[Col suo permesso, riprendiamo dal suo profilo FB uno scritto della nostra amica Valentina, perché è un ricordo anche nostro. Un ricordo bruciante, riacceso dagli eventi di Piazza Indipendenza a Roma. Come direbbe Benjamin, un ricordo «che balena nell’istante del pericolo».
Qualcuno potrà essere in disaccordo con singole valutazioni di Valentina, ma le sue parole restituiscono in pieno l’atmosfera di quei giorni.
All’occupazione di via Altura c’eravamo. Il Luther Blissett Project aderiva sia alla rete «2001 Odissea negli Spazi» sia al «Comitato 14 dicembre». Soggetti talmente trasversali da includere – in uno spiazzante gesto di solidarietà per la persecuzione appena subita – i Bambini di Satana.
Eravamo anche allo sgombero di via del Pallone, e avremmo raccontato quella notte due anni dopo, in un capitolo-flashback di Asce di guerra. Capitolo che includiamo in questo post.
Le foto di occupazioni e sgomberi sono dell’amico Gianluca Perticoni dell’agenzia Eikon di Bologna. Buona lettura. WM]
Il prossimo anno saranno venti. Era il 1998 infatti quando a Bologna scoppiò il caso «via Altura». Riassumendo velocemente: reduci da un’occupazione malfatta e malgestita (da comitati autonomi per la casa) e maldipinta dalle cronache locali, decine di famiglie di immigrati senza tante alternative si infilarono in San Petronio. Erano musulmani, il caso finì alle cronache nazionali, e pur di uscirne alla svelta il Comune offrì una sistemazione alternativa, in quello che oggi è l’albergo popolare di via del Pallone.
Dopo un mese (o poco più, scusate, vado a memoria) anche da lì furono sgomberati. Polizia, casini, donne e bambini in strada sotto la neve, era inverno e faceva un freddo cane. Via Irnerio chiusa, di nuovo cronache nazionali, arrivò anche il Gabibbo, alla fine già che era lì fu il TPO di allora, Teatro Polivalente Occupato, stava nel teatro dell’Accademia, ad aprire loro le porte, interrompendo ogni programmazione e prendendosi la responsabilità dell’accoglienza. Per dire il clima: nel retro del TPO c’erano pure un cammello e un dromedario, ospiti della compagnia Raffaello Sanzio, che qualche giorno prima avevano sfilato nella prima Street Parade che si ricordi in città, quella di «2001 Odissea negli spazi», inedita confluenza di tutti i centri sociali della città.
Il sindaco era Walter Vitali, l’ultimo di centrosinistra prima dell’era Guazzaloca, memorabile fu il suo commento: il teatro è del ministero delle Finanze, per noi il caso è chiuso. Giuro, disse proprio così. Insopportabile il TPO, insopportabili i migranti, pensò di essersi cavato dai piedi entrambi, sperando di vederli collassare uno sull’altro in una sorta di reciproco annientamento. Le cose andarono diversamente.
Erano uomini e donne e bambini, uomini che lavoravano, bambini che andavano a scuola, si accamparono sul palco del teatro e effettivamente dopo alcune settimane la situazione si fece davvero difficile (per l’indifferenza istituzionale più che altro). Le persone che informalmente ma seriamente avevano deciso di farsene carico furono costrette a cercare una qualsiasi soluzione. Lì si scoprì «via Altura», un immenso edificio, completamente vuoto, dietro l’ospedale Bellaria, verso San Lazzaro. Fu occupato dai “bianchi occidentali”, alla conferenza stampa chi si aspettava di trovare degli squatter rimase deluso: ormai un bel pezzo della Bologna civile si era mobilitata.
L’edificio di via Altura era una roba colossale, costruita per diventare alloggi per anziani contravveniva una norma regionale (sulle dimensioni) che chissà perché qualcuno s’era dimenticato di modificare, nel complesso gioco fra amministratori e costruttori. I migranti entrarono dopo un po’: l’assessora alle Politiche sociali di allora, Lalla Golfarelli, aveva infatti dichiarato che agli stranieri se occupanti sarebbero stati tolti i figli, meglio non rischiare. Passarono alcune notti in un ghiaccio mai visto, madonna che freddo c’era, poi gli occupanti fecero entrare le famiglie. Con censimento allegato: a ogni assemblea e a ogni ora del giorno e della notte arrivava qualcuno, accogliere tutti non era pensabile in quelle condizioni: intere famiglie che dormivano in macchina, molti sfrattati per inevitabile morosità visti i canoni cittadini, quasi sempre persone, come i nuclei di via del Pallone, che pur avendo lavoro e tutto una volta fatto il ricongiungimento familiare dovevano affrontare un collasso economico. Gli occupanti erano la punta di un iceberg grande come mezza città.
