di Tommaso Baldo *
«Quando siamo venute qui, un mese dopo la liberazione, era tutto distrutto», mi dice Patrizia Fiocchetti mentre il furgoncino su cui viaggiamo entra a Kobane. «C’erano macchine scagliate dalle esplosioni al terzo o quarto piano dei palazzi. Ma la gente aveva già iniziato a tornare e ricostruire. Ricordo un uomo, il proprietario di una ferramenta completamente distrutta che assieme ai suoi due figli piccoli frugava tra le macerie del suo negozio per raccogliere le viti, i chiudi e i bulloni sparsi in giro.»
Gli abitanti di questa cittadina di 40mila persone erano tornati appena finita la battaglia, varcando in massa il vicino confine turco e mettendosi all’opera per ricostruire la propria città. Potevano contare solo sull’aiuto fornito loro dalle amministrazioni rette dall’HDP (il Partito democratico dei popoli) nel Kurdistan settentrionale, cioè nella vicina Turchia. Da quando Erdogan le ha fatte commissariare e i loro co-sindaci sono stati arrestati anche quel sostegno è venuto meno.
Patrizia e Carla Centioni avevano varcato clandestinamente il confine turco per venire qui nel febbraio 2015. In quel momento il 48 per cento degli edifici di Kobane era completamente distrutto. Secondo i dati elencati nel «Report sulla situazione attuale a Kobane», diffuso nel marzo 2017 dall’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia, dopo la cacciata dell’Isis dalla città di 4.284 case non restavano che cumuli di macerie, altre 5.864 erano state danneggiate in modo più o meno grave e solo 630 non avevano subito alcun danno. Tra le officine e i negozi quelli completamente distrutti erano 1.604, 2.182 quelli danneggiati e 1.882 quelli intatti.
Ora invece quella che intravediamo grazie alla luce dei lampioni che illuminano le vie avvolte nella notte è una città pressoché ricostruita, persino graziosa e più pulita di altri abitati che abbiamo trovato sulla lunga strada, quasi cinquecento chilometri, che ci ha portato dalla frontiera irachena a qui.
Io faccio parte di una delegazione dell’associazione Docenti Senza Frontiere incaricata di documentare la costruzione di un convitto con spazi didattici che ospiterà gli orfani di Kobane, «L’arcobaleno di Alan», finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento. Carla e Patrizia sono qui per inaugurare l’Accademia delle donne. Cioè un centro di formazione politica, culturale e lavorativa per le donne della città che sarà gestito dalla Kongreya Star, la confederazione delle organizzazioni femminili rivoluzionarie. Nonostante siano già le dieci di sera ci portano subito a vederla. È un grande edificio rettangolare di tre piani, costruito con la pietra bianca abbondante in questa zona. È stata finanziata con l’8 per mille della Tavola Valdese e dalla Provincia Autonoma di Bolzano. Arjin, la responsabile dell’accademia dice che la gente di qui chiama già l’Accademia «il castello delle donne».
A poche decine di metri dall’edificio il mezzo su cui viaggiamo viene fermato ad una rotonda da un gruppo di signore di mezz’età. Indossano gli abiti lunghi e i veli bianchi tradizionali delle donne curde. Sulle loro spalle portano ciascuna un kalashnikov. Fanno parte della Difesa sociale, i comitati di autodifesa delle comuni, le assemblee popolari di quartiere e di villaggio, mobilitati contro il rischio di attentati. Infatti è il 14 giugno, l’ultima notte di Ramadam, una notte di festa, uno dei momenti in cui i terroristi dell’Isis o di altri gruppi islamisti preferiscono colpire.
Per entrare in città abbiamo dovuto passare almeno una dozzina di posti di blocco, tra fissi e volanti. Ora per le vie vediamo donne e uomini, spesso di mezz’età, in abiti civili che vegliano con il fucile in spalla. Un controllo del territorio totale e partecipato.
Nessuno qui infatti ha dimenticato l’alba di sangue del 25 giugno 2015. L’Isis era stato cacciato sei mesi prima e Kobane stava tornando alla vita. Ma un centinaio di terroristi, con tre autobombe vennero lasciati entrare dal confine turco che costeggia da vicino la città. Iniziarono a sgozzare la gente sorpresa nel sonno e a sparare dagli edifici più alti, uccidendo più di 250 persone, tra cui 36 bambini, prima di essere eliminati.
L’allerta a Kobane non è isteria. Non sono i corpi militari, YPG e YPJ (le Unità di protezione popolare e le Unità di protezione delle donne) a fare i posti di blocco e a presidiare le aree urbane, a Kobane come in tutto il Rojava; bensì gli Asayish, cioè la polizia. La differenza potrebbe sembrare di lana caprina visto che qui i poliziotti (ma anche i vigili urbani, i membri dei comitati di autodifesa, nonché i custodi dei musei e dei siti archeologici) sono armati di mitra. In realtà si tratta di un’importante segnale di normalità, fa capire che non ci si trova più sulla linea del fronte ma in un luogo che si può iniziare a considerare in qualche modo “sicuro”. Nessuno qui credo capirebbe l’assurdo meccanismo mentale che spinge molti italiani a volere «l’esercito nelle piazze» in nome della «sicurezza».
Nei centri abitati del Rojava la presenza di YPG e YPJ in divisa è la più discreta possibile, di fatto li si vede solo nelle loro caserme. Un dato che sottolinea anche la reale indipendenza del potere civile da quello militare.
Anche le signore che ci fermano in questa notte a rischio attentati hanno i nervi a posto. Qui, a neanche un chilometro dalla frontiera di una potenza ostile, formalmente dentro i confini dello stato più pericoloso al mondo, sembrano rilassate. Portano i kalashnikov in spalla senza nessuna inutile ostentazione delle armi. Appena riconoscono Arijn sorridono. «Heval!» – che vuol dire compagna o compagno, ma anche amica o amico –, dicono salutandola.
