Abbiamo preso in esame molte volte il lavoro di Marco Philopat, nostro vecchio compagno di strade. Oggi torniamo a scriverne, se non proprio cogliendo la palla al balzo (siamo in ritardo di qualche mese!), quantomeno raccogliendola da terra e facendo qualche palleggio, senza pretese.
Sì, perché è tornato in libreria, ripubblicato da Agenzia X, il libro d’esordio di Philopat Costretti a sanguinare, in una versione riveduta e corretta dall’autore. Nella prefazione, Philopat ripercorre la storia del libro, uscito per la prima volta nel 1997, e scrive:
«Sono passati venticinque anni da quando iniziai a registrare e sbobinare a matita i miei ricordi su fogli volanti, poi su quaderni e quaderni che con il trascorrere dei mesi andavano a riempirsi di segni, cancellature, correzioni e altri foglietti incollati o pinzati qua e là. Dopo avere riportato il testo su un computer preistorico che ancora non andava in rete, stampato e letto tutto d’un fiato, mi resi conto con sorpresa di aver scritto una specie di romanzo, purtroppo mi sembrava talmente sperimentale da avere il timore che fosse quasi impossibile da leggere. Non si trattava nemmeno di un racconto orale come originariamente si voleva fare, un progetto editoriale sulle orme degli insegnamenti di Cesare Bermani per narrare le vicende legate alla storia del punk italiano, un modo per incidere su carta un’esperienza che rischiava di finire in soffitta, in un periodo in cui, spintonato in disparte dalla scena hip hop, grunge, hacker e rave, il punk sapeva di muffa, come disse un’amica che mi vedeva ogni giorno concentrato nel progetto di stesura […]
Costretti a sanguinare non era un racconto orale e la parola romanzo, riportata in copertina in tutte le varie edizioni, non andava affatto bene. Quando pochi mesi fa ho deciso di ripubblicarlo con qualche aggiunta e revisione, ho pensato subito di cambiare quel sottotitolo che avevo sempre odiato. Trovarne uno nuovo non è stato facile, ma la vera impresa è iniziata quando mi sono messo a lavorare sul testo tentando di mantenere integra una scrittura così indisciplinata. La nuova edizione è stata completamente rivista, parola dopo parola, paragrafo dopo paragrafo con minuziosa attenzione, grazie alla redazione di Agenzia X e all’impegno amanuense, al limite della follia lessicale, dell’amico Massimo “Bunny” Berni. Abbiamo eliminato le ingenuità della prosa, le scorie della sintassi, le ripetizioni, i luoghi comuni e sistemato la rigidità di alcuni dialoghi. Abbiamo ricostruito il puzzle psicotico al microscopio, aggiunto piccoli aneddoti nei cali del ritmo, premendo l’acceleratore dove si poteva. Se si cambiava una piccola parte si doveva agire per forza su mille altre…»
Un’altra vecchia conoscenza, Marc Tibaldi, ha intervistato Philopat appositamente per Giap. L’intervista si intitola Asor Rosa non ascoltava i Sex Pistols. Eccola ↓
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Non mi piace la retromania, l’egemonia del vintage che ha caratterizzato gli ultimi anni, ma oggi ho messo la maglietta dei Wretched – acquistata a SlamX – con la scritta «In nome del loro potere tutto è stato fatto… per distruggere il mondo dove tu vivi», è la copertina del loro secondo EP, anno 1983, lo stesso in cui suonarono in Friuli, a Torviscosa, con Warfare, Quinto Braccio, Impact e altri, concerto che organizzammo con Punkrazio, per gli spazi sociali e contro l’eroina. Ho un appuntamento con Philopat per l’intervista dedicata alla nuova edizione di Costretti a sanguinare. Racconto urlato sul punk (AgenziaX, 240 pagine, 15 euro). Sono in anticipo e mi fermo davanti a una bancarella di libri usati del mercato di via MacMahon, mi cade l’occhio su una copertina della storica collana del Nuovo Politecnico di Einaudi, quella con il quadrato rosso, disegnata da Bruno Munari. È Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana di Alberto Asor Rosa. Conosco il testo di fama, ma non l’ho letto. Sfoglio, è del ’77. Bene, mi dico, uno degli anni-simbolo del punk. Due euro, lo acquisto e vado al bar. Leggo e si ravviva la memoria, è una raccolta di articoli scritti su «l’Unità» nei primi sei mesi del ’77. C’è da divertirsi! L’autore non ha bisogno di presentazioni, storico della letteratura, operaista negli anni Sessanta, poi pcista tutto d’un pezzo. Non la tiro per le lunghe, in pratica il testo – sotto le analisi sociologiche – è anche la legittimazione teorica dell’invio dei carrarmati (da parte dello Stato, della DC e del PCI) contro il movimento autonomo-creativo di Bologna. Philopat mi sta aspettando, chiudo il libro e penso che Asor Rosa forse avrebbe fatto bene ad ascoltare i Sex Pistols, in quegli anni, mentre la sua collega Maria Corti studiava e capiva i testi degli Skiantos. Di certo lui non l’ha fatto, non avrebbe usato quel linguaggio, già allora così stantio.
