E questo è il mondo antico, precedente il tempo storico lineare e patriarcale, è il tempo circolare, del samsara e dell’aura.
Già Abramo, quando Dio gli ferma il braccio che stava sacrificando il suo primogenito compie un gesto analogo. La storia fa irruzione nell’eternità.
Dio, nel senso in cui lo intendiamo da quel momento in poi, è il Dio di cui ci parla Wu Ming 1, incarnato, sporcato nella vicenda terrena, che vive in mezzo agli uomini e fa parte della storia e della vita quotidiana.
Nulla a che vedere con le pure essenze di certa filosofia, stellarmente distanti dalla pietra rotolante.
Non comprendo l’ateismo, nel senso che ritengo dio un evento che esula completamente l’ontologia. L’esistenza di dio non ha la minima importanza, dato che è bastata la sua ombra a modificare almeno cinquemila anni del nostro tempo.
Nietzsche ci racconta come interrompere l’ourobos, ma senza perdere il senso del tempo sacro, e senza morire per sempre, cosa che il samsara ci risparmia.
Ed è proprio la rottura della coazione a ripetere: l’eterno ritorno del diverso, ovvero il divenire stesso, che Nietszche ci mostra come cammino.
Shankara non può rinunciare all’immortalità donatagli dal samsara e dall’identità di Atman e Brahaman, e questo (giudizio personalissimo) lo condanna ad un nichilismo orientale che ruota intorno al concetto di vacuità, ma che non riesce a trasformarsi in un volano ne individuale (tramite l’illuminazione) ne sociale (tramite ad esempio l’abolizione delle caste). Ma penso di aver tediato abbastanza.
Grazie dell’ospitalità !
@ lucagiudici
uno spunto da elaborare altrove, perché questo thread è a rischio di derive che allontanerebbero dal film (tutte inizianti con: “Io non ho visto il film ma…”): mi sembra che, tra le possibili basi di dialogo tra atei e cristiani volta per volta ipotizzate da chi cercava di “gettare ponti”, questa sia rimasta più in ombra di altre: tanto per l’ateo quanto per il cristiano (il cristiano vero, non il superstizioso che si crede tale) *noi cambiamo Dio*.
Per l’ateo, noi cambiamo Dio perché Dio è un prodotto storico creato dall’uomo a sua (ehm, “wishful”) immagine e somiglianza: esiste nel simbolico, certo, ma per chi non crede alla trascendenza il simbolico non esiste senza noi umani, non prescinde da noi, nasce nell’immanenza delle nostre relazioni. Senza di noi il simbolico (quello che Lacan chiamava “il Grande Altro”) non ci sarebbe.
Per me che sono ateo, “essere atei” non significa credere (banalmente) che “Dio non esiste”, ma che esiste perché esistiamo noi.
Per il cristiano, noi cambiamo Dio perché Dio si fa cambiare dal rapporto con noi, questa è una sua scelta, che di fatto ne limita l’onnipotenza. L’altro giorno WM4 mi ricordava che Sergio Quinzio ha scritto di questo, della Creazione come limite autoassegnato da Dio; WM2, invece, mi parlava di una poesia di David Maria Turoldo in cui l’atto di perdonare è descritto come *vincolante* nei confronti di Dio. Dio non può non perdonare.
Allora, eccomi qua.
Ho visto il film a Torino, una sala piccola, abbastanza numerosa. Pubblico di età media sui 70 (ma potrebbe essere per via dell’orario).
Per fare un super sunto della mia impressione sul film, direi “più interessante che bello, più coraggioso che appassionante”.
Cerco di spiegarmi.
Quando arrivi in sala e sai che si parlerà di Maria, e che l’attrice si chiama Nadia Khlifi, subito ti metti nell’ordine di idee di guardare un’opera particolare.
E il film si apre con un’entrata in scena bellissima.
L’immacolata concezione. Una ragazzina mentre munge una pecora, viene raggiunta da qualcosa che fa fuggire gli animali.
E’ l’unica presenza del sovrannaturale del film.
Poi, si racconta del matrimonio di Maria con Giuseppe, di questa gravidanza eccezionale accettata non senza dubbi dal falegname.
Maria è una ragazzina che osserva, e non capisce. Non capisce il motivo del sangue, del sacrificio, e resta traumatizzata dal rito della circoncisione di suo nipote. Non capisce nemmeno l’emarginazione dell’ebreo impuro, per cui lei prepara la focaccia.
Non capisce l’uso della violenza contro una bambina che ha usato rubare un po’ di farina.
Per sua fortuna, la madre Anna, è una donna comprensiva, aperta di mente. Non si può dire la incoraggi, ma non la reprime.
A questo punto del film, il “tema” e gli spunti di riflessione si sono già sostanzialmente esauriti.
Abbiamo un ripetersi in sequenze abbastanza chiuse la declinazione di questo sguardo\sorriso di Maria, così puro e al contempo potente – che mette in crisi uomini (maschi) di ferrea fede, come il sacerdote Zaccaria.
Le riflessioni cui spinge il film di Chiesa sono davvero stimolanti (e mi sembra siano state colte negli interventi qui sopra).
Ma. Ci sono alcuni ma (secondo me).
Primo, il pessimo doppiaggio italiano – che rovina tutto l’intento “realistico” e brucia la bellezza dei visi e delle espressioni degli attori.
Secondo, l’estrema frammentazione dell’unità di azione comporta un fiacchirsi man mano che scorre il film della tensione.
Terzo, se le idee che scaturiscono dalle immagini risultano sufficientemente oblique per colpire, le immagini in sé parlano troppo poco. Si è costretti ad un uso continuo del dialogo, e sono dialoghi che non si cuciono mai davvero addosso ai personaggi. Perché in questo film i personaggi sono eccessivamente funzionali.
In altre parole, non mi sono emozionato pressoché mai. Escluse le sequenze del parto della capra e dell’inizio, il mio cuore è stato scarsamente coinvolto nel film.
Oltretutto al centro del film, quando spesso si nasconde il nucleo del “messaggio”, Chiesa ci propone una macrosequenza di saggi orientali che parlano un irritante greco scolastico mentre ricercano il Messia.
Cosa ci voleva dire?
Per rispondere a WM2, provo a dire. Forse si intendeva sottolineare, come poi farà San Paolo, che la conoscenza terrena non può cogliere il divino. E difatti Gesù non commette niente di sconvolgente. Se non camminare sul bordo del pozzo. Il miracoloso, come viene sottolineato, è il prodigio “pedagogico” di Maria.
E poi.
Beh. A metà film, Maria si mette in disparte. E arriva il personaggio più clamoroso della storia. Gesù.
Non c’è verso. Arriva lui e la sala rumoreggia.
Tutto quello che fa viene commentato, come le parole di chi lo sottovaluta ignorandone il futuro prestigioso e celeberrimo, che noi spettatori conosciamo.
Tradimento del punto di vista?
Il regista nega questa possibilità. Ci presenta i personaggi di madre e figlio con un lungo primissimo piano sull’occhio sbarrato.
Una sorta di passaggio di testimone.
Questo però, secondo me, è rimasto sulla carta.
Il personaggio di Gesù così piccolo è difficilissimo da maneggiare. Ma non ha la forza di quello di Maria, che peraltro cambia attrice, e viene messo un po’ da parte. Perdendo anche presa sulla questione “femminile”, che difatti sono costretti a recuperare con un dialogo verso la fine, quando Gesù sparisce.
Detto ciò.
Come spesso capita nei film nostrani, è la sceneggiatura nella fase proprio di “ideazione” a sembrarmi la parte più fragile dell’opera. Gli autori stavolta avevano piuttosto chiaro l’obiettivo, ma pare anche a me che la storia originale li abbia un po’ schiacciati e confusi.
Resta comunque il pregio di un film che ha osato (mi spiace solo per il doppiaggio) proporre un solco nuovo nella valle già abbondantemente calpestata della sacra famiglia.
@WM 1 e WM 5
Grazie per le precisazioni; ho riflettuto a lungo prima di rispondere. Secondo la mia personalissima visione, la questione non è se il punto di vista ateo sia conciliabile o meno con quello cristiano o se si eserciti o meno qualche influenza su Dio, ma è un po’ più radicale e cioè: non vedo proprio l’utilità di rivisitare il mito mariano se questa rivisitazione si deve tradurre in una riesplorazione dell’archetipo femminile separato e distinto dal principio maschile, laddove in altre culture esiste una visione non separata dei due principi (per me soddisfacente, per esempio nello shivaismo), anche se questo, come dice WM 5 non comporta la rottura della coazione a ripetere.
Comunque, capisco che è necessario interrompere qui questo OT, altrimenti si finisce a parlare d’altro e non del film, su cui verte il post.
@ Claudia
“non vedo proprio l’utilità di rivisitare il mito mariano se questa rivisitazione si deve tradurre in una riesplorazione dell’archetipo femminile separato e distinto dal principio maschile, laddove in altre culture esiste una visione non separata dei due principi”
Ma nel film non c’è nessuna separazione tra questi due principi, anzi, la donna è rappresentata come *dichiaratrice di universalità*, non cultrice della propria “differenza”. Sotto questo aspetto è un film, mi si passi il termine, assolutamente comunista, Maria dichiara una verità che supera i particolarismi, i differenzialismi, i comunitarismi angusti, e valorizza ciò che è comune a tutti. Per come la vedo io, nel film non c’è nessun “principio” maschile o femminile, ci sono uomini e donne, il che è diverso.
Detto questo, sono sicuro che dentro lo shivaismo si possano trovare tantissimi spunti fecondi, però mi interessa di più ragionare, come dicevi tu, sulla koinè nel cui solco ci troviamo.
Noi tutti, come faceva notare Luca Giudici, viviamo in una temporalità diversa, quella prodotta dalla rottura giudeo-cristiana del tempo ciclico. Rottura che non resta nell’ambito della religione. Da questa diversa concezione della temporalità e del mondo (non l’armonia di un ordine cosmico che si ripete uguale a se stesso, ma un procedere per contraddizioni, fratture, discontinuità, antagonismi) nasce anche la concezione dell’avvenire, la prospettiva della rivoluzione, di un rovesciamento dell’ordine, di un riscatto di chi oggi soffre. Se vogliamo ricostruire un pensiero rivoluzionario, dobbiamo tornare a fare i conti con certe cose.
Come faceva notare WM5, nel tempo ciclico delle religioni/filosofie orientali è difficilmente pensabile un Evento come rottura del continuum, perché ogni cosa che avviene è istantaneamente ricondotta alla necessità di un ordine superiore, chessò, la ruota del karma etc. Questa forma mentis si traduce nel principio regolatore della “società armonica” (è l’espressione con cui hanno sostituito la parola “comunismo” in Cina). E l’armonia è una cosa molto bella in musica, ma sul piano sociale è un concetto pericoloso. Quando Zizek andò a Pechino chiese a un intellettuale cinese cosa si intendesse per “società armonica”. Quello gli rispose che “società armonica” è dove ciascuno sta al proprio posto, dove c’è ordine, ognuno svolge la mansione più adatta a lui etc. Al che Zizek rispose: “Oh, adesso capisco! In Europa lo chiamiamo ‘fascismo’.” :-)
Sia chiaro: non ho detto filosofie orientali = maggiore propensione al dispotismo. Sarebbe una gigantesca cazzata, e anche il cristianesimo ha prodotto un bel po’ di dispotismo. Però il cristianesimo, in opposizione al cotè di regime, ha sempre avuto anche un cotè radicale e rivoluzionario (da Dolcino a Ivan Illich, dalle vicende narrate in Q alla Teologia della Liberazione,passando per le correnti radicali della rivoluzione inglese). Il cristianesimo si presta molto bene a questo, senz’altro meglio dello shintoismo o del confucianesimo o del giainismo etc., perché in esso l’incontro con la verità è spesso *traumatico* (Paolo, Francesco d’Assisi), è una rottura radicale e avviene sempre “fuori”: la verità è fuori, non nell’interiorità, e in genere la si incontra non dopo un adeguato ripiegamento su se stessi (meditazione), bensì lungo la via: Paolo sta andando a Damasco, Mariano Giusti sta percorrendo la Roma-L’Aquila etc. Lo stesso Binaghi ha definito la sua conversione come l’esperienza di un Dio che ti si apre come voragine sotto i piedi. Nel cristianesimo l’Evento è non solo pensabile ma auspicato.
Intervengo mentre ascolto un canto devozionale dedicato ad Hanuman :-)
Intendo dire, di tutto mi si può accusare ma non certo di ostilità preconcetta nei confronti delle filosofie e così dette “religioni” orientali.
Però, devo dire che sono d’accordo con Wu Ming 1. L’uscita dall’universo sessualizzato, dall’universo dei “due principi” è nè più nè meno che il primo passo verso l’uscita da quello che un tempo si chiamava oscurantismo.
Sul livello della liberazione personale, certo, un praticante tantrico hindu o buddhista deve realizzare la parte femminile (o maschile) di sè, come passo irrinunciabile verso l’incondizionato. Ma, ripeto, tutto questo non ha ricadute sulla vita sociale, sulla vita di una comunità.
