di Nicoletta Bourbaki *
«Da “Boia chi molla” a “Dux”, registrati al Mise i marchi del Ventennio.»
Titolo ADN Kronos, 17 luglio 2017«E a Santa Fè, al tubercolosario erano stati avviati parecchi dei soldati costretti ai lavori nelle fonderie. E nel campo 6 da quaranta giorni, all’aperto, trecento sottufficiali vivevano a pane e acqua e non mollavano. E nel campo ufficiali era la medesima cosa: Boia chi molla!»
Roberto Mieville, Fascists’ Criminal Camp, Roma 1947.«”Boia chi molla!” Sfatiamo un mito! e la disinformazione mediatica! Si tratta di un’espressione diventata famosa come un motto fascista; tuttavia fu coniata da Eleonora Pimentel Fonseca durante le barricate della Repubblica Partenopea nel 1799 e utilizzata anche nelle Cinque giornate di Milano del 1848. Stampa e tv giocano sempre sporco!»
Angelo Tofalo, deputato M5S, 29 gennaio 2014
L’11 aprile 2015 sul Secolo d’Italia, ex-organo ufficiale del Movimento Sociale Italiano da tempo ridotto all’ombra di ciò che era (che pure non era granché), appare un articolo dal titolo: «60 anni fa moriva Roberto Mieville, inventò il motto “Boia chi molla!”».
Nel pezzo si legge:
«Sessant’anni fa se ne andava in un incidente stradale, a soli 36 anni, il deputato del Msi Roberto Mieville. Tenente carrista durante la guerra, fu preso prigioniero in Africa e rinchiuso al Fascists Criminal Camp di Hereford, in Texas, esperienza sulla quale scrisse dei libri autobiografici. Nel gennaio 1946 fu tra i fondatori dei clandestini Far, i Fasci di azione rivoluzionaria. Nel dicembre dello stesso anno fu anche tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, partito del quale fu subito tra i principali animatori […] Mieville fu il creatore del fortunato motto che rimase impresso nella coscienza missina per sempre, quello del “Boia chi molla!”, rigorosamente col punto esclamativo.»
Ma… Un momento… Il motto «Boia chi molla» non era un motto del Ventennio? E non era già urlato dagli Arditi durante la prima guerra mondiale? Qualcuno ha addirittura scritto che era «il motto del corpo degli Arditi»… E prima ancora, non si era udito addirittura nei moti del 1848 e nei giorni della Rivoluzione napoletana del 1799?
Così si legge su Wikipedia, in molte conversazioni sui social media, nonché su siti e sitarelli fascisti.
Non avremmo mai pensato di scrivere la frase che state per leggere, ma va fatto.
La verità è quella scritta dal Secolo d’Italia.
[Anche un orologio rotto ecc.]
Diamo al camerata Mieville ciò che è suo: il motto «Boia chi molla!» lo inventò lui. Gli altri «miti delle origini» sono – detta come va detta – cazzate.
1. Il mito dell’origine e l’origine del mito: Reggio Calabria, esequie e false piste
Torniamo indietro di due mesi.
Febbraio 2015: su Giap, nella discussione seguita al post di Lou Palanca 2 Da D’Annunzio a Ciccio Franco, ovvero: un paio di frottole neofasciste sulla #Calabria si sviluppa – soprattutto con i contributi di Girolamo De Michele e dello storico Luca Di Mauro – una vera e propria ricerca sulle origini dello slogan fascista. Un ottimo esempio di intelligenza collettiva al lavoro, di cui – poiché le fandonie e i falsi storici seguitano a circolare – ci sembra importante riprendere i risultati.
Su «Boia chi molla!» gridato dagli Arditi nella Grande guerra e poi dagli squadristi in camicia nera non si rintracciano fonti coeve, soltanto affermazioni apodittiche e pseudo-ricostruzioni, tutte pubblicate nel XXI secolo.
La Stampa mette a disposizione gratis il proprio archivio storico 1867 – 2005. Durante il Ventennio era un giornale fascistissimo, foglio di regime tanto quanto il Corriere della Sera. Se «Boia chi molla!» fosse stato coniato durante la Grande Guerra per poi diventare parte dell’armamentario retorico del fascismo, se ne troverebbe qualche testimonianza. E invece, nel periodo 1915-1945, il motto non appare mai. Nemmeno una volta. Provare per credere.