Strana coincidenza, nemmeno un anno fa intervistai Philopat per la riedizione di La banda Bellini e la iniziai proprio con una frase di Asor Rosa, tratta da Scrittori e massa dove – nel capitolo dedicato ai Wu Ming e al loro libro teorico New Italian Epic – sostiene che «la Storia è una risorsa formidabile […] ma impone rigide regole all’invenzione. Se si parla del passato, significa che è più importante del presente, ovvero che del presente non si può parlare come si vorrebbe. La New Italian Epic, per andare incontro al futuro, come dichiara di voler fare, dovrebbe chiarire meglio se la Storia è una scelta o un obbligo insuperabile, e in ambedue i casi perché». Con queste considerazioni e riflessioni sulla storia, i suoi usi e i suoi ritorni mi avvio all’incontro con l’autore del romanzo del “no future” italiano.
Philopat, alcuni tuoi romanzi, penso soprattutto a La banda Bellini e I viaggi di Mel, sono ambientati nel passato (anche se forse non nella Storia con la “s” maiuscola), e anche Costretti a sanguinare lo è. È stata una scelta o un caso?
Parto dal desiderio di raccontare dei momenti reali, veri o verosimili, vissuti dal personaggio principale e nello stesso tempo cerco di trovare l’eco di un moto collettivo. Per farlo è necessario elaborare i fatti sui materiali d’archivio, raccogliere testimonianze e lasciare sedimentare i ricordi. Il mio non è un lavoro di invenzione della storia, ma di ricerca, una specie di intreccio tra memoria e scrittura. Sulla revisione di Costretti a sanguinare ho riflettuto molto in tal senso.
Ci racconti i motivi di questa nuova edizione Work in progress o opera aperta?
Riscrivere il libro, con la tecnica che ho acquisito negli anni, rispettando però la genuinità e la freschezza di una volta, non è stato facile. Il testo ha una sua ingenuità particolare che è anche freschezza e velocità. Queste caratteristiche credo di averle rispettate, in fondo sono le stesse del movimento punk di allora, che fu fragile ma grintoso. Il libro ho iniziato a scriverlo nel 1991 ed è uscito in prima edizione nel 1997. In quel periodo leggevo molto Burroughs ed ero attratto dalla scrittura automatica, dalle avanguardie storiche, dal flusso di coscienza narrativo, dal senso del ritmo della scrittura beat e dalla sperimentazione di alcuni scrittori italiani degli anni settanta. Suggestioni che venivano filtrate attraverso la mia esperienza, dall’estetica punk, dalle fanzine e soprattutto attraverso il rumore e la concitazione della musica punk. Il risultato era una scrittura selvatica, punk, appunto! L’uso dei trattini di separazione-congiunzione alternativi alla punteggiatura tradizionale contribuiscono a dare ritmo e velocità al testo, creano la scansione temporale ma anche una specifica complicità con il lettore. Allora io ero pieno di dubbi, a darmi fiducia furono Nanni Balestrini e Cesare Bermani, che sono i due poli di riferimento per quanto riguarda i miei libri: la sperimentazione sulla scrittura da una parte e il lavoro sulla memoria collettiva dall’altro. Durante la prima stesura non avevo la capacità che ho oggi, dopo oltre trent’anni di esperienza editoriale, quindi il testo era molto acerbo, ogni tanto la narrazione si inceppava, abbiamo tagliato le ripetizioni, le risonanze e corretto gli errori, mentre alcuni momenti d’azione che meritavano uno sviluppo sono stati totalmente riscritti.
