di Lou Palanca 2 *
Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni.
Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine.
Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.
– Giovanni Pascoli, Pensieri e discorsi, 1914
Gli anni d’inizio secolo li ho dedicati alla storia locale, ricostruita in particolare a partire dalle fonti orali. Mentre lavoravo ad un saggio sulla Rivolta di Reggio Calabria del 1970, ho avuto modo di consultare, presso il locale Archivio di stato, un’ampia documentazione di volantini e manifesti stampati nel giro dei due anni che incendiarono la città dello Stretto nella disputa per il capoluogo di regione, in quella che Tonino Perna ha definito:
«l’ultima grande lotta popolare del nostro Mezzogiorno, la prima lotta “etnica” di un ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli ultimi trent’anni del XX secolo .»1
Tra i comunicati, molti ciclostilati in proprio, dei vari comitati spontanei nati in appoggio della causa pro “Reggio capoluogo”, uno mi aveva colpito in particolare. Portava in calce la firma di vari studiosi reggini ed elencava motivazioni, ragioni storiche, monumenti e giudizi sulla città da parte di poeti, scrittori, intellettuali, di ogni epoca.
La chiosa finale non lasciava dubbi sulla contesa con Catanzaro, Reggio doveva essere il capoluogo: «Perché, come sostenuto dal D’Annunzio, Vate d’Italia, ha il chilometro più bello d’Italia!»2
Al tempo ancora muovevo i primi passi nella scoperta del filosofo Gilles Deleuze. Il mio orizzonte si poteva racchiudere fra il Pollino e lo Stretto, la citazione non aggiungeva nulla di più alla mia appartenenza e alla scelta già matura di restare in Calabria, del resto come insegnante in tutti i licei dove ho messo piede, in barba ad ogni programma ministeriale, non ho mai fatto studiare “Gabriele Rapagnetta” 3, né mai penso che lo farò.
M’incuriosiva invece la capacità del neofascismo di storpiare slogan, appropriarsi o deformare i miti e parole altrui a proprio uso e consumo, di creare leggende metropolitane ad hoc.
Di lì a qualche mese, l’uscita del bel libro di Agazio Trombetta La Via Marina di Reggio4, che dedica un intero capitolo alla questione, ha contribuito in maniera decisiva a fugare ogni dubbio, con fonti e ricerche accurate sulla paternità della celebre frase.
A Reggio Calabria D’Annunzio non c’è mai stato.
L’unica volta che attraversò lo Stretto di Messina, in direzione della Grecia, a bordo del panfilo “Fantasia” era il 1895, trascorse gran parte del viaggio in cabina a lottare con il mal di mare, una debolezza sulla quale la pubblicistica dell’eroe-poeta ha sempre glissato.
Del resto come sottolinea Trombetta:
«La sua visione del mare potrebbe eventualmente riferirsi alla Reggio presismica e quindi in un periodo in cui la Via Marina non aveva l’aspetto di viale alberato, ma piuttosto quello della Real Palazzina che si snodava lungo l’asse più prospiciente il mare .»5
Né al Vittoriale né fra le migliaia di documenti e libri custoditi nella Biblioteca Dannunziana c’è traccia della frase di D’Annunzio.
Questo non ha impedito che nel maggio del 2013 la regione Calabria, allora guidata dal governatore Scopelliti, lo stesso che da sindaco di Reggio Calabria dedicò al fascista Ciccio Franco un anfiteatro, finanziasse eventi in memoria di D’annunzio da realizzarsi al Salone del Libro di Torino.
In quell’occasione il neopresidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, Giordano Bruno Guerri, senza esitazione in conferenza stampa ha dichiarato:
«Per D’Annunzio il lungomare di Reggio era ‘Il più bel chilometro d’Italia’ e anche se non sappiamo esattamente in quale contesto abbia pronunciato questa frase possiamo attribuirla con tranquillità al poeta, vista l’assenza di smentite.»6
Le dovute smentite Guerri le avrebbe trovate proprio a casa sua, se solo avesse avuto la compiacenza di leggere quanto aveva scritto Michela Rizzieri quand’era direttrice della Biblioteca Dannunziana.
Rispondendo allo storico Trombetta, la Rizzieri già nel marzo del 2001 afferma:
«La informiamo che, nelle ricerche da noi effettuate controllando l’indice dei nomi relativi alle lettere, alle biografie e alle opere di D’Annunzio, non abbiamo trovato nessuna citazione del poeta riguardante la via Marina di Reggio Calabria e neppure “il più bel chilometro d’Italia”» .7
Una leggenda metropolitana che non risente del trascorrere del tempo né delle smentite storiche. Inizialmente creata ad arte per esaltare le bellezze rivierasche reggine, successivamente ha finito per avvalorare una primogenitura storica in prospettiva campanilistica, fino a diventare con il tempo verità indiscutibile di chiara matrice neofascista.
In realtà, la prima testimonianza storica che abbiamo dell’espressione «il più bel chilometro d’Italia» arriva da un evento sportivo.
E’ il 27 marzo del 1955 e a pronunciare la frase durante la radiocronaca dell’arrivo in volata del giro della Provincia di Reggio è – come testimoniato anche dall’allora giovane collega Adriano De Zan – il giornalista Nando Martellini.8
I detrattori di Catanzaro al tempo, lavorando con più cura, avrebbero potuto scoprire molte fonti, più antiche, più nobili, più verificabili, sulla bellezza del lungomare reggino, ma nessuna di queste avrebbe potuto giustificare il loro revanscismo.
Tralasciando per motivi di spazio le citazioni greche e latine – del resto non credo che i boia-chi-molla avessero dimestichezza con le lingue classiche – basterebbe citare Boccaccio, il quale nel Decameron sostiene:
«Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia»9
Senza tornare al medioevo, chi veramente ha potuto ammirare le meraviglie del lungomare reggino e descriverlo con occhi di poeta, sono stati Pascoli e Quasimodo. Quest’ultimo ha anche vissuto e lavorato in riva allo Stretto prima di spiccare il volo verso gli ambienti dell’ermetismo.
«Boia chi Molla», come ti creo il mito.
L’onda lunga della retorica neofascista ha trovato linfa anche in altre narrazioni tossiche che meritano di essere decostruite.
Sempre della Calabria è Ciccio Franco, capopolo fascista ed in seguito senatore per ben cinque legislature, che nella sua ascesa politica durante la rivolta reggina si attribuisce la paternità del motto «Boia chi Molla».10
Una bugia ripetuta all’infinito secondo lo stile di Goebbels finisce per diventare verità acriticamente assunta dai media e dalla vulgata popolare.
«Ho inventato io il motto Boia chi Molla», taglia corto Ciccio Franco. 11
Ecco che nel corso dei decenni la rivolta neofascista di Reggio è stata identificata come la “Rivolta del Boia chi molla” e molti dei manifestanti, soprattutto quelli della seconda fase marcatamente fascista e violenta si sono spesso presentati con la definizione: «Sono un boia-chi-molla».
Lo slogan che si fa persona è la manipolazione realizzata della mente e del corpo dell’individuo.
In realtà il motto fu coniato anni prima dal fascista Roberto Mieville, divenuto, dopo il perdonismo togliattiano, deputato della Repubblica italiana nelle elezioni del ’48.
Durante la seconda guerra mondiale Mieville venne catturato e rinchiuso in un campo di prigionia in territorio statunitense. In quell’occasione ebbe modo di scrivere delle memorie pubblicate poi in Italia, nelle quali si manifesta tutt’altro che pentito della scelta fascista e dell’alleanza coi nazisti, e lancia per la prima volta lo slogan:
«E a Santa Fè, al tubercolosario erano stati avviati parecchi dei soldati costretti ai lavori nelle fonderie. E nel campo 6 da quaranta giorni, all’aperto, trecento sottufficiali vivevano a pane e acqua e non mollavano. E nel campo ufficiali era la medesima cosa: Boia chi molla!»12
D’Annunzio e Ciccio Franco, il proto- e il post- fascista, il poeta “laureato” che detestava il popolo e il rozzo sindacalista che voleva guidare le masse, così lontani, così diversi, ma entrambi legati da vulgate che per lungo tempo hanno creduto di essere storia.
NOTE
* Lou Palanca 2 fa parte del collettivo di scrittori Lou Palanca, autori del romanzo Blocco 52 (Rubbettino, 2012). Qui un’intervista sul libro realizzata da Wu Ming 2.
1 Dalla prefazione a Cinque anarchici del Sud. Una storia negata di Fabio Cuzzola Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2001.
2 Il documento è conservato nel fondo intitolato alla memoria del giornalista Antonio Latella, all’epoca corrispondente de Il Tempo, e consultabile presso l’Archivio di stato di Reggio Calabria.