Poche strade più avanti la gente passeggia tranquillamente e in un locale addobbato con le bandiere di vari paesi del mondo un gruppo di ragazzi guarda le partite dei mondiali che sono iniziate oggi. Per tutta la notte, nonostante la presenza di centinaia di civili armati e l’elevato grado di allerta non sento risuonare un solo sparo. Evidentemente la “formazione teorica e militare” che i civili dei comitati di autodifesa ricevono da YPJ e YPG serve davvero a renderli capaci di dare il proprio contributo al controllo del territorio.
L’autonomia democratica
Nei giorni successivi oltre ad inaugurare l’accademia delle donne e a visitare L’arcobaleno di Alan incontriamo gli amministratori e l’associazionismo locale. In realtà tra le due cose non esiste una netta differenza. Le cariche pubbliche qui sono scelte tra elezioni pluri-partitiche ma il loro ruolo è molto diverso da quello a cui siamo abituati in Europa.
Innanzitutto gli eletti per ogni carica sono sempre due, un uomo e una donna, per questo si parla di co-sindaci o i co-presidenti dei cantoni (all’incirca le province italiane). Ma soprattutto non si tratta di figure a cui il meccanismo delega assicura un potere simile a quello dei loro omologhi europei, piuttosto di persone incaricate di coordinare un complesso reticolo di associazioni, assemblee e comitati il cui scopo è quello di far partecipare alle decisioni – e alla risoluzione dei problemi concreti – il maggior numero possibile di persone.
Come ci spiega il co-sindaco di Kobane, Fares Atti, la base del sistema di Autonomia democratica sono le comuni, ovvero le assemblee di quartiere o di villaggio, ciascuna delle quali ha un apposito comitato che si occupa di un determinato aspetto della vita collettiva. Se un problema va oltre la dimensione del quartiere allora ci si rivolge all’assemblea municipale, a cui partecipano i delegati delle diverse comuni. Anch’essa ha i suoi comitati che agiscono con il coordinamento dei co-sindaci eletti.
In ogni comune esiste un comitato delle donne che si riunisce una volta a settimana, ogni mese le delegate di questi comitati si riuniscono in un’assemblea municipale per trattare i problemi comuni e condividere le esperienze. Il protagonismo femminile alimenta anche una fitta rete di associazioni e movimenti che gestiscono anche pezzi di quello che in Europa chiameremmo welfare, attraverso l’assistenza agli orfani, alle donne vittime di violenza e alle famiglie bisognose. Secondo Hamed Hamo, co-presidente del coordinamento delle municipalità del Rojava, le amministrazioni di città e villaggi destinano il 10 per cento dei loro fondi proprio alle organizzazioni femminili.
Al di sopra delle municipalità vi sono i cantoni. Quello di Kobane contava prima della guerra circa 400mila abitanti, saliti a 550 mila con l’afflusso di profughi da altre zone della Siria prima dell’attacco dell’Isis e oggi, dopo il sanguinoso assedio ed altri quattro anni di guerra, scesi a 350 mila. Secondo Enwer Muslim, co-presidente del cantone di Kobane buona parte dei rifugiati in Turchia vi sarebbero trattenuti con la forza dall’impossibilità di tornare in Rojava. Di certo oggi il cantone di Kobane accoglie i profughi fuggiti da Afrin dopo l’invasione turca e jihadista, almeno 480 famiglie secondo la co-presidentessa Berivan Hassan. Si tratta di persone bisognose di tutto, anche di superare i traumi frutto di due mesi di bombardamenti turchi attraverso appositi seminari.
L’impressione è che tutto il meccanismo dell’Autonomia democratica, con le sue assemblee e la suddivisione di compiti al maggior numero possibile di persone, sia anche uno strumento collettivo per curare le ferite psicologiche di una società straziata dalla guerra.
Basta girare per le strade di Kobane per rendersi conto di come sia sostanzialmente una città di persone di mezz’età e di bambini, il cui numero lascia sorpreso un osservatore europeo. I giovani dai sedici ai trent’anni anni si incontrano raramente, solitamente sono in divisa nelle caserme di YPG e YPJ oppure riposano nelle circa 1.300 tombe del cimitero militare di Kobane. In ogni famiglia c’è almeno un caduto, e spesso più di uno. La co-presidentessa Hassan ha perduto per mano dell’Isis ben undici familiari, non le è rimasta che una sorella arruolata nelle YPJ.
È lei a dirci: – Abbiamo intrapreso una ricostruzione materiale ma anche una ricostruzione culturale ed etica della società. – Tutti gli amministratori con cui abbiamo parlato ritengono fondamentale creare un nuovo modello di essere umano, una nuova mentalità. La cosa è nella pratica molto meno ideologica di quanto si potrebbe pensare. Non si tratta di imparare a memoria gli scritti di Abdullah Ocalan o di disquisire su principi astratti ma di formarsi come amministratori o responsabili di un settore, di affrontare problemi immediati, di scambiarsi critiche e esperienze. Il sistema dell’Autonomia democratica attraverso il tentativo di coinvolgere più persone possibili nella gestione della cosa pubblica è forse il più grande esperimento di educazione permanente esistente al mondo.
Ma funziona? Riesce a migliorare le condizioni di vita delle persone?
A Kobane sono oggi in funzione 3 ospedali, 21 scuole (dalle elementari alle superiori) con oltre 11 mila studenti, un’università con 40 studenti, un cementificio, una fabbrica di mattoni e il mulino municipale con un nuovo panificio. Dalla liberazione della diga di Tishreen a fine 2015 tutta la città è rifornita di elettricità la cui distribuzione è sospesa solo nelle prime ore della mattina.