Costretti a sanguinare è più un romanzo o più racconto orale di documentazione storica?
Entrambe le cose. Di inventato non c’è nulla, anche se certi passaggi sembrano assurdi e alle volte, nel rileggerli, devo fare uno sforzo anch’io per capire se li ho davvero vissuti… Poi è vero che tutte le vicissitudini del protagonista, crisi, euforie, amori, gli episodi esilaranti e le situazioni al limite dell’umano, lo rendano una sorta di romanzo. Devo dire però che non mi sono mai riconosciuto nel sottotitolo delle precedenti edizioni che era “romanzo sul punk”, infatti l’ho cambiato in “racconto urlato sul punk”.
Gli anni della prima edizione di Costretti a sanguinare sono più o meno gli stessi anni in cui gli scrittori che verranno inclusi nell’antologia Gioventù cannibale iniziano a farsi conoscere. Ti senti parte o ti sei sentito parte di quello o di altri movimenti letterari?
Alcuni sono scrittori che tuttora seguo, ma – ammesso e non concesso che per quegli autori si possa parlare di movimento – credo che Costretti a sanguinare non abbia molto a vedere con quel realismo mass-mediologico e la cultura di massa. Mi piace la velocità di Ammaniti e i momenti poetici che Aldo Nove sa inserire nel racconto. Ricordo che all’epoca quando feci leggere le prime bozze a Tiziano Scarpa lui si entusiasmò, mi incoraggiò e fece anche un po’ di editing sul testo, invitandomi a togliere le troppe allucinazioni del protagonista presenti nella prima stesura, cosa che ho fatto. Se non ricordo male una delle peculiarità dei Cannibali fu – soprattutto per volontà del mio amico Daniele Brolli, che curò l’antologia di Einaudi – la rottura con il passato, con gli scrittori delle generazioni precedenti. Io non avvertivo questa necessità proprio perché la mia formazione l’avevo costruita all’interno della Calusca, la libreria di Primo Moroni, che è stato un luogo di trasmissione e di collegamento con i decenni precedenti, soprattutto con le esperienze delle culture rivoluzionarie. I nomi che ho citato hanno avuto successo, una grande carriera. Io ero un punk e da una parte ero contrario all’idea di far carriera e dall’altra sapevo di non aver studiato abbastanza per intraprenderla. Però dentro di me è cresciuta la passione per la scrittura che ho sviluppato negli anni sia come editore – prima in Shake e poi in AgenziaX – sia come autore.
Costretti a sanguinare uscì cinque anni prima di La banda Bellini, ma ne è un’ideale continuazione, la storia inizia negli stessi anni in cui l’altro termina. Qual è la continuità del punk con i movimenti degli anni Settanta? Bifo ci vede molte analogie con l’autonomia creativa bolognese, ma è evidente anche una rottura…
Il movimento punk fu un fragile anello di congiunzione tra gli anni settanta e quello che poi si dispiegherà come movimento dei centri sociali. La sua attitudine si presenta sulla scena in un momento di trasformazione economico-sociale, noi punk eravamo i primi figli di operai espulsi dalla fabbrica. La ristrutturazione del capitalismo, il passaggio dal fordismo al post-fordismo in Europa avviene proprio in quegli anni, mentre negli Stati Uniti era iniziato qualche tempo prima, proprio per questo penso che una delle date di nascita punk sia il 1969, quando gli Stooges registrarono I Wanna Be Your Dog. La canzone che tutte le punk band dell’epoca suonavano durante le loro prime sgangherate sessioni in sala prova. Quattro accordi facili facili, la batteria elementare, testi di pura provocazione gridati dal profondo dell’anima. Gli Stooges venivano da Detroit, capitale del fordismo negli Usa, dove già iniziavano a risistemare le fabbriche di automobili, quella loro canzone rappresenta l’essenza del punk.