3 Sulle vicende del cognome del poeta si veda questa pagina.
4 Agazio Trombetta, La Via Marina di Reggio, Editrice Culture, 2001.
5 Trombetta, op. cit., pag. 121.
6 Il testo della dichiarazione è qui.
7 Il testo della lettera è riprodotto in Trombetta, op. cit., pag. 119.
8 L’episodio è riportato in Antonio Calabrò, Reggio è un blues, Disoblio Edizioni, 2013.
9 Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata II, novella IV.
10 Sulla figura di Ciccio Franco, al di là della pubblicistica locale, si veda in particolare il 4° capitolo (Ciccio Franco: da capopopolo a senatore) in: Fabio Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della Rivolta, Donzelli 2007
11 Ciccio Franco, intervista tratta dal DVD Reggio Calabria 1970. La Rivolta, a cura di Domenico Calabrò, 2005
[Sito di camerati da non confondersi con il quasi omonimo campifascisti.it, dove invece si sta ricostruendo la mappa dei campi di concentramento fascisti, un arcipelago lager italianissimo e misconosciuto, realtà rimossa per decenni in nome del precetto “Italiani brava gente”, N.d.R.]
Due domande.
1. Credo che “boia chi molla” sia uno slogan molto ma molto più antico di Mieville (e naturalmente anche di Ciccio Franco). Dovrebbe essere passato al fascismo attraverso il corpo degli Arditi. Insomma, c’è gente che anche questo dice che l’abbia scritto D’annunzio. Non pensi che l’affermazionedi Ciccio Franco vada letta nel senso dell’aver inventato l’uso contemporaneo, neofascista, di questo slogan? Insomma, Franco non potrebbe vantarsi di aver “rispolverato” nel ’70 l’antico slogan? La butto lì, ovviamente, non ho visto l’intervista che citi.
2. Potresti dare una spiegazione più precisa del perché non spieghi D’annunzio ai tuoi alunni?
Che «Boia chi molla!» fosse gridato dagli Arditi è capitato di leggerlo anche a me, ma – forse limite mio – non ho trovato fonti coeve al riguardo, solo affermazioni di decenni dopo.
Non sto a dire quanto sia determinante che le fonti siano coeve.
Ho anche fatto una ricerca nell’archivio storico de “La Stampa” a partire dal 01/01/1915: la prima occorrenza dello slogan è in un articolo del 1957 sulla tumulazione di Mussolini a Predappio. La scritta stava sul gagliardetto di alcuni “facinorosi” che in quell’occasione inscenarono una “gazzarra”.
Faccio notare che durante il Ventennio “La Stampa” era giornale fascistissimo, foglio di regime tanto quanto il Corriere, e se “Boia chi molla” fosse già stato parte dell’armamentario retorico del fascismo, se ne troverebbe una testimonianza…
Dopo quell’articolo del 1957, sul giornale lo slogan si inabissa e riappare solo nel 1970.
La voce che Wikipedia dedica allo slogan dà per certe notizie che però non corrobora con alcuna fonte coeva. Anzi, nel caso dell’utilizzo da parte degli Arditi, proprio con nessuna fonte. E sappiamo che su questi argomenti Wikipedia – per motivi più volte presi in esame su Giap – è spesso inattendibile, in quanto “presidiata” da fascisti e altre categorie di destroidi che fanno continue chiamate alle armi per impedire emendamenti scomodi o, semplicemente, non agiografici.
Finora – e per questo mi ritrovo in quanto scritto da Lou Palanca 2 – il racconto di Mieville è la fonte più vecchia in cui mi sono imbattuto.
Per me Rapagnetta agli studenti va spiegato, possibilmente come lo spiega Thompson nel fondamentale saggio La guerra bianca.
P.S. C’è chi è caduto mani e piedi nella voragine storiografica aperta su Wikipedia, facendolo con autentico zelo.
Il problema, però, non è la dabbenaggine di chi cade ma quel che sta succedendo alla versione italiana dell’enciclopedia libera. Su questo rimando ai due post già pubblicati al riguardo, con relative, ricchissime discussioni:
Fascinazione Wikipedia. Il mito della «cricca» e il conflitto reale
La storia deturpata su Wikipedia: il caso Presbite
E presto arriverà una terza puntata dell’inchiesta.
La diceria del “boia chi molla” attributo a Eleonora Fonseca Pimentel trae forse origine da una leggerezza commessa anni fa in una voce di Wikipedia da Leonardo Tondelli (proprio lui, il popolare blogger). Lo ha rivelato lui stesso in un suo post del 30 gennaio 2014.
Tondelli scrive di aver inserito l’espressione “Boia chi molla” nel glossario delle frasi fatte, ma ammette di non ricordare assolutamente da quale fonte egli avesse preso l’informazione secondo cui lo slogan sarebbe stato coniato durante la Repubblica partenopea. In seguito un altro utente di it.wiki scorporò il paragrafetto scritto da Tondelli e ne fece una voce a sé stante. Un articolo di Elena Stancanelli su “La Repubblica” attribuisce il detto a Eleonora Fonseca Pimentel: ma (spiega Tondelli) si tratta di un articolo uscito nel 2010, quindi non è da escludere che la stessa Stancanelli avesse ripreso l’informazione da Wikipedia.
Durante la discussione in calce al post, è risultato che effettivamente fu Tondelli, il 5 febbraio 2006, a operare l’inserimento in Wikipedia del motto e della sua presunta origine. Va detto che, comunque, Tondelli in it.wiki si era limitato a scrivere che “secondo alcuni (l’espressione) sarebbe già circolata sulle barricate della Repubblica Partenopea nel 1799”. Non è chiaro, invece, da dove Elena Stancanelli abbia tratto l’attribuzione a Eleonora Fonseca Pimentel.
Altri commentatori hanno citato alcune fonti, ma tutte successive al 2006, quindi anch’esse sospette di aver “copiato” da Wikipedia.
Il post di Tondelli ha anche suscitato una discussione nel bar di Wikipedia (la pagina dove i wikipediani discutono delle questioni generali concernenti l’Enciclopedia), dove ci si è chiesti se non si trattasse “di uno di quei casi in cui l’errore si autoalimenta (WP lo scrive -> qualcuno lo riprende -> WP lo riusa come fonte)”.
La versione attuale della voce wikipediana cita come fonte il libro di Luciano Lanna e Filippo Rossi “Fascisti immaginari”, del 2003 (quindi antecedente all’edit di Tondelli). Ma l’utente stesso che ha inserito tale fonte osserva come la provenienza sia “comunque ‘oscura’ (nel senso che anche nel libro c’è un ‘si dice’, e uno degli autori del libro è stato direttore del Secolo d’Italia). È insomma possibile che la bufala sia stata creata negli ambienti di destra per dare una patina di anzianità all’espressione”.
Tutta la vicenda evidenzia una volta di più come sia pericoloso inserire “bufale” in Wikipedia, data la potenza mediatica che l’Enciclopedia Libera ha ormai assunto dal momento in cui è diventata la fonte principale per politici, giornalisti e altri operatori dell’informazione.
Diciamo anche che il tono divertito e blasé con cui Tondelli, nel suo post, racconta la vicenda appare alquanto fuori luogo, vista anche la responsabilità che egli stesso ha avuto nel dare diffusione e visibilità a una probabile falsificazione di origine più che sospetta.
Questo dimostra quanto lavoro bisogna ancora fare in rete per controllare, verificare, demistificare le fonti costruite ad arte. Nel caso specifico sottolineo una doppia tendenza ricorrente nei fascismi, da un lato il desiderio di retrodatare e creare primogeniture antiche, spesso impossibili da documentare, dall’altro il tentativo di appropriarsi miti e slogan.
Oh, mamma!
Un momento, un momento…
Sullo stesso episodio che WM1 cita, la tumulazione di Mussolini, c’è un’altra fonte: un articolo di “Stampa sera” del giorno prima.
http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,1/articleid,1584_02_1957_0206_0001_22159823/
E qui non li chiama “facinorosi” ma “arditi”. Ora, se degli arditi (qualunque cosa questo voglia dire nel 1957… reduci? gente che ha mantenuto in vita clandestinamente il corpo? Oppure parla del reparto sabotatori paracadutisti che ne vantano l’eredità?) hanno questo slogan sul gagliardetto in una manifestazione chiaramente nostalgica, ti sembra azzardato supporre che lo slogan stesso sia preesistente? Certo, la fonte coeva non ce l’ho (ma, come dice qualcuno, non mi fido neanche tanto dell’OCR della Stampa). Questo non toglie che la data esatta dello slogan non abbia a che vedere col mio commento che, nelle sue intenzioni, diceva qualcosa di diverso; e cioè: assunto che, come giustamente dice WM1, “far recedere nei secoli il motto (…) serve a nobilitarne l’uso e quindi, per traslazione, nobilitare chi lo usa”, visto che invece Ciccio Franco lo posticipa, attribuendolo a sé stesso,
(ripeto testualmente)
“Non pensi che l’affermazionedi Ciccio Franco vada letta nel senso dell’aver inventato l’uso contemporaneo, neofascista, di questo slogan? Insomma, Franco non potrebbe vantarsi di aver “rispolverato” nel ’70 l’antico slogan? ”
L’attribuzione dannunziana, visto l’articolo che commentava, nelle mie intenzioni era un rilancio sul grottesco, non pensavo che venisse presa sul serio, e men che mai che generasse una diatriba filologica. Ma Roberto e io abbiamo una lunga tradizione nel non comprenderci sull’ironia. (non linko per vergogna… sul blog di jumpinshark…)
Quanto alla questione sull’insegnare D’Annunzio: sposo la richiesta di Lou, un post ad hoc sull’argomento. Però, se non vi dispiace, rimandiamolo a luglio, così noi insegnanti riusciamo a partecipare con più comodo: in fondo è un argomento che ci riguarda. Ci sarebbero tanti dei commenti di questo 3d a cui vorrei rispondere.