A proposito, lo stesso risultato si ottiene consultando la sterminata mole di libri e periodici digitalizzati e archiviati su Google Books.
Su La Stampa, la prima occorrenza dello slogan è in un articolo di Stampa Sera (l’edizione pomeridiana del giornale) del 31 agosto 1957 sulle «movimentate esequie» di Mussolini a Predappio: «Due arditi reggevano ciascuno un gagliardetto nero e tricolore, con scritte come la seguente “Boia chi molla”».
Il giorno dopo, un articolo de La Stampa parla di «gazzarra» di alcuni «facinorosi» durante il funerale e cita di nuovo lo slogan: «Alla testa del feretro due uomini reggevano ciascuno un gagliardetto con scritte come le seguenti: “Boia chi molla”; “Corro a mina” […]».
Dopo i due articoli del 1957, su La Stampa lo slogan si inabissa, per riapparire solo nel 1970.
Nell’estate di quell’anno, durante la rivolta per Reggio Calabria capoluogo, Ciccio Franco – capopopolo fascista e in seguito senatore per cinque legislature – rilancia il motto «Boia chi molla!», deformando il significato di Mieville. Quest’ultimo lo aveva coniato in funzione di resilienza umana alla prigionia di guerra e fedeltà alla «rivoluzione fascista» della RSI, non poteva certo pensare a un suo utilizzo in chiave campanilistica.
2. Wikipedia si morde la coda: la profezia che si autoavvera
Ma se gli Arditi non usarono mai quell’espressione e Ciccio Franco se ne è appropriato ex post, qual è la vera origine del motto?
Il riflesso condizionato di chiunque si ponga una domanda del genere porta a consultare Wikipedia. E cosa si legge sull’«enciclopedia libera»?
Si legge un’incoerente massa di dicerie riprese da vari siti e libri “divulgativi”, una delle quali attribuisce l’invenzione dello slogan addirittura a Eleonora Pimentel Fonseca, o comunque alla Rivoluzione napoletana del 1799.
Al grande linguista Niccolò Tommaseo, che nel suo Dizionario dei sinonimi (terza edizione accresciuta, 1854) dedica tre lemmi ai diversi modi di usare «boia» in senso traslato, l’espressione «Boia chi molla» non è nota. Non è una prova certa del fatto che non fu usata nella Rivoluzione napoletana del 1799 o durante i moti del 1848 (nei quali Tommaseo ebbe un qualche ruolo…), ma certo pesa più di una generica affermazione non comprovata da alcuna fonte.
Anche nel Dizionario della Lingua Italiana di Tommaseo e Bellini alla voce «Boia» (anzi: «Boja») non si trova menzione del motto «Boia chi molla». Se consultiamo, poi, la quinta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca, avviata nel 1863, la voce “boia” è qui, nel II volume. E «boia chi molla» non risulta.
Insomma, questa pretesa frase “rivoluzionaria” che sarebbe stata proferita sul finire del XVIII secolo durante una rivoluzione che gli intellettuali risorgimentali ebbero presente, e che poi sarebbe risuonata per le strade di Milano nel 1848, non figura nei maggiori repertori della lingua italiana dell’Ottocento. Repertori il cui autore è stato protagonista attivo del 1848-49 veneziano (secondo solo a Daniele Manin, presidente del Senato della Repubblica, esiliato ecc.), che avrebbe avuto forti assonanze col preteso motto. Se, per l’appunto, quel motto fosse esistito al tempo.
Il motto non compare neanche nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco. Secondo quest’ultimo, le parole proferite sul patibolo da Eleonora Pimentel Fonseca furono: «Forsan et haec olim meminisse iuvabit» [Forse un giorno persino il ricordo di questi eventi ci sarà d’aiuto]. Il che ha un suo senso: l’uso metaforico della parola «boja» era popolaresco, l’aristocratica cita Virgilio (Eneide, I, 203).