Quanto è importante la musica nel punk?
Nell’adolescenza la musica colpisce le nostre corde emotive più sensibili, nessun’altra forma artistica ha questa forza. Ammetto che se non ci fossero stati gli ascolti dei dischi di Ramones e Sex Pistols non so cosa mi sarebbe successo… Nel 1977 la mia scuola, un istituto tecnico per chimici nella periferia di Milano, era una specie di paese dei balocchi: il sei politico, l’autogestione, l’occupazione di tipo universitario, gli scontri di piazza. Tutte le mie prime esperienze le ho fatte lì. Un momento di grande libertà e di gioia. Poi nel 1978, quando Moro venne rapito, iniziò un ciclo di repressione e quel mondo si sgretolò in pochi mesi davanti a miei occhi, fu lì che arrivò l’eroina. La musica punk ha salvato la vita a molti miei coetanei. Tuttavia la questione è un’altra, una volta acquisita l’idea che potevi salire su un palco senza sapere suonare, ti rendevi conto che potevi farlo con tutto il resto, per esempio sulle punkzine con la scrittura, i collage, i fumetti e le illustrazioni… Credo che fu il concetto del do it yourself l’elemento principale del punk, una formula che si utilizzò anche per la conquista e l’autogestione degli spazi sociali. In tal senso la vicenda del Virus è emblematica.
Perché in Italia il punk arriva così tardi?
Nelle altre nazioni occidentali il ’68 si concluse nel giro di un paio d’anni, noi venivamo invece da un conflitto sociale durato quasi un decennio. Ma la messa in discussione della militanza e delle ideologie ottocentesche, il rifiuto del lavoro, il “vivere qui e ora” sono caratteristiche che il punk aveva in comune con il movimento del ’77. In più il punk – pur nella sua esiguità – dimostrò una certa disinvoltura nell’attraversare i confini e perciò riuscì a sprovincializzare l’asfittico ambiente culturale italiano. I viaggi in autostop o con i biglietti falsi del treno furono importanti perché a Londra incontrammo il punk anarchico dei Crass, a Zurigo e Amsterdam gli squatter, a Berlino le case e le fabbriche occupate di Kreuzberg, così anche il nostro piccolo movimento prese forza e coscienza. Anche dagli Stati Uniti ci arrivarono messaggi simili con i Dead Kenneys e i Minor Threat, messaggi di carattere politico che ci misero in sintonia con il clima che avevamo respirato in Italia fino a quel momento.
Tra le date simboliche del punk c’è anche il 1984, l’anno orwelliano, in cui anche il romanzo ha termine. Nel 1984 ci fu una manifestazione molto importante e non solo per la coscienza politica del movimento punk (che rende evidente anche una filiazione con la critica radicale del situazionismo), mi riferisco alla contestazione del convegno dei sociologi che avevano condotto la ricerca sulle mode giovanili, sulle “bande spettacolari”, sulle “sottoculture” (così venivano chiamate), inserendoci anche il punk…
Non poteva essere altrimenti, la distopia di Orwell ha qualcosa in comune con il “no future” del punk. Per esempio i Crass pianificarono la fine del loro progetto proprio nel 1984. In quello stesso anno ci fu la contestazione del convegno dei sociologi che sprigionò la critica radicale alla loro “vivisezione culturale” ed ebbe un risalto mediatico enorme. Con quella contestazione riuscimmo anche a creare dei collegamenti con gli studenti universitari e degli scambi stabili con quello che rimaneva della sinistra radicale, la quale comprese che – al di là della rottura con alcune loro componenti – rappresentavamo una continuità ideale.