I servizi pubblici sono gratuiti e l’istruzione è obbligatoria sino ai 14 anni. Le responsabili delle assemblee delle scuole di Kobane, Dozghin Ali e Amira Mehedin affermano che è rispettato nel 95 per cento dei casi. A tutti i popoli della Federazione è garantito il diritto di imparare la propria lingua e letteratura. Anche i cinquanta studenti arabi di Kobane hanno le proprie classi con programmi nella propria lingua. Le assemblee dei docenti ed i comitati che sovrintendono il sistema di istruzione sono unitarie, ovvero comprendono docenti di tutti i gruppi linguistici.
Un intero nuovo quartiere è in costruzione e sarà destinato alle famiglie che vivevano nei pochi isolati rimasti in mano a YPG e YPJ nelle fasi culminanti della battaglia, laddove si sono infranti gli attacchi delle orde dell’Isis. Si è deciso che quella parte della città rimanga com’era alla fine dei combattimenti per diventare un museo a cielo aperto.
Per la popolazione che vi abitava è stato costruito un nuovo quartiere che dovrebbe diventare la rappresentazione architettonica dei principi ecologici e umanisti del confederalismo democratico: un’area riservata al 60 per cento a giardini e aree verdi con al proprio interno 16 palazzine di quattro piani dotate di un asilo, negozi, scuole e una stazione di polizia. Oggi buona parte delle palazzine costruite con la pietra bianca locale sono ultimate e risultano davvero graziose. Il problema è che per avere acqua potabile gli abitanti devono prenderla dai pozzi perché non è ancora stato possibile allacciare le tubature per mancanza di macchinari e materiali necessari.
In tutta l’opera di ricostruzione le difficoltà sono enormi, principalmente a causa dello sforzo bellico e dell’embargo operato dalla Turchia e dal Kurdistan iracheno.
Negli ospedali mancano macchinari e medicine. Le scuole hanno dovuto essere ricostruite e gli insegnanti sono diventati tali dopo corsi di formazione accelerata nei mesi estivi a cui seguono corsi di aggiornamento pomeridiani continui. Oggi le classi hanno in media 35 studenti (subito dopo la cacciata dell’Isis si arrivava fino a 70) e in molte scuole, soprattutto nei villaggi, i bambini e le bambine delle elementari frequentano delle pluriclassi che raggruppano alunni di più anni.
Secondo la co-sindaca Roshan Abdi i problemi più grossi che deve affrontare oggi Kobane sono la mancanza di un sistema di smaltimento dei rifiuti e di una rete fognaria. Di quest’ultima è già stato fatto il progetto ma ne sono stati realizzati solo pochi chilometri perché mancano i macchinari per compiere gli scavi e i lavori nel sottosuolo necessari.
Quello della mancanza di scarichi fognari è forse il problema più sentito. Quando incontriamo il co-sindaco Fares Atti è appena tornato dalla visita ad una famiglia che ha avuto la casa allagata da un temporale la sera prima, cosa che qui accade abbastanza di frequente visto che manca una rete fognaria che consenta tra le altre cose di scolare l’acqua piovana. Si è trovato davanti una donna che gli ha mostrato in lacrime i mobili e le loro cose rovinate dall’allagamento.
«Io mi sentirò sempre insufficiente rispetto ai bisogni del mio popolo che ha resistito e che ha ricostruito la sua città», ci dice Atti. «Io e gli altri abbiamo imparato ad amministrare solo dopo esser stati eletti e soffriamo quando non riusciamo a risolvere i problemi della nostra gente».
Intanto la Turchia non si limita a colpire il Rojava con l’invasione di Afrin, l’embargo e la costruzione del muro lungo tutti i 600 chilometri della frontiera. Devia anche i fiumi utilizzando le acque per i propri impianti idroelettrici. Attraversando le vaste distese della Federazione si incontrano spesso canali e torrenti asciutti, gli agricoltori devono pompare l’acqua dalle falde sotterranee con l’impiego di pompe a motore. Ma nonostante questo l’impressione è che l’economia della zona stia tornando alla normalità. I campi, affidati alle comuni o a piccoli proprietari, sembrano essere meglio curati rispetto a quelli del Kurdistan iracheno (che si basa sul petrolio e importa quasi tutto dalla Turchia).
Nonostante la scarsità di acqua, i danni della guerra agli impianti di irrigazione e l’impiego di macchinari agricoli vecchi e insufficienti, nel 2017 il raccolto del Rojava è risultato superiore al fabbisogno di grano dell’intera Siria. Quello di quest’anno probabilmente sarà peggiore a causa del maltempo primaverile. Ma per quanto possa essere dura la vita dei quasi cinque milioni di persone che abitano la Federazione democratica della Siria del Nord tra loro non si vede neppure uno dei piccoli mendicanti che sono una costante del Kurdistan iracheno.
Tra mille difficoltà in Rojava a tutti e tutte è garantito il proprio pezzo di pane, la propria scuola, il proprio diritto di parola nelle assemblee e il kalashnikov necessario a difenderli.
I volti della rivoluzione
La rivoluzione del Rojava non è stata solo un momento di resistenza contro il fascismo islamista dell’Isis, ma anche la rivolta contro le pesanti discriminazioni a cui il regime di Assad sottoponeva i curdi. Per questo e per l’apporto di combattenti giunti dalle diverse parti del Kurdistan si può parlare di una rivoluzione curda.
Ma è anche una rivoluzione di tutti i popoli della Siria del Nord. Quest’ultima era una sorta di colonia interna sfruttata e abbandonata a vantaggio delle zone più ricche del paese. I campi del Rojava mantenevano l’intera Siria ma a Kobane il regime siriano non si è mai preso il disturbo di fare le fognature e le acque del vicino Eufrate erano destinate ad Aleppo. Chi voleva e poteva studiare in università doveva andarsene ad Aleppo o a Raqqa mentre persino i reperti archeologici prendevano la via dei musei di Damasco.