Andr.
Altra cosa. Una delle (poche) cose che non sopporto di questo blog è che ogni volta che dico qualcosa vengo trattato come un niubbo che è capitato qui per caso.
Giusto per saperlo: seguo i WM da quando non erano ancora WM.
Scusate se ho anche una vita e non riesco a commentare tutti i giorni, eh.
Però non mi sembra che al centro della discussione che prosegue qui sotto ci sia il commento che avevi lasciato, ma le distorsioni e i falsi che girano da anni sul motto «Boia chi molla!», e soprattutto il ruolo tossico che sta avendo la Wikipedia in lingua italiana negli ultimi anni. Infatti, le affermazioni senza fonte, le retrodatazioni, le minchiate… Tutto questo è difeso con le unghie e coi denti da un gruppo di utenti che, guardacaso, sono ormai “vecchie conoscenze” di chi legge questo blog.
Cosa intendeva dire Ciccio Franco quando si è attribuito l’invenzione di «Boia chi molla!”? Boh, forse quello che dici tu. Fatto sta che se ne attribuì il conio, letteralmente.
Il precedente sul blog di Jumpinshark devo dire di non ricordarlo proprio, ad ogni modo, se nel tuo commento c’era ironia, mea culpa, perché non l’avevo colta.
Ciccio Franco non ha rispolverato, ma si è appropriato un uno slogan, deformandone, a mio avviso, il significato di Mieville.
Il motto è stato infatti piegato a ragioni etcniche, campaniliste, mentre il repubblichino lo aveva certamente pensate in fuzione della “rivoluzione fascista” della RSI, un pensiero prettamente evoliano. Motto che da quel momento sarà associato sempre a Reggio Calabria.
Da una parte come orgoglio neofascista, basta dare un’occhiata a testi e canzoni fiorite nei decenni successivi, dall’altro come marchio d’infamia da estendere a tutta una città in maniera generalizzante.
A questa seconda tendenza ha contribuito negli anni anche il PCI, che ha più volte inserito nel calderone, bollato come “boia chi molla”, tutti quelli che non stavano con la repressione poliziesca, arrivata fino all’occupazione con i blindati, né certamente con i fascisti.
E’ il caso degli anarchici, di molti sindacalisti di base, dei cattolici.
E’ strano che fino a quando non è uscito questo post la nostra pagina su Wikipedia languiva mentre ora è sotto attacco, ma WM1 ha ben spiegato che non è pura coincidenza.
Vengo alle tue domande e sollecitazioni.
Troverai in rete e in alcuni testi un richiamo più antico su questo slogan, alcuni richiami parlano addirittura della Repubblica Partenopea del 1799, così come viene evocato per le Cinque giornate di Milano durante il Risorgimento, ma sono solo echi giornalistici, non esistono fonti documentali prima del libro di Mieville.
Ciccio Franco lo ha fatto suo piegandolo ad interessi campanilistici e populisti, mentre con Mieville il motto aveva un richiamo prettamente fascista della RSI.
Ho una discreta esperienza come docente, insegno da venti anni nei licei, e penso che il programma debba essere tarato sui giovani che hai in classe e sui tempi che viviamo.
Al di là delle scelte di “canone” per dirla con Calvino, cerco di non farmi condizionare dai programmi ministeriali, molti dei quali ancora targati “regio decreto”, privilegiando letterature “altre”: straniere, contemporanee, meticce.
Allo scollinar del secolo scorso D’Annunzio, al di là di qualche richiamo classicheggiante, per me non ha detto nulla che possa interessare chi frequenta le mie lezioni.
Anche il tanto sbandierato dandysmo di Sperelli è mutuato in toto da Wilde che è di grande lunga più interessante.
La ricerca continua….
Però io ricordo che la mia adorata supplente di italiano (dico sul serio: gli unici quattro mesi di scuola di cui ho un bel ricordo) in quarta ginnasio ci aveva parlato di D’Annunzio e fatto leggere varie cose mettendole a confronto appunto con Wilde e altri, e facendoci vedere quanto cialtrone fosse il Rapagnatta…
Anche a me sembra abbastanza grave quest’affermazione. Messa en passent, evidentemente l’autore ha ritenuto importante sottolineare la cosa. Che primo non c’entra col resto, seconda cosa a me pare alquanto scorretta.
Devo dire che non capisco questa levata di scudi in difesa (dell’insegnamento) di D’Annunzio. Se è per dire che non si possono insegnare solo gli autori che piacciono, perché è importante imparare a disinnescare la pericolosità di certi autori rilevanti, sono d’accordo.
Ma, appunto, la rilevanza di un autore non la decide il Ministero, la si testa sul campo e varia nel tempo. Possiamo dire che la rilevanza di D’Annunzio per la letteratura italiana (lasciamo stare per quella mondiale) si è ormai ampiamente esaurita, posto che sia sopravvissuta al ventennio?
Io non penso che uno studente che arrivi alla maturità considerando D’Annunzio un autore minore, riuscendo sì a collocarlo cronologicamente e tematicamente, ma niente di più (un po’ come i programmi ministeriali trattano Capuana), sia menomato di qualche strumento per interpretare la realtà circostante, intendendo con questo anche la letteratura e l’arte da D’Annunzio in avanti.
Ci sono tre ordini di motivi: primo perché non si possono appunto insegnare soltanto gli autori e le autrici a noi cari; secondo perché se D’Annunzio è nei programmi ministeriali può capitare alla maturità e se non l’hai mai affrontato rischi di svantaggiare i tuoi studenti; terzo il discorso è molto complesso sulla rilevanza o meno di un autore per la contemporaneità: dobbiamo studiare solo quelli? A me che ho fatto il Liceo venti anni fa D’Annunzio piacque molto, letterariamente parlando, e mi sembra molto arbitrario decidere che da adesso in poi in ogni classe è da considerarsi “out”, bollato di “esaurimento di rilevanza”. Compito del docente, a mio parere (ma capisco che il dibattito sia enorme e forse OT rispetto alla tematica del post), è cercare di capire se qualcosa tra i versi e la prosa di D’Annunzio possa emozionare o far riflettere i propri studenti. Se nota che le sue parole passano come neutrini tra gli allievi, chiaramente si adeguerà, ma ignorarlo del tutto mi pare – appunto – scorretto.
E attenzione, ripeto, al discorso della rilevanza. Manzoni ha rilevanza nella letteratura italiana di oggi? O le sue idee sono ancora stimolanti per noi? Probabilmente troveremmo pareri differenti su questa cosa. E molti non vorrebbero più insegnarlo. Magari, a ragione. Ma, aggiungo, la questione è delicata e tutt’altro che semplificabile ad un “non ha più rilevanza nelle classi di oggi”.
Chiedi in un blog di scrittori noti soprattutto per i propri romanzi storici se Manzoni è ancora rilevante oggi? ;)
Si parla di rilevanza culturale, non mi sembra ci sia nulla di arbitrario. Al di là del diletto personale, che non è un criterio per decidere se insegnare o meno un autore, bisogna chiedersi se lo studio e l’approfondimento di un autore (in questo caso D’Annunzio) serve per capire qualcosa del mondo. Non solo della letteratura italiana di oggi. La domanda è molto semplice: quanto, di ciò che ci circonda, diventa incomprensibile se veniamo privati di D’Annunzio? Molto poco, forse nulla.
Se un autore non è nemmeno stato originale, né nel proporre i singoli temi che lo caratterizzano, né nell’accostamento e nella declinazione di quei temi, come può essere rilevante? Semmai, saranno rilevanti le sue fonti.
Tu chiedi se dobbiamo insegnare solo gli autori che sono rilevanti. Ma quali altri si dovrebbero insegnare?
