Nel settantunesimo anniversario della liberazione di Bologna dai nazifascisti – 21 aprile 1945 – vi proponiamo un secondo estratto da Il sentiero luminoso, oggetto narrativo firmato Wu Ming 2, che planerà in libreria la prossima settimana.
Tra le tante storie che il protagonista del libro raccoglie lungo il cammino, molte sono ambientate durante la Resistenza, perché attraversando la Grande Pianura da Bologna a Milano, ci si imbatte nell’antifascismo con la stessa frequenza di canali, rogge e corsi d’acqua.
E poi, come dice Gerolamo, “chi vuol difendere un territorio, non può non confrontarsi con la guerriglia partigiana, che di boschi, torrenti, casolari e città fece il suo campo di battaglia, il suo rifugio e la sua arma segreta”.
Buona lettura e buona liberazione.
4.
Chissà come dormì, quella notte d’autunno, Amleto Grazia detto Marino.
Pochi giorni prima – il 19 ottobre del ’44 – aveva compiuto quarantanove anni.
Chissà cosa sognò e di quali essenze s’impastarono i sogni. Premonizioni, amore, lontani ricordi.
Chissà se incontrò Bolero, Enrico e quegli altri che avevano scelto di seguirli.
Il Comando aveva dato l’ordine di entrare a Bologna, per preparare l’insurrezione e prendere la città. Con gli Americani a Monzuno, trenta chilometri più a sud, e lo spartiacque dell’Appennino ormai alle spalle, l’arrivo in Emilia delle truppe alleate sembrava questione di settimane.
Chissà se litigarono o fu di comune accordo, che Amleto decise di restare in montagna, con il suo battaglione, mentre Bolero, Enrico e altri diciotto attraversavano i campi sotto la tempesta, fino al guado del Reno.
Amleto non era tipo da tirarsi indietro, ma nemmeno era di quelli che obbediscono alla cieca. Durante la Grande Guerra, prestava servizio a Milano, in cavalleria. Gli ordinarono di caricare una manifestazione, ma lui convinse i commilitoni a mettersi dalla parte dei dimostranti. Per punizione, li mandarono in Tripolitania e poi al fronte, nel ‘17. Schedato come sovversivo nel casellario politico fascista, si fece in tutto otto anni di confino.
Chissà cosa pensò, quando gli raccontarono di Casteldebole.
Il fiume in piena, gonfio di pioggia. I compagni che non riescono a passare e il rumore dell’acqua che copre le voci dei gappisti, giunti sull’altra riva con una barca, ma incapaci di governarla nella corrente troppo forte. Il buio è agli sgoccioli: scelgono di ripararsi in un capanno, sul greto del fiume, vicino a un frantoio per la ghiaia. Passeranno lì la giornata e alla sera tenteranno di nuovo. Ma al mattino, le SS della 16a divisione occupano Casteldebole casa per casa. Qualcuno deve averli informati. Dalla sponda opposta del Reno, il rifugio dei partigiani viene preso di mira con la contraerea. I tedeschi, appostati in paese, si preparano per il tiro al bersaglio, duecento uomini contro diciannove. La sparatoria dura lo stesso tre ore. Dei partigiani non si salva nessuno, i nazisti hanno un morto soltanto. Sarebbero due, se non fosse per una pistola inceppata. Quella di Karaton, il sovietico. Finge di essere morto, ma è solo ferito. Quando il soldato lo avvicina, si tira su e gli spara, ma il colpo non parte. Lo uccidono con estrema lentezza.
Finisce la battaglia, tacciono le armi. Cinque abitanti del paese escono dal loro rifugio. La mitraglia delle SS li abbatte uno dopo l’altro.
Chissà come dormì, Amleto, nelle notti che gli rimasero dopo quel 30 ottobre. Centossessanta in tutto, poche in un letto vero.
Di certo era sveglio quella del 9 aprile ’45, impegnato in uno scontro a fuoco nei pressi di Calderino, dodici giorni prima della Liberazione di Bologna.
Chissà come l’aveva sognata, Amleto Grazia detto Marino.
5.