L’espressione «Boja chi molla», inoltre, non si trova – in nessuna delle due possibili grafie di «boia» – sul Monitore Napolitano né su alcun altro scritto politico – noto alla comunità scientifica – della Fonseca. Oltretutto, la sua produzione pubblicistica si interrompe a inizio giugno del 1799 e non “segue” la caduta della repubblica napoletana, quando una frase del genere avrebbe potuto essere presumibilmente coniata. Vale poi la pena ricordare che nella storia militare della sfortunata repubblica non ci sono mai state «barricate»: il primo incauto “attributore”, dunque, chiunque sia stato, conosceva poco queste vicende rivoluzionarie.
La diceria del «Boia chi molla» attribuito a Eleonora Pimentel Fonseca trae forse origine da una leggerezza commessa anni fa in una voce di Wikipedia da Leonardo Tondelli (proprio lui, il popolare blogger). Lo ha rivelato lui stesso in un suo post del 30 gennaio 2014.
Tondelli scrive di aver inserito l’espressione «Boia chi molla» nel glossario delle frasi fatte, ma ammette di non ricordare assolutamente da quale fonte avesse preso l’informazione secondo cui lo slogan sarebbe stato coniato durante la Repubblica napoletana. Il paragrafetto scritto da Tondelli venne in seguito scorporato da un altro utente di it.wiki e divenne così una voce a sé stante. Un articolo di Elena Stancanelli su La Repubblica attribuisce il detto a Eleonora Fonseca Pimentel, ma (spiega Tondelli) si tratta di un articolo uscito nel 2010, quindi non è da escludere che la stessa Stancanelli avesse ripreso l’informazione da Wikipedia.
Durante la discussione in calce al post, è risultato che effettivamente fu Tondelli, il 5 febbraio 2006, a operare l’inserimento in Wikipedia del motto e della sua presunta origine. La frase inserita era: «secondo alcuni [l’espressione] sarebbe già circolata sulle barricate della Repubblica Partenopea nel 1799».
Alcuni commentatori hanno citato altre fonti, ma tutte successive al 2006, quindi anch’esse sospette di aver “copiato” da Wikipedia.
Il post di Tondelli ha anche suscitato una discussione nel bar di Wikipedia (la pagina dove i wikipediani discutono delle questioni generali concernenti l’Enciclopedia), dove ci si è chiesti se non si trattasse «di uno di quei casi in cui l’errore si autoalimenta (WP lo scrive -> qualcuno lo riprende -> WP lo riusa come fonte)».
La versione attuale della voce wikipediana cita come fonte il libro di Luciano Lanna e Filippo Rossi Fascisti immaginari, del 2003 (quindi antecedente all’edit di Tondelli). Ma l’utente stesso che ha inserito tale fonte osserva come la provenienza sia
«comunque “oscura” (nel senso che anche nel libro c’è un “si dice”, e uno degli autori del libro è stato direttore del Secolo d’Italia). È insomma possibile che la bufala sia stata creata negli ambienti di destra per dare una patina di anzianità all’espressione».
Il dato di fatto è questo: consultando ogni possibile archivio storico, non si troverà nessuna occorrenza di «Boia chi molla!» precedente all’uso che ne fece Mieville, nella sua corrispondenza privata e nel diario di prigionia a Hereford, poi pubblicato nel 1947.
3. Con le unghie e con i denti: Boia chi “povva”!
La voce che Wikipedia dedica allo slogan dà per certe notizie che però non corrobora con alcuna fonte coeva. Su questi argomenti Wikipedia – per motivi più volte presi in esame su Giap – è spesso inattendibile, in quanto “presidiata” da fascisti e altre categorie di destroidi che fanno continue «chiamate alle armi» per impedire emendamenti scomodi o, semplicemente, non agiografici.
Dopo la prima discussione su «Boia chi molla» avvenuta su Giap, qual è stata la prima reazione della community wikipediana, o meglio, di un preciso cluster di utenti – Presbite, Jose Antonio, Bramfab, Il Paiazzo – già noti a chi legge Giap?
È stata: – Achtung, i banditen stanno cercando di «POVvare Wikipedia»!
[POV è il Point Of View; nel gergo wikipediano, «povvare» significa imporre un proprio punto di vista non neutrale. L’accusa di «povvare» è spesso rivolta in branco a chi cerca di migliorare una voce “presidiata” da un gruppo di utenti che difendono il loro POV.]