Quanto alle altre due ragioni che adduci, la prima, per l’appunto, l’avevo già considerata. Ma non è che siccome non si deve insegnare solo ciò che piace, allora si deve per forza inserire nel programma anche qualcosa che non piace senza porsi il problema della rilevanza. Se no, perché D’Annunzio e non Liala (che, se non sbaglio, Jesi considerava il prototipo dello scrittore di destra, quindi anche come rilevanza siamo sopra a D’Annunzio)?
Il secondo è un criterio utilitaristico, che mi pare lasci il tempo che trova.
D’Annunzio è stato in pratica l’inventore del nazionalismo di massa. Sicuro che sia poco utile studiarlo per comprendere la contemporaneità?
Su D’Annunzio ho detto la mia qui sotto, nel thread principale.
Raccolgo qui una serie di riflessioni utili per ampliare il dibattito e suggerisco ai Wu Ming in futuro di ospitare qualche post su cosa, come e perchè insegniamo letteratura nelle scuole oggi.
Distinguerei l’aspetto storico da quello letterario, se D’Annunzio è personaggio storico che interpreta il nazionalismo protofascista, mi sembra utile da parte dei docenti di storia e filosofia affrontarlo, del resto il ‘900 è ricco di tiranni e dittatori che è necessario studiare.
Diverso è la scelta letteraria, Manzoni parla ancora, ma io non ripropongo la solita minestra, mi soffermo sulla questione della lingua, così come per Leopardi batto a lungo sul La Ginestra tralasciando la poesia idillica tanto cara a Croce, ma ormai oggi poco stimolante per gli studenti.
Per quanto riguarda la questione esame di stato, le tracce sono ben otto, quindi la scelta è ampia, così come lo è il campo degli autori ai quali attingere per la scelta della tipologia A (analisi del testo), chi avrebbe mai immaginato ad esempio due anni fa Magris!??!
[Probabilmente questo è un OT, lo dico subito]
La questione D’Annunzio si/D’Annunzio no è davvero male impostata: perdonate il tono da “professore”, ma (premessa fondamentale) quando si parla di scuola a partire dai propri ricordi di gioventù, o senza aver presente la normativa per l’esame (e infatti rispunta la parola “maturità”, che esiste ormai solo nella canzone di Venditti, non nella scuola, più o meno da quando non esiste più la SIP) si ricade nei frame tanto cari a Gelmini & Co.: gli autori in ordine d’importanza, la materia snocciolata come un rosario grano per grano, ecc.
Ora: all’esame ci sono momenti in cui lo studente deve dimostrare quali conoscenze ha (quelle che in buona parte ti dimentichi il giorno dopo), e momenti in cui viene valutato per le competenze (che ti servono tipo per tutta la vita, e forse anche nella successiva reincarnazione). In italiano, sia nella prova scritta che nel colloquio orale (che si svolge sui programmi svolti, non su quelli generali ministeriali), non si valuta quello che lo studente sa (quello che sa lo ha già certificato il credito scolastico), ma quello che sa fare con la lingua: non se sa o non sa D’Annunzio o Pascoli o Montale, ma se sa analizzare un testo, prosa poesia o teatro. Che il testo sia la cavallina storna, il meriggiare pallido e assorto, la pioggia nel pineto o composita solvantur, non fa differenza: non c’è un pacchetto di testi noto dal quale il ministero estrae la prova scritta. Quindi l’insegnante deve far sì che lo studente acquisisca determinate tecniche e competenze testuali, ermeneutiche, ecc.: come, sta all’insegnante. Il quale insegnante, se è un bravo insegnante (a naso, @loupalanca2 lo è, perché fa quello che segue) propone un percorso (lo mette per iscritto all’inizio e alla fine dell’anno, quindi lo mette e si mette a verifica, non si può nascondere nell’armadio come Silvio Orlando), che serve a far acquisire le competenze richieste, e se possibile qualcos’altro (tipo lo sbuzzo a leggere per i fatti propri, la fascinazione per la letteratura: cose di questo tipo). Un autore, che sia D’Annunzio piuttosto che il secondo Montale, Pavese o Calvino, Baudelaire o Wilde o Siddharta o Herry Potter o Tolkien, entra o non entra in un programma a seconda di come funziona all’interno del percorso, secondo quello che l’insegnante pensa sarà utile o meno, cosa farà da reagente, cosa da cartina al tornasole, cosa da liquido di contrasto, ecc. Mi piace/non mi piace, è importante/non è importante non c’entra niente, o non dovrebbe: altrimenti torniamo (come di fatto sta succedendo) al contenutismo, al nozionismo, al mastrocolismo.
Per dire: io in filosofia me ne sbatto di Schopenhauer e Kierkegaard, il nichilismo lo faccio a modo mio facendo Leopardi (lo faccio a modo mio)-Nietzsche uno dopo l’altro, e magari alla fine ci può anche stare la poesia di D’Annunzio sulla morte di Nietzsche, per una riflessione sulla ricezione italiana di Nietzsche, magari per dire che c’è anche di peggio: ad esempio, Papini (che poi D’Annunzio non era nietzscheano, o meglio: aveva capito benissimo la polemica Nietzsche-Wagner, ma stava con Wagner). Ma non faccio Leopardi+Nietzsche: faccio il nichilismo critico europeo. Che poi i “colleghi” mi guardino come una mosca bianca (come immagino @loupalanca2), è un altro paio di maniche, e ha a che fare col fatto che la scuola è ormai un lunedì che dura 7 giorni.
Pace, scusate il pippone.
Scusate… ma al di là di un apprezzabilissimo zelo filologico, quanto è utile definire l’origine di slogan fascisti come “boia chi molla”? E’ evidente che da Ciccio Franco in poi il valore ed il senso che gli viene dato siano ormai indiscutibilmente fascisti (anzi neo-fascisti).
Foss’anche nato con gli Arditi io stesso, che sono un fan appassionatissimo dell’arditismo del popolo, non oserei ri-appropriarmene più…
Faugno, i motivi ci sono e hanno anche solide basi.
Prima di tutto, far recedere nei secoli il motto «Boia chi molla!», mettendolo addirittura – stronzata massima! – in bocca a Eleonora Pimentel Fonseca, serve a nobilitarne l’uso e quindi, per traslazione, nobilitare chi lo usa.
Non solo: inventare una genealogia finta serve a non pagare dazio, a mettere in campo diversivi, a montare supercazzole per negare i riferimenti al fascismo e quindi normalizzare il fascismo. Proprio qui sopra ho linkato una supercazzola del genere, tirata su da un parlamentare grillino (non so se più per ignoranza o più per altro) linkando le affermazioni senza fonti della voce di Wikipedia.
Soprattutto: di fronte alla costante manipolazione di fonti – si veda la storiaccia delle false foto di foibe – operata da neofascisti e altri personaggi del genere, lo “zelo filologico” è un’arma. È importante mostrare una volta di più – perché la famosa “volta per tutte” non esiste – quanto i fascisti siano millantatori, cialtroni e sempre inclini alla panzana.
E quando mi riferisco ai fascisti, lo faccio pensandoli come esponenti di una fetente “arci-italianità”. I fascisti sono epitomi, sono perfette incarnazioni di un’ideologia nazionale basata sul vittimismo, sulla deresponsabilizzazione, sulla s-memoria collettiva, su ogni sorta di alibi e – appunto – supercazzole. Ideologia che va ben oltre il milieu dei fascisti che si pensano e dichiarano tali, e permea buona parte del discorso pubblico italiano, e le politiche che ne derivano.
Ancora: Faugno, magari la pensassero tutti come te sull’impossibilità di riprendere in mano simboli, motti ed elementi strettamente associati al fascismo. Se così fosse, vedremmo trangugiare meno nauseabondi intrugli rossobruni.
Metto anche lo screenshot di parte della discussione su FB che ho linkato sopra:
…che proseguiva così e poi ancora etc. etc.
Capisco benissimo quello che intendi…. sono appassionato di (sottocultura) skinhead che è campo ormai antico di contese simboliche con i destri.
In ogni caso, al Tommaseo, che nel suo Dizionario dei sinonimi (io ho la terza edizione accresciuta del 1854) dedica tre lemmi ai diversi modi di usare “boia” in senso traslato, l’espressione “Boia chi molla” non è nota. Non è una prova certa del fatto che non fu usata nella Rivoluzione partenopea del 1799 o nel ’48 (durante il quale Tommaseo ebbe un qualche ruolo), ma certo pesa più di una generica affermazione non comprovata da alcuna fonte.
Scusate, mi sembra che la sotto-discussione su D’Annunzio sia impostata male, basata su una confusione tra due aspetti diversi.
Se si parla del cuore della produzione prettamente letteraria di D’Annunzio, cioè la scrittura poetica e romanzesca, beh, ci troviamo di fronte a un autore molto limitato e pesantemente derivativo, monocorde (ovvero in grado di usare un solo registro), monotono (capace di scrivere in un solo tono).