La scelta di non rivendicare l’indipendenza dalla Siria, ma l’autonomia democratica, scegliendo una prassi politica radicalmente opposta a quella di Barzani nel Kurdistan iracheno non è stata un espediente tattico ma è sorta dalla necessità vitale di tenere insieme il tessuto sociale di un luogo in cui curdi, assiri, armeni e arabi, cristiani e mussulmani vivono fianco a fianco e magari si sposano dando vita a famiglie miste. In questo senso la rivoluzione è profondamente siriana.
Ma soprattutto è una rivoluzione femminista. Il protagonismo delle donne di tutte le età è il motore dell’autonomia democratica. Un protagonismo capace di avviare un cambiamento profondo, visibile nei piccoli gesti: se in Rojava si entra in una stanza si dà la mano a tutti i presenti, uomini e donne, di qualunque religione. Una cosa inimmaginabile nel Kurdistan iracheno dove ho visto un’ impiegata con un velo striminzito appena appoggiato sulla nuca e i sandali con tacco 12 ritrarsi scandalizzata davanti alla mano tesa di uno dei docenti con cui viaggiavo.
Il grado di effettivo pluralismo politico è più difficile da valutare. Ammesso che quello che in Europa chiamiamo «pluralismo» sia davvero qualcosa di cui andar fieri, cosa di cui personalmente dubito molto.
L’1 dicembre 2017 in tutto il Rojava i consigli legislativi che amministrano i cantoni sono stati eletti nel corso di suffragi a cui ha preso parte il 69% degli aventi diritto. È risultata di gran lunga vincitrice, quasi al 90 per cento, la Lista di Solidarietà della Nazione Democratica. Si tratta di una coalizione di 18 tra partiti e movimenti, sia curdi che arabi, guidata dal PYD, il Partito dell’Unità Democratica, la forza motrice della rivoluzione che ha come proprio orizzonte teorico il confederalismo democratico teorizzato da Ocalan.
Gli amministratori che abbiamo incontrato appartengono ai vari partiti di questa vastissima coalizione, ma tutti e tutte si chiamano tra loro «Heval», segno di appartenenza ad un impegno condiviso. Insomma siamo in presenza di qualcosa di simile al Comitato di Liberazione Nazionale che fondò la Prima Repubblica in Italia ma qui è fondamentale l’azione della base di massa del movimento che si esprime ed agisce attraverso comuni e comitati.
Gli eletti di minoranza nei consigli di cantone sono la Lista della Coalizione Nazionale Curda in Siria e varie liste indipendenti. Hanno invece invitato i propri sostenitori a boicottare le elezioni i nazionalisti curdi del KNC, il Consiglio Nazionale Curdo, affiliato al PDK, il Partito Democratico del Kurdistan di Masoud Barzani, che controlla il Kurdistan meridionale nel vicino Iraq.
Il KNC ha denunciato arresti dei propri leader e impedimenti alla propria azione politica da parte delle forze di sicurezza del Rojava. Per carità, in una rivoluzione in un paese travagliato da ormai sette anni di sanguinosa guerra civile può senza dubbio accadere che chi impugna il fucile possa commettere abusi di potere. Ma le denunce del KNC sarebbero più credibili se nei domini del loro ispiratore Barzani in Iraq non fosse sconsigliato parlare di politica nei luoghi pubblici o semplicemente pronunciare il nome «Rojava», cosa che ho visto con i miei occhi provocare un guizzo di paura e un repentino allontanamento da parte di un interlocutore curdo-iracheno. Ma soprattutto il regime di Barzani partecipa di fatto all’embargo deciso dalla Turchia contro la rivoluzione nella Siria settentrionale. Mi è un po’ difficile pensare ai sostenitori curdo-siriani di Barzani come a dei poveri democratici ingiustamente perseguitati dopo aver visto gli sbirri del loro leader rendere problematico persino l’ingresso di quaderni e matite colorate in Rojava, per non parlare delle difficoltà poste ai giornalisti.
Nella Federazione la libertà religiosa è in ogni caso garantita. Quando abbiamo chiesto di incontrare la comunità cristiana, considerata abbastanza vicina ad Assad, nessuno ci ha posto problemi. A Kobane le venti famiglie cristiane del luogo hanno la propria chiesa e la propria libreria. Preferiscano o meno Assad alla rivoluzione ci han tenuto a farci sapere che quello che temono di più è un’invasione turca come ad Afrin, da cui alcuni di loro hanno dovuto fuggire. Anche per questo hanno figli e figlie che si sono arruolati nelle YPG o nelle YPJ.
Per quanto riguarda l’informazione non si può parlare di controllo politico o di isolamento dal resto del mondo, per il semplice fatto che gli abitanti del Rojava non sono certo costretti a guardare le tv locali: riescono benissimo a vedere i canali televisivi degli stati circostanti, compresi quelli turchi e curdo-iracheni, oltre a quelli dei grandi network arabi.
Ma il dato più importante a mio parere rimane l’alto numero di persone che viene coinvolto e lavora gratuitamente nei processi decisionali e amministrativi, nel quotidiano funzionamento dell’autonomia democratica. Tra queste persone moltissime sono donne per le quali la rivoluzione ha senza dubbio rappresentato un’occasione straordinaria di protagonismo.
Occorre specificare che qui la parità di genere non significa affatto una «rivoluzione sessuale» nel senso occidentale. Ma questo è un problema che si porranno le generazioni future, sempre ammesso che anche in quest’ambito non sia l’occidente a dover imparare qualcosa da questa pudica rivoluzione mediorientale.
Di certo qui si impara una cosa: non si fa una rivoluzione «per stare un po’ meglio» e neppure per cambiare un padrone con uno che si reputa un po’ migliore. La si fa perché una parte consistente di una società decide di prendere il proprio destino nelle proprie mani, di operare un’assunzione collettiva di responsabilità e quindi di partecipazione al potere.