Le suggestioni che vengono dall’induismo e dal buddhismo sono utili mezzi per coltivare il sè. Nel confronto con gli “altri” sè, che sono tutto tranne che illusori, nel modo di esistere degli uomini, che è anche conflitto, non credo forniscano motivi utili per uscire dall’impasse.
Un’altra considerazione. Ciò che attrae un materialista nell’esperienza di fede di un cristiano è appunto il dato della Fede. E’ improprio parlare di Fede quando si esce dall’ambito del Cristianesimo, o dell’Islam. Lo stesso Ebraismo, in questo senso, secondo me interpreta Dio come una specie eminente tra gli “dei del popolo”. Si trova, per così dire, in mezzo al guado. La fede nel buddhismo o nelle forme più filosofiche dell’induismo è più simile alla fiducia che nutri in un insegnante che la tua ragione ha stabilito essere veridico. E’ più simile a una forma di fiducia.
In altri termini, temo che ogni accostamento tra religioni abramitiche e religioni-filosofie orientali sia, per gli argomenti che stiamo esaminando, piuttosto improprio.
@Wu Ming 1
Magari a questo proposito ricordi anche tu quel testo fondamentale di Wittfogel: il dispotismo orientale, dove si analizzavano la società cinese proprio sulla linea che tu hai descritto, solo che lo ha scritto cinquant’anni prima di Zizek.
@ Wu Ming 5
Continuo a non riconoscermi. Non credo che la coltivazione del se, come la definisci, non abbia ricadute sociali. Non le ha di certo nel modus della tradizione greco-cristiana, ma a mio parere l’induismo, permettendo il reiterarsi di ruoli e strutture grazie al ciclo del samsara, è stato nei fatti più aperto e tollerante dell’occidente illuminista. E’ vero, come tu dici, che non vi è lo spazio per l’Evento, ma questo non impedisce a singoli eventi di accadere e di procedere con micro metamorfosi, anche su di un piano di salvezza individuale. (complimenti per i gusti musicali)
@Claudia
Quoto le obiezioni che ti fa WM 1, ma vorrei aggiungere, che secondo me il tuo punto di vista storicizza una sessualità che invece è sostanzialmente archetipica e legata alla mitopoiesi. La compresenza in ogni essere dei diversi principi rende nei fatti impossibile quella separazione che vuoi condannare. Poi è evidente che sempre in ogni essere vi sarà, tempo per tempo, vita per vita, un aspetto dominante ed uno recessivo, ma comunque mai scissi.
Non credo però che nell’induismo vi sia una concezione della donna maggiormente emancipata (penso solo ai roghi funebri) mentre certamente vi è una visione del principio femminile ampiamente fondativa. Ma questo non ha nulla di storico, così come non lo è il mito Mariano. Ovviamente questo continua a non avere nulla a che fare con il film :)
Il film rischia di sparire dalle sale nel giro di pochi giorni. Rinnovo l’invito ad andarlo a vedere, altrimenti qui tra un po’ parleremo (forse letteralmente) del sesso degli angeli! :-) Ekerot ha portato la critica anche sul piano formale, più strettamente cinematografico, e così ha rotto il ghiaccio, dato che noi ci eravamo concentrati solo sugli aspetti tematici e simbolici, e anche con una prosa a tratti moooolto densa…
@ Luca
no, Wittfogel non l’ho mai letto. Non mi ci sono avvicinato (limite mio) perché mi suscitavano grandissima antipatia i suoi meschini exploit maccartisti. Appunto, il dispotismo c’è anche in occidente…
Chiedo scusa! Credo sia un po’ di deformazione professionale :)
Penso che il film di Chiesa meriti ampiamente anche una valutazione sui contenuti.
Magari nel pomeriggio ci torno su.
Intanto vi pongo una domanda.
Il film è co-prodotto da Rai Cinema. Ha pure avuto il sostegno del ministero.
E’ mai possibile che in Italia – dico, in Italia – un film sulla Vergine Madre vada distribuito in dodici copie?
Dov’è l’inghippo?
Chi è il genio di questa distribuzione?
@WM1, WM5 e Luca, sono uscite riflessioni molto interessanti, e sono pienamente d’accordo sul fatto che la rivoluzione necessita di una dialettica basata sulla messa in crisi dell’esistente, cosa nelle filosofie orientali non avviene. C’è purtroppo una vulgata che vede l’occidentale rivoluzionario abbracciare le filosofie orientali quando è stufo o deluso dalla lotta, ripiegando su quell’armonia di cui parla WM1 (eccezionale la la battuta di Zizek :) Personalmente ritengo ancora valido il modello di lotta come prassi non violenta, che è un po’ passato di moda, cioè quello dell’Ahimsa praticata da Ghandi, perché basato sulla forza interiore a cui comunque non mancano elementi conflittuali, pur facendo capo alle Upanishad e ai Purana.
@Ekerot: ho il sospetto che sia stato distribuito in pochissime copie proprio perché è sulla Vergine Madre, per non infastidire i soliti preti (scusate l’uscita alla Peppone).
Caro Ekerot
in attesa di ricevere altri post e di rispondere alle osservazioni di WM, che anticipatamente ringrazio “con la faccia sotto i vostri piedi” (da “Non ci resta che piangere”) per l’inattuale generosità, osservo in merito alla tua domanda: “E’ mai possibile che in Italia – dico, in Italia – un film sulla Vergine Madre vada distribuito in dodici copie?
Dov’è l’inghippo? Chi è il genio di questa distribuzione?”
1 – Rai Cinema ha co-prodotto il film e ha fatto il possibile per difenderlo. Chi ha deciso di distribuirlo in un numero estremamente esiguo di copie il film non è un singolo, ma il mercato stesso – distributore, esercenti, regionali, ecc. – che ne ha decretato la prematura morte commerciale, perché pensava che poche persone sarebbero andate a vederlo. Così è stato. Sul perchè, se ne può discutere. Ma, dato che non possono essere state le recensioni – generalmente positive, sopattutto a sinistra e nel mondo cattolico – o la qualità delle sale, l’unica risposta plausibile è che le persone che vivono in Italia non mostrano interesse per questo argomento, a meno che non sia confinato nella retorica dell’agiografia o della polemica anti-clericale (come “Ipazia”). Sulla rete è pieno di commenti del tipo “non pensavo che questo film…”, o “sono andato prevenuto, ma…”, et similia.
2) La seconda osservazione è che queste persone ragionano (in gran parte) come te. Non discuto il tuo giudizio sul film – come diceva mio nonno “non tutti i gusti sono alla menta” – ma i pregiudizi che contiene. Frasi del tipo “Come spesso capita nei film nostrani” o “il pessimo doppiaggio italiano” rivelano un atteggiamento a priori che è difficile, temo, impossibile da scardinare. E’ come se qualcuno si rifiutasse di vedere un film giapponese perché in quei film gli attori hanno gli occhi a mandorla. Perché non diciamo semplicemente che il doppiaggio, ogni doppiaggio, è una schifezza e che la categoria di “film nostrani” non ha senso, perché non ha senso mettere Virzì o Martone, Sorrentino o Vanzina, “Benvenuti al Sud” o Gianni Amelio nella stessa categoria? Perché non valutiamo i film per quel che sono, senza affibbiare aggettivi che rivelano solo le nostre personali idiosincrasie ? Inoltre, credo che WM abbiano scritte quelle cose sul “Io sono con te” perché il film gli è piaciuto “per quel che è”, non solo per le sue idee, tematiche o altro. Se un film non “ti prende”, è assurdo parlare delle sue idee, separandolo dalla sua natura di testo comunicativo.
Con affetto, Guido
Gentile Guido,
sono lusingato dalla risposta.
Premetto che faccio lo sceneggiatore, e pertanto non so quanto io sia parte del gruppo di persone che vanno al cinema con quei pregiudizi di cui sopra (io non mi ci considero parte, ma sono appunto di parte).
La mia osservazione sul doppiaggio era specifica al film. Avevo letto sopra che la prima aveva permesso al pubblico di vederlo in lingua originale e penso sia un valore enorme aggiunto al film.
Detto questo, non sempre il doppiaggio mi dà fastidio.
Penso che talvolta la colonna audio venga preservata, lasciando intatto il valore della presa diretta, talvolta invece la calpesti – più o meno pesantemente.
Nel caso di “Io sono con te” forse per le voci in sé, forse per il tentativo di ricreare un accento “orientale”, il doppiaggio mi ha un po’ esasperato.
D’altra parte, a Torino, non era possibile vederlo in lingua originale – cosa che, quando posso, faccio sempre.
Il discorso “come spesso capita nei film nostrani” può sembrare uno slogan di tipo leghista.
Invece, dietro, c’è un discorso ragionato. Eccome.
E’ raro che in Italia riesca a vedere un film che non abbia cali di tensione sulla sceneggiatura. Paraocchi? Non penso.
So benissimo quali sono i problemi di produzione che vanno ad interferire col lavoro creativo. Dalla mancanza di soldi, di tempo, di opportunità, di avere gli attori e quant’altro.
Però resta questo fatto. E quando vado in sala, non sto lì a pensare al budget.
E – qui si aprirebbe forse un discorso troppo lungo – penso ci sia anche un problema a monte. Di come la sceneggiatura in Italia sia sottovalutata – o meglio “malvalutata” nella sua importanza, soprattutto dai produttori.
Mi spiace molto invece per la distribuzione. “Agorà” era andato così e così (poco sopra i due milioni, non pochi ma neanche il botto), ma un film come “La passione di Cristo” ha sfiorato i 20. Quindi in Italia sono convinto che il tema possa trovare un terreno fertile.
Scarsa pubblicità? Si necessitava di un trailer più accattivante (a me non è dispiaciuto, ma non sono certo rappresentante del pubblico medio)?
Si poteva ovviare in qualche maniera?
Sono punti secondo me interessanti.
Detto questo, ho apprezzato il film. E parlandone con gli amici ne ho consigliato la visione. Non mi ha fatto impazzire, forse perché avevo avuto aspettative sbagliate. Forse perché dovrei rivederlo.
Non credo che questo debba precludermi di parlare delle sue idee o dei contenuti. Che magari possono non avermi colpito sempre per il modo con cui sono stati presentati, ma possono avermi colpito in quanto tali.
Ringrazio il regista per essere intervenuto. Sinceramente.
Ek.
Se posso dire la mia in calce allo scambio tra Ekerot e Guido Chiesa, devo dire che sul piano narrativo, pur non ravvisando i limiti formali a cui accenna Ekerot, anch’io ho percepito un “calo”, o meglio, un momento didascalico. E’ l’episodio dei sapienti, anche se la critica che sento di fare non è concettuale come quella del mio socio WM5. La mia impressione è che quei sapienti, che forse a causa del loro apparire “marziani”, con abiti e tratti occidentali così distanti dalle fisionomie pastorali, bibliche, dei protagonisti, si identificano troppo con noi spettatori moderni di quella storia. Le loro riflessioni colte e le loro conclusioni mature esplicitano la tesi del film, dicono troppo, laddove le immagini potevano parlare da sé. C’è in sostanza un difetto di sovrainterpretazione che probabilmente spezza un po’ una vicenda che invece è già narrata in modo molto esplicito.
Miei cari,
prima di tutto vi ringrazio di cuore per aver cercato, con i mezzi diretti che vi sono propri, di sottrarre il film allo strangolamento di un mercato sempre più tarato sul consumo da “centro commerciale”. Modello in cui, tutti coloro che producono e fruiscono cultura, in un modo o nell’altro, vivono e con cui devono fare i conti. Ancor di più, vi riconosco l’onestà e la liberta intellettuale con cui avete preso in esame un testo che molti non-credenti, pur non avendolo visto, ritengono a priori “palloso”.
Purtroppo hanno vinto loro. Il popolo dei “chisssenefrega della Madonna”, unito a quello dei credenti a cui non interessa ragionare, ma solo vedersi confermati (benché il film non contraddica nessuno degli assunti dottrinali della Fede cristiana), ha disertato le sale. Non lo ha bocciato dopo averlo visto: non è semplicemente andato a vederlo.
La logica del mercato non conosce eccezioni: Io sono con te è destinato a rimanere una meteora, con buona pace di chi non vuole che certi testi vengano realizzati, di chi si lamenta del Pensiero Unico o dell’appiattimento culturale. Altrui, mai il proprio.
Per tutto ciò, vi sono debitore.
Su una cosa, però, prima di entrare nel merito delle vostre osservazioni, vi devo invitare a riflettere: perché, pur conoscendo la genesi del progetto, non segnalate mai che il film è stato immaginato, voluto e progettato da donne, da madri. E che io o il co-sceneggiatore Filippo Kalomenidis siamo stati solo gli strumenti, e non viceversa.
Non credete che questo faccia la differenza? Non pensate che prima di parlare di “idealizzazione della maternità”, dovreste riferire come questo progetto è stato voluto da donne che non vivono sulla Luna, ma in quel “groviglio caotico” che è il mondo lì fuori? Che si occupano da anni di bambini e di ineluttabili esigenze domestiche, di corse per portarli e andarli a prendere a scuola, di tempi lavorativi sempre troppo stretti e di papà che ci sono poco. Insomma, donne che vivono nel presente di una condizione femminile per nulla ideale o idealizzata.