Andò avanti per un po’, neppure mi ricordo per quanto, settimane, mesi. Durante le quali ci fu il tempo per una partecipazione di occupanti e militanti all’allora Moby Dick di Michele Santoro: una memorabile gita a Roma in pullman con mamme e bimbi, che però arrivati nella Capitale si scoprì non avrebbero (ovviamente) potuto partecipare alla trasmissione, nonostante fossero stati appositamente convocati. Passarono una bellissima serata con la schiuma nella vasca da bagno delle camere d’albergo, come ci fu poi riferito, a noi che da Santoro ci prendemmo il microfono, grazie anche a quel gran giornalista che è Riccardo Iacona.
Intanto in Comune facevano sapere di avere soluzioni alternative: ospitalità per qualche settimana in strutture per lo più religiose, e solo per mamme e figli, o case con affitti assurdi nei comuni dell’Appennino. Nulla di accettabile, esattamente come successo giorni fa a Roma, per quanto tendessero a far passare sulla stampa cittadina l’idea che gli occupanti «se la tiravano». La realtà era che negli uffici comunali non avevano altri interlocutori che le agenzie immobiliari, che ovviamente tendevano a fare il loro mestiere. La bolla non era ancora esplosa e gli affitti richiesti erano indecenti, prima ancora che inaffrontabili.
Finì grazie all’intervento del Gruppo Lupo. Oggi si può raccontare, allora fu chiesto il silenzio, dagli stessi benefattori. Che sganciarono 50 milioni di lire sull’unghia, al costituito Comitato di via Altura, permettendo così di avviare la locazione di appartamenti per una buona parte degli occupanti. Il Gruppo Lupo era: Stefano Benni, Antonio Ricci, Fabrizio De André, e, incredibile ma vero, Beppe Grillo. De André morì in quei giorni, chi c’era ricorda le lacrime e il dolore di Benni, inconsolabile. Non ci fu una sistemazione ottimale per tutti, ma insomma in qualche maniera se ne uscì.
Io so solo che dopo un paio d’anni incontrai in via Indipendenza uno dei signori che con tutta la famiglia stava a via Altura, e che incontrai anche Kadisha un pomeriggio, lei che durante i giorni del Tpo aveva perso il bambino, era sposata con quel gigante di Mohamed, e sempre sono stati baci e abbracci, e la gioia di sapere che le cose andavano avanti, i bimbi crescevano, la città era meno ostile, i ricatti su casa e lavoro più gestibili.
Poi sono successe tante altre cose, e quei giorni non sono sempre stati gloriosi, avere a che fare con persone che hanno costumi e tradizioni diversi dai tuoi non è una passeggiata per nessuno.
Ma se anche solo un bambino o una bambina di allora, che oggi potrebbe avere una famiglia a sua volta, guardandosi indietro trovasse un ricordo fatto di solidarietà e sorrisi e giochi e non solo di miseria e manganelli e divise, beh basterebbe per dire che ne valeva la pena.
La mia personale solidarietà agli sgomberati di piazza Indipendenza a Roma, e a chiunque sia loro accanto.
⁂
Da: Wu Ming – Vitaliano Ravagli, Asce di guerra (Tropea 2000, Einaudi 2005):
Cap. 68
Bologna, 7 dicembre 1998(!), 10.30 p.m.
Non dimenticherò questo gelo.
Quasi le undici di una notte polare. Sul bivacco, che va avanti dall’alba, bloccando via Irnerio all’altezza della Montagnola, pesa ormai una tensione insopportabile. Lacrime e malori ripetuti, falò improvvisati e masserizie sparse, drappelli di poliziotti in assetto, sempre più tesi, e cani di punkabbestia e bonghi e slogan di dieci disperati incarogniti e sguardi bassi dei pochi qui intorno, e gelo, indifferenza e assenza. Si tratta la resa, senza condizioni, dell’ultima battaglia persa.