In tutte le rivoluzioni c’è quel momento magico e terribile in cui tutto sembra possibile, in cui gli uomini e le donne sono molto più di sé stessi, in cui l’utopia, il sacrificio e la concretezza vanno di pari passo nell’alimentare il protagonismo collettivo. Finora tutte le rivoluzioni quel momento hanno deciso di sacrificarlo in nome di un qualche «fine ultimo»: la nazione, la democrazia liberale, il socialismo, il benessere o altro. La rivoluzione del Rojava è la prima a muoversi in un orizzonte teorico che fa proprio del protagonismo collettivo il fine ultimo. Per questo non ha bisogno di vittimismo, retorica o fughe in avanti verso un qualche tipo di miraggio escatologico. Non c’è l’illusione di poter raggiungere un luogo o un tempo in cui tutto andrà nel modo migliore per magia, ma una speranza concreta da costruire insieme e con fatica giorno per giorno.
Per questo alla rivoluzione sono vitali i ragazzi e le ragazze in mimetica quanto i tranquilli amministratori di mezz’età, e anche se non si può ancora lasciare il kalashnikov ci si preoccupa delle fognature.
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* Tommaso Baldo lavora nell’ambito della didattica della storia in un museo trentino, fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e collabora con Global Project. Su Giap ha pubblicato l’analisi della voce di Wikipedia dedicata alla storia del Trentino. Nel giugno 2018 è stato a Kobane per seguire le fasi finali della costruzione dell’orfanotrofio «L’Arcobaleno di Alan», curato da Docenti Senza Frontiere, con il finanziamento della Provincia Autonoma di Trento.
http://www.lorussoeditore.it/ritorno-a-kobane/
http://www.lorussoeditore.it/ritorno-a-kobane-2/
http://www.lorussoeditore.it/ritorno-a-kobane-3/
Qui il reportage in tre parti dal Rojava di Patrizia Fiocchetti (autrice di “Variazioni di Luna – Donne combattenti in Iran, Kurdistan, Afghanistan) di cui si parla nell’articolo
C’è una cosa fondamentale che mi preme ricordare e che non ho scritto nel testo del post: è importante che la solidarietà verso la rivoluzione del Rojava non sia solo qualcosa di estemporaneo sull’onda delle emergenze. Molti degli amministratori di Kobane si sono lamentati del fatto che alle grandi promesse e agli applausi della “società civile” occidentale non siano seguiti fatti concreti. Occorrono invece da parte nostra forme di solidarietà concrete e continuative: ad esempio ottenere il riconoscimento delle università europee per quella di Kobane (aperta da un anno), sostenere progetti di ricostruzione che portino a risultati duraturi (la costruzione delle fognature sarebbe un grosso obiettivo a cui lavorare). Ma sopratutto serve tenere alta con costanza l’attenzione su ciò che accade qui, ottenere impegni e riconoscimenti formali da parte delle istituzioni europee è fondamentale per evitare un’altra Afrin, per dare una speranza concreta di una pace stabile entro cui l'”autonomia democratica” possa crescere e mostrare al Medio Oriente e al mondo intero le sue potenzialità.
Nel testo si parla del fascismo islamista dell’ISIS. Spesso ISIS, o Daesh, viene descritto come fascista. Altre volte, invece, leggo che descriverli come fascisti é un’estrapolazione. Si tratterebbe di applicare una categoria politica legata alle vicissitudini dell’occidente in un contesto sociale molto diverso, e sarebbe una categorizzazione che facciamo noi, in occidente; inoltre Daesh si pretende una teocrazia ed il califfato un progetto politico in costante espansione, non esattamente uno stato. D’altra parte, per quello che arriva fino a noi, é ben visibile un culto ed una pulsione di morte tipici del fascismo, una comprensione totalitaria della società, etc. Mi chiedevo quali siano le ragioni di Tommaso per aver scelto di descrivere l’ISIS come fascista, e se Wu Ming ha una posizione al riguardo =]
Approfitto e vi ringrazio per le pubblicazioni riguardanti la Siria e la rivoluzione ^^
Usando il termine “fascista” per descrivere l’Isis avevo in mente due riferimenti: il primo era il concetto di “Ur-fascismo” di Umberto Eco, il secondo la definizione del Komintern (se ricordo bene data da Togliatti e Dimitrov) del fascismo come “regime reazionario con sostegno di massa”. Credo che la caratteristica di fondo di ogni fascismo sia una perversione dell’idea rivoluzionaria di “creare l’uomo e la donna nuovi”, mentre nella visione autenticamente rivoluzionaria questo significa abbattere le gerarchie di genere,etnia, religione e classe, nella visione fascista le si ritiene “naturali” e le si vuole restaurare considerandole intaccate da una modernità corruttrice.
Ora, io credo si possa appieno usare il termine “fascismo” parlando di società medio-orientali perché sono a pieno titolo parte della civiltà capitalistica globale, a cui sono connessi non solo da legami macro-economici ma anche da aspetti della cultura materiale: ad esempio i film, internet, la musica. Faccio alcuni esempi: i grattacieli e le pubblicità occidentali ad Erbil, l’autista che mi ha riportato dalla frontiera tra Rojava e Kurdistan iracheno ed Erbil che credeva di mostrarsi gentile infliggendomi un cd di Eros Ramazzotti, 883 et similia, i film occidentali sui voli della Turkish Arlines e il fatto che sugli stessi il Ramadan sia bellamente ignorato, il consumo di pornografia on line in tutto il Medio Oriente, il Nutella store vicino a dove ho dormito una notte a Dohuk (Kurdistan Iracheno). Persino a Kobane, che è un Medio Oriente molto più lontano dalla civiltà capitalista rispetto al Kurdistan iracheno l’inizio dei Mondiali di calcio era un evento a cui assistere in pubblico attorno ad un maxischermo. Quindi il Medio Oriente è parte del nostro mondo, è una parte fragile in cui le strutture sociali ed economiche sono più fragili, in cui i processi politici sono più rapidi e violenti (per dirla con Gramsci in cui si può fare “la guerra di movimento”), ma è parte del nostro mondo. Poi senza dubbio questa cultura materiale capitalista è configgente con buona parte dell’ortoprassi islamica. Penso che un musulmano osservante possa provare per 365 giorni l’anno quello che provano i cattolici che si sentono “invasi” da Halloween, ovvero l’essere immersi in una realtà materiale e culturale vissuta come estranea, ma appunto ci sono immersi, non la vedono da fuori, i processi materiali del capitalismo contemporaneo investono la loro quotidianità quanto la nostra e quindi possiamo utilizzare lo stesso linguaggio politico che applichiamo alla nostra realtà.