Ci si è interrogati spesso sul nostro rapporto con il femminile e ci siamo detti della difficoltà di farci carico del punto di vista delle donne. Poi, alla prima occasione, ci scordiamo di dare loro quello che gli appartiene. In primo luogo, Maeve Corbo, le cui idee su Maria, in relazione a temi come la gravidanza, il parto, la relazione madre-figlio/a, il rapporto genitori-figli, la potenza del femminile, ecc. ci hanno sedotto e, lentamente, oserei dire misteriosamente, aperto il cuore e la mente. Quindi Nicoletta Micheli, che ha avuto l’intuizione di trasformare queste idee in un film, di scriverlo e seguirlo in ogni sua fase, conducendo un estensivo lavoro di ricerca sugli aspetti storici e biblici impliciti nel progetto. Relazionando sempre queste ricerche con l’orizzonte antropologico da cui partiva la lettura di Maeve, dove le scoperte delle neuroscienze o gli studi psicologici non costituivano mai il punto di approdo, la “tesi da dimostrare”, ma solo dei grimaldelli per scardinare il linguaggio e le immagini dei Vangeli dell’infanzia.
Questa dimenticanza non credo sia casuale e, per molti aspetti, è strettamente collegata alle vostre letture e alle criticità che riscontrate nel film. Premettendo che non posso non trovarmi in sintonia con la maggior parte delle vostre analisi, nel senso che collocano il film in un contesto archetipo e universale che ci appartiene e che condividiamo, voglio tornare al punto che, fin dal vostro post iniziale, segnalate come il limite principale dell’operazione: il rischio “di idealizzare la figura materna”.
WM4 sottolinea che nel rapporto madre-figlio(a) si “trova spesso la radice non solo del bene che ci viene trasmesso ab origine, ma anche dei guai che ci accompagneranno per il resto dei nostri giorni”. Noi sottoscriviamo questa posizione, ma avremmo tolto l’avverbio spesso. Una considerevole mole di studi, neuroscientifici prima ancora che psicologici, ci confermano che gli individui si formano nei primi tre anni di vita. Anni in cui l’amore, il rispetto fisiologico e la fiducia creano individui più equilibrati e in pace con sé stessi, nel corpo e nella mente. L’imprinting che ogni essere umano riceve nei primi anni di vita, soprattutto nella relazione con la madre, è la base operativa che utilizza per il resto della vita. Nel bene come nel male. Quello che accade dopo può creare molti danni o generare ulteriori inciampi, ma se l’imprinting è stato positivo, è difficile deragliare, perdere equilibrio: non ci riusciranno le generali condizioni culturali e psichiche, tanto meno quello socio-economiche .
In questa prospettiva, a poco serve ricordare come nel mondo in cui viviamo le donne siano immerse in una realtà sociale e lavorativa che presenta enormi ostacoli, in cui il rapporto madre/figli, genitori/figli è sottoposto a continue tensioni. Perché il rischio evidente è di ritrovarci a dire “conveniamo che il rapporto tra madre e figlio/a è fondante, ma dato che viviamo in un mondo che ostacola la naturalezza fisiologica di questo rapporto, allora occupiamoci di altro”. Insomma, molliamo il colpo e accettiamo lo status quo.
Nessuno vuole ritornare al passato tout court, perché, come il presente, il passato era segnato dall’interferenza: interferenza sul corpo delle donne, sul parto e l’allattamento, sul loro rapporto con il nascituro/a prima e il figlio/a poi. Che la imponessero tutte le grandi civiltà patriarcali o religioni, che la sostenessero la pediatria e la pedagogia dai Greci all’Illuminismo, che lo faccia oggi buona parte della scienza medica, non cambia i termini del discorso, ma ne conferma la centralità .
Se scindere la simbiosi madre-figlio/a nei primi momenti di vita, interferire con questo legame naturale e universale, significa mettere a rischio il benessere della madre e del piccolo/a, allora non siamo di fronte a un’idealizzazione della maternità, ma alla semplice presa di coscienza di una condizione fisiologica, naturale e universale che accomuna gli umani e che può molto facilmente deragliare (ci piace azzardare sia proprio questo il libero arbitrio…). C’è chi parla dei nostri tempi come post-umani: e se il punto d’arrivo di questo processo non fosse altro che il sottrarre alle donne il loro potere di dare la vita e di custodirla nella fase più delicata dell’esistenza di ogni individuo? Che le società moderne abbiano pesantemente incrinato questo primato naturale e know how femminile è uno dei tanti segni, forse il più sintomatico e sottovalutato, del passaggio al post-umano. Non è mai esistita un’Età dell’Oro, ma con l’acqua sporca abbiamo letteralmente buttato via anche il bambino. La vittima innocente.
Mi sembra infatti che, dal discorso mosso da WM4 e tutto sommato anche dagli altri interventi, manchi sempre la dimensione dell’innocenza della vita che viene al mondo, di ogni vita. Che nel film sosteniamo con forza. Contro le teorie freudiane o la maledizione del Peccato Originale, contro il determinismo genetico o ogni metafisica del Male innato, contro la mistica del Lato Oscuro o i riduzionismi socio-politici. Perché è la rivendicazione di un passato (il nostro) che poteva essere diverso, e il segno di una speranza che sono i nostri figli, a cui pensiamo valga la pena cercare di dare il meglio che la loro umanità attende e chiede.
Il riconoscimento di un’innocenza che è troppo spesso nelle mani di genitori – padri e madri – che si credono dei Padreterni. Un’innocenza che ci appartiene, che è stata nostra, di tutti, prima delle ferite inferte da madri e padri che hanno anteposto i propri bisogni a quelli dei loro piccoli. Figli che, una volta diventati adulti, hanno smesso di fare figli o hanno inferto ai loro lo stesso trattamento subito, mascherandolo dietro regole o risentimenti, Leggi o tradizioni, paure o semplici coazioni a ripetere.
Quello che proponiamo è di invertire positivamente il discorso, mentalmente e nei fatti: incominciare a cambiare il mondo partendo da qui: una mamma e un bambino/a per volta. Lasciando che nelle prime fasi della vita (iniziando dal concepimento) le madri possano, senza interferenze e ansie di prestazione (o guadagno, o visibilità sociale, o nevrosi maschili), relazionarsi con essi. Con l’aiuto di padri che li sostengono, non in nome del femminismo o del feticismo del bambino, ma semplicemente del rispetto di ciò che è umano. Non di una ideologia o una filosofia, o di una dottrina religiosa, ma della verità dei corpi e dei bisogni primari.
Un’annotazione finale. Qualcuno potrebbe legittimamente domandarsi: perché, per raccontare queste cose, utilizzate la figura di Maria, madre di Cristo? La risposta è contenuta, mi sembra in modo brillante e incisivo, negli interventi di WM.
Il film non è un trattato di teologia, ma per forza di cose chiama in causa un’interpretazione dei Vangeli. Potremmo dire che sottintende una riflessione sull’Incarnazione e il ruolo del femminile nella Rivelazione, tutta ancora da svolgere e di cui Io sono con te può costituire un punto di partenza. In ogni caso, pur offrendo una lettura eterodossa, non ha alcuna intenzione di sovvertire i capisaldi della dottrina. Semmai di indagare, oltre una tradizione che rischia di diventare lettera morta – o peggio ancora clichè, folklore, favoletta – se non si (ri)porta il discorso dei Vangeli dentro quell’esperienza umana cioè corporea che proprio Gesù ha esaltato “facendosi carne”.
Infine, è un film fatto da credenti, ancora incerti e maldestri nella loro fede, ma sufficientemente memori della loro condizione di non-credenti da avere ben presente le ragioni e i sentimenti di chi si professa ateo, agnostico o quant’altro. Per questo motivo, non chiede un “atto di fede” a chi lo guarda, perché non vuole convincere nessuno su questioni che concernono la sfera religiosa. Bensì, si interroga con le armi della ragione emotiva su argomenti che riguardano tutti: tutti nati piccoli, tutti nati da donna.
Qualcuno, al proposito, ha scritto che il film utilizza idee moderne per leggere anacronisticamente Maria. Qualcuno ha lamentato di una Maria montessoriana e femminista. Se siamo d’accordo che un testo – come ogni film – non può che parlare sempre e solo al presente, è anche vero che queste osservazioni ci paiono più che altro frutto della misoginia di chi le ha espresse o del pregiudizio anti-cristiano. Senza Maria e Gesù, la Montessori non sarebbe mai esistita, come dimostra ampiamente il fatto che, nelle civiltà dove la linea giudeo-cristiana non si è sviluppata, la pedagogia dominante è rimasta quella della coercizione. Il fatto che anche nell’ambito delle culture cristiane, per secoli la pedagogia sia stata dominata dal concetto di ubbidienza e non di amore, depone solo della difficoltà di scardinare certi meccanismi psichici, mentre proprio su questo punto Gesù era stato di una chiarezza esemplare. Al punto che il noto clericale Karl Marx diceva a sua figlia che Gesù aveva messo i bambini nella Storia, perché prima di Lui non erano altro che una proprietà dei genitori e quindi, come proprietà, privi di identità.
Lo stesso dicasi per l’accusa di femminismo, da cui prendiamo le distanze solo se lo si appiattisce su una lettura – questa sì anacronistica! – che considera le donne capaci di voce solo a partire dalla richiesta di voto o dai movimenti degli anni ‘70. Una tradizione di femmine forti, ma non per questo appiattite su modelli maschili, è presente, per quanto nascosta, in ogni grande narrazione, a partire dalla stessa Bibbia. Del resto, in un film in cui la protagonista, al cognato che la accusa di dare troppa libertà al figlio e di non avergli insegnato la virtù dell’obbedienza, risponde “Solo a Dio dobbiamo obbedienza”, ci piacerebbe sapere dove sarebbe l’anacronismo femminista.
Ancora grazie.
@ Guido,
preliminarmente a qualunque entrata nel merito (che sarà fatta dopo attenta rimuginazione da parte di tutt*), faccio notare che nel nostro post c’è scritto “Guido e Nicoletta” (ordine puramente alfabetico!) e anche “scritto da Guido Chiesa, Nicoletta Micheli e Filippo Kalomenidis”, e che abbiamo linkato il tuo sito ufficiale dove in home page spicca un intervento importante di Nicoletta che inizia proprio parlando di Maeve Corbo. Se poi c’è scritto “film di Guido Chiesa” è per la consuetudine di indicare come “auteur” il regista. Forse c’è un’accentuazione su di te, perché il nostro riferimento fraternamente polemico sono le interviste che hai rilasciato da solo, ma non credo proprio si possa parlare di rimozione, anche perché di enfasi sul femminile ne abbiamo messa parecchia, e sai bene quanto ci teniamo a confrontarci con queste tematiche.
…ma prima ancora di ragione sui temi del film, toccherà ragionare sull’impossibilità di ragionarne, visto che la visibilissima “mano invisibile” del mercato ha privato di questa possibilità la maggior parte dei potenziali spettatori (penso a Claudia che avrebbe voluto vederlo ma sta a Trento dove nessuna sala lo ha voluto), e un’altra parte… se ne è privata da sé :-(
Poi giocano un ruolo l’imbozzolamento nel privato, la fruizione di film ormai quasi solo domestica e, non ultima, la mancanza di soldi.
Per andare al cinema molti devono pagare la baby-sitter, prendere l’auto o i mezzi quindi pagare il parcheggio o il biglietto, poi il biglietto del cinema… Diventa dispendioso in termini di soldi, tempo ed energie. Devi essere ben motivato, magari dal passaparola degli amici. Ma, e qui casca un altro asino, il fatto che ormai si decida tutto nel primo week-end non dà tempo al passaparola, perché un film che osa scompare in men che non si dica.
Questo impoverisce la sfera pubblica, perché portare il culo fuori di casa e vedere un film insieme a estranei è un’esperienza importante.
Entro in punta di piedi (non ho visto il film) e intervengo con poche parole prive di qualsiasi intento polemico. Faccio riferimento al passaggio di G. Chiesa:
“…come dimostra ampiamente il fatto che, nelle civiltà dove la linea giudeo-cristiana non si è sviluppata, la pedagogia dominante è rimasta quella della coercizione.”
Ma conosciamo così bene le altre civiltà, quelle dove la linea giudeo-cristiana NON si è sviluppata, tanto da poter affermare con una tale sicurezza questo assunto (“la pedagogia dominante è rimasta quella della coercizione”) ? Io francamente, no.
Mi fermo qui, ma confesso che sarei curiosa di sapere cosa ne pensa il collettivo, in particolare Wu Ming 5.