Il punk per te è morto nel 1984?
Sì, nella sua fase più incisiva sicuramente, però è ancora terribilmente attuale, da una parte perché non ci sono state altre rotture culturali importanti, dall’altra perché anche oggi ci sono dei giovani che trovano nel punk e nelle sue semplici linee di fuga dal mainstream, la forza per uscire dalla propria condizione sociale difficile.
Il punk è innanzitutto “no future”, rifiuto dei compromessi, e “do it yourself”, autogestione ed espressione rabbiosa della propria creatività, senza timore di “andare fuori tempo”. L’unione di questi elementi, interpretati, articolati, vissuti, teorizzati in molte maniere, forse sono il nocciolo duro del punk. Secondo te, cosa rimarrà del punk nel futuro?
Vivrà finché ci sarà qualcuno che lo vorrà raccontare. Il punk è solo l’ultimo fronte di quei disperati nemici della società borghese, un piccolo popolo consapevole di appartenere a una comunità sognante, solidale, senza patria e senza tempo. Mi vengono in mente alcuni personaggi della Commedia umana di Balzac, I refrattari di Jules Vallés nella Parigi della prima rivoluzione industriale, oppure Gli scamiciati di Paolino Valera a fine Ottocento. Un sussulto per ogni epoca riportato su carta per proiettarlo nella testa di nuovi lettori.
E per il futuro, cos’hai nel cassetto, Philopat? E non puoi cavartela con un “no future”!
A partire dai tempi del Virus mi sono occupato soprattutto di far uscire punkzine, riviste e da almeno 30 anni un libro al mese, quando non ci riesco sto male, il mio futuro è tra le pagine di un nuovo volume. Dal 2011 non pubblico un libro a nome mio, mi sembrava più utile impegnarmi nell’attività di editore per Agenzia X, ma dopo questa faticosa riscrittura mi auguro di aver trovato lo slancio giusto per concludere la storia successiva a Costretti a sanguinare, un progetto sul quale lavoro da tanto tempo.
Marco Philopat è agitatore culturale e scrittore. Ha pubblicato: Costretti a sanguinare, La banda Bellini, I viaggi di Mel e Lumi di punk; assieme al Duka: Roma k.o. e Rumble bee; e ha partecipato a numerosi progetti editoriali.
Marc Tibaldi
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Costretti a sanguinare racconta la nascita del punk a Milano e la saga dello spazio occupato Virus. A proposito dell’ultima fase, ormai a metà degli anni Ottanta, Philopat scrive:
«Le Creature simili aprirono in uno scantinato all’interno dell’area del Leoncavallo lo spazio autogestito Helter Skelter e curarono un programma settimanale a Radio Popolare, Tensioni Radiozine, trasmissione tumultuosa di agitazione e sperimentazione vocale e sonora, bollettino ufficiale dell’Helter Skelter, Virus e situazioni del nuovo movimento mondiale.»
Ed è proprio al Leoncavallo e all’Helter Skelter che si trovano, un pomeriggio d’estate del 1989, i protagonisti del secondo libro che segnaliamo. Lo ha scritto Bruno Segalini, cantante e chitarrista dei Pila Weston, è pubblicato da ShaKe e si intitola Fiamme e Rock’n’Roll. Romanzo veridico sullo sgombero del Leoncavallo, 1989.
Lo sgombero del Leoncavallo fu un Evento, un momento fondativo, un’apertura di gioco per la generazione che allora aveva vent’anni (poco meno o poco più). Venne immortalato in una foto iconica che diventò uno dei più celebri poster di movimento degli anni ’80-’90: «QUANDO CI VUOLE CI VUOLE». Lo vedevi appeso in tutti gli spazi occupati, nelle sedi di movimento, negli studi delle radio…
I Pila Weston erano una delle resident band del Leoncavallo. Erano in sala prove quando giunse la notizia – Sarà vero? Ma chi ve l’ha detto? Gira voce… Lo sanno anche i compagni di altre città… – che lo sgombero era imminente, gli sbirri sarebbero arrivati all’alba, bisognava prepararsi, barricarsi. Era il 15 agosto 1989.