Naturalmente cogliendo le particolarità: ad esempio credo che buona parte della capacità attrattiva dell’islamismo sia dovuta alla schizofrenia in cui vivono molti musulmani, della serie “mia moglie gira con il velo ma sul volo della Turkish mi guardo una bella commedia turca che per protagonisti dei giovani di Instambul vestiti all’occidentale che bevono alcolici e hanno rapporti fuori dal matrimonio senza problemi”. Penso sia un cortocircuito tra “modernità” e “tradizione” che possa contribuire a creare un’aura di “purezza” attorno agli islamisti che promettono di usare gli strumenti della “modernità” al servizio della “tradizione” (credo spossa essere interessante indagare se vi è stata e in che dimensione questa stessa dinamica nei fascismi europei, ad esempio credo che molti cattolici abbiano visto nel fascismo in modo di riconnettere la loro fede con la modernità e le sue strutture come ad esempio lo stato nazione). I quali non sono dei mussulmani conservatori ma un movimento fascista, fascista perché frutto della modernità occidentale che dicono di combattere, sono infatti un movimento di massa che si rivolge ad una creazione della modernità capitalista: l’individuo. Gli islamisti, sia nella versione più “presentabile” come Erdogan, sia nella versione più esplicitamente sanguinaria come l’Isis, usano forme di propaganda e mobilitazione rivolte agli individui, non alla tribù o alla famiglia o alla confraternita religiosa (fattori che hanno un peso ma non a livello di macro-fenomeni), ergo si rivolgono a società in cui è già avvenuta quella rottura dei legami sociali “feudali” di cui parla Marx ne “La questione ebraica”, in cui la questione religiosa si interseca nella schizofrenia tra “uomo” e “cittadino” che ritengo sia una delle basi di ogni fascismo. Quella operata dagli islamisti credo sia una tecnicizzazione del passato simile a quella operata da Mussolini con il mito della romanità, ma loro hanno con i mussulmani del VII secolo lo stesso rapporto che i fascisti nostrani potevano avere con i legionari romani, cioé nulla.
Occorre poi contare la base sociale dell’Isis: che io sappia i suoi quadri appartengono o appartenevano in buona parte agli apparati di potere del regime di Saddam Hussein, cioé erano stati iniziati alla politica all’interno di strutture dichiaratamente ispirate a modelli occidentali, per non parlare dei foreign fighters che addirittura erano espressamente il prodotto di società europee (il 23% dei francesi affiliati a Daesh veniva da famiglie non-mussulmane).
Altro aspetto quello della costante espansione del sedicente califfato. Questa contraddizione con il concetto di stato-nazione classico c’è anche nei fascismi europei, ad esempio nell’idea dell’Italia “Imperiale” e ancor più esplicita nello stadio finale del nazismo quando nelle SS si trovavano “ariani” di tutta europa (compresi mussulmani bosniaci). Ora il sedicente califfato ha sostituito la religione alla razza ma questo non toglie che agisse secondo modalità tipiche degli stati-nazione. Senza dubbio si è sovrapposto e a inglobato poteri “tradizionali” di villaggio e di tribù in determinate aree, ma non sono mai stati questi la sua forza (come non lo erano per il fascismo italiano i vecchi notabili ex-liberali nel meridione), piuttosto alla basa vi era un’idea di uniformità tipica degli stati-nazione europei: “uno stato in cui tutti parlano la stessa lingua, hanno la stessa religione e le stesse tradizioni, cioé fanno festa nello stesso momento e mangiano le stesse cose”, e questa non è una frase dalla propaganda dell’Isis ma la citazione quasi esatta di un libro di testo in uso oggi nelle scuole medie italiane (edito da Mondadori nel 2014) in cui si parla della nascita degli stati nazione in Francia e Inghilterra come conseguenza della guerra dei cent’anni (cosa ovviamente molto ma molto discutibile ma in voga nelle semplificazioni scolastiche). Altro aspetto da tener presente è quello dell’idea di costruire uno stato sociale per soli musulmani, il richiamo alle promesse di benessere assai presenti sulla propaganda del califfato nei suoi momenti di espansione, ed era un’idea di benessere prettamente capitalista: auto, case, cibo assicurato, ecc. La cosa a me ricorda molto lo stato sociale nazista di cui parla Gotz Aly in “Lo stato sociale di Hitler”.
Altro discorso vale per la Turchia, ovvero occorrerebbe indagare le lunghe durate nel rapporto tra apparati di stato e strutture religiose che credo risalga già agli inizi della guerra fredda e si sia ulteriormente sviluppato in funzione anti-curda. Ad esempio Sakinè Kansiz nella sua autobiografia parla di uso repressivo della religione nelle carceri turche degli anni ’80. Credo che in questo si possa vedere la radice dell’attuale fascismo turco che è pienamente nazional-islamista con l’abbraccio MHP e AKP. Questo passaggio, cioé la saldatura tra il vecchio fascismo nazionalista e l’islamismo è alle basi dell’uso del termine “fascista” con cui i rivoluzionari del Kurdistan chiamano gli islamisti.