Mi accodo di straforo non dopo aver ringraziato di cuore WM per lo spazio e la dedizione davvero sorprendenti dedicati al nostro film. Corro ai ripari, come spesso mi capita!, rispetto a quanto scritto da Guido, sull’ultima questione rimbalzata nel commento di Anna Luisa. Tra le principali fonti di ispirazione del modello antropologico mariano vi sono gli indios dell’Amazzonia (in particolare un piccolo gruppo chiamato yequana). La donna vestita di sole dell’Apocalisse rimanda scopertamente ai popoli dell’età della pietra. Maria di Io sono con te assume anche i connotati dei nativi americani, quando inorridivano di fronte alle punizioni corporali che i coloni infliggevano ai figli. Personalmente apprezzo le culture dell’estremo oriente per la pedagogia confuciana che accompagna la cura dei bambini (almeno fino ai tre anni), ma penso che anche da quelle parti siamo sul viale del tramonto (il boom dei cesarei in Giappone lo rende un laboratorio a cielo aperto della deriva post-umana). Ho trovato illuminante Metafisica dei tubi di Nothomb, anche solo in virtù di questa prospettiva antropologica. Sul cristianesimo e la sua (anti) pedagogia non apro parentesi perché il film spero basti. Sulla questione femminile trovo monumentale e rilancio, anche al di qua della fede, un Dio divenuto uomo (o viceversa, per me non cambia) che in Imitatio mariae/matris si offre sotto forma di cibo (l’eucarestia fuori da questa logica di “femminilizzazione” quale senso avrebbe?), e lava i piedi dei suoi cocciuti discepoli, li serve a tavola e li invita a servire a loro volta come solo le donne erano obbligate a fare.
Non vorrei passare come polemico di turno.
Però, mi permetto di dire che non sono d’accordo sulla disamina dell’insuccesso del film fatta da Guido Chiesa.
Non può essere colpa degli spettatori – atei o meno – che non sono andati a vedere il film.
Un autore cinematografico non dovrebbe mai accusare il pubblico per aver disertato le sale.
Loro non dovevano niente al regista, né agli altri autori. Era compito degli autori convincerli con il trailer, con la pubblicità, con la qualità del lavoro a portarli in sala (magari tramite passaparola).
Sennò si torna sempre al punto di partenza, ovvero che il problema è sempre aldilà. E di qualcun altro.
Il regista ha solo il dovere di fare un buon film, nei limiti delle sue possibilità.
Lo spettatore non ha nessun dovere. Paga e lì finisce il “contratto”.
Se l’autore è pienamente convinto di aver fatto il suo dovere, di aver realizzato un’opera buona, dove si trova il cuore da cui era partito, beh non ha motivo di lamentarsi dell’insuccesso.
Soprattutto quando viene distribuito in così poche sale.
Ma è pericoloso dar la colpa al pubblico.
Molto, pericoloso.
@Ekerot
Credo che l’analisi di Guido sulla diffusione del film, sfrondata da un comprensibile sconforto, si riduca a questo: il meccanismo killer è quello del primo weekend che decide tutto. Quelli che non sono andati a vedere il film “hanno vinto” perché il mercato pretende che un film lo si vada a vedere subito, oppure via, fuori dai coglioni.
Chi è senza peccato, scagli la prima pietra: io stesso, se il “film sulla Madonna” non fosse di Guido Chiesa, avrei aspettato a vederlo e qualcuno avrebbe dovuto convincermi che si trattava davvero di un bel film. A quel punto, lo avrei cercato nelle sale e non l’avrei trovato, come mi capita sempre più spesso.
@Nicoletta & Guido.
Io sono con voi quando collegate il prodigio di Cristo al prodigio di un’educazione: magari avrei preferito che non ci fosse il saggio Gifuni a esplicitare il concetto, magari a fianco di quel prodigio mi sarebbe piaciuto annusarne anche altri, meno razionali, perché non tutto si deve poter spiegare, ma a parte questo sento il grande potere della vostra interpretazione. Perché se è l’educazione a essere prodigiosa, allora il prodigio si può ripetere, in ogni bambino.
Dove non sono con voi è quando entrate troppo nello specifico di questo “prodigio” pedagogico (cosa che peraltro fate qui, ma non nel film…). Preferisco fermarmi al riconoscimento dell’innocenza (non solo dei bambini, anche degli animali…), alla fiducia nei figli, alla denuncia del parto cesareo facile; ma quando Guido scrive: “Lasciando che nelle prime fasi della vita (iniziando dal concepimento) le madri possano, senza interferenze e ansie di prestazione (o guadagno, o visibilità sociale, o nevrosi maschili), relazionarsi con essi (i bambini)”, ecco, lì non sono con voi. Mi pare che l’enfasi, il carico, il ricatto morale finiscano tutti sulle spalle della madre e che si rischi troppo, dicendo così, di rientrare dalla finestra in una maternità assoluta e soffocante: per le madri, per i padri e per i bambini.
@ Ekerot
penso sia più che comprensibile l’amarezza di una persona che, dopo aver lavorato con passione a un progetto per cinque anni, con lunghe assenze da casa, disagevoli riprese nel deserto, settimane di pre-lancio girando per le sale d’essai della Penisola, decine di interviste, una battaglia donchisciottesca contro pregiudizi legati al tema scelto, insomma, dopo tutto questo vede il frutto del proprio impegno polverizzarsi in tre serate perché nessuno ha voluto dargli una vera chance. Tu dici bene, l’autore deve riuscire a convincere etc. Il passaparola, certo, tutto giustissimo. Ma al passaparola va concesso un respiro che non è il tempo da topi del primo week-end. Il passaparola, soprattutto relativo a un’opera come questa, ha bisogno di tempi più lunghi. Il che significa che un’opera così ha bisogno di *fiducia* e *pazienza* da parte degli esercenti.
Ad ogni modo, su “L’Espresso” Lietta Tornabuoni ha scritto una bella recensione:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/tutto-lamore-di-maria/2139139/9
Ho visto adesso che WM2 ha scritto le stesse cose che ho scritto io. Del resto, è quello che pensiamo tutti noi WM e che ci siamo detti.
@ WM2
Il film l’abbiamo scritto insieme, sebbene i nostri punti di vista non coincidano (non sempre certamente, e voi ne saprete qualcosa). Diciamo che separare madre e figlio prematuramente (dunque violentemente) ha sempre un valore sacrificale. Questo gesto fondativo è alla base delle società arcaiche aggressive. Nelle società moderne post cristiane l’interferenza prende le sembianze della scienza (pseudo)medica (razionalmente accettabile), che si pone di fronte alla donna, al suo parto, alla sua gestazione e alla puericultura in termini surrettiziamente religiosi, con i medici/sacerdoti che praticano il taglio cesareo (un gesto se ci pensi brutalmente arcaico) o arrivano a intimare loro (la Legge?) di non far dormire i bambini con sé… Non capisco dove sia il ricatto morale nel mettere il dito in questa piaga.
Fresco di visione, aspetto che le idee si distendano, non lanciarmi di pancia nella discussione.
Devo dire che ritengo il film uno dei migliori mai visti. Tratta tematiche che ultimamente si muovono con insistenza e fuoriescono in contesti diversi.
Sulla questione della didascalicità dei sapienti concordo. Ma non lo ritengo un punto a sfavore del film. Anzi, ne allarga la portata (è vero che le immagini parlano da sè, ma non è sempre facile riuscire a leggerle). Se ci fosse stata una maggior pubblicizzazione del film, meno chiusure (paure?) verso i suoi messaggi avrebbe aiutato a collegare con più facilità i vari fili della storia.
Riguardo alla pubblicizzazione: che non fosse aiutato dai vari canali è stato lampante. Non solo nei media ad ampio raggio se non se n’è parlato per nulla o quasi (almeno credo) ma anche in rete, a pellicola già in sala, era relegato in fondo alle liste (solitamente ordinate secondo la data di uscita) delle varie sale.
Guarda posso capire benissimo la frustrazione di Guido Chiesa, visto che anche a me è successo qualcosa di simile, se non di peggio: il film pur pronto per la distribuzione è stato mollato da Rai Cinema proprio terminato il montaggio e il trailer. Ma vabbè. Non sono certo il primo a cui è successo.
Però.
Innanzitutto penso che siano tutti consapevoli delle chele potentissime di questo sistema vergognoso del primo weekend. Ma la concorrenza degli altri film (dai blockbuster ai cinepanettoni ai film griffatissimi) è ultra spietata. E fare posto ad una copia in più in sala è molto più difficile che far posto ad un libro in libreria.
Quanti film approdano ai festival e muoiono lì?
Penso comunque nonostante tutto il pubblico sia assolto da qualsiasi colpa, in merito agli insuccessi di un film (o di qualsiasi altra opera d’arte).
E in secundis, non voglio consolare nessuno, ma sono assolutamente sicuro che sia stato fatto il possibile per tenere in vita il film. Anche la produzione, da quanto ho capito.
Magari esiste la via estera. Dal festival di Berlino alla Tunisia dove è stato girato. Nazioni dove è possibile farlo vedere il lingua originale. Non so.
Una volta Truffaut si vide salvare un film grazie al sucesso in Giappone (e forse ogni regista trova un suo Giappone da qualche parte).
Certo, non sono nessuno per consigliare.
Ma – per come la vedo io – per quanto assolutamente comprensibile la frustrazione del momento (anche lungo), io credo sia meglio indirizzarla altrove. Non nel senso di altrove da questo blog, ma altrove dal pubblico, che stavolta – come candidamente ha ammesso WM2 – difficilmente si è trovato attratto dal trailer, o dal tema del film grosso modo ventilato dalla stampa.
Si potrebbe analizzare, ad esempio, questo trailer.
Eppur mi fermo qui, ché mi pare di aver tafanato abbastanza.
Pardonnez-moi.
@Nicoletta.
Concordo, come ho scritto, sulla questione medica. Ma nel vostro approccio vedo all’orizzonte il baratro della “madre perfetta”, che nei primi tre anni ha in mano tutto il futuro di suo figlio, e finirà per distruggerlo se non fa X,Y,Z. Non rischia di diventare Legge anche questa? Una Legge che schiaccia le donne, prima di tutti, ma anche i figli e anche i padri? Ne conosco diverse di wannabe madri perfette, e mi fanno paura, perché spesso mettono nel mondo figli tutt’altro che prodigiosi, ma insicuri e viziati. Che nel letto coi genitori hanno iniziato a starci per l’importanza dell’attaccamento iniziali e poi a sette anni “non se la sentono” di dormire a casa di un’amica. Credo che il miglior modo per avere dei figli complessati sia sforzarsi di avere dei figli prodigiosi. In questo la vostra Madonna mi sembra un esempio da seguire, non da teorizzare.
@ Guido Chiesa & Nicoletta
Provo a replicare agli appunti sulla nostra recensione multipla e in particolare sulla mia parte.
Sulla questione autoriale, io credo che un film vada valutato per ciò che racconta, a prescindere da chi è l’autore o l’autrice del soggetto e della sceneggiatura. Il fatto che a monte del film ci sia uno serissimo studio sulla maternità fatto da donne è qualcosa che lo spettatore non è tenuto a sapere, né dovrebbe influenzare la sua visione. Detto questo a me è parso lampante che soltanto una donna poteva scrivere un film come il vostro e questo è un dato fondamentale, nessuno lo nega.
Venendo al merito, quando dico che “Io sono con te” ha come protagonista una madre ideale intendo dire che Maria è in effetti una madre perfetta, non solo rispetto al suo tempo (capace di andare contro le consuetudini e la legge patriarcale), ma anche rispetto al nostro. Chi non vorrebbe una madre che non perde mai la pazienza, non molla mai uno sganassone, che “crede nel suo bambino fino in fondo”, che lo cresce nel rispetto e nella fiducia reciproci, dandogli amore incondizionato, serenità, etc.? Da un lato Maria è archetipo di tutte le madri, dall’altro è anche una donna fuori dal comune, anzi, unica. Lo è Maria come figura di Vergine Santa nella religione cristiana, ma lo è anche Maria protagonista di “Io sono con te”, a prescindere dal fatto che le si faccia coincidere o no. Insomma il punto non è volersi “occupare di altro”, ma tenere conto che questo “altro” è la condizione generalizzata per la totalità delle persone e dei genitori.
Tuttavia non credo sia questo il vero oggetto del contendere, o almeno non lo è per me. Ho detto che nel film c’è una battuta ai miei occhi indispensabile sul fatto che non tutte le madri sono – né possono essere – come Maria. E questo significa che gli autori lo sanno benissimo, dato che non vivono di pura contemplazione in un convento di clausura, ma sono figli e genitori come tutti noi.
Non credo – su questo dissento dalla vostra analisi – che il tratto distintivo della condizione post-umana sia la sottrazione alle donne del potere generativo e la rottura del legame simbiotico madre-figlio. E’ il film stesso a raccontarci che l’incrinatura di questo “primato naturale e know how femminile” non è una caratteristica peculiare delle società moderne, ma esisteva in tempi molto antichi. Credo che il post-umano interrompa TUTTI i legami tra gli esseri viventi, a partire forse da quello primigenio, il primo che instauriamo, il quale quindi può fungere da metafora di questa interruzione, certo, ma non ce ne restituisce l’intera portata. Sono molti gli eventi nella vita che possono incidere indelebilmente su una persona, anche ipotizzando che i primi tre anni di vita siano stati densi di amore materno e impostati a un’educazione come quella rappresentata nel film. Concentrare tutto sulla relazione neonatale madre-figlio comporta i rischi di cui parla WM2. Ovvero costruire un’immagine materna sovraccarica e sovraresponsabilizzata (che finisce per inghiottire l’intero femminile). Credo ad esempio che i padri possano oggi avere un ruolo finalmente diverso dal passato, un ruolo che va anche oltre quello del “moderno” Giuseppe nel vostro film, cioè un ruolo non solo di “sostegno”, come scrive Guido, ma di coinvolgimento reale, proprio perché affrancato dalla mera imposizione patriarcale. Certo, il legame primario, ombelicale, ha una unicità incontrovertibile, ma le relazioni tra gli esseri umani si nutrono anche di altri mutevoli elementi. Non di solo “corpo” e di “bisogni primari” vive l’uomo: l’esaltazione di ciò che è naturale è un po’ rischiosa, nel momento in cui sappiamo che un ritorno alla natura non è davvero possibile e che la natura, al di là dell’idea che possiamo averne, non è necessariamente una buona madre, ma spesso (e qui sì, lo ribadisco, spesso) una matrigna crudele.