C’erano gli occupanti storici, c’erano semplici frequentatrici e frequentatori, c’erano i capitati lì per caso, c’erano i «casi umani», i serissimi e gli sconvoltoni… Un esercito implausibile e scombinato, ma quella torma raccogliticcia tenne testa a uno schieramento di polizia enorme, arrivò all’evacuazione a cresta alta, si prese un bel po’ di mazzate… e l’indomani si riprese lo spazio. O almeno, quel che ne rimaneva. Non era la fine del Leoncavallo, ma l’inizio di una nuova stagione di occupazioni in tutta Italia.
Fiamme e Rock’n’Roll racconta, con l’espediente letterario del tutto-in-una-notte, come i Pila Weston vissero 24 ore destinate a diventare leggenda.
E sembra proprio un mondo di leggenda, a chi lo rivisita oggi, quello dove non c’era la telefonia mobile. È un mondo perturbante, perché vicino e lontano. Non è l’antichità di un mondo in bianco e nero: è il giorno prima di ieri. C’era già il cyberpunk, c’era il Videotel (chi se lo ricorda?), ma non ancora i telefonini. Chi era barricato in un’ala del Leoncavallo non solo non aveva alcun contatto con chi stava fuori, ma nemmeno con chi era barricato in un altro punto, o appostato sui tetti. Si mandavano “staffette”, quando possibile, e per il resto ci si affidava al caso, o alla sincronicità.
Fiamme e Rock’n’Roll ce l’ha mandato Gomma. Nella mail scriveva:
«L’autore è un sincero bravo proletario figlio di puttana punk. Presumo che la stampa borghese non si filerà il libro di pezza, dati i contenuti explicit. Vi chiederei se avete voglia di leggerlo e magari di segnalarlo.»
«Vedremo quel che si può fare sulla stampa operaia», abbiamo risposto.
Fiamme e Rock’n’Roll lo abbiamo letto e ci è piaciuto. È un libro di lotta e cazzeggio, è una commedia degli equivoci, è la storia di una band, è un diario scritto con la macchina del tempo e affidato alla posta pneumatica, è uno spaccato di Milano popolare, è la testimonianza che, le volte che ci vuole, ci vuole.
Ed è il libro che ha pungolato la reunion dei Pila Weston!
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Dulcis in fundo, Fiamme e Rock’n’Roll sfoggia una prefazione di Sandrone Dazieri, introdotta da una foto di quando aveva i capelli. Cosa vuoi di più dalla vita?
Forse… Forse fare come Gianluca!
«Gianluca. Conosce il Leo quanto me. Siamo partiti dallo stradone alla periferia di Milano dove siamo nati, in via Palmanova […] Assieme abbiamo percorso la nostra adolescenza negli anni Settanta. Pieni di chiavi inglesi, di P38, di prigioni del popolo. Un’epoca di raduni oceanici alla luce del sole e di riunioni ristrette a poche persone nella penombra delle cantine. La prima generazione che, grazie alle conquiste di quella appena precedente, aveva potuto scegliere il punto da cui partire, il modo di vivere, la cultura, i riferimenti politici e per quei pochi che in qualche modo ci erano riusciti, anche i limiti da porsi […]
Anche la prima volta che sono entrato in questa palazzina, è stato con lui. Alla fine di quella giornata avevamo scattato perfino delle foto. Imbracciavamo gli strumenti circondati dalla gente delle case popolari del Feltre che avevamo invitato per l’inaugurazione.
Gianluca da poco era diventato una delle celebrità locali. Qualche tempo prima, in fattanza dura, era riuscito a far partire uno schiacciasassi posteggiato in un cantiere vicino e a prenderlo in prestito. Prima che lo arrestassero tirò su un amico e cominciarono a girare per le vie. Appiattirono come poster i cestini, i segnali stradali, le cassette postali e le cabine telefoniche di tutto il circondario. Diventarono famosi ben oltre gli angusti confini della piazza, nostro abituale punto di ritrovo.»