Il funzionario Della digos, molto noto in città, imbarazzato, nervoso si lascia scappare una frase a mezza bocca con Monteventi, il consigliere comunale indipendente di Rifondazione, tra i pochi che cercano di evitare il peggio: «Questo lavoro di merda, noi non lo vogliamo più fare.»
È presente anche una troupe della trasmissione di Michele Santoro. Sono in cinque, si aggirano sbigottiti anche loro. Poche domande in giro, le riprese parleranno da sole.
L’esercito sconfitto, che sta per essere disperso, conta all’incirca settanta elementi, cinquanta tra donne e bambini, esausti e assiderati.
Ciò che rimane dell’«orda sacrilega», che ha occupato per due giorni la basilica di San Petronio, il mese scorso, dopo i violenti sgomberi del 9 e 12 novembre, dei settanta appartamenti occupati, di proprietà IACP, tra i numeri civici 9 e 19 di via Rimesse. Più di duecento persone, circa quaranta nuclei familiari e qualche decina di single. Più che altro magrebini, ma non solo, anche egiziani, un palestinese, tutti con permesso di soggiorno, la maggior parte degli uomini con un’occupazione, con storie e aspirazioni molto diverse, ma tenuti insieme come in un incubo, dal bisogno di un tetto.
Questi lavoratori internazionali senza fissa dimora, dopo mesi di tentativi frustrati, avevano coagulato quel bisogno nell’atto di forza delle occupazioni, con il sostegno di un comitato antirazzista cittadino non molto numeroso, ricevendo una risposta durissima.
Il 9 novembre, all’alba, il primo tentativo di sgombero, violentissimo ma infruttuoso. Una quarantina di poliziotti tenta l’irruzione nello stabile, incontrando una resistenza improvvisata. Grida, spinte, colluttazioni e malori. Alcuni uomini tra i più esasperati espongono i figli dalle finestre, tenendoli sul vuoto. La tensione è altissima, la polizia insufficiente a fronteggiare la situazione. L’azione viene sospesa.
I quotidiani locali del giorno successivo pubblicano a tutta pagina le foto degli «abusivi che usano i propri figli come scudi, ostaggi». Lo IACP annuncia a gran voce le denunce per tentato omicidio, seguite da quelle dell’assessore alle politiche sociali Golfarelli alla Procura della Repubblica e al Tribunale dei Minori. Cominciano le procedure per la sottrazione dei figli alle famiglie e l’assegnazione ai servizi sociali. Abusi e maltrattamenti.
Il 12 novembre invece l’attacco avviene in grande stile. Alle 6.30 del mattino sono duecento gli uomini in divisa destinati all’operazione. Cento fanno irruzione negli appartamenti. Altrettanti a bloccare la strada, completamente transennata. Molti degli occupanti sono già al lavoro. Gli agenti sfondano porte, sbarrano finestre, un egiziano viene colpito più volte e arrestato per resistenza. Comincia la demolizione sistematica di bagni, sanitari, scale.
Alle 11.00 l’edificio è ormai del tutto sgomberato. La strada sottostante è un ammasso di macerie personali. Materassi, bombole del gas, coperte e pannolini. Il cordone di polizia è impenetrabile e non consente ad alcun italiano di raggiungere la zona. Comincia un lungo e teso faccia a faccia, tra un gruppo di donne arabe, molte con i bimbi in braccio, e gli agenti, che finisce in rissa, con due bambini e varie donne contuse, ed il primo di una lunga e impressionante serie di aborti spontanei.
Poco dopo mezzogiorno, porte e finestre dell’edificio sono già murate. Nel frattempo, dietro le forze dell’ordine si è assiepato un centinaio di persone, che di lì a poco accompagneranno i centocinquanta immigrati, con materassi e coperte, in corteo verso il palazzo comunale.
Alle tre del pomeriggio, dopo due ore di desolata attesa l’amministrazione rifiuta sprezzante qualsiasi ipotesi di soluzione anche temporanea del problema. La risposta è disperata e clamorosa. I centocinquanta immigrati, bambini inclusi, entrano nella basilica di San Petronio, ancora aperta, implorando quel diritto d’asilo che una volta era caratteristica dei luoghi consacrati.