Le opere di D’Annunzio sono piatte e per questo – fuori dalla temperie di cui erano parte – invecchiate malissimo. La sua scrittura estenuata non affronta mai la vita umana nella sua complessità, e questo perché la letteratura di D’Annunzio ruota tutta intorno all’ombelico di un solo personaggio: lui stesso.
…E lui stesso era limitato, umanamente, emotivamente. Non c’è traccia di complessità umana, nel suo carteggio e nemmeno negli aneddoti che lo riguardano. Non uscì mai dal personaggio, perché non era in grado di farlo. In fondo, con tutte le sue pose, era un sempliciotto, un paraculetto, un esemplare di quella “arci-italianità fetente” di cui parlavo sopra.
D’Annunzio fu – come molti “grandi nomi” della cultura di destra italiana, come ha fatto notare Jesi parlando di Evola – un rimasticatore di modelli esteri, un ripetitore di clichés, volgarizzatore di un Wilde spogliato di ogni affettività e di un Nietzsche leggiucchiato di fretta. E potrei continuare.
Ma allora perché D’Annunzio fu considerato un “grande”?
Non perché fu un grande autore, ma perché fu un fenomeno culturale che ben incarnava la sua trista epoca. Successo di scandalo + adeguatezza ideologica alla fase storica + concretissimi appoggi politici.
E qui arriviamo all’altro aspetto del suo lavoro, quello più importante, che non va confuso con l’altro.
La vera opera di D’Annunzio non fu la letteratura. D’Annunzio va studiato eccome, ne sono convinto anch’io, ma poco nelle ore d’italiano e molto in quelle di storia.
D’Annunzio fu un propagandista al soldo di ogni causa ingiusta, un copy-writer al servizio di ogni nefandezza, un assemblatore di miti di sangue e odio, un avvelenatore di pozzi. Cantore dell’aggressione alla Libia e poi delle decimazioni durante la Grande guerra e poi del fascismo e della guerra d’Etiopia; cinico apologeta dell’imperialismo e spacciatore di razzismo antislavo; parassita del regime fascista; per decenni sempre pronto a coniare slogan per conto del potere. Anche quando fingeva di essere “all’opposizione”.
Anzi, soprattutto quando fingeva di essere “all’opposizione”, di “eccedere” la misura dell’esistente, di essere scomodo all’establishment, come nei mesi dell’impresa fiumana, non faceva che *tirare la volata* e aprire la via, raggiungendo prima le posizioni che il potere avrebbe occupato in seguito. L’impresa fiumana è del ’19, il colpo di stato filo-fascista che pone fine allo stato autonomo di Fiume è del ’24.
Trovo esagerata la definizione di Anna Luisa, D’Annunzio non fu single-handedly l’inventore del nazionalismo italiano di massa. Se non ci fosse stato lui, il nazionalismo avrebbe trovato un altro interprete, semplicemente perché il nazionalismo doveva essere l’ideologia della borghesia italiana in quella fase del nostro capitalismo.
Quel che è certo è che molti slogan di D’Annunzio, molte sue trovate, continuiamo ad averle tra i piedi ancora oggi. Una su tutte, la “vittoria mutilata”.
Prima si parlava di Liala, ebbene, “Liala” è un nome d’arte coniato da D’Annunzio.
Molta della confusione ideologica che D’Annunzio fu incaricato di seminare è operante ancora oggi.
D’Annunzio andrebbe studiato così, e ripeto: soprattutto nelle ore di storia.
La dissezione più acuta e impietosa di questo D’Annunzio, anche questo l’ho già scritto, si trova nel saggio di Mark Thompson La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915- 1919, Il Saggiatore, 2008, ristampato nel 2014. Ci voleva uno storico britannico, provvisto del distacco che a quasi tutti gli italiani manca, per prendere in esame senza remore il contributo di D’Annunzio alla grande carneficina.
Prima, però, Thompson, prende in esame la produzione letteraria, ed ecco cosa ne scrive (pag. 53):
«Se oggi riesce difficile capacitarsi di questa gloria è perché le sue opere sono diventate quasi illeggibili. Liriche d’amore, idilli sui temi classici, drammi patriottici e romanzi dalla trama insulsa incentrati su protagonisti superuomini nei quali è facile riconoscere l’autore stesso. Sotto il profilo formale, la produzione di D’Annunzio era varia, ma la profondità rimaneva sempre epidermica. Al centro, mummificata, c’era sempre un’effigie del poeta stesso. La pletora di personaggi delle sue opere complete sono, salvo poche eccezioni, ombre o silhouette, malamente individuabili a causa della monotona sontuosità del linguaggio, stilizzato in modo da ipnotizzare e mettere in soggezione il lettore. I temi storici e le idee politiche che discute sono codici dell’autore stesso, pretesti per evocare l’estasi, il tutto accompagnato da un susseguirsi di ondate di retorica svenevole che si innalzano in crescendo di allitterazioni, prima di acquietarsi in cicli incessanti e oceanici come l’autostima del poeta. Era uno stile ideale per favorire la politica del “sacro egoismo”.
D’Annunzio era un caso spettacolare di maturazione emotiva interrotta: si sarebbe potuto affermare che era un fascista naturale. L’alterità degli altri, un enigma che percorre tanta arte e filosofia contemporanea, non poteva affascinarlo perché per lui le altre persone esistevano solo come oggetto di appetito o di volontà, come opportunità di indagare gli effetti del non negarsi nulla.»
Ogni volta che viene menzionato D’Annunzio, mi esplode in testa una domanda del dialoghetto a voce accelerata che apre “Eptadone” degli Skiantos:
– C’hai della merda?
Purtroppo sì, c’ho della merda.
A me non pare, e mi sembra che tu lo ammetta un poco anche nella chiosa finale, che il tuo giudizio letterario sia così affrancato da quello “ideologico” (passami il termine).
Non condivido affatto la tua distruzione totale di questo autore. Forse lo stiamo un po’ decontestualizzando? Oltretutto, a parte il “Notturno”, la maggior parte delle sue opere risale a prima della guerra, a parecchio prima del vagito fascista.
Credo che umanamente farei fatica a trovare uno scrittore ed un poeta più distante da me, ma questo non mi impedisce di riconoscerne i meriti artistici (che per quanto mi riguarda risiedono massimamente nel lavoro “musicale” che ha fatto nella sua prosa e nei suoi versi).
Davvero pensiamo che togliendo D’Annunzio di mezzo, il mondo artistico italiano a cavallo tra ‘800 e ‘900 resti identico? Come possiamo affermare con tanta sicurezza che le sue influenze furono nulle o quasi?
Non credo che artisti come Pastrone, Debussy, Duse, Bernhardt, Rota fossero costretti a lavorare con lui.
Poi, certo, non voglio convincere nessuno qua dentro del valore letterario di D’Annunzio. Mi sembra che ognuno abbia le idee ben chiare in proposito (e del tutto legittime per me, sia chiaro).
Sono intervenuto solo perché i giudizi apparsi mi sono sembrati troppo “tranchant” e ho ritenuto di dover “spezzare una lancia” a suo favore, visto che degli autori italiani studiati al Liceo è uno di quelli che mi piacquero di più.
Aspetta: altri autori reazionari, nazionalisti, protofascisti, fascisti, filonazisti della prima metà del Novecento dipinsero con tavolozze più ricche, misero sulla pagina più idee ed esplorarono una più ampia gamma di tonalità e sentimenti, e fecero un uso della lingua meno consolatorio o, in certi casi, nient’affatto consolatorio.
Dico “consolatorio” perché la lingua di D’Annunzio è puramente “effettistica” e finalizzata a ottundere. Il termine “supercazzola” sembra inventato per lui.
Poi, è chiaro che a un certo punto si entra nel de gustibus non est disputandum e nella dimensione affettiva dell’apprezzamento letterario, ma mi chiedo: al liceo avevi già letto Céline, Drieu La Rochelle, Brasillach, Wyndham Lewis, Knut Hamsun? Autori filonazisti, ammiratori di Hitler, collaborazionisti, in alcuni casi parecchio compromessi con l’occupazione tedesca (Brasillach per questo fu fucilato). Tutti scrittori che mi sembrano superiori a D’Annunzio. Quindi, non è per “ostilità politica” che affermo di trovare limitato, derivativo e monocorde D’Annunzio come autore letterario. È un giudizio da lettore.
Non userei come parametro il fatto che altri artisti italiani dell’epoca, in vari ambiti, collaborarono volentieri con D’Annunzio. D’Annunzio era una superstar, il suo era un nome che attirava l’attenzione, dava lustro e pubblicità. Ed era quello che passava il convento, cioè la nostra cultura nazionale in quella fase storica.