La mattina del 31 ottobre io mi ero recato a Bologna per delle commissioni e ritornando a Castel Debole verso le ore 10.30, prima di rientrare in casa fui fermato dalla SS tedesca e accompagnato nella piazza di Castel Debole ove si trovavano contro un muro altre nove persone.
Eravamo così in attesa mentre pattuglie della SS perlustravano la frazione. Dopo poco passava per la piazza un giovanotto e anche questo venne fermato e messo insieme a noi.
Dopo circa mezz’ora sopraggiunse il comandante della SS che ricordo era privo di un braccio, al quale io mi rivolsi acché mi mandasse a casa facendogli notare che ero privo di una gamba imputatami ancora quand’ero piccolo. Questi dopo aver parlato per un poco con i suoi soldati si rivolse a me e in lingua italiana mi disse che fossi andato a casa. M’incamminai immediatamente ma a circa 100 metri fui nuovamente fermato da un’altra pattuglia e non ostante gli avessi fatto presente che ero stato lasciato in quel momento dal suo comandante, mi trattennero ugualmente dicendomi “lucchi lucchi” cioè che stessi a vedere.
Li fecero entrare in una casa della piazza; successivamente uno alla volta li facevano fuori e legati con le mani dietro la schiena con del filo di ferro, li condussero ai piedi delle 4 colonne esistenti nel portico della piazza, e legati al collo con dell’altro filo, li disposero uno per ogni colonna e gli altri 6 legati contro il cancello di ferro esistente sotto il porticato stesso. Così legati, uno alla volta li uccisero con scariche di mitra.
Eseguita tale barbaria mi mandarono a casa mentre essi continuarono negli atti vandalici appiccando il fuoco a diversi gruppi di case del luogo mediante spargimento di benzina.
A D.R. non altro da aggiungere e in fede mi sottoscrivo:
Mignani Giuseppe
di Caetano e fu Pedretti Argea, nato a Castel Franco Emilia il 18/09/1908
6.
Il capitano Walter Reder, della 3a divisione SS “Totenkopf”, nel marzo 1943 subisce l’amputazione dell’avambraccio sinistro, in seguito alle ferite riportate in battaglia nei pressi di Kharkov, Ucraina.
Nel gennaio del ’44 diventa Sturmbannführer della 16a divisione SS, grado equivalente a quello di maggiore.
Il 31 ottobre 1951, il Tribunale Militare di Bologna condanna all’ergastolo Walter Reder, come protagonista e “determinatore” delle stragi di Bardine, Valla, Vinca e Marzabotto. Al capo f) della sentenza, relativo all’eccidio di Casteldebole, l’ex-maggiore risulta assolto “per insufficienza di prove”.
Il 15 giugno 1967, il Tribunale Militare di La Spezia chiude il procedimento contro ignoti tedeschi, accusati: a) di aver cagionato, in località Casteldebole, la morte «a mezzo di raffiche di mitra» di 10 privati cittadini «che non prendevano parte alle operazioni militari»; b) «di aver appiccato il fuoco a numerose case della zona, senza esservi costretti dalle necessità delle operazioni militari». Nella sentenza, il giudice istruttore scrive che «non emerge dagli atti alcun elemento che consenta di addivenire alla identificazione dei militari tedeschi».
Sempre nel 1967, da dietro le sbarre della fortezza di Gaeta, Reder dichiara il suo pentimento e chiede la grazia al Presidente della Repubblica, ma i cittadini di Marzabotto esprimono opinione contraria.
Il 14 luglio 1980, dopo vari ricorsi, il Tribunale militare di Bari riconosce a Walter Reder i requisiti per la libertà condizionata: ha scontato 28 anni di carcere, ha tenuto buona condotta e dimostra un «sincero ravvedimento». I giudici, tuttavia, scrivono che il criminale deve restare in prigione altri cinque anni, «nel suo interesse» e come «misura di sicurezza».
Il 24 dicembre 1984, per la seconda volta, Reder scrive un telegramma al sindaco di Marzabotto. Poi, temendo che non arrivi a destinazione, spedisce la missiva anche per posta ordinaria, «nell’eventualità di disguidi postali, dovuti all’esecrando attentato dell’altra notte».
L’esecrando attentato è la strage del Rapido 904, proveniente da Napoli e diretto a Milano, fatto esplodere l’antivigilia di Natale con una bomba radiocomandata nella Grande Galleria dell’Appennino, lungo la ferrovia Direttissima Bologna-Firenze.