Infine una considerazione sul Confederalismo democratico: penso che centrale nel pensiero di Ocalan sia l’idea che nessuno stato-nazione possa opporsi alla modernità capitalista. Gli stati nazione sono il prodotto e lo strumento della stessa pertanto l’idea del potersi porre “fuori e contro” il capitalismo da parte di uno stato è un’illusione e per questo occorre costruire forme non-statali e plurinazionali di aggregazione politica. La schizofrenia tra “modernità” e “tradizione” che dicevo prima è risolta sottoponendo a critica entrambe, ovvero storicizzando la presunta “tradizione” e ricordando come le gerarchie di genere, etnia,religione e classe siano esse stesse frutto della distruzione di un’eguaglianza originaria e al contempo indicando come la “modernità” sia solo la “modernità capitalista” a cui occorre contrapporre una “modernità democratica”.
Complimenti per il pezzo, ottimo e chiaro, una vera boccata d’aria.
Ci tenevo a commentare un paio di punti della tua risposta e aprire un piccolo dibattito un poco OT.
Mi lasciano perplessi alcuni punti del tuo commento:
1. “Gli islamisti … usano forme di propaganda e mobilitazione rivolte agli individui, non alla tribù o alla famiglia o alla confraternita religiosa (fattori che hanno un peso ma non a livello di macro-fenomeni)”
2. “i quadri (dell’Isis) appartengono o appartenevano in buona parte agli apparati di potere del regime di Saddam Hussein, cioé erano stati iniziati alla politica all’interno di strutture dichiaratamente ispirate a modelli occidentali, per non parlare dei foreign fighters che addirittura erano espressamente il prodotto di società europee (il 23% dei francesi affiliati a Daesh veniva da famiglie non-mussulmane).”
Questo è sicuramente vero in Europa e in Occidente. Tra l’altro, è da poco uscito un ottimo articolo sulla radicalizzazione su Le Monde Diplomatique che segnalo > https://t.co/BirXzyFjL0
Nel mondo arabo in generale, tuttavia, Daech ha saputo inserirsi in contesti molto diversi, in modi che secondo me sarebbe difficile ridurre a questa visione. Ha messo piede nel Sinai inserendosi nel conflitto post-colpo di stato; in Siria in alcune zone si è imposto anche grazie al supporto di alcune famiglie e clan locali, almeno agli inizi della guerra; in Libano ha avuto qualche anno di “gloria”, riuscendo a cooptare una parte (minoritaria ma agguerrita – letteralmente) della scena politica armata sunnita, nel contesto più ampio della proxy war tra Hizbollah e formazioni sunnite, che si fanno la guerra in Siria cioè a poche decine di chilometri di distanza. Ci sono stati scontri armati, fasi di guerra e bombe a Beirut e Tripoli, ma anche vicino al confine, per esempio ad Arsal, e in altre zone del paese.
Daech *esiste* nel mondo politico arabo, proviene e discende da una certa tradizione (seppur recente: forse, se proprio si vuole individuare una ragione del fondamentalismo contemporaneo che ne costituisce il sostrato, si può indicare la presa di ostaggi alla Mecca del 1979). Quindi ecco, non mi trovo del tutto d’accordo quando proponi un parallelismo con l’occidente e la nostra idea di fascismo (poi vabbé, non è che c’abbiamo il monopolio del termine, di fascismi ce ne possono essere parecchi e diversi tra loro).
Credo che se si forza troppo questo parallelismo, si perde di vista non solo la capacità tattica che ha avuto Daech nell’inserirsi in alcuni contesti armati particolari, ma soprattutto, il fatto che agli inizi abbia riscosso un certo consenso grazie alla corruzione e all’indebolirsi dei movimenti politici del mondo arabo degli anni passati. Daech ha promesso uno stato basato sull’interpretazione letterale del Corano e sul tipo di sharia che ne deriva. Questo ha illuso, credo, tantissime persone ormai prive dei riferimenti politici secolari e rivoluzionari del mondo arabo dei decenni passati (tra cui spicca la scomparsa degli anarchici, comunisti e antiautoritari di varia tendenza), e le cui élite politiche sono corrotte e incapaci di affrontare i problemi e i rapporti di forza imposti dal mondo post-coloniale. Non a caso uno dei cavalli di battaglia di Daech è stata la lotta alla corruzione. La promessa di uno stato musulmano, sunnita, tradizionalista si è accompagnata all’immagine di uno stato arabo incorrotto e incorruttibile.
C’è un’intervista molto interessante del giornalista Medyan Dairieh, che per Vice ha girato il famoso documentario “Embedded with the Islamic State” (un documentario pieno di difetti, proprio perché embedded, ma comunque prezioso). Intervistato dalla tv libanese, alla domanda se bisogna parlare di Dawla (stato) in relazione a Daech, dice sostanzialmente che si, e che una delle ragioni della sua forza è proprio la capacità di rispondere all’apatia del mondo politico arabo (l’intervista è qui, credo, se non è il link giusto cercate il suo nome su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=9xjLGLg5ZLk).
La “infelicità araba” di cui parlava profeticamente Samir Kassir nell’omonimo libro (in Italia edito da Einaudi, 2006) è una delle origini di Daech. l’ISIS È un movimento politico, che ha avuto (per ora brevemente) dei tratti di massa e transnazionali, e forse li avrà ancora. E con questa cosa bisogna fare i conti, perché se pure è vero che è di stampo fascistoide, tuttavia si inserisce in contesti diversi, legati alle “accelerazioni” di quella parte del mondo di cui parli tu. Quindi se pure sono d’accordo col fatto che la storicizzazione, la secolarizzazione e la critica all’esistente siano le armi giuste per orientarsi nel contesto e combattere la propaganda dell’ISIS, tuttavia credo che via sia bisogno di indagare i contesti particolari in cui si inserisce, che riesce a fare suoi, chiedendosi come mai movimenti di sinistra, secolari e antiautoritari non riescano invece a inserirvisi, almeno in questa fase.