Infine volevo aggiungere ancora qualcosa sul complesso della “madre perfetta” e l’ansia da prestazione materna che connota molte donne contemporanee e i loro nuclei famigliari, poi però è reintervenuto WM2 e, da padre di un bambino di cinque anni che non vuole dormire fuori casa e si fa portare nel lettone a metà di tutte le notti, preferisco tacermi… e stendermi sotto un velo pietoso :-(
Purtroppo dovrò aspettare l’uscita in dvd per vedere il film, che qui a Milano è già fuori programmazione (Harry Potter è *molto* più famoso di Gesù Cristo, sembrerebbe). Mi limito quindi a intervenire, in quanto padre, sulla questione del rapporto madre-figlio, e solo per dire una banalità (spero non troppo OT): ogni animale sa come essere madre o padre, noi uomini e donne occidentali non lo sappiamo più *fino in fondo*. E’ mai possibile che dobbiamo interrogarci su quanto allattare i figli, fino a quando, se possano/debbano dormire con noi, cose che, in quanto mammiferi, dovrebbero essere istintive quanto coprirci quando abbiamo freddo e bere quando abbiamo sete?
E’ vero che la natura è spesso crudele, e quindi non si può invocarla come valore assoluto solo quando fa comodo; però la mia domanda, rivolta a chi conosca come crescono i figli altri popoli civilizzati, è: è inevitabilmente così alto il prezzo da pagare per rifiutare quelle leggi di natura che giudichiamo inaccettabili?
Quella dei primi anni di vita rappresenta una ratifica dell’avvenuto imprimatur, esattamente come accade per ogni altro mammifero. Il fatto è che il cucciolo d’uomo nasce prematuro, fortemente dipendente, molto più rispetto a qualunque altra specie. Non si tratta di esaltare la Natura, che rappresenta semmai una sublimazione, ma di rispettare non tanto la naturalità dell’evento nascita e del periodo perinatale ma la sua primitività. Un neonato di 100.000 anni fa e uno nato oggi hanno le medesime aspettative, in loro sono racchiusi i frutti e le attese di un lento cammino messo a punto in migliaia di anni di evoluzione dentro un ecosistema (di cui la madre, ci piaccia o no è il centro) perfettamente efficiente per la sua riuscita. Quando un bambino di cinque anni (esattamente come l’adulto) vuole dormire accanto al genitore sta semplicemente facendo il suo lavoro. E mi sento di complimentarmi con lui e con chi lo ha allevato perché è ben sintonizzato sui propri bisogni. Abbiamo trascorso per centinaia di migliaia di anni le notti accanto ai nostri cuccioli (in molte culture è ancora così), come pensare che per loro oggi questo non faccia più testo. In particolare la notte poi, quando il cervello primitivo è maggiormente coinvolto. Per loro restare da soli è un rischio troppo alto, compromette (su un piano istintivo certo) la loro stessa sopravvivenza perché rimanere isolati rispetto al branco, al gruppo, sarebbe fatale. Il contatto madre figlio poi (non per tutta la vita! E nemmeno per anni! Diciamo alcuni mesi e senza prescrizioni!) non fa bene solamente a lui ma anche a lei. Un recente studio ha rilevato quanto andiamo scoprendo da anni, vale a dire che l’assetto cerebrale della donna cambia nei mesi successivi al parto, con un incremento della zona orbitofrontale, quella preposta all’empatia, al rispecchiamento. Il contatto poi consente uno scambio e reazioni bio-chimiche prodigiose per entrambi: l’ossitocina che viene rilasciata (per me, tanto per intenderci, il correlativo oggettivo dello Spirito Santo, anzi lo S.S. tout court), o le endorfine presenti nel latte materno. La comunione nel sangue prima, e nel latte, poi (attraverso la placenta esterna, latte che il Corano chiama sangue bianco non a caso) non è una schiavitù per la donna ma il terreno di trasmissione della cultura umana che giova a tutti. Il fatto che guardiamo a questa realtà non implica certo che si dimentichi il resto, e il film lo testimonia, non limitandosi alla natività. Non mi pare che Gesù resti attaccatto alla gonnella della madre, anzi. La rivoluzione copernicana da afferrare è che non è il bambino al centro, ma la madre. Che lo porta con sé nel mondo mentre lavora, studia, scrive, finché lui non sarà in grado di sgambettare. Parliamo sempre poi di famiglia monoparentale, quella che penalizza fortemente le madri perché le iperresponsabilizza (questa sì), mentre bisognerebbe immaginare una comunità organizzata satellitarmente in cui il bambino è agganciato a una molteplicità di figure (tolti i bisogni fisiologici che sappiamo).
Noto con dispiacere la scomparsa del film dalle sale di Bologna. Siamo stati fortunati ad averlo visto ieri sera. merita davvero di esser visto in sala, la tv non gli renderebbe giustizia. Cosa sarebbe quel primo frammento di volto, occhio diretto alla camera, se fosse incorniciato e compresso in una piccola inquadratura. I volti, le espressioni, i colori forti e caldi dei tessuti che fanno da contrasto al paesaggio, alle case. Freddo-caldo, morbido-duro, padre-madre, sono tante le coppie che compongono la storia.
Una storia che, ripeto, andrebbe vista e apprezzata al cinema perchè a mio giudizio le renderebbe onore. Il film è costruito benissimo, c’è la storia di una ragazza, come dice Erri De Luca nel suo “In nome della madre” operaia della divinità, narrata da lei stessa, nel viaggio che la porta a scoprirsi donna ad essere donna. Trasmissione feconda, da donna a donna, da ventre a ventre, nel mistero più antico e naturale.
mmm. onestamente piu’ leggo e piu’ divento perplesso. quando e’ nato il nostro primo figlio, mia moglie era tutta esaltata con queste teorie della “maternita’ globale” (il termine l’ho inventato io adesso), e dopo alcuni mesi e’ scoppiata. col secondo figlio l’ha presa in modo piu’ rilassato, concedendo a se stessa il diritto di averne le palle piene ogni tanto, e le cose sono andate molto meglio. onestamente io dico: viva i pannolini, viva le baby sitter, viva anche i biberon, se servono (e ogni tanto servono). e soprattutto: viva i vaccini e gli antibiotici. il nostro piccolo la settimana scorsa e’ guarito dalla polmonite grazie agli antibiotici; ai tempi di mia nonna, quando tutto era “naturale”, sarebbe morto.
@tuco
Ma guarda che vivere la cosa “naturalmente” prevede proprio l’essere rilassati… E’ il non riuscire a viverla così che causa ansie da prestazione.
alexpardi
ne’ io ne’ te siamo donne. ma prova a immaginare di essere una donna e che tutte le tue amiche della sinistra extraparlamentare ti stiano con gli occhi addosso e che ti stigmatizzino se per una volta lasci a casa il bimbo con la babysitter per andare al cinema col tuo uomo…
e’ come diceva uno dei wuming qui sopra. rischia di diventare un altro tipo di legame comunitario, tra l’ altro basato di nuovo sul sangue…. non mi squadra.
Ieri sera ho visto il film, e avendolo visto dopo aver letto tutti i vostri commenti, probabilmente la mia è stata una visione condizionata e inevitabilmente alla ricerca di conferme di quanto detto nelle analisi e nelle suggestioni di molti di voi. Ma questo non è necessariamente negativo.
Il film mi è piaciuto molto, da vari punti di vista, che non approfondisco perché già detti (regia fotografia suggestioni originalità ecc.), ma l’aspetto che mi ha maggiormente colpito, da donna e da madre, è che la storia è narrata da un punto di vista di donna e di madre. Vero, quindi, che un film così un uomo non avrebbe potuto farlo. E di questi tempi non è un fatto da poco! Poco importa se Maria è la donna e madre perfetta, quella che probabilmente noi non saremo mai, per fortuna, dio ci scampi dalle mamme perfette. Quello che conta è che Maria è una donna che non si fa determinare dalla legge dell’uomo. Sceglie cosa è giusto per sé contro tutto quello che la società le vorrebbe imporre. Una donna libera e consapevole. Se quello che fa è perfetto, non lo so, forse non lo è per me, io a mio figlio le orecchie magari le tirerei se mi sparisse per due giorni (l’autoregolazione dei figli vale fino a un certo punto per me) ma quello che conta è che sceglie liberamente, al di fuori dei condizionamenti, sul proprio corpo e su come crescere un figlio. Potremmo parlare ore di come la pensiamo soggettivamente sul ruolo della donna contemporanea, di come è meglio crescere i nostri figli, del ruolo più o meno discreto dei padri, ma non arriveremmo mai a una sintesi comune, e per dirlo alla Maria di Nicoletta ognuno sa cosa è giusto per sé.
tra l’altro rileggendo quel che ho appena scritto mi sono reso conto per la prima volta di come l’ atteggiamento di queste amiche “di sinistra” (con le virgolette) sia incredibilmente simile a quello dell’ italia “clerical-clericale” contro cui dovettero scontrarsi le donne di sinistra (senza virgolette) negli anni ’70, quando si conquistarono sul campo il diritto alla pillola e tutto il resto.
(ah, comunque il film non l’ho potuto vedere. quel che ho scritto riguarda la discussione sul modo di essere genitori)
Comprendo quanto dice Nicoletta, ma trovo un po’ pericolosa la china di questo ragionamento. “La madre centro del tutto” è a mio parere un concetto fortemente esclusivo e quindi escludente. Sono meno donna se non ho partorito? Sono meno donna se non allatto mio figlio? Sono meno donna se lo lascio piangere sperando che si abitui a dormire da solo nel suo letto imparando per esperienza che il buio della sua camera non è pericoloso? Ci sono pagine suadenti di Chatwin in “Le vie dei canti”, se non ricordo male – non ho i miei scaffali sottomano e quindi non posso controllare –, su quello che scrivi, Nicoletta, a proposito dei bimbi di oggi che sono come quelli di 100.000 anni fa, sul loro pianto, sul ritmo che imparano dal dondolio del corpo della loro madre che li porta su di sé mentre lavora nei campi… Suadenti, non convincenti…
Preferisco, di questo film, prendere il lato “eversivo” della figura femminile. Vorrei poter dire che la figura di Maria è eversiva perché donna e non perché madre.
Nelle comunità ebraiche, soprattutto le più ortodosse, indubbiamente la figura femminile è ‘succube’, ‘ritirata’ per quanto riguarda quella che comunemente si chiama “vita sociale”, anche se il suo compito non è solo quello di “stare in casa”, ma anche quello di lavorare, e tutto affinché il marito possa dedicarsi allo studio. Ma non si può dimenticare che la donna ha un ruolo fondamentale dal punto di vista religioso e identitario: si è ebrei, infatti, se la propria madre è ebrea (c’entra molto il sangue, quindi). Alle donne, inoltre, è affidato il compito di insegnare ai bambini i precetti. La donna è custode dei precetti (quindi anche delle norme su purità/impurità).
Forse perché custode dei precetti, mi vien da dire, la donna ha la chiave per scardinarli.
Non è un caso, a mio parere, che nella letteratura ebraica e israeliana le figure eversive siano figure femminili. Mi vengono subito in mente la straordinaria Rachel Benjamin protagonista di “La lettrice di romanzi d’amore” di Pearl Abraham (Einaudi 1997), che riesce a prendere un brevetto da “assistente bagnanti” e quindi si fa vedere in costume; la Fifi di “Lo strappo” di Judith Rothem (Feltrinelli 2000) e, metaforicamente, le protagoniste dei due libri di Alona Kimhi, entrambi usciti per Guanda, “Lily la tigre” (2007) e “La lettrice di Shelley” (2010). Dolente contraltare, la Rachel di “Ripudiata” di E. Abécassis (Marco Troppa 2001), che si sottomette alla legge fino ad accettare il ripudio per una sterilità che non è sua. Sua sorella Naomi è “l’eversiva”: ama un ragazzo che ha lasciato il quartiere chassid (ortodosso) e lo incontra di nascosto, grazie all’aiuto di Rachel. E alla sorella dice: “Credi sia normale vivere come viviamo noi?” (ed è ancora lei a consigliarle di andare da un medico).