Il colpo giunge secco e inatteso. La polizia perde subito le staffe. Un primo violento scontro con un gruppo di italiani, proprio sulla scalinata della basilica, per impedire presunte, ulteriori invasioni. Anche tra gli amministratori la calma non è di casa. Pochi minuti dopo infatti, l’agitato sopralluogo dell’assessore sfocia di nuovo in calci, urla, cariche e manganelli. Si grida all’oltraggio religioso, al sacrilegio e al complotto politico. La Curia sprizza veleno, ci pensa la Caritas, nel tardo pomeriggio, a provare una mediazione difficile. Gli immigrati, solo loro, trascorreranno la notte dentro San Petronio, senza timore di sgombero; dopo si auspica una soluzione ragionevole.
Passa la notte, lo schiaffo è fragoroso, i media fiutano una preda succosa, la città è muta.
Il 13 novembre Il Resto del Carlino impazza con la tesi del complotto politico ordito dalla Jihad e dagli Autonomi. La giunta non lesina disprezzo per gli occupanti «manovrati» da chissà chi. E i cittadini, tranne qualche centinaio in tutto tra solidali e indignati da tanto accanimento, forniscono il loro silenzio-assenso alla versione corrente: “uno sfregio alla città, premeditato e calcolato”. Si parla molto di “ferita difficile da rimarginare”.
Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno, a seguito di estenuanti tira e molla, giunge una concessione dal Comune: l’utilizzo temporaneo, qualche settimana, della scuola in disuso di via del Pallone, alle spalle della Montagnola. Sopraffatti dalla stanchezza, gli occupanti accettano. Data la situazione sembra quasi una vittoria. I lavoratori internazionali senza diritto a un’abitazione vengono caricati su autobus atc e portati a destinazione in tutta fretta.
Cala il sipario, ma non le polemiche, con la coda preannunciata di denunce di ogni genere. Istigazione e associazione a delinquere, occupazione abusiva di luogo di culto, resistenza, oltraggio, ecc., per i cittadini stranieri e italiani coinvolti.
Il sindaco Vitali prosegue in un arcigno silenzio.
La Giunta insiste sulla necessità di colpire i cospiratori, la magistratura apre più filoni di indagine.
Dal resto della città solo poche voci fuori dal coro. Su tutte quella dello scrittore Stefano Benni: «Questa non è più la mia città. Bologna è diventata razzista, perbenista e provinciale. Per colpa della sinistra che la governa». Poi solo brusio.
Ma le peripezie di questo improbabile invasore nemico sono tutt’altro che finite.
Giorni di incertezza e attesa che consumano novembre, nuclei familiari che si deteriorano, prospettive zero. Il campanello di fine ricreazione suona pochi giorni fa: il Comune reclama lo stabile, va adibito a ostello per i pellegrini del Giubileo 2000. Nel fine settimana, provocazioni e visite delle forze dell’ordine. Questa mattina lo sgombero. Come gli altri, duro, impietoso. All’invasore sconfitto non viene offerta via di fuga. Alla marmaglia esausta e rabbiosa non rimane che accasciarsi sull’asfalto di via Irnerio.
Ed eccoci qua.
Eccole qua. Persone, storie, aspirazioni diverse, ma tutte sul lastrico.
Accomunate solo dalla necessità miserabile che è poi l’unica cosa che tiene i miserabili assieme, stretti in una morsa, avvinghiati contro ogni volontà, sospinti come mandrie nella transumanza.
Non sono belli per un cazzo adesso, nemmeno i bambini, stralunati dal freddo, sporchi, già intaccati nell’anima. Non sono belle le donne, che cedono all’angoscia, svenimenti a raffica dal pomeriggio in poi, tre ricoveri e due sospetti d’aborto. Sono brutti e puzzano gli uomini, molti già fuori di testa, umiliati davanti alle famiglie, litigano fra loro, non tarderanno a mostrare il peggio di sé.