Ed è proprio per questo che oggi come oggi D’Annunzio non ha più lo stesso spazio nei programmi scolastici, ovvero nell’interpretazione dei medesimi che ne danno i prof più attenti. Al confronto con altri intellettuali del suo tempo la sua produzione letteraria risulta di ben poco momento e non si fatica a credere – come ci è stato assicurato qui – che non abbia più niente da dire ai ragazzi e alle ragazze del XXI secolo. E per fortuna, aggiungerei io. Posso immaginare e sperare che l’egotismo, l’autocompiacimento decadentista, il lirismo da quattro soldi, siano “doti” davvero indigeste per le ultime generazioni. Per non parlare degli scritti d’occasione, poetici e non, che letti a voce fanno venire subito in mente una parodia in stile “Fascisti su Marte”. Se questo paleofascista emotivamente immaturo, bloccato in una sorta di adolescenza perenne, incapace di pathos per l’altro, non fosse stato uno degli intellettuali più perniciosi della storia contemporanea italiana, sarebbe un personaggio soltanto ridicolo.
“Poi, è chiaro che a un certo punto si entra nel de gustibus non est disputandum e nella dimensione affettiva dell’apprezzamento letterario […]”
Forse si tratta di gusti personali e dimensione affettiva, ma io non ci riesco proprio a cestinare completamente la produzione artistica di Gd’A. Alcune liriche, ad esempio, restano per me davvero valide. Fine OT.
P.S.
*La guerra bianca* di Thompson sarà una delle mie prossime letture.
Vi ringrazio per le risposte e per le argomentazioni. Proprio per via di questa discussione sono andato a riprendere i testi di D’Annunzio e proverò a rileggerli dopo tanti anni. Sì, sicuramente al Liceo non avevo altri metri di paragone, se non quelli della professoressa (che beninteso ci fece del nostro un ritratto tutt’altro che lusinghiero).
Ho sicuramente un debole per l'”effettistica”, e ricordo con molto piacere diverse liriche dell’Alcyone e il Notturno (lo Sperelli molto meno). Dopodiché sono assolutamente d’accordo che ogni autore/autrice debba essere messo in prospettiva con i nostri tempi e quelli dei ragazzi che oggi e non nei primi del ‘900 si trovano a scuola (penso che anche Carducci e Pascoli oggi stiano subendo una profonda rivalutazione, mentre Leopardi – giusto per fare un esempio – mi pare resista molto bene).
E’ anche vero però, per riutilizzare il termine sopraddetto, che una superstar va tenuta in considerazione anche solo per avere un’idea letteraria/artistica di ciò che avevamo all’epoca. Qualora dovessi insegnare italiano alle superiori, non riterrei giusto di ignorarlo completamente. Chiaro che è una mia opinione personale e non immutabile.
Grazie ancora per il tempo dedicatomi e per la pazienza di rispondere.
ciao, ti segnalo questo scritto di un prof, molto interessante, che è OT, però riguarda appunto l’esperienza dei nuovi studenti alla prova con i classici.
https://vibrisse.wordpress.com/2014/12/19/cosa-o-come-insegnare-a-scuola-pagine-a-prova-di-alunno/
Grazie jackie.brown, lettura interessante. Anch’io, nel mio piccolo, sto mettendo alla prova autori e registi di fronte alla giuria studentesca. Imparando molto, su cosa funziona o non funziona ad una certa età.
Gli studenti non sono mai identici, e questo non ci permette di assolutizzare un programma didattico, però alcune storie “funzionano” meglio di altre. C’è poco da fare.
Visto che si parla di D’Annunzio e Jesi, mi sembra opportuno citare alcuni passi da Cultura di Destra in cui, tra le altre cose, Jesi sostiene che ” D’Annunzio, fra gli innumeri talenti che si attribuì e che gli furono attribuiti possedeva senza dubbio in modo brillantissimo quello della mistificazione”.
Quindi ha ragione WM1 quando parla delle pose e degli atteggiamenti vanitosi (in realtà strumentali al fascino pubblico/pubblicitario) del ‘Vate’ ( che oltre a Liala e vittoria mutilata coniò sigle come SAIWA o Rinascente quindi sì, esattamente un Copywriter :) ).
Però Jesi riconosce a D’Annunzio una profondità di pensiero leggermente diversa rispetto a quella che poi fu ‘l’eredità culturale’ amministrata dai suoi seguaci.
Jesi si interessò molto al fenomeno della ‘fandom’ di autori come Rilke, Brecht, Liala e dello stesso D’Annunzio, e per quanto riguarda quest’ultimo Jesi sostiene che, a differenza dei dannunziani, il poeta fosse “..meno disposto dei suoi seguaci (e degli altri esponenti della cultura di che non erano suoi seguaci) a nutrirsi fiduciosamente e con viva soddisfazione di quel passato indifferenziato, omogeneizzato, con cui gli altri si fabbricavano i loro feticci di eterno presente”.
Intendiamoci, per Jesi D’Annunzio “..passò l’esistenza a tecnicizzare materiali mitologici” ma, sempre secondo Jesi, non era del tutto sicuro che quei nuclei mitici fossero ancora vivi. Ciò è dimostrato dal fatto che il bric-à-brac del Vittoriale, quel lusso materiale così presente anche nel lessico dannunziano, non riesca a nutrire del tutto il lusso spirituale di cui erano ghiotti i suoi fan, perché “..il lusso spirituale si nutre solo di pappa, mentre tutti gli oggetti [del Vittoriale] e tutto il passato che si presenta con essi, conservano fisionomia e durezza, non si lasciano omogeneizzare e manipolare fino in fondo”.
Certo, ha ragione WM1 quando dice che il lato “importante” di D’Annunzio è quello imperialista, quello politico: continua Jesi: “è noto che sebbene la morte sia quasi una costante negli incitamenti eroici di D’Annunzio, il senso apparente di quegli incitamenti era la guerra vittoriosa, la conquista, l’imperialismo”. Ma secondo Jesi questi incitamenti erano prodotti con la certezza che il futuro sarà *comunque* di morte, in questo sì vicino all’evoliano Kali Yuga (Jesi a proposito cita La Città Morta, coi cadaveri ricoperti d’oro..).
Quindi si può concludere che i dannunziani (e i loro eredi) molto più di D’Annunzio stesso abbiano voluto vedere il passato come foriero di tesori da raggiungere nell’immediato futuro grazie al gesto eroico, mortifero e in questo caso nazionalista e imperialista.
In Sicilia c’è un proverbio che dice :”Cu è cchiù fissa, u Carnevale o iddo ca ci va appresso?” cioè: “chi è più fesso, il Carnevale o chi gli va appresso?”.
Ecco, in questo senso io leggerei il rapporto fra dannunziani e D’annunzio, attraverso un meccanismo molto frequente in Italia per cui gli zelanti esecutori del verbo del Leader mostrano una ottusità ben maggiore rispetto alle riflessioni del Vate/Duce/Papa di turno.
Una nota a margine: sempre di D’Annunzio sono alcuni brand di amari (Unicum) e liquori.
E’ ancora in commercio il liquore alle marasche che il Vate battezzò “Sangue morlacco”.
Tale nome, che ai più suona misterioso, fu in realtà un altro piccolo ingranaggio della “macchina mitologica” dannunziana, sempre funzionante in connessione con la macchina più grande dell’imperialismo.
La zona della Dalmazia nota come “Morlacchia” è oggetto di un pullulare di mitologie sulla sempiterna “latinità” e, per traslazione, “italianità” dell’Adriatico orientale.
Si dice che, durante l’occupazione di Fiume, la ditta dalmata Luxardo rifornisse generosamente il Rapagnetta del detto liquore, e per questo egli la ricompensò dandogli il nome. Un nome evocativo, romanissimo, revanscista, razziale, blut und boden.
L’etichetta “Sangue Morlacco” nasce, in realtà, come battuta: D’Annunzio e i suoi, dopo aver letto su un quotidiano britannico «come D’Annunzio fosse “un tiranno barbaro, che succhiava il sangue dei Morlacchi”», brindarono con lo sherry brandy (erano nella trattoria dell’Ornitorinco) denominandolo, per l’appunto, “Sangue Morlacco”. Che pare fosse «innocuo Sherry Brandy, discretamente appiccicoso, estremamente discutibile, sotto nessun aspetto il liquore si merita tanto nome» (la testimonianza è di Leon Kochnitzky, La quinta stagione).
Urca, questa riportata da Kochnitzky ancora non l’avevo sentita. Devo rintracciare l’origine dell’interpretazione che avevo riferito io sopra.
Questo conferma, come si diceva, che il tecnicizzatore D’Annunzio viene poi sovratecnicizzato (o, meglio, predispone la propria sovratecnicizzazione). Da un riferimento casuale, evocazioni e interpretazioni à go go.
La macchina mitologica, del resto, funziona da sé.