D’altro canto, se si pensa a Giobbe, che si sottomette all’autorità divina fino all’estrema consumazione, trovando in questo il senso del suo essere al mondo e in rapporto con JHWH, si capisce una volta di più il potere scardinante delle regole che le donne hanno. Che lo usino o meno, è un altro conto.
non so, secondo me chiunque puo’ scardinare le regole. come quel mio bisnonno mezzo zingaro e mezzo furlano, che portava un orecchino ricavato da un chiodo ripiegato, e che ogni tanto partiva a cavallo con gli amici e spariva per un paio di settimane. io non so se lui fosse il padre di mia nonna, ma qualcosa di lui e’ arrivato comunque fino a me. attraverso i racconti, non attraverso il sangue.
non lo so. la frase di nicoletta qui sopra
“La comunione nel sangue prima, e nel latte, poi (attraverso la placenta esterna, latte che il Corano chiama sangue bianco non a caso) non è una schiavitù per la donna ma il terreno di trasmissione della cultura umana che giova a tutti.”
mi provoca un vago senso di inquietudine.
C’è una verità di cui non bisogna aver paura, anzi, dovremmo rallegrarcene: questo film ha una spiccata autonomia rispetto agli intenti di chi lo ha scritto e girato. Noi ci abbiamo trovato dentro cose che per noi sono molto importanti ma che manifestamente Guido e Nicoletta ritengono secondarie o forse incidentali, e viceversa. La nostra lettura più politica non si affaccia mai nelle loro interviste e dichiarazioni, la loro lettura “matricentrica” è presente nei nostri appunti di visione solo in termini di presa di distanza critica. Va bene così. E’ tipico delle opere molto riuscite.
[…] dove la maternità è fortissimamente idealizzata, anche non volendo. Leggere, con attenzione, questo thread. Tags: […]
premessa: non ho ancora visto “Io sono con te” , ma ne ho letto molto in rete, e ora qui.
Ho pensato: peccato che Alice Miller non possa vederlo! Maria e Giuseppe, tutti e due, insieme, credono che si possa crescere un figlio senza tagliarlo, umiliarlo, picchiarlo. Un bel cambio di paradigma, all’epoca. Miliardi di persone nel mondo non ci sono ancora arrivate. La circoncisione, per esempio. Perché ci battiamo solo per le mutilazioni genitali femminili? (Un documentario molto divertente – quindi doppiamente efficace, secondo me – su questo tema è “Partly private” – qui il trailer http://www.traileraddict.com/trailer/partly-private/trailer)
Il rapporto Maria e sua madre – come lo descrive Ekerot, che ha visto il film – mi ha ricordato quello tra la piccola protagonista di “L’uomo che verrà”, Martina, e sua madre Lena: non si può dire che Lena la incoraggi, ma “è con lei fino in fondo”, lasciandola semplicemente essere quello che è. E il film di Diritti finisce con Martina che culla l’Uomo che verrà.
Su alcune cose che scrive Nicoletta ho delle riserve, però, le stesse espresse da altri, del resto. Sostanzialmente, credo che un padre possa valere quanto una madre, per esempio -checché ne pensi l’ossitocina. Anzi, in parecchi casi anche di più. Quello che ci fa crescere sani e forti non è una cosa sola (sarebbe una strategia evolutiva per lo meno azzardata), ma tante messe insieme, è un gioco di squadra. Nessuno si dia troppa importanza, figlio compreso, mettiamo al centro la collaborazione, le preferenze comuni, nessuno si sacrifichi per nessuno. La fusione perfetta mi lascia perplessa. Sono piuttosto a favore del confine perfetto, da rispettare sempre – genitori verso figli, figli verso genitori.
A dopo la visione del film, e abbracci alla famiglia Chiesa!
p.s. lascio qui un commento su un altro post (quello su Foucault), perché ho parlato di bambini e di confini. Il capitolo più vergognoso della biografia intellettuale di Michel Foucault non è la difesa della rivoluzione iraniana. E’ stato, con altri suoi compagni di strada (tra cui Cohn Bendit), un acceso sostenitore della pedofilia “dolce”. Bisognerebbe rileggere certe sue pagine. (“Infanzia emancipata dai limiti!” – eh, a proposito di confini.) Ogni volta che vado da Feltrinelli – a Roma – chiedo sempre se per favore potrebbero togliere la sua gigantografia. Bene i libri, bene tutto, assolutamente, un grande pensatore. Solo non vorrei vedere la sua faccia. Espongo brevemente le mie ragioni, loro dicono di no. Bene, nessun problema, saluti. Poi ci ritorno. E con l’occasione infilo anche tutti i “Le madri hanno sempre ragione” e “I no che aiutano a crescere” sotto altre pile di libri. O gli cambio di posto.
Bè Diana, volendo essere esatti la circoncisione non impedisce al bambino diventato adulto di avere rapporti sessuali prima del matrimonio, l’infibulazione invece sì, anzi il suo scopo è precisamente quello: obbligare la ragazza a restare vergine fino al matrimonio (per non parlare del taglio della clitoride che impedisce di godere dell’orgasmo clitorideo). Quindi l’infibulazione ha una funzione coercitiva che la circoncisione non ha, fermo restando chele mutilazioni genitali sono sempre orrende tanto più se imposte a bambini.
Detto per inciso: non accetto nemmeno il battesimo cattolico dei neonati anche se è decisamente meno cruento, potevo capirlo all’epoca in cui c’era un’alta mortalità infantile e ci si voleva assicurare che l’infante andasse in Paradiso, ma oggi per me non ha senso.
Diana, d’accordissimo con te sul fatto che un padre vale o dovrebbe valere quanto una madre nella crescita del bambino (ovviamente solo dopo che il figlio è nato e solo se entrambi l’hanno desiderato), “che in parecchi casi valga anche di più” questa è una tua valutazione del tutto personale e soggettiva che non sottoscrivo, dipende caso per caso, dal padre e dalla madre che hai, fermo restando che il manuale del genitore perfetto non esiste. Non passiamo dalla idealizzazione di Mamma a quella di Papà
e volevo anche dirti che l’abitudine di nascondere o cambiare posto ai libri che non ti garbano nelle librerie la trovo stupida e infantile, se fossi un commesso non esiterei a buttarti fuori e spero vivamente che prima o poi ti becchino.
eh, se mi beccano mi beccano. Mi assumerò le mie responsabilità, sempre chiarendo le mie motivazioni. Perché sugli scaffali del reparto psico-pedagogico, in bella mostra davanti a tutti gli altri, c’è sempre un vecchio libro di Bollea, “Le madri hanno sempre ragione”, e mai uno molto più recente di Jesper Juul, “Il bambino è competente”? (Stesso editore, stesso prezzo più o meno)
quanto al resto, Paolo scrivi: “fermo restando che le mutilazioni genitali sono sempre orrende tanto più se imposte a bambini”. Esatto. E’ proprio questo il punto: anche di mutilazioni genitali femminili ne esistono di gradi e severità diverse, non per questo respingiamo solo le più gravi.
p.s. per Paolo: spero che scrivere “in parecchi casi anche di più” non equivalga a una idealizzazione di niente. E’ una semplice constatazione che tutti possiamo fare guardandoci intorno. L’ultimo esempio, James Ballard che, rimasto vedovo, ha tirato su i suoi tre figli ancora piccoli da solo con – sembra – ottimi risultati (“I miracoli della vita” – favoloso!). Non idealizzo, stai tranquillo.
Io sono privo di parte del prepuzio, me l’hanno tagliato quand’ero piccolissimo (avevo 3 anni, se non ricordo male), per un problema di fimosi congenita serrata. L’operazione che mi hanno fatto si chiama postectomia parziale. Secondo la logica del “tutto-è-uguale-a-tutto” che si sta pericolosamente affacciando nella discussione intorno al film (e purtroppo non sul film, perché tutti intervengono premettendo di non averlo visto), io sarei un “mutilato genitalmente”, e farei parte dello stesso insieme delle donne infibulate etc. Invece il prepuzio è un lembo di pelle con poche terminazioni nervose, e averlo o non averlo, averlo tutto o in parte, fa poca differenza. Invece avere o non avere la clitoride fa parecchia differenza: ti cambia la vita.
Attenzione, perché qui si sta prendendo una brutta china.
Allora credo proprio di non essermi spiegata. Quale brutta china? Tu avevi un problema di tipo medico su cui i medici sono intervenuti. Non è la stessa cosa. Tutto non è affatto uguale a tutto, infatti. Mi fermo qui, comunque.
Il problema medico fa parte dell’ordine delle motivazioni. Quando si parla di “mutilazione”, si fa chiaramente riferimento all’atto stesso. Se qualcuno crede che una persona priva di prepuzio sia menomata, lo crederà a prescindere dalla motivazione, che al massimo sarà ritenuta un’attenuante (“Porello, non si poteva fare altrimenti”). Invece il punto è che essere privi di prepuzio non è una menomazione, perché non ne consegue alcun deficit. Chi è privo di prepuzio fa esattamente le stesse cose di chi ce l’ha.
no, aspetta, prima di fermarmi riporto uno scambio di battute contenuto nel film “Partly private” (Dio ti ringrazio di avere dato agli ebrei il senso dell’umorismo). I due neogenitori ebrei che si chiedono se sia giusto circoncidere il loro primo figlio (poi lo faranno, ma se ne pentiranno, e il secondo non sarà circonciso), vanno a parlare con tutti, medici, filosofi, religiosi, psicoanalisti e gente per la strada, sottoponendo il problema. E un americano della strada, dopo aver ascoltato il quesito chiede ai due simpaticissimi e combattivi protagonisti: “Are you gonna cut your son? What, are you out of your mind?” Magnificamente sintetizzato. (I problemi medici sono un’altra cosa)
Non vorremo mica fare come quello che si è alzato in sala dopo la proiezione del film di Chiesa, e ha dato dei criminali nazisti e antisemiti a tutti. Non la vedo questa pericolosa china.
tu fai filosofia, giustamente e va benissimo, io parlo di fatti. Nei fatti, un adulto prende una lama e taglia suo figlio sulla base di ‘credenze’, non di necessità. Come nell’infibulazione. Gli esiti sono diversi, la quantità di dolore anche, molte cose sono diverse, eppure a Maria non sfugge che è sbagliato. E neanche a me, che non sono neanche battezzata, e sono per metà ebrea. E neanche al padre del documentario, che infatti non vuole assistere. .
Quando si vuole sminuire la posizione di un interlocutore, la cosa più facile è accusarlo di “fare filosofia”, di muoversi su un terreno di astrattezza, a cui contrapporre i Fatti, il ruvido buon senso etc. Invece io sono partito da qualcosa di molto concreto e fattuale: mi hanno tolto un grosso lembo di prepuzio. Mi hanno “tagliato”. E questo non fa di me un menomato.
La china che vedo non è tanto quella dell’antisemitismo (sono tantissimi i non-ebrei circoncisi), quanto quella di non distinguere *a sufficienza* tra pratiche diverse e condizioni diverse.
Il rischio è di far sentire menomate persone che di fatto non lo sono, di ingigantire il “trauma” che hanno subito, di attizzare il loro risentimento (come se in giro non ce ne fosse già abbastanza). Esortare i circoncisi a denunciare in sede penale i loro genitori, come fanno alcune associazioni attive in Francia, è una stronzata pericolosa. Questa è la “brutta china”.
Io non farei circoncidere il mio bambino se non strettamente necessario. Per la mia sensibilità la circoncisione a fini non terapeutici è una pratica inutile, parte della voga iper-medicalizzante e malintesamente igienistica del XX secolo. E mi sta benissimo se dentro le comunità religiose che la praticano nascono, *in piena autonomia*, dibattiti sulla necessità di mantenere o superare quel rituale. Quello che non voglio fare è alimentare un dibattito che impone ad altre persone una condizione di “minorità” nient’affatto scontata, “vittimizzandole” più di quanto sia lecito, ponendo di fatto un discrimine e quindi separando.
Per come la vedo io, e l’ho scritto, nel film Maria si oppone alla circoncisione di Gesù perché elemento di una Legge che separa. La circoncisione non è importante di per sé, qualsiasi cosa dicano Guido e Nicoletta. L’opera va oltre l’intenzione dell’autore. Se noi, anziché guardare alla ribellione e alla dichiarazione di universalità, ci fermiamo a guardare il prepuzio, il dibattito non può che uscirne falsato.
Per come la vedo io, e l’ho scritto, nel film Maria si oppone alla circoncisione di Gesù perché elemento di una Legge che separa.
Naaa, non credo che Maria fosse una filosofa del diritto. Ma magari Guido o Nicoletta ci diranno come la vedono. Come interpretano il suo gesto. Io e te siamo destinati a condurre il ragionamento su binari paralleli che rischiano di non incrociarsi mai. Capisco il senso di quello che dici, ed è perfettamente legittimo sostenerlo, naturalmente, qui e ovunque. Non ho un banchetto anti-circoncisione per la raccolta di firme, solo mi sembra che si configuri come abuso di potere.
p.s. le prime due righe andavano tra virgolette, sono una citazione dal tuo post. Scusa.
Aspetta, qui c’entra poco la filosofia del diritto, che nasce da una specializzazione del sapere in seno a società complesse dove non tutti conoscono la legge.