La discussione sulla voce «Boia chi molla!» era ferma da un anno, la voce conteneva – e tuttora contiene – illazioni, leggende metropolitane e pseudo-fonti basate sul “si dice”… ma il problema, per quegli utenti, era che su Giap si era segnalato il problema.
Non solo si era segnalato il problema, ma si erano fatte verifiche fondamentali, grazie in particolare a due insegnanti (Lou Palanca 2 e Girolamo De Michele) e a uno storico esperto di Ottocento (Luca Di Mauro).
La linea è stata ignorare tali verifiche, polemizzare con noi ed esibirsi in portentose arrampicate di specchi. Leggere da questo paragrafo in giù.
Oltre il danno, bisogna constatare pure la classica beffa. Il mix di disattenzione e malafede riscontrato nella versione italiana di Wikipedia è percolato nelle versioni in altre lingue dell’Enciclopedia Libera.
Sulla Wikipedia in francese, già nell’incipit, viene dato risalto alla bufala che rintraccia l’origine del motto nella Repubblica napoletana del 1799 e nelle cinque giornate di Milano del 1848.
Quando si prova ad aprire l’articolo usato come pezza d’appoggio, si ottiene un bel… «Erreur 404». Tuttavia a voler insistere, grazie a Wayback Machine – che conserva gli scheletri digitali disseminati sul Web – si arriva infine al blog di un certo Kevin Grangier. Chissà mai che non sia lui la fonte ultima, finale e decisiva che permette di ricostruire la fanta-filologia del motto?
Macché. Kevin Grangier è semplicemente un membro e dirigente locale (Canton Vaud) della razzistissima e xenofoba UDC (Union démocratique du Centre, in francese). Quelli che fanno questi manifesti Nazi-style…
…e che sono tra l’altro il primo partito svizzero.
La versione della voce in spagnolo, quasi identica a quella francese, non si trova in condizioni migliori. Addirittura, le informazioni sbagliate non sono state fontate. Chi ha redatto la voce non ha nemmeno fatto finta di trovare un qualche documento che potrebbe attestare la veridicità di quanto riportato. A questo punto, tanto vale optare per la versione in siciliano, che recita: «La frasi Boia chi molla è nu mottu talianu usatu dî fascisti pi stuzziniari li militari â battàgghia».
Conclusioni
Questa vicenda ci permette di osservare da vicino una doppia tendenza ricorrente nei fascismi: da un lato il desiderio di retrodatare e creare primogeniture antiche, spesso impossibili da documentare, dall’altro l’andare avanti per miti e slogan (che addirittura spesso diventano veri e propri marchi registrati).
Far risalire nei secoli il motto «Boia chi molla!», mettendolo addirittura in bocca a giacobini e patrioti risorgimentali, serve a nobilitarne l’uso e quindi, per una supposta proprietà transitiva, chi lo usa. In parole povere, i fascisti cercano di “darsi un tono”. Come spiegò Furio Jesi, la cultura di destra è sempre all’affannosa ricerca di «lusso spirituale», e «la materia su cui opera il lusso spirituale è sempre la stessa: un passato che non c’è.»
Non solo: inventare una genealogia finta serve a non pagare dazio, a mettere in campo diversivi, a montare supercazzole per negare i riferimenti al fascismo e quindi contribuire alla normalizzazione del fascismo. Impresa a cui si dedicano sempre più “opinionisti” e politici, anche nella sedicente “sinistra”.
C’è chi si è buttato mani e piedi nella voragine storiografica aperta su Wikipedia, facendolo con entusiasmo, come il deputato grillino Angelo Tofalo. Il problema, però, non è la dabbenaggine di chi ci cade, ma quel che da anni succede alla versione italiana dell’Enciclopedia Libera. Di fronte alla costante manipolazione di fonti – si veda ad esempio la nostra inchiesta La strategia del ratto – operata da neofascisti e altri personaggi del genere, lo “zelo filologico” è un’arma. È importante mostrare una volta di più – perché la famosa “volta per tutte” non esiste – quanto i fascisti siano millantatori, cialtroni e sempre inclini alla panzana.