Nella lettera, Reder ammette le sue colpe, rinnega il nazismo, si inchina alla memoria dei caduti e chiede di essere scarcerato in anticipo. I superstiti e i familiari delle vittime si oppongono ancora.
Tuttavia, nel 1985, il governo Craxi concede a Walter Reder di lasciare la prigione, e l’Italia, con qualche mese d’anticipo.
Giunto in Austria, Reder ritira le sue scuse e dichiara che si è trattato di una mossa per ottenere riduzioni di pena.
Muore a Vienna nel 1991.
Passano tre anni ed esplode il caso dell’armadio della vergogna: 695 fascicoli riguardanti crimini nazifascisti sono stati archiviati in un solo giorno, il 14 gennaio 1960, chiusi in un mobile di legno, nascosti e dimenticati per oltre trent’anni.
Il 15 maggio 2003, il Parlamento italiano nomina una Commissione d’inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti. Si scopre così che l’intera Penisola è un enorme, gigantesco armadio della vergogna. Solo in provincia di Bologna emergono 163 casi, con 422 vittime, insabbiati nell’archivio regionale dei Carabinieri. Dalle carte del Tribunale Militare di La Spezia, riemerge la testimonianza di Giuseppe Mignani sull’eccidio di Casteldebole. Il documento, senza armadi di mezzo, era giunto da Roma ai giudici competenti. Questi decisero di ignorare il maggiore nazista senza un braccio, che in quel momento risiedeva nel penitenziario di Gaeta. Già assolto a Bologna per quei fatti, Reder non poteva essere condannato, ma lo si poteva almeno interrogare, per risalire ad altri responsabili.
Oggi, a settant’anni di distanza, l’eccidio di Casteldebole è rimasto impunito. Se anche fossero vivi, colpire gli esecutori materiali non avrebbe più senso. Nel ’67, invece, si poteva ancora scrivere un’altra storia. Lo impedirono magistrati, passacarte, ministri e procuratori. Questi colpevoli, almeno, sarebbe interessante conoscerli.
Il 5 settembre 2005, il procuratore aggiunto Luigi Persico ha inviato le sue valutazioni alla procura di La Spezia, affinché giudichi la condotta dei due magistrati militari che emisero la sentenza su Casteldebole, ipotizzando i reati di omissione di atti d’ufficio e falso ideologico.
Trovo la notizia su diversi blog e giornali dell’epoca.
Ma come spesso accade, al primo lancio stampa segue il buio totale e per quanto scandagli gli ultimi dieci anni di informazione on line, sugli sviluppi della vicenda non riesco a pescare una sola riga in più.
7.
Se dici Casteldebole, oggi ai bolognesi vengono in mente la sede del Bologna Football Club e i palazzoni che incombono sulla tangenziale.
Invece, quando sbuco dai prati sulla riva sinistra del Reno, trovo ancora la vecchia borgata, le case a due piani e la piazzetta dell’eccidio, con le quattro colonne che sorressero i cadaveri dei fucilati. Una lapide recente, datata ottobre 2008, riporta i nomi delle sedici vittime e attribuisce il massacro alle S.S. del maggiore Walter Reder. Rabbocco la borraccia alla fontanella di ghisa che le sta dirimpetto. Mentre l’acqua scende, noto una cisterna in pietra che doveva essere l’antica fonte. Il rubinetto non c’è più, ma sulla lastra liscia s’intuisce ancora un’incisione con il fascio littorio e la data: Anno XV E.F.
Subito accanto, scopro altre parole, su una targa di plastica, attaccata a una rete con quattro fascette. Il testo rivendica il lavoro di pulizia che un gruppo di amici ha condotto per diciotto anni, senza fondi pubblici, lungo le sponde del Reno, acquistando anche due trattorini, motoseghe, tagliasiepi, generatori di corrente, carburante.
Chi si fosse avventurato a percorrere il fiume negli anni Novanta, avrebbe trovato un ambiente pressoché impraticabile, pieno di steccati di orti abusivi e ammassi di detriti portati dalle piene.