Qui la Legge – con la maiuscola – è quella del Signore, è base fondante della vita quotidiana di quella comunità e tutti i membri la conoscono a menadito. Non è necessario essere filosofe, basta pensare (anzi, sentire) che qualcosa non quadra nel Levitico. C’è una Legge che pretende di imporre alla donna, alla gestante e alla madre una separazione dal resto della comunità (perché lei è “impura”) e dal suo bambino (che non può allattare subito, che viene dato a mani altrui, che è posto subito al centro di una ritualità tesa a perpetrare il potere maschile e patriarcale). Maria si ribella a tutto questo, non solo alla circoncisione. Si ribella alla circoncisione come parte di questo tutto.
ok. Punto d’incontro: si è ribellata. E siamo tutt’e due d’accordo che è stato un bene, anche se per motivi diversi. Tutto a posto. (Non mi denunciare a Feltrinelli, o tu che conosci il mio cognome, per favore. E se cerchi il libro di Bollea, vai alla sezione Classici greci, in quello scaffaletto in fondo…)
p.s. ho detto filosofa del diritto, ma potevo dire epistemologa o enfiteuta, era solo una figura retorica.
Che me ne faccio del libro di Bollea? Ho quello di Juul. E sai chi me l’ha regalato? Guido, quand’è nata mia figlia :-)
Avendo, grazie alla generosità di WM, dato corso a questo thread e leggendo strane e indesiderate derive (anche su altri siti) vorrei precisare, a proposito di varie questioni sollevate, che:
1 – Nessuno idealizza niente. Io non sono certo beneficiario di una madre rispettosa della mia infanzia. Quando avevo 40 giorni di vita – invece di prendersi l’aspettativa come la legge le permetteva con una riduzione di stipendio – ha preferito interrompere il mio allattamento, facendomi (racconta lei stessa) piangere per mesi e costringendomi a un’odissea di surrogati (per tacere il resto), intolleranze alimentari e chissà cos’altro. Naturalmente qualcuno adesso salterà su dicendo: io ho dato il biberon a mio figlio e lui non si è mai lamentato! La nostra capacità di non vedere la sofferenza dei nostri figli è straordinaria e lo dice uno che l’ha fatto per anni. Per cui lungi da me ritenere che l’essere madre sia di per sè una garanzia di nulla o una qualche forma di santità.
2. Nessuno pensa che il padre non abbia o non debba avere un ruolo. Anzi: come indagano WM, c’è una sostanziale differenza tra il modello del Padre Svero e del Padre Dolce. E poi resta il fatto – o anche questo è cultura, storia, mito? – che siamo mammiferi, non papariferi. In certi passaggi dell’esistenza, la madre ha un ruolo centrale: sia nel bene, come nel male. Anche il padre può parimenti fare del bene come del male. In punto è riconoscere questa possibilità del nostro corpo e del nostro agire, o negarla. Se uno la riconosce, può incominciare a interrogarsi su che cosa sia bene o sia male, che cosa si può fare come donna e uomo per migliorare, per lo meno, la relazione con i nostri figli, gli esseri umani del futuro. Oppure può negarla e pensare che nulla conta, che abbiamo goduto dei migliori genitori al mondo, che siamo noi stessi i migliori genitori al mondo, che siamo nati per soffrire (come pensano S. Agostino e Freud, uniti nella lotta!) e che non c’è differenza alcuna tra allattare al seno o dare il biberon, tra rispettare i propri figli e riempirli di botte, tra adottare una pedagogia fondata sull’ascolto o una fondata sulle regole. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. E ve lo dice uno che non è certo stato un modello di genitorialità felice.
3 – sulla circoncisione vi invito, se non altro, a guardare un po’ di cose su questo sito http://www.nocirc.org/, oppure questo che è di matrice ebraica http://www.jewishcircumcision.org/info.htm. Oppure di approfondire la tematica delle neuroscienze infantili, ad esempio su questo volume http://www.raffaellocortina.it/catalogo_scheda.asp?idlibro=1042. Dove si può apprendere che un dolore provato a 8 giorni è una cosa e a 3 anni è un’altra. Pur trattandosi sempre di dolore. Naturalmente c’è che vi dirà il contrario, come su qualunque cosa che si dica su questa terra. Anche qui ognuno fa i conti con la propria coscienza e libertà.
4- proprio perchè uno fa i conti con la propria coscienza e la libertà, dissento da Ekerot quando scrive “Un autore cinematografico non dovrebbe mai accusare il pubblico per aver disertato le sale. Loro non dovevano niente al regista, né agli altri autori. Era compito degli autori convincerli con il trailer, con la pubblicità, con la qualità del lavoro a portarli in sala (magari tramite passaparola)”. Il punto è che io, non a caso, non ho mai parlato di pubblico, ma di segmenti specifici di spettatori, come ha poi ribadito WM2. Il pubblico non esiste: esistono solo persone, ognuno con la propria coscienza e libertà. Se uno incomincia a pensare che è solo un fatto di trailer (personalmente non sono mai andato a vedere un film per il trailer e non conosco una persona che lo faccia) o di pubblicità, cioè di soldi, vuol dire che allora, quel qualcuno, pensa che le persone siano stupide e che l’unica possibilità di convincerle a fare alcunchè sia semplicemente lo sforzo muscolare. Invece, IO SONO CON TE ha goduto di una pubblicità media, amplificata dalla partecipazione del film al Festival di Roma, eppure i suoi risultati al botteghino sono stati ben al di sotto di film assai meno pubblicizzati. Ne consegue che interrogarsi sul perchè le persone non sono andate a vederlo, nemmeno quelle a cui il film era indirizzato, è legittimo e per nulla irrispettoso. Non a caso, Ekerot elenca altri due fattori: la qualità del lavoro e, tra parentesi (sic!), il passaparola. Sulla qualità del lavoro non posso certo dire nulla io, ma parlano le recensioni: nessuno tra i miei lavori ha ottenuto una così alta percentuale di approvazioni (a partire da Lavorare con lentezza che, come WM può testimoniare, non ha certo goduto di bella stampa, eppure ha incassato, finora, trenta volte tanto!). Sul passaparola non possiamo che essere d’accordo: ma come fai a determinare un passaparola se ti tolgono dalle sale dopo una settimana? L’unica città in cui il film ha avuto una programazione semi-regolare è Torino, sebbene in una sala piccola: dopo 4 settimane, domenica hanno dovuto mandare via la gente perché non c’entravano tutti.
5. Il film non è morto. E’ ancora in programmazione a Milano, Torino e Roma. Il 17 uscirà a Reggio Emilia e passata la buriana natalizia, a Parma, Pescara e numerose altre città. Chi desideri che io venga a presentarlo, può farne richiesta qui o tramite http://guidochiesa.net/.
GRANDISSIMI!!!! Vi consiglio – a te e a tua moglie – anche “Ragazzi, a tavola!”
Aggiungo solo, a proposito dell’allattamento al seno, che la prescrizione di non attaccare subito il bambino non proviene dal Levitico (almeno questa!), ma ha attraversato tutta la storia come è data a noi conoscerla. Tanto che, ancora adesso, alcuni pediatri pensano che il colostro sia dannoso e non raccomandano, come invece sarebbe necessario, l’immediato contatto tra corpo della madre e corpo del neonato. Ma anche qui, qualcuno dirà che è tutta una faccenda di cultura, storia, scelte, e dove mettere la questione della libertà femminile, e “a mio figlio non ho dato il colostro ed è sano come un pesce” ecc. ecc. Ancora una volta, come da che mondo e mondo, donne e bambini sono le prime vittime del sistema sociale.
A Diana e UB:
Alice Miller è stato uno dei nostri principali punti di riferimento, e non solo ovviamente per la questione mariana. Altri sono stati (con i dovuti distinguo) Michel Odent, Renè Girard, Sue Gerhardt, Allan Shore, William Sears, Thomas Gordon, Marshall Rosenberg, ecc. Ma su tutti ve ne voglio segnalare uno che non ha nulla, ma proprio nulla, di accademico, religioso o moralista e per questo, per noi, è stato un compagno di viaggio insostituibile: Jean Liedloff, Il concetto del continuum, Meridiana. Non a caso la Miller lo cita ne Il dramma del bambino dotato.
Mia figlia si è pappata il colostro e ha preso il latte dal seno per i primi tre mesi, dopodiché, per cause indipendenti dalla nostra volontà (cause, ahinoi, di tipo fisiologico) e contro le quali abbiamo anche cercato di combattere, siamo dovuti passare al latte in polvere. Sono cose che succedono. Chi può dire se la bimba ne abbia sofferto, e quanto? Nel rapporto adulti-bambini, ogni cosa può avere conseguenze imponderabili. E’ un mondo di effetti-valanga. So che ha fatto del biberon il proprio “oggetto transizionale”, lo ha portato in giro (anche vuoto) come feticcio per un sacco di tempo etc. Questo vorrà certo dire qualcosa. Ma a noi non sembra che abbia riportato un trauma. Ci appare radiosa, e stravede per i suoi genitori. Insomma, anche qui: cerchiamo di non adattare ogni caso in una griglia pre-confezionata.
beh, un po’ di indulgenza non guasterebbe. ognuno fa quel che puo’, cerca di fare il meglio che puo’, e accetta la possibilita’ di fare degli errori. io onestamente sono stufo di essere circondato da gente che giudica. alla fine non vedo grande differenza tra i sacerdoti della Legge e le sacerdotesse della lega del latte. il nostro primo figlio e’ nato prematuro. era stremato, non aveva la forza di succhiare. lo hanno salvato con la flebo. quando e’ stato dimesso, mia moglie ha provato ad allattarlo, ma non c’e’ stato verso. le attiviste della lega del latte sono venute a casa nostra e l’hanno fatta solo sentire in colpa. io, fosse per me, le avrei cacciate a pedate nel culo, ma mi sono trattenuto.
altra questione. i vaccini. e’ chiaro che le case farmaceutiche ci marciano, e che il 90% dei vaccini sono inutili. ma anche qui bisogna vedere caso per caso. dalle mie parti, ad esempio, i boschi sono infestati da zecche portatrici di un virus che provoca meningite fulminante (ci sono stati dei morti). per fortuna esiste un vaccino, e noi ci siamo vaccinati tutti. cosi’ i bambini possono giocare nei boschi e nei prati senza rischi. li ho traumatizzati facendoli vaccinare? puo’ darsi, me ne assumo la responsabilita’. l’alternativa sarebbe stata quella di impedire loro di correre nei prati.
C’è pure qualcuno che ha da ridire sulle vaccinazioni ai bambini? Andiamo bene! è in momenti come questi che ho bisogno di ricordare a me stesso che la libertà d’opinione è una cosa giusta..nonostante certe opinioni.
Comunque volevo dire che pure a me hanno dato il latte artificiale dopo un primo periodo di latte materno e non sono storpio, non ho intolleranze alimentari particolari, voglio bene ai miei genitori, non credo di aver subito dei traumi insanabili, ovviamente il signor Chiesa è libero di non credermi, dirà che i traumi sono inconsci e quindi non posso rendermene conto..comunque giudico orrendo equiparare il dare il biberon al picchiare i bambini, mi pare che Chiesa nel suo post delle 12.14 abbia accomunato nella medesima condanna cose diversissime commettendo un’ingiustizia.
Fermo restando che non stento a credere che certi vaccini siano inutili, magari anche molti. valutare sempre cso per caso, come dice tuco.
Mi sembra che questa discussione stia sempre più perdendo focus…
Concordo. A parte il fatto che non ho mai parlato di vaccini, nè ho equiparato nulla a nulla, mi rimane il dubbio che tra l’ansia di auto-assolversi di qualcuno e le dichiarazioni di amore verso i propri genitori di qualcun’altro, qui si tocchino le vere corde che contano (altro che parlar di Berlusconi o cinema!). Ma dato che qualcuno si offende e mai e poi mai mi sentirei di giudicare chichessia, ritiro tutto. Anzi, chiedo sinceramente perdono se ho comunicato questa sensazione. Ringrazio WM per l’ospitalità e i lettori di questo sito per l’attenzione. Se qualcuno vorrà intervenire sul film, son sempre qui.
“pensare che nulla conta, che abbiamo goduto dei migliori genitori al mondo, che siamo noi stessi i migliori genitori al mondo, che siamo nati per soffrire (come pensano S. Agostino e Freud, uniti nella lotta!) e che non c’è differenza alcuna tra allattare al seno o dare il biberon, tra rispettare i propri figli e riempirli di botte, tra adottare una pedagogia fondata sull’ascolto o una fondata sulle regole. ” Guido Chiesa
Vale a dire:
allattare al seno = rispettare i propri figli
dare il biberon= riempirli di botte
io l’ho interpretato così, se mi sono sbagliato ne sono lieto e prendo atto che Chiesa ha prudentemente ritirato tutto.
Chiedo scusa ai Wu Ming se ho contribuito a mandare fuori focus la discussione, è che non ce la faccio davvero a non dire la mia anche se mi rendo conto che non sempre sarebbe il caso.
E comunque non ho mai creduto di avere i migliori genitori del mondo, anche perchè “i migliori genitori del mondo” così come i migliori figli del mondo o il miglior coniuge non esistono, non sono mai esistiti e mai esisteranno.
“autoassolversi”?
allora altro che il gesto di ribellione contro i vincoli comunitari (ribellione sacrosanta, e da compiersi quotidianamente lungo tutto l’arco della vita)
qui si sta girando il coltello nella piaga di questioni personali, dolorose anche, di scelte dettate da difficolta’ concrete.
per me basta cosi’. chiedo scusa per l’ ot sui vaccini, alla prossima.