Rieccomi. Se quell’aneddoto è vero, ecco da cosa è stato sostituito:
«Questo nome, Sangue Morlacco, venne dato al liquore nel 1919 nientemeno che da Gabriele D’Annunzio, proprio per ricordare questo orgoglioso popolo dell’entroterra dalmatino. Il poeta era reduce dall’impresa di Fiume, quando alla guida dei suoi legionari era partito da Ronchi di Monfalcone (oggi rinominata in loro onore Ronchi dei Legionari) per occupare e riconquistare Fiume, la città della Dalmazia che le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano tolto all’Italia.»
Preso da qui.
[Naturalmente, Fiume non aveva mai fatto parte dell’Italia, ma che te lo dico a fare?]
Suona la nota della «orgogliosa popolazione» anche il sito ufficiale della Luxardo:
«Il cherry-brandy Luxardo venne ribattezzato con il curioso nome di Sangue Morlacco dal poeta Gabriele D’Annunzio nel 1919 in occasione dell’impresa di Fiume, a causa del suo colore rosso-cupo (per inciso, il nome “Morlacco” deriva da quello di un’orgogliosa popolazione dell’entroterra dalmata).»
Coincidenze… stavo leggendo di Cino Boccazzi “Piave”, quello che organizzò l’incontro tra Osovani e X Mas nel gennaio 1945, e trovo questo ricordo appunto di Boccazzi:
“Mescete il sangue!” avrebbe detto D’Annunzio per festeggiare il lieto avvenimento. Il “sangue” è “il Sangue Morlacco”, un’acquavite di ciliegia che Boccazzi beveva alla tavola del “Vate” insieme a Comisso. “Eravamo molto amici con Giovanni … come lui oggi non c’è più nessuno. Una volta ci portò sul Piave e dopo averci ricordato “il balzo fremente degli Arditi che schiuse la via alla vittoria”, ci fece attraversare il fiume con l’elmetto in testa e la baionetta fra i denti”.
Il libro di Kochnitzky non mi risulta ristampato dopo la prima edizione (Zanichelli 1922), ma lo trovi in Archiginnasio (sola consultazione), pp. 119-120. Libretto a suo modo interessante, probabile che vada qua e là di fantasia, ma al tempo stesso nega la veridicità di altri miti che adornarono Fiume. Su artisti, libertari, caciaroni e varia umanità che parteciparono a vario titolo all’evento fiumano ha scritto un buon libro Claudia Salaris, Alla festa della rivoluzione, buono soprattutto per l’ampio uso di testimonianze dirette. Quanto allo Sherry, alcuni reduci fiumani ne portarono la moda a Ferrara, dove divenne un must per la banda di alcolizzati cocainomani raccolta attorno a Italo Balbo, la “squadra d’azione Celibano”, il cui nome dovrebbe essere una storpiatura di Sherry Brandy.
Nota a margine: il mio problema con il libro della Salaris, che pure è molto documentato e intrigante, è che – dichiaratamente, programmaticamente – rimuove una grossa parte di quel che storicamente fu l’impresa fiumana, mettendo la lente d’ingrandimento sopra alcuni elementi di immaginario e alcuni aspetti libertari e “proto-freak” molto di frangia, che così ne risultano amplificati, e al contempo accantonando la dimensione imperialista, razzista e pesantemente antislava di quella scorribanda. Che non a caso fu il prodromo di un colpo di stato fascista, avvenuto cinque anni dopo contro la giunta autonomista di Riccardo Zanella.
Il grosso bias delle ricostruzioni su Fiume è che sono tutte italocentriche e si dimenticano totalmente degli abitanti non italofoni del Quarnero. Ma questo discorso, in effetti, lo abbiamo già sviscerato nella discussione su Ronchi dei Legionari/Partigiani…
Insieme a TAZ di Hakim Bey mi sembra che Alla festa della rivoluzione, una volta recepito in un certo modo e diventando frettolosa vulgata, in certe nicchie di movimento abbia aperto la via a una rivalutazione unilaterale dell’esperienza fiumana, per giunta condita da miti e veri propri falsi storici (come quello secondo cui da un lato Gramsci e dall’altro il movimento anarchico italiano simpatizzarono per D’Annunzio e la sua impresa, cosa che dalle fonti non risulta, se si leggono gli articoli coevi di Gramsci e si sfogliano i numeri di “Umanità Nova”, ma ormai questa credenza è diffusissima e si faticherà molto a riaffermare la verità storica).
E invece di attenzione bisogna farne molta, perché Fiume sta diventando un “mito delle origini” della schifezza rossobruna.
Il giudizio di Gramsci sull’ “impresa di Fiume” è durissimo: ci vede un colpo di mano sulla falsariga di quello di Kornilov in Russia e l’inizio della guerra civile, definisce anche Rapagnetta “servo smesso della massoneria anglo-francese” (“unità nazionale” su l’Ordine Nuovo del 4 ottobre 1919). Anche la direzione del Partito Repubblicano, composta da interventisti “di sinistra” prese le distanze dall’occupazione di Fiume appunto per i suoi contenuti imperialistici e antislavi, quindi neanche i mazziniani se la sentirono di appoggiarlo.
Poi indubbiamente diversi ex-legionari fiumani divennero antifascisti, qui in Trentino abbiamo avuto Luigi Battisti (figlio del più famoso Cesare) e Giannantonio Manci (che si suicidò per non parlare sotto le torture della Ghestapo nel 1944). Ma tra Fiume e la Resistenza passano attraverso alcune esperienze politiche quali la militanza nel Partito repubblicano e in “italia libera”. Cercando di ricostruire le vicende giovanili di uno dei leader della resistenza trentina ho sfogliato le pagine di “La Riscossa dei legionari fiumani”, stampata a Bologna nel 1921-1922. Mi ha colpito l’atteggiamento degli ex-legionari fiumani durante la commemorazione dantesca di Ravenna nel luglio 1921. Attorno a loro c’erano gli squadristi di Balbo che occupavano la città bastonando e sparando ai socialisti, dimostrando a tutti che se volevano potevano prendersi una città e farci quello che volevano con la complicità delle forze dell’ordine. Ma i “legionari”di D’Annunzio sembrano non accorgersi di nulla, baci e abbracci con i repubblicani (neppure loro muovono un dito), spintoni con i fascisti per decidere chi deve entrare al mausoleo dantesco e poi partono dicendo “Arrivederci sulle barricate!” senza accorgersi che magari di barricate ci sarebbe stato bisogno proprio in quel momento e non in un indefinito futuro.
Insomma non riesco a capire come qualcuno possa mitizzare un movimento così confuso e sconnesso dalla realtà. Nella fase in cui si diffonde lo squadrismo la parte migliore dei “legionari” (quelli non passati al seguito del fascismo) mi pare persa in un mondo tutto suo fatto di reminescenze scolastiche ed estatica adorazione del “comandante”, mentre tutt’intorno esplodono conflitti più concreti e sanguinosi che loro non si degnano di considerare.
Quello che sostiene Jesi è, per fornire un sunto, che D’Annunzio era ben più cinico e scafato dei suoi ammiratori. E su questo non credo possano esserci dubbi.
Certo, ma quanto dici vale per tutti gli scrittori che godono di una certa fama, è chiaro che chi tecnicizza è un gradino superiore rispetto a chi si nutre della tecnicizzazione. Il fan ama il Vate di turno proprio perché l’artista possiede qualcosa che lui stesso non ha, e trova godimento nel rapportarsi con qualcuno ritenuto superiore.
Però, nello specifico, Jesi fa notare che D’Annunzio è diverso da un Pirandello; ad esempio: la morte eroica evocata da D’Annunzio è una morte esoterica, ha un significato rituale e simbolico, mentre per Pirandello la morte è cosa molto concreta: prova ne sia la sua adesione al PNF all’indomani dell’omicidio Matteotti (un foglio satirico antifascista palermitano lo ribattezzò “P. Randello”)
Diciamo che la cultura di destra ha un nucleo: la brutalità, la violenza gratuita, comune certo a entrambi gli scrittori. Se in D’annunzio si può notare una profondità quantomeno esoterica, in Pirandello non c’è traccia di esoterismo e la morte non è evocativa di nessuna “straordinaria rivelazione”.
Questa differenza è importante per comprendere i motivi della grossa fortuna di cui godette D’Annunzio, che spinse molti giovani a prendere le armi per “purificare” le “terre irredente”.
p.s.
a parte tutto, il Sangue Morlacco Luxardo è un liquore buonissimo! :)
Molto interessante, riguardo a questo, la riflessione fatta da Jesi sulle istruzioni di Pirandello per la propria sepoltura. Se confrontiamo quello scenario scarno, terragno, fatto di autentico oblio delle spoglie, con il mausoleo al Vate – che si vorrebbe misterico – allestito al Vittoriale…
Esattamente. Diverso il rapporto con la morte, diversa la potenza evocativa e il ruolo politico, ma in entrambi i casi comunque (nonostante mugugni e giudizi privati) siamo di fronte ad artisti che si servirono del potere per alimentare il culto di loro stessi e che a loro volta vennero sfruttati dalla retorica del regime fascista.
