Da pochi giorni è in libreria una nuova edizione Mondadori Ragazzi (collana Oscar Junior) de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, di R.L. Stevenson, con testo originale a fronte. La prefazione è di Wu Ming 4. La riproduciamo qui, con l’auspicio che faccia venire voglia anche ai più grandicelli di rileggere un classico della narrativa dell’orrore, che è anche «uno dei migliori romanzi mai scritti sulla natura umana», come recita lo strillo in quarta di copertina.
Buona lettura e rilettura.
Jekyll e Hyde gli immortali
Di solito si dice che una persona è come Jekyll e Hyde per indicare che ha una personalità contraddittoria, cioè che cela in sé due nature, una opposta all’altra.
Nella storia della letteratura non sono molti i romanzi il cui titolo è diventato un modo di dire. Questo accade quando un romanzo è talmente famoso da essere noto perfino a chi non lo ha letto. Se poi la fama dura da centotrent’anni, come in questo caso, allora parliamo di un classico della letteratura.
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, pubblicato nel 1886, è uno dei due romanzi più celebri dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson. L’altro, che lo precedette di appena tre anni, è L’isola del tesoro, la più famosa storia di pirati che sia mai stata scritta.
Si può dire che se L’isola del tesoro è un classico della narrativa d’avventura, allora Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è un classico di quella che oggi chiameremmo narrativa dell’orrore.
Tuttavia parlare di generi letterari a proposito dei classici suona sempre riduttivo. Che faccia ridere, piangere o venire la pelle d’oca, una storia è buona se è vera. Questo non significa che dev’essere accaduta realmente, ma che ci racconta qualcosa di vero su di noi, su come siamo fatti, sulla nostra esistenza, a prescindere dal fatto che la vicenda sia inventata.
Poi, certo, per fare grande un romanzo serve anche il talento dello scrittore, la bravura nel suo mestiere. Stevenson, ad esempio, sceglie di raccontare la storia di Jekyll e Hyde in un modo per niente scontato, attraverso un’alternanza di episodi riferiti da diversi personaggi e documenti: lettere, testamenti, memoriali. Così gli elementi della trama si uniscono l’uno all’altro come pezzi di un puzzle, andando a completare il quadro con un crescendo di inquietudine che viene trasmessa al lettore, fino alla rivelazione finale. Il mistero prende forma e si espande lasciando intuire a poco a poco l’orrore che si cela dietro l’apparenza più scontata. Soltanto alla fine viene fornita la spiegazione completa del retroscena in ogni dettaglio. E forse anche una morale.
Questa è l’arte di un grande scrittore, e può sembrare strano, oggi, che sia occorso quasi un secolo, dopo la morte prematura di Stevenson, perché la critica letteraria gli riconoscesse questa grandezza artistica. Del resto, non è affatto raro nella storia della letteratura che i capolavori emergano sulla lunga distanza, come corridori di fondo, a mano a mano che gli altri concorrenti restano indietro o si fermano senza più fiato, mentre loro continuano a correre.
Jekyll e Hyde, dunque. Già ascoltando il suono dei due nomi si può trarne una suggestione: il verbo inglese to hide significa nascondersi; e nell’altro nome risuona lugubre il verbo to kill, uccidere.
I due non potrebbero essere più diversi, l’uno opposto all’altro, eppure indissolubilmente legati. Henry Jekyll è un uomo di mezza età, ancora vigoroso, longilineo, perfettamente a modo, dedito allo studio della chimica e al culto della ragione. Edward Hyde è un giovane basso, animalesco e irascibile, che suscita in chi lo incontra una sensazione di disagio e repulsione, benché non abbia alcuna deformità né una caratteristica repellente.