Un ultimo appunto sulla Turchia: la solidità di questa saldatura tra i nazionalisti ex lupi grigi dell’MHP ed Erdogan è tutta da verificare. Come mi ha detto uno dei responsabili dell’HDP per le relazioni estere, Hisyar Oszoy, nel passato Erdogan si è alleato a quasi tutti gli attori della politica turca, scaricandoli quando non ne aveva più bisogno, e oggi è arrivato come “dernier recours” ai nazionalisti turchi. Già adesso tuttavia potrebbe farne a meno, avendo ormai istituzionalizzato il regime alle ultime elezioni. Esiterei a vederne un tratto essenziale del fascismo di Erdogan, che nel corso degli anni ha mostrato di saper cambiare cavallo, giacca e fantino quando ciò rispondeva ai suoi interessi personali o politici (veltronianamente: Erdogan è quello del processo di pace col PKK, *ma anche* quello della guerra ai curdi nel Bakur nel 2015-6).
In effetti è giusto ricordare la grande capacità di Daesh di riuscire ad inserirsi nei diversi contesti sfruttando spesso situazioni specifiche e anche conflittualità e appartenenze precapitalistiche (feudali/tribali) e sono d’accordissimo a porre l’inizio della tradizione integralista nel 1979. Nel discorso sui “quadri” dell’Isis in effetti potevo specificare meglio questa cosa ma sono sempre convinto che il “cuore” del movimento sia stato costituito da persone che guardavano alla politica con un ottica frutto delle esperienze storiche prodotte dal capitalismo e dalla conoscenza del modello ideologico dello stato-nazione, che fossero abili ad inserirsi in contesti pre-capitalistici è indubbio ma la considererei un’abilità da “colonizzatori” capaci di costruire forme di dominio basate sul metodo dell'”indirect rule”.
Nel primo punto però parlavo di islamismo in generale, non solo di Isis. Per me l’AKP è islamista esattamente come Daesh, cioè sono fascisti. La differenza tra Erdogan e Al-Baghdadi per me è solo questione di sfumature, il paragone che viene in mente è il confronto tra Francisco Franco, José Antonio e Gil Robles durante la guerra civile spagnola, i tre non erano ideologicamente sovrapponibili ma erano tutti e tre indubbiamente fascisti. Credo che se non capiamo questo non cogliamo come si siano ridotti gli spazi di manovra per la sinistra in Medio Oriente, ovvero Daesh è solo l’estremizzazione di un movimento islamista con una storia ormai secolare e seguito di massa. Possono cambiare slogan e strategie, ma i messaggi di fondo quelli sono.
Credo che il fatto che uno stato capitalisticamente avanzato come la Turchia sia diventato un bastione dell’islamismo, il fatto che Erdogan sia stato sindaco di Istambul (ok prende i voti della Turchia rurale ma si è formato in una delle città più grandi ed avanzate d’Europa) è la riprova di come la militanza islamista si radichi laddove il capitalismo ha dissolto o ha iniziato ad intaccare i precedenti rapporti sociali e quindi lo si possa inquadrare come fascismo.
Un’altra cosa interessante è notare come si sta diffondendo tra gli arabi il culto di Erdogan. Siccome “le canta” a USA e Israele per molti arabi è diventato il corrispettivo di ciò che è Putin per i fascisti europei. Ora come non bisogna avere tenerezze per i rossobruni adoratori di Putin non credo meritino un trattamento di favore quei mussulmani che fiancheggiano Erdogan o i suoi mercenari siriani e meno ancora quelle moschee o istituti culturali che in Europa diffondono la propaganda del regime di Ankara. Questa cosa credo sia importante da dire perché in passato alcuni di questi soggetti sono stati considerati interlocutori per “la sinistra” (radicale o riformista). Non si tratta di chiedere ai mussulmani “di dissociarsi dal terrorismo” (pratica che reputo profondamente razzista e colonialista) ma di capire che chi si esalta per Erdogan non è diverso dagli elettori di Salvini, il fatto che sia un migrante o parte di una minoranza discriminata in Europa non lo giustifica. Poi ovvio se faccio un picchetto contro il licenziamento o lo sfratto di un lavoratore di origini europee non gli chiedo per chi ha votato e allo stesso modo non faccio il terzo grado ad un mussulmano prima di appoggiarlo in una lotta “concreta”.
Mi scuso per il colpevole ritardo della risposta.
Premetto che sono d’accordissimo con quanto dici sul “fandom” erdoganiano sempre più in voga tra arabi di varia origine ed estrazione nel mondo arabo e in Europa. In particolare in Francia, dove c’è da anni un acceso dibattito sull’islamofobia, si assiste a un pericolosissimo accostamento tra accuse di islamofobia e critica al regime di Erdogan: se sei contro quest’ultimo, ti tacciano d’islamofobia. È un meccanismo assolutamente nocivo e da combattere, e sebbene ancora minoritario, in rapida ascesa.
Concordo con te nel tratteggiare un parallelo tra l’ultimo Erdogan e Al-Baghdadi in termini di filosofia politica (d’altronde la Turchia ha favorito logisticamente l’ascesa dell’ISIS). Sono entrambi figli di una serie di “islamismi” che, seppur differenti, non lesinano punti di contatto. Non credo sia valido invece il paragone – seppur evocativo – che proponi coi “caudillos,” giacché le fonti ideologiche dell’AKP di questi ultimi anni e quelle dell’ISIS mi appaiono molto differenti tra loro. Reazionarie, ma reazionarie in contesti molto diversi e in modi differenti. In particolare, mi sembra che si dirigano verso millenarismi completamente divergenti tra loro.
In generale, comunque, esito parecchio a definire ogni forma di islamismo come fascista, sarà che sono pignolo, tuttavia mi paiono due termini entrambi vacui se non aggettivati in qualche modo. L’islamismo dei Fratelli Musulmani è fascista? L’islamismo in salsa ketchup della Nation of Islam è fascista? Lo stesso Saddam si fece alfiere di un islamismo/culto della personalità, negli anni prima della caduta: è pure quello fascista? (onde evitare ambiguità