Tra l’altro, la lettera con cui Pirandello chiede la tessera del Partito Nazionale Fascista subito dopo che i fascisti hanno ucciso Matteotti (ed è uno dei casi in cui “post hoc” significa davvero “propter hoc”) è una delle robe più infami e laide che si possano leggere. E’ la pagina scritta da Pirandello che pochissimi menzionano quando si parla di lui.
Ecco, anche Pirandello va aggiunto alla mia rapida, sommaria lista di autori fascisti che dal punto di vista letterario sono decine di spanne sopra D’Annunzio. Pirandello non è un copy writer e poco più, è un grande scrittore.
Oltre a Jesi ricordo almeno un paio di considerazioni molto nette su D’Annunzio espresse da Pasolini. Le lessi nella raccolta delle sue lettere che furono pubblicate su L’Unità parecchi anni fa.
Non avendo qui con me i libri ho cercato un attimo in Rete e ho trovato una di queste qui:
http://ceghe.altervista.org/ronchi-dannunzio-i-legionari-nelle-riflessioni-pier-paolo-pasolini/
I giudizi di Pasolini su D’Annunzio li ha ricordati anche Marco Barone nell’altro post “d’annunziologico” apparso su Giap, questo:
Da Ronchi dei Legionari a Ronchi dei Partigiani: di cos’è il nome un nome?
Anche nel Dizionario della Lingua Italiana di Tommaseo e Bellini alla voce “boia” (anzi: boja) non si trova menzione del motto “boia chi molla”. Insomma, questa pretesa frase “rivoluzionaria” che sarebbe stata proferita sul finire del XVIII secolo durante una rivoluzione che gli intellettuali risorgimentali ebbero presente, e che sarebbe risuonata per le strade di Milano nel 1848, non figura nei maggiori repertori della lingua italiana dell’Ottocento, il cui autore è stato protagonista attivo del 1848-49 veneziano (secondo solo a Manin, presidente del senato della repubblica, esiliato ecc.), che avrebbe avuto forti assonanze col preteso motto. Se, per l’appunto, quel motto fosse esistito al tempo. Il motto non compare neanche nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco, che testimonia che le parole proferite sul patibolo da Eleonora Pimentel Fonseca furono: Forsan et haec olim meminisse iuvabit – il che ha un suo senso: l’uso metaforico della parola “boja” era popolaresco, l’aristocratica cita Virgilio. Siamo a tre indizi, se non bastano per fare una prova, bastano per pretendere che sia chi retrodata di 100-150 anni questa boiata a fornire la prova.
Scusate tutti se torno al “boja chi molla”: l’espressione non si trova (in nessuna delle due possibili grafie di “boia”) sul Monitore Napolitano né su alcun altro scritto politico (noto alla comunità scientifica) della Fonseca. Faccio notare, en passant, che oltretutto la sua produzione pubblicistica si interrompe a metà maggio 1799 e non “segue” la caduta della Repubblica (Napoletana e non Partenopea, a proposito), quando una frase del genere avrebbe potuto essere presumibilmente coniata.
Aggiungo che il primo incauto “attributore”, chiunque egli sia stato, conosceva poco le vicende in oggetto visto che nella storia militare della sfortunata repubblica non ci sono mai state barricate.
Vorrei inserire: “Errata corrige: inizio giugno, non metà maggio”, purtroppo il sito lo considera troppo breve, dunque privo di senso. L’ermetismo ha definitivamente perduto il suo fascino.
Non ce l’abbiamo con l’ermetismo ma con commenti tipo:
«:-)))))))))))»
o
«Bellissimo!!!!!»
È contro quelli che abbiamo innalzato la barriera. Un commento su Giap deve *almeno* superare la lunghezza di un tweet :-)
Scusate il ritardo, ma possiamo aggiungere anche la quinta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, avviata nel 1863: la voce “boia” è qui, nel II volume. E “boia chi molla” non risulta. Fra Tommaseo, Monitore, Scritti della Fonseca, Saggio del Cuoco e Accademia della Crusca, su questa pretesa origine del motto abbiamo fatto punto, game, set e gioco :-)
Grazie Girolamo, il tuo contributo filologico è stato decisivo per continuare a demistificare chi la storia la vuole piegare e deformare a proprio piacimento.
Strategia che i fascisti creano ad arte ad ondate storiche.
Già da tempo stiamo lavorando per inserire questo spaccato del “boia chi molla in un nostro “oggetto narrativo non identificabile”, con questi contributi è già più ricco.
Prezioso anche il contributo di Luca Di Mauro, al riguardo.
Non a caso ho usato il plurale: non solo per il contributo di Luca, che s’è smazzato un bel po’ di roba, ma anche per chi ha avuto il merito di porre il problema.
Su Wikipedia, portentose arrampicate di specchi sul motto «Boia chi molla». Leggere da questo paragrafo in giù.
La discussione sulla voce era ferma da un anno, la voce conteneva e contiene illazioni, leggende metropolitane e pseudo-fonti basate sul “si dice”… ma il problema è che noi in questa discussione abbiamo segnalato la cosa :-)))) Achtung, i banditen stanno cercando di «POVvare Wikipedia»!!!
Non solo abbiamo segnalato il problema: abbiamo fatto alcune verifiche fondamentali, scoprendo che
1) non esistono fonti coeve e nemmeno ottocentesche sull’uso di “boia chi molla” nella rivoluzione napoletana;
2) anche l’uso del motto da parte degli Arditi è basato sui “si dice”;
3) al momento non si trovano occorrenze anteriori al libro di Mieville Fascists’ Criminal Camp, 1947.
A fare questa ricerca sono stati in particolare due insegnanti (Lou Palanca 2 e Girolamo De Michele) e uno storico esperto di ottocento (Luca Di Mauro).
Presbite è fenomenale. Ignorando totalmente il punto 3 scrive:
«…ma io in cinque minuti ho trovato che il motto s’usò anche prima di Reggio Calabria, per le manifestazioni di destra a favore di Trieste italiana. Dico che pare incredibile, perché a me di questa frase me n’è sempre importato meno di zero, ma c’è chi dentro e fuori di qui c’ha creato gran castelli, evidentemente senza nemmeno googolare…–Presbite (msg) 12:18, 27 feb 2015 (CET)»
A parte che la fonte citata non è coeva ai motti per Trieste italiana ma del 1969, e in ogni caso quei motti sono posteriori al libro di Mieville e quindi occorre fare altra ricerca (googolare non basta)…
A parte questo, che lo slogan “Boia chi molla” esistesse già prima della rivolta di Reggio Calabria è il punto di partenza nostro e di chiunque si sia espresso. La questione era e rimane: quanto prima?
Presbite, insomma, costruisce “castelli” per poi attribuirli ad altri e mettersi in mostra mentre li distrugge, senza accorgersi che sotto la pioggia di detriti non ci siamo noi, ma lui.
E l’utente Martin Mystère, che comunque si sta comportando molto più correttamente, gli risponde:
«Non è una grande scoperta. Se leggi la voce scoprirai che era il motto degli Arditi della Grande Guerra, quindi molto prima del 1970. –Martin Mystère (contattami) 13:28, 27 feb 2015 (CET)»
Solo che in questo modo la voce di Wikipedia diventa… fonte primaria di se stessa.
Ripetiamo: per dire che il motto veniva utilizzato dagli Arditi serve almeno una fonte *coeva*, e comunque anteriore al libro di Mieville. Da una decina di giorni invitiamo a esibirla, e nessuno lo fa. Ma il problema, secondo Presbite e sodali, è il vile attacco “dei Wu Ming” a Wikipedia :-))))))
[…] aperta circa la paternità della definizione, sospesa tra Gabriele D'Annunzio e Nando Martellini (QUI potete approfondire se ne avete voglia) – si gode una vista spettacolare sullo Stretto di Messina […]
Ma guarda la coincidenza! Dopo quest’inchiesta su «Boia chi molla!» e le fesserie presenti nella voce di Wikipedia, uno degli utenti WP che più sta facendo fuoco e fiamme per la “campagna eterodiretta dal blog dei Wu Ming” ha proposto di cancellare la voce «Lou Palanca».
Solo per il bene dell’enciclopedia, ovviamente… :-D
[…] 2015: su Giap, nella discussione seguita al post di Lou Palanca 2 Da D’Annunzio a Ciccio Franco, ovvero: un paio di frottole neofasciste sulla #Calabria si sviluppa – soprattutto con i contributi di Girolamo De Michele e dello storico Luca Di Mauro […]