In un certo senso Stevenson aveva sintetizzato i due aspetti nell’ambiguo personaggio del pirata Long John Silver de L’isola del tesoro. Per il giovanissimo protagonista di quel romanzo, Silver riesce a essere di volta in volta una minaccia o un alleato, un orco o una figura paterna. Le sue circonvoluzioni nel corso della trama e addirittura della stessa scena ne fanno un personaggio complesso e grandioso. Silver è un egoista avido, eppure pronto a lasciarsi ammirare da noi lettori per la sua spiccata intelligenza e la sua capacità di restare a galla nelle burrasche della sorte; e ancora per quel barlume di umana simpatia che conserva in fondo all’anima.
Alcuni anni dopo Stevenson avrebbe ripreso il tema della doppiezza nel romanzo Il signore di Ballantrae (1888), dove i due personaggi contrapposti sono fratelli. Nel corso della storia il buono e il cattivo si scambiano le parti arrivando a invertirle, e alla fine è ben difficile emettere una condanna, perché si rimane impietositi da entrambi.
L’accoppiata di Jekyll e Hyde risulta senza dubbio la più inquietante. Da un lato il borghese illuminato e razionale, conformato alle aspettative sociali, che cela abilmente i propri vizi privati dietro un velo di pubbliche virtù; dall’altro il suo alter ego, un ceffo poco raccomandabile, egoista e violento, che porta in superficie gli istinti repressi dell’individuo civilizzato. Insieme mettono in scena «il dualismo intrinseco e primordiale dell’uomo», come si legge nel romanzo. Va da sé che Jekyll e Hyde si odiano, vorrebbero essere estranei l’uno all’altro, scindere i propri destini, forse anche cancellare quella ipsilon in comune nei loro cognomi che rivela un legame morboso. Legame da “tossici”, diremmo oggi. Perché di questo si tratta. Jekyll e Hyde hanno i comportamenti e le patologie dei drogati all’ultimo stadio: la necessità di una sostanza, il malessere dovuto all’astinenza, accompagnato da nausea e tremiti, ma anche la furtività e la falsità. Eppure, nonostante tutto, alla fine Jekyll avrà un moto di pietà nei confronti di Hyde, il quale in fondo, essendo il ricettacolo di ogni istinto animale, ha soprattutto quello di sopravvivenza, che fino a prova contraria è una risorsa preziosa e di cui non gli si può certo fare una colpa.
Un ingrediente importante del successo di questo romanzo è anche lo scenario in cui si ambienta la storia: Londra negli anni ottanta del XIX secolo, con i quartieri benestanti a due passi da quelli malfamati. Una città doppia, appunto, fatta di grandi strade popolose e stretti vicoli deserti; una città di luci e ombre, dove i lampioni aprono squarci nella nebbia; un luogo perfetto per compiere un delitto e sparire in un attimo, semplicemente svoltando l’angolo. Due anni dopo la pubblicazione di questo romanzo, un maniaco soprannominato Jack lo Squartatore avrebbe compiuto una serie di efferati omicidi nel quartiere popolare di Whitechapel. La realtà superava la letteratura.
È la stessa Londra percorsa da altri celebri personaggi letterari connessi al mistero e a storie paurose, come Sherlock Holmes, il conte Dracula, o il dannato Dorian Gray. E tuttavia è il caso di ricordare che Jekyll e Hyde sono nati qualche anno prima degli altri.
Proprio loro sono gli abitanti perfetti della metropoli britannica, dove tutti vivono a stretto contatto con tutti, eppure divisi in compartimenti stagni, a seconda del loro grado di rispettabilità e della provenienza sociale. La prima scena del romanzo si svolge davanti a una porta brutta e malconcia, che fin dall’aspetto rimanda a qualche losco andirivieni. Eppure basta fare il giro dell’isolato per accorgersi che si tratta dell’uscita sul retro di una casa più che rispettabile, essendo quella del dottor Henry Jekyll. Il senso della storia, se vogliamo, è racchiuso in quel contrasto tra facciata e retro. Tra quello che siamo per la società e quello che nascondiamo alla società. Perché chiunque ha qualcosa da nascondere, qualcosa che non vuole che gli altri sappiano: una mania o una fobia, un basso istinto o un punto debole, che qualora venissero esasperati potrebbero anche trasformarsi in patologie. Ecco uno dei motivi per cui questa è una storia universale, intramontabile, cioè che riguarda tutti. Perché parla di una condizione che, anche solo in minima parte, chiunque prima o poi prova su di sé: il segreto, l’ipocrisia verso gli altri.
C’è almeno un secondo motivo che rende universale questa storia e, come anticipato, ha a che vedere con la sua morale. Il primo personaggio che compare nel romanzo è colui che sarà destinato a mettere assieme i pezzi del puzzle, testimonianza dopo testimonianza. È un avvocato di nome Gabriel John Utterson e il romanzo si apre con la sua descrizione. Utterson è un tipo tetro, che non ride quasi mai, poco incline ai rapporti umani, quindi schivo, ma anche capace di lasciar trapelare la propria profonda umanità, magari dopo un paio di bicchieri di vino. Un tipo severo con se stesso e tollerante verso il prossimo; «più disposto a comprendere che a condannare». Per la sua professione si trova spesso ad avere a che fare con gente che ha bisogno di essere difesa in tribunale, non sempre la miglior pasta d’uomini, e questo lo spinge a vedere la complessità delle cose e dei tipi umani.
Uno dei suoi più stretti conoscenti, con il quale passeggia spesso per Londra, ha un carattere e una vita quasi opposti ai suoi, e tuttavia, al contrario di Jekyll e Hyde, i due si frequentano amabilmente.
Il grigio avvocato Utterson vive e agisce all’insegna del buon senso pratico. È una strana specie di investigatore, determinato a fare chiarezza su un caso che lo coinvolge professionalmente, ma lo appassiona personalmente. Quindi sfrutta la propria capacità di osservare il mondo da un punto di vista morale senza moralismo, e di cogliere le sfaccettature del carattere delle persone, chiunque esse siano, degne o indegne. Durante la sua indagine, Utterson si imbatterà nell’ambizione di tenere nettamente distinte alcune cose che nell’esperienza umana si presentano spesso aggrovigliate: il bene e il male; la ragione e l’istinto; la cultura e la natura. Invece di affrontare l’intricato rapporto tra queste componenti del nostro essere, la tentazione è quella di dividerle con l’aiuto della scienza, cioè artificialmente.
Ma si sa che gli dei puniscono i tracotanti, e così l’individuo socialmente evoluto che vorrebbe separarsi definitivamente dalla propria natura primitiva, finisce invece per esserne sempre più schiavo e per provare perfino una certa invidia per la parte di sé più disinibita e feroce.
Questo ci porta al terzo motivo che rende intramontabile la vicenda di Jekyll e Hyde.
A un certo punto della storia il dottor Jekyll avanza un’ipotesi, una sorta di previsione del futuro, “secondo la quale l’uomo sarà conosciuto come un sistema di entità multiformi, incongrue e indipendenti”. Insomma l’idea dell’uomo che si è fatto Jekyll è quella di una creatura dalla personalità molteplice, irriducibile a un solo carattere.
Oggi noi sappiamo che questa descrizione, per quanto ancora molto rozza, nasceva da un’intuizione giusta, che anticipava molti degli studi sulla mente umana venuti in seguito. Bisogna considerare che la psicologia sperimentale era nata appena nel decennio precedente alla pubblicazione del romanzo e che la psicoanalisi avrebbe mosso i suoi primi passi soltanto nel decennio seguente. Eppure l’idea che forze contrastanti si diano battaglia nell’animo umano, e che esistano lati sommersi della nostra psiche, che possono condizionarci senza che ce ne rendiamo conto ed emergere in determinati frangenti, oggi è patrimonio comune. Ed è anche la base di tanti romanzi e film su assassini seriali e maniaci schizofrenici, che fanno la fortuna di moltissimi autori di thriller di successo. Ognuno di questi deve qualcosa alla storia di Stevenson, in qualche modo il racconto capostipite di quel filone – anche se le morti, nel suo romanzo, sono soltanto tre, decisamente poche per lo standard di oggi.
Ci si potrebbe chiedere quanti di quei best seller contemporanei supereranno la prova del tempo, diventando anch’essi immortali. Dipenderà da quale pezzetto di verità sono in grado di raccontarci.
La storia di Jekyll e Hyde ci racconta che siamo fatti della stessa materia delle stelle e del fango; ci portiamo dentro luce e tenebra, paradiso e inferno. E il vero peccato mortale è la pretesa di dividere il bene e il male con un artificio, disimpegnandoci dalla lotta interiore per riconoscerli e per far prevalere il primo sul secondo. Essere umani – sembra dirci Stevenson – è proprio questo: affrontare la contraddizione tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere, senza trucchi o scorciatoie, con la consapevolezza che questa è, e sarà sempre, la sfida della nostra esistenza.
Niente male per un romanzo dell’orrore.
Mai letto perché ho orrore dei romanzi orror e perché L’isola del tesoro da bambina mi aveva annoiato moltissimo, malgrado l’elemento marino mi appassionasse. I miei pirati erano quelli di Salgari, rigorosamente i libri, dove ogni tanto si affacciava pure qualche donna semicombattente, personaggi assenti in Stevenson, ma che per me cambiavano tutto. Mi annoia anche il discorso del e sull’horror come compresenza e coabitazione tra bene e male, a causa della normalità e mostruosità sempre viste come individuali, discorso sfruttato fino a spegnerlo nello spettacolo made USA e comunque ormai troppo scontato.
Tutto questo per dire che invece mi attrae moltissimo l’idea della costruzione narrativa e della consapevolezza raggiunta dai personaggi attraverso il rinvenimento e l’analisi dei documenti di natura archivistica e privata (che apparentemente piace anche a voi, e esiste anche in romanzi contemporanei tipo Possessione, mentre nella narrativa ottocentesca rimane spesso solo un punto di partenza o di arrivo, penso alla lettera-engima in certi romanzi di Verne come i Figli del capitano Grant o La Jangada, o al capostipite Poe) e forse sarà questo elemento a spingermi a fare finalmente il passo.
Che significa “normalità e mostruosità sempre viste come individuali”? Intendi dire che il mostro è “solo” uno? E gli viene riflesso un solo individuo “normale”?
Lessi questo libro all’età del liceo (non a scuola, ma a quei tempi), e ne un ricordo vago nei dettagli, seppur “alimentato” dall’importanza che la cultura generale gli attribuisce.
Ho trovato chiarificatore il paragone fatto tra “individuo” e città, nel contenere entrambi un doppio celato, chiarificatore perchè mi sembra (magari è una mia chiave di lettura) andare in sintonia con analisi e pratiche quasi lutherblissettiane, nel ricordare che l’ “identità”, che si tratti di id personale, nazionale, cittadina, sia dispositivo di controllo e neutralizzazione del conflitto.
E la parte celata, che sia quella gli istinti (quelli dannosi e quelli esorcizzati), quella dei quartieri popolari, o quella dei flussi migranti e precari, viene annientata discorsivamente con una narrazione “identitaria”, unificatrice.
Penso a Rimbaud, Pessoa, Deleuze, e tutti quell* che sembrano aver riscattato la schizofrenia dallo stigma sociale in quanto anti-unificatrice a rimozione del rimosso, rivendicazione di un conflitto. “Che errore aver detto l’es!”
Bello!!! Non è che a WM4 (ma l’invito si estende anche a WM1 e WM2) andrebbe di venire a presentarlo a Terni per il Terni Horror Fest #3 ? (Novembre)