Poiché mi sono appena “avventurato a percorrere il fiume”, ringrazio di cuore chi lo ha liberato dall’immondizia e tuttavia mi domando per quale motivo siamo tanto disturbati dal selvatico in città. Lo spazio che ho appena attraversato è un vero giardino, dove anche le robinie sono tenute a bada. Poco più a monte, la golena del Reno è una giungla di tronchi ed edere, attraversata dal sentiero per Firenze. Le erbe palustri sono alte quanto un uomo e ci si sorprende di essere poco fuori Bologna. Ma appunto: finché il selvatico sta fuori, lo rimpiangiamo e ce lo andiamo a cercare nei boschi; se invece ce lo troviamo dentro il recinto dei palazzi, allora è selvurbano e non ci piace più.
Nel 2014, il Servizio Tecnico Bacino Reno della Regione ha acconsentito a mettere a disposizione per 6 giorni lavorativi una macchina con operatore per intervento di pulizia e movimento terra di un’ulteriore area di golena costituita da una fittissima macchia arborea dove spesso si insediavano abusivamente e con mezzi di fortuna, molti extracomunitari. Purtroppo i 6 giorni dedicati non sono risultati sufficienti a finire il lavoro…
Penso alle ruspe del comune che ormai con cadenza regolare visitano il lungofiume per abbattere tende e capanne di lamiera. Fin dai tempi del sindaco Cofferati, gli sgomberi sono descritti come azioni umanitarie, per impedire che intere famiglie vivano in condizioni bestiali. Allo stesso modo, gli abitanti di Casteldebole si sono abituati a protestare contro le catapecchie in nome dell’accoglienza e della dignità, della lotta al caporalato e al lavoro nero, ma una volta rimossi gli accampamenti, l’amministrazione può dormire sonni tranquilli.
Mi colpisce il legame tra la cura di uno spazio verde e la persecuzione di esseri umani. Mi colpisce come si possa passare dall’una all’altra senza cambiare retorica. Pulire la golena dalle carcasse di lavatrici e dagli immigrati irregolari. Combattere gli alloctoni, piante o persone che siano. Proteggere un torrente da una centrale idroelettrica o una strada dalle prostitute. Forse non è solo un segno dei tempi, ma la spia di un vincolo più profondo: tra i promotori del primo parco nazionale d’Italia compare il nome di Alessandro Ghigi, senatore fascista, rettore dell’ateneo bolognese, membro del Consiglio per la Demografia e per la Razza, autore di un volume sulla superiorità della stirpe italica e la piaga del meticciato. La sua dimora sui colli, Villa Ghigi, donata al comune dopo la morte, è uno dei parchi più grandi della città.
Le battaglie per il paesaggio, per rendere migliore il luogo dove si vive, rischiano di colpire il popolo dei margini, se alla lista degli inquinanti da combattere non si aggiungono l’oppressione e il pregiudizio. Rivendicare un diritto impone di interrogarsi su quanti ne sono esclusi. Altrimenti, le prossime ruspe arriveranno in difesa dei beni comuni.
Walt Whitman, nel suo Canto della strada aperta, si illudeva che la viandanza, da sola, potesse appianare le iniquità, riportare tutti gli uomini al nocciolo che li accomuna:
Qui è la profonda lezione dell’accoglienza, / né preferenza né diniego / Il nero con la sua testa cotonata, il criminale, il malato, l’analfabeta / non vengono respinti, / passano, anch’io passo, ogni cosa passa, nulla può essere interdetto.
Ma l’ingiustizia, se non le si oppone una guerra intestina e frontale, colpisce più duro proprio laddove la si riteneva sconfitta. Così è lo stesso Whitman, qualche strofa più in là, a intonare un canto ben più inquietante:
Chi viaggia con me ha bisogno / del sangue migliore, di muscoli, resistenza. / Nessuno può affrontare la prova se non porta coraggio e salute, / Vengano soltanto quelli dai corpi amorevoli e decisi, / Non sono ammessi malati, bevitori di rum o malattie veneree.
Mi allontano dalla piazzetta con questi versi in testa, gettando un ultimo sguardo alla fontana, alla lapide, alla targa di plastica e al nome di una via che svolta verso il fiume.
È dedicata a Karaton, partigiano sovietico, extracomunitario.