Eccoli qua. C’è Said Moukharbel, che è mio assistito, uno di quelli a cui vogliono levare l’affidamento del figlio, Nidal. Con lui c’è Kadisha, che non regge al freddo e alla tensione e sviene di continuo. Said è tunisino, una trentina d’anni, da più di dieci in Europa, parla quattro lingue: arabo, francese, tedesco e italiano. Mi sembrava in gamba, abbiamo parlato tre volte dopo i giorni di San Petronio, ma adesso sconnette, dice cazzate, fa cazzate, mette una pressione insopportabile sulla donna e il bambino. Ha la barba incolta di giorni, il lavoro in cooperativa l’ha perso già da un paio di settimane. Adesso non riesce a fare altro che agitarsi e bestemmiare sul ricongiungimento che l’ha fottuto, sì, l’ha fottuto, perché da solo, se ti fai i cazzi tuoi, ce la puoi pure fare a vivere in un cesso di centro di prima accoglienza, ma con moglie e figlio no, non bastano, non possono bastare quei soldi di merda che prende. «Come cazzo faccio a pagare la casa, i vestiti del bimbo, l’asilo? Vaffanculo ho studiato medicina io e lei biologia, vaffanculo!»
Poi c’è Habib, tunisino pure lui, con la ragazza, giovane, pallida e incinta. Da mesi vivono in macchina. Lui ha la faccia da finto furbo con anche un bel paio di cicatrici sopra, litiga spesso con gli altri. Lei non parla mai, lo trattiene solo quando alza la voce, ma è disperata.
Mustafà di figli ne ha tre, con moglie, e Abdel Khader, suo fratello, due. Marocchini. Loro un alloggio ce l’avevano. A Loiano, più di un’ora e mezza di macchina dal posto di lavoro, all’aeroporto Marconi. Dividevano sessanta metri quadri di umido e muffa, un solo servizio igienico, in nove, costo di mercato lire ottocentomila. Volevano avvicinarsi a tutti i costi alla città e al lavoro. Hanno mollato Loiano e provato con via Rimesse. Mosse sbagliate.
Aziz è giovane e single, e l’Italia l’ha girata tutta: Catanzaro, Napoli, Formia, Roma, Torino e Bologna. Con i centri di prima accoglienza ha chiuso per sempre, dice. Fa il facchino da uno spedizioniere, ha lo sguardo sveglio, una cicatrice impressionante sulla tempia sinistra. Vuole una fidanzata italiana. «Per me non c’è problema, quando è momento io vado. » Mi sorride e mi passa una canna.
Tutti qua, intirizziti da un gelo biblico mentre si tratta la resa.
I poliziotti premono, nervosi e congelati anche loro, per liberare il blocco, gli stranieri allo stremo, gli italiani presenti desolati e desolanti. Dal bivacco dei punkabbestia e degli incazzati parte una bottiglia, che sfiora teste civili e militari, nazionali ed estere, per infrangersi poco dietro una delle file di agenti. Ne nasce un parapiglia, una mezza carica, l’ennesimo casino, l’ultimo segnale di una disfatta. Bisogna inventarsi qualcosa, subito.
Monteventi parla fitto con i ragazzi del Teatro Polivalente Occupato, a due passi da qui, dove avevano uno spettacolo teatrale, e sono usciti per solidarietà ai senza casa. Hanno portato coperte e qualcosa di caldo. Non basta, serve altro.
L’onnipresente assessore alle politiche sociali dichiara: «Per noi questi abusivi non hanno diritto a nulla.»
Dopo mezz’ora di discussioni serrate, ripensamenti e dubbi e mal di stomaco, la decisione: le porte del tpo sono le uniche ad aprirsi per dare un riparo a chi aveva sfidato il santo cittadino.
Per quanto tempo? In quali condizioni? E dopo?
Domande troppo impegnative per questo freddo.
Le telecamere di Santoro si fiondano nel centro sociale per riprendere l’ingresso degli straccioni.
Osservo attonito l’allestimento di decine di posti letto improvvisati, tra platea e palcoscenico. Materassi, coperte, donne in lacrime, un brusio silenzioso, dimesso, pesante.
Anche questo è teatro. Lo spettacolo schifoso della povertà e dell’arroganza.
Passata la mezzanotte da un pezzo, giunge tempestiva l’unica dichiarazione del sindaco Walter Vitali sull’intera vicenda: «Il TPO non è una struttura di proprietà del Comune. Per noi il caso è chiuso.»
Anche Bologna, stanotte, mi sembra un caso archiviato.