E quando ci riferiamo ai fascisti, lo facciamo pensandoli come esponenti di una fetente “arci-italianità”. I fascisti sono epitomi, sono perfette incarnazioni di un’ideologia nazionale basata sul vittimismo, sulla deresponsabilizzazione, sulla s-memoria collettiva, su ogni sorta di alibi e – appunto – supercazzole. Ideologia che – lo abbiamo visto in questa laida estate del 2017 – va ben oltre il milieu dei fascisti che si dichiarano tali, permeando buona parte del discorso pubblico italiano, e le politiche che ne derivano.
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* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete e sulle false notizie a tema storico, nato nel 2012 durante una discussione su Giap, il blog di Wu Ming. Ne fanno parte storici, ricercatori di varie discipline, scrittori, attivisti e semplici appassionati di storia. Il nome allude al collettivo di matematici noto con lo pseudonimo collettivo «Nicolas Bourbaki» attivo in Francia dagli anni Trenta agli anni Ottanta del ventesimo secolo.
Il gruppo di lavoro ha all’attivo diverse inchieste – pubblicate su Giap – sulle manipolazioni neofasciste della Wikipedia in lingua italiana e sui falsi storici in tema di foibe. Tra i vari risultati, ha contribuito a smontare la bufala della cosiddetta «foiba di Rosazzo», altrimenti detta «foiba volante».
Per l’edizione on line della rivista Internazionale, in occasione del Giorno del Ricordo 2017, Nicoletta Bourbaki ha curato lo speciale La storia intorno alle foibe. Sul n.39 della rivista di studi storici Zapruder (gennaio-aprile 2016), in collaborazione con Lorenzo Filipaz, ha pubblicato l’articolo Wi Chi? Battaglie per il sapere in rete. In collaborazione con Tommaso Baldo, ha partecipato alla tavola rotonda Wikipedia e le scienze storiche, organizzata e pubblicata dalla rivista storica Diacronie.
Nicoletta Bourbaki è anche su Facebook.
Mi dilungo nello spazio dei commenti su alcune dinamiche che emergono ripercorrendo la genealogia della voce Boia chi molla! in it.wiki, in particolar modo in riferimento all’uso delle fonti.
Come già segnalato nel post il collegamento tra l’infame motto e gli Arditi è sempre stato presente nella voce e addirittura, in un dato momento, vi si poteva leggere che «fu il motto del corpo degli Arditi». Nessuna fonte era riportata a sostegno dell’affermazione.
Nella versione attuale della voce, la fonte a sostegno del nesso (più sfumato) tra il motto e gli Arditi è The Word at War: World War Two in 100 Phrases di Philip Gooden e Peter Lewis, pubblicato nel novembre 2014. Quello che nel libro è riportato sul motto Boia chi molla! si può leggere per intero qui, il riferimento specifico agli arditi questo: «Yet whatever its historical provenance, it became most famous battle cry of Arditi in World War One».
In generale quello che colpisce – e dovrebbe già far capire che una tal fonte è lontana dall’optimum indicato dalle linee guida di it.wiki secondo cui è necessario utilizzare «fonti attendibili, pubblicate e di terze parti con una reputazione per controllo delle informazioni e accuratezza» – è la mancanza di rimandi bibliografici nel volume. A inserire la fonte uno dei nomi noti a chi segue il lavoro d’inchiesta di Nicoletta Bourbaki: Bramfab.
Per un periodo piuttosto attivo nella voce e nella relativa pagina di discussione, Bramfab si è speso perché venissero cassati i riferimenti ai moti risorgimentali e, al contempo, per saldare e rafforzare il legame tra il motto e le vicende della Prima guerra mondiale.
Il riferimento alla Prima guerra mondiale, nell’attuale versione della voce, ha come fonte l’articolo a firma Giovanni Belardelli Boia chi molla lo slogan pubblicato sul Corriere della Sera nel 1999, il volume di Luciano Lanna e Filippo Rossi Fascisti immaginari (2003) e il libercolo La battaglia del solstizio: Piave, Giugno 1918 (2015).