Quoto paolo1984 e aggiungo:
i traumi che un bambino può subire in età neonatale sono molti, senz’altro, alcuni imposti dalla cultura, altri da cause/sfighe naturali. Altrettanti sono quelli che un bambino può subire nei primi anni di vita, per non parlare di quelli che subiamo da adulti (basta dare un’occhiata ai referti psichiatrici dei reduci della Prima Guerra Mondiale, e lì hai voglia te ad avere avuto un lungo allattamento al seno e una madre amorevole…!). Una neonatalità e un’infanzia tutelati sono senz’altro un bel serbatoio di forza e felicità per il futuro, sono le basi su cui un individuo si costruisce, ma non mettono necessariamente il bambino al riparo da altri rischi “degenerativi” (tardiva emancipazione o addirittura rifiuto della medesima, iperprotettività, centralità assoluta del legame genitoriale o genitorialità amicale, solo per dirne alcuni, mali piuttosto frequenti a giudicare da quello che vedo intorno a me, senza contare appunto le sfighe etero-famigliari, assolutamente determinanti). Sbilanciare tutto sull’inizio della vita significa guardare solo una parte, senz’altro fondamentale, ma non unica in causa, e può portare a una sottovalutazione di tutto il resto. Ovvero, di contro, a rendere assolutamente centrali alcuni traumi. Per l’appunto, tornando al discorso da cui tutto era partito, io sono contrario a incidere sulla carne di mio figlio (come sulla mia) i segni di un’appartenenza, di un’identità. Questa posizione ovviamente mi deriva da una lunga tradizione universalista che getta le sue radici più remote proprio nel cristianesimo probabilmente, ed è quello che infatti io leggo nel film di Guido e Nicoletta. Ma posso provare che la circoncisione segnerebbe la psiche del bambino in maniera più indelebile di un qualunque altro trauma non invalidante fisicamente (come invece è l’infibulazione femminile)? Posso dire d’essere messo meglio psichicamente o caratterialmente, oggi da adulto, del mio socio WM1, o di mio zio che è stato circonciso da neonato? Qual è il metro di giudizio?
Saggi tutti quanti a stoppare la discussione, perché secondo me non va da nessuna parte (o, come si diceva, verso una china rischiosa). Ognuno ha il diritto di affrontare le proprie questioni psicologiche, i problemi interiori, nella maniera che ritiene più efficace per sé. Far derivare da questo una teoria generale – come già è stato fatto notare in questo thread – è un altro paio di maniche.
Per Guido Chiesa.
Ora suvvia, che il pubblico non esista mi pare un po’ eccessivo.
Il mio dissaccordo nasce dal fatto che senza dubbio un autore DEBBA interrogarsi del perché un certo numero di spettatori, una certa fascia di spettatori a cui il film era indirizzato. Ma mi pare un po’ facile dire che è stato per via di pregiudizi contro il film.
A parte che se il film è stato pensato per una certa specifica fetta di spettatori, forse è anche normale trovarsi certi dati. Non so quante persone in Italia siano effettivamente interessate ad una riflessione sulla maternità e sul rispetto delle leggi attraverso la figura della Vergine.
Il film sconta senza dubbio la sua difficoltà.
Voglio dire. “Lancellot du lac” film meraviglioso di Bresson sul ciclo bretone non penso abbia fatto furore nelle sale, pur raccontando le vicende di uno dei personaggi letterari più famosi di sempre.
Tanto più ci si allontana dal canone, tanto più ci si allontana dal botteghino.
Esistono le eccezioni, ma non sono in numero sufficiente a rompere la regola.
Questi film più innovativi, o “strani”, hanno bisogno sia di un trailer “potente” sia del passaparola.
Qui in Italia si continua a credere che il trailer non tiri, e invece è falsissimo. Tant’è che raramente si vede un buon trailer nelle sale di film italiani.
Prendiamo ad esempio un film che è andato benissimo pur partendo da una storia che – al Cinema – si diceva non avrebbe funzionato: “La ragazza del lago”.
Molaioli mi disse di aver lavorato parecchio sul trailer (avendo molto tempo a disposizione). E cosa hanno fatto? Hanno pensato: facciamo “Twin Peaks al nord”. Risultato? 3 milioni di incasso. Un trailer che peraltro non mantiene le promesse, perché secondo me il film non c’entra niente con Twin Peaks. E lì il trailer assieme al passaparola ha funzionato moltissimo come tramite per lo spettatore.
Non mi si venga a dire che il trailer è una faccenda muscolare e funziona solo credendo nella stupidità delle persone. Il trailer è la pubblicità di un film. Non c’entra col Cinema, c’entra con la pubblicità.
E’ una delle armi in dotazione del film per fare colpo sugli spettatori.
Si può essere contrari a quest’arma, oppure no – ed utilizzarla. Non ci vedo assolutamente niente di male.
Sono lietissimo per “Io sono con te”: evidentemente sta funzionando il passaparola (che è pur sempre una forma di pubblicità). Certo: una settimana è una dead-line al limite dell’assurdo.
Ma ne siamo tutti consapevoli. Bisogna convincere l’esercente.
Che comunque non è necessariamente un mostro di cultura e sensibilità. Guarda il titolo, guarda il cast, si vede la storia, e dice: “Gli do una settimana”.
E per questo, mi dico, prendersela con gli spettatori cui era indirizzato il film – dal mio punto di vista – spiega ben poco dell’insuccesso della pellicola.
Spero che “Io sono con te” possa sfruttare al meglio la sua lingua originale, nei paesi ove l’arabo è dominante e una tematica del genere non venga considerata oltraggiosa.
refuso: “una certa fascia di spettatori a cui il film era indirizzato non sia andata in sala”.
“L’ultimo esempio, James Ballard che, rimasto vedovo, ha tirato su i suoi tre figli ancora piccoli da solo con – sembra – ottimi risultati (“I miracoli della vita” – favoloso!). Non idealizzo, stai tranquillo.” diana
Non metto in dubbio che Ballard sia stato un buon padre, ma non so se l’educazione che ha dato ai suoi figli “valesse di più” di quella che avrebbe potuto dare loro insieme a sua moglie cosa che forse avrebbe preferito anche lui.
x guido chiesa – Sì, anch’io sono arrivata al Continuum Concept attraverso Alice Miller. Incredibile come i nidi degli ospedali continuiano ad essere – fondamentalmente – come lei li descrive, dal punto di vista del neonato. Leggendo le tue risposte, ho messo meglio a fuoco ogni cosa. Quoto solo questo, sottoscrivendolo in pieno : “La nostra capacità di non vedere la sofferenza dei nostri figli è straordinaria” – chi ha letto i suoi libri, sa di cosa parliamo. Sempre attraverso la Miller sono arrivata anche a Jeffrey Masson, e a Morton Schatzman. Menzione speciale a entrambi.
Interessanti i link sulla circoncisione, ne lascio qui uno anch’io, per chi fosse interessato ad approfondire il discorso sull’infanzia. credo sia uno dei più moderni, aggiornati e informati: http://www.cdc.gov/ace/index.htm. Per una storia dell’infanzia “History of childhood” di Lloyd DeMause (un po’ fanatico, ma interessante, ha speso una vita a studiare i childrearing modes delle diverse culture, nel tempo).
sui vaccini: non ne so abbastanza, ma credo che i genitori dovrebbero poter scegliere.
Gregory House non la pensa così, e a una madre che si presenta al pronto soccorso con la figlia febbricitante, e spiega a House che è contraria ai vaccini (“solo del buon, sano latte materno”), House risponde così:
“The antibodies in yummy mummy only protect the kid for 6 months, which is why these companies (aziende farmaceutiche) think they can gouge you. They think that you’ll spend whatever they ask to keep your kid alive. Want to change things? Prove them wrong. A few hundred parents like you decide they’d rather let their kid die then cough up 40 bucks for a vaccination, believe me, prices will drop REALLY fast.”
La scena, qui:
http://www.youtube.com/watch?v=IaOevcwiLIo
Per “L’iper-etica del Dottor House”, vedi Regazzoni.
Finalmente sono riuscito a organizzarmi per andare a vedere il film! (e stasera ci andrà mia moglie: e turniamo, ovviamente, per via dei nostri pupi).
Spero di non essere fuori tempo massimo per “intervenire sul film”, come chiesto da Guido Chiesa e WM1.
Anzitutto grazie al thread per avermi stimolato a sbattermi per andare a vederlo, perché ne è valsa decisamente la pena.
Posso dire che cosa io ho vissuto come centrale durante la visione?
Ho vissuto come centrale (e emozionante e stimolante e originale e commovente… e spiritualmente potente) l’aver associato, o meglio, l’aver posto di fronte il ‘classico’ invito ‘segui il tuo cuore’ a qualcosa di assolutamente antitetico alla melensaggine e alla sdolcinatura: alla consapevolezza del rischio di esporci noi stessi, seguendo il cuore, a essere, noi, a poter diventare, noi, capro espiatorio e a potenzialmente subirne il trattamento relativo; a porci di fronte a questo rischio, non rimuoverlo, contemplarlo e trovare ‘da qualche parte’ (dove? Come? Questa è una delle domande più belle che ci pone il film – @WM4: non credo vi siano solo tesi razionali troppo esplicitamente dichiarate) a trovare da qualche parte, dicevo, la forza, la non-paura di pensare che ci può essere qualcosa di fronte al quale quel rischio diventa, non so, mi vien quasi da dire ‘irrilevante’, qualcosa che può far nascere in noi una specie di ‘e chìssenefrega delle vostre pietre, e delle vostre armi e di tutto il vostro apparato coercitivo’ e sorridere (anche dentro di sé) a chi, sconcertato e impaurito sia per sé stesso che per te (Zaccaria), ti grida: “Ma non ti rendi conto che rischi la lapidazione”?
Risposta esterno giorno: – Sorriso
Incosciente? Imbecille? Stupidamente e insensatamente vocato al martirio? Il film prova ad adombrare che no.
A me pare che questo film non sia solo un’indagine su una possibile genesi matrilineare dell’epocale superamento della coazione a ripetere del capro espiatorio da parte del cristianesimo, ma che ci interroghi, pescando nel massimo della nostra profondità umana, sul rapporto fra Amore d’essenza femminile e forza interiore che permette di superare la logica del capro espiatorio, dell’esclusione e dell’emarginazione sociale, PASSANDOCI ATTRAVERSO, come.
Lo so: di qui alla deleteria esaltazione della croce il passo è breve, ma su questo blog vedo ben che si può tentare di non aver paura delle eccessive semplificazioni o delle derive da fraintendimento.
Il film è esplicito nel contrapporre i sorrisi di Maria alla sua considerazione della presenza e dell’eventualità della Morte: il teschio della capra contemplato da Maria, mentre è comunque turbata dall’assenza di Gesù; la consegna di Gesù da parte di Maria, non solo alla sua missione (prolungamento al di fuori della famiglia dell’amore sperimentato al suo interno), ma anche al suo destino; e la consegna è meravigliosamente adombrata: si capisce che non è del tutto inconsapevole da parte di Maria, si sospetta che possa essere perfettamente consapevole, ed è qui che i sorrisi di Maria giovane, di Maria matura e di Maria anziana ci interrogano, magari ci disturbano anche un po’, ci provocano un po’ come moti di stizza (proprio come quelli di Giuseppe), ma ci si rivelano anche come il luogo in cui il film si apre e ci apre al contatto dell’umano con l’Oltre: la forza spirituale della non-paura (ancora @WM4: mi pare tutt’altro che solo razionale e tutt’altro che censurante la dimensione dell’apertura all’Oltre – che tu chiami mistero – questo film!), pur mantenendo meravigliosamente fermo che: (quoto post originario WM:)
“L’uomo che fa irrompere il divino nella Storia è il detentore della pienezza potenziale della condizione umana”.
Chiudo dicendo che, se dovessi trovare una ‘seconda questione più stimolante’ proposta da Io sono con te (ma quanto a potenziale di ‘uomo inedito’ che racchiude, missà che è almeno a parimerito, però forse un po’ oltre al film), sarebbe questa, già ben illuminata dallo stralcio del post originale, che quoto sotto. Secondo me il referente di questo stralcio di WM apre una questione di importanza MOSTRUOSA nel rapporto fra cristianesimo postconciliare, anche al di là del solo mondo cattolico, e società contemporanea. Missà che, in proposito, nel Nuovo Testamento è stata posta una energia deflagrante di proporzioni per ora indefinite che ancora attende di sprigionarsi. Se vedrò che il thread continua a essere vitale, proverò ad accennare una cosa di più in proposito.
“Come risultato di questa “rivoluzione copernicana”, la vicenda di Gesù – infanzia compresa – viene restituita pienamente alla sua dimensione di rottura, non solo della tradizione religiosa, ma anche di quella familiare, e dunque della famiglia stessa: “sono venuto a mettere il padre contro il figlio, la donna contro l’uomo, il fratello contro il fratello”. Per Gesù Nazzareno, insomma, la famiglia era tutt’altro che Sacra”.
Buon uomo inedito (l’espressione è quella di E. Balducci) a tutti,
Stefano Dop.