Fascisti immaginari fu portato in voce, a sostegno delle origini “risorgimentali” del motto, da Maurizio Codogno, wikipediano della prima ora e socio fondatore di Wikimedia Italia, pronto a intervenire con qualche pezza per evitare figuracce all’Enciclopedia libera e molto indispettito quando dall’esterno del mondo wikipediano arrivano critiche, ma di certo non associabile a quegli utenti che nel post vengono identificati come fascisti e destroidi vari.
Veniamo a La battaglia del solstizio: Piave, Giugno 1918 di Pierluigi Romeo di Colloredo: qui si può leggere cosa è scritto nel libro, il riferimento specifico è a tal “sergente Sivieri” che avrebbe proferito a sprono il motto, ma non ci sono fonti citate a sostegno dell’affermazione. Nella talk della voce si trova uno scambio – richiamato e linkato anche nel post qui sopra – in cui si discute la validità di questa fonte; rimossa dall’utente UltimoVieneIlCorvo, a difendere la validità della fonte intervengono Jose Antonio e, soprattutto, Bramfab, cosicché il volume viene reinserito. Nella discussione UltimoVieneIlCorvo scrive che «l’autore è apparentemente enciclopedico (nel senso che Wikipedia ospita una pagina biografica priva di fonti)», oggi però quella voce (autopromozionale?) è stata cancellata. Eppure Jose Antonio assicurava, in modo perentorio, che «l’autore è enciclopedico e ha pubblicato numerosi testi sicuramente affidabili». Ma chi è il “Conte Dott. Pierluigi Romeo Colloredo di Mels”? Su questa scheda biografica a lui dedicata, oltre a “storico e archeologo”, si legge «autore di numerosi saggi storici, e in particolare di una serie di opere basilari sui reparti operativi delle Camicie Nere». I risultati di una rapida ricerca in rete spiegano meglio però lo slancio con cui Jose Antonio è accorso a garantire l’affidabilità dell’autore, infatti il Conte Dottore è un collaboratore della rivistaccia Storia in rete, suoi articoli si trovano pubblicati su Il Primato Nazionale e, nel giugno scorso, lo si trova come relatore di un incontro organizzato a Imperia da Casa Pound Liguria dal titolo Arditi! Storia, uomini e battaglie dei reparti Arditi dal 1917 al primo Fascismo. Sono chiari i “meriti” del Conte Dottore nell’ottica di Jose Antonio…
Come fonte dell’informazione secondo cui «Il motto entrò così a far parte dei simboli distintivi prima del movimento fascista, poi del regime» tuttora si trova il libro di Antonello Capurso, Le frasi celebri nella storia d’Italia (Mondadori, 2012). Il libro è stato inserito come fonte il 27 febbraio 2015, la cosa interessante è che il conio del motto – come si può leggere qui – viene da Capurso attribuito al tenente colonnello Giuseppe Bassi (dopo aver comunque fatto riferimento, senza fonti a sostegno, all’origine risorgimentale del motto). Secondo Capurso anche il motto «A noi!» fu inventato da Bassi e poi ripreso da D’Annunzio. Nella voce però l’uso del libro come fonte è limitato alla sola affermazione citata poc’anzi, mentre quanto riportato sull’attribuzione al colonello Bassi della primogenitura del motto non viene considerato.
Per concludere, in generale colpisce (ancora una volta) l’uso disinvolto e allegro delle fonti, di più: di qualsiasi fonte reperibile e anche solo lontanamente spendibile come affidabile. C’è chi utilizza fonti in modo selettivo, c’è chi si spende per affermare l’affidabilità di una fonte di assai dubbia validità, in una gara tutta interna al circo della comunità che anima it.wiki e svolta a colpi di etiquette, con il manuale di “procedura wikipediana” alla mano (che nella pratica lascia spazio a forzature o furbate). Del resto – in particolare degli “utenti passivi” che si limiteranno a leggere una voce – a pochi interessa.
Sempre interessato dalle vostre relazioni sull’inefficienza del servizio di “accertamento” di WIKIPEDIA.
Ieri ho provato a modificare la voce con alcuni aggiustamenti secondo quanto da voi riportato, giusto per vedere entro quanto tempo ed in che modo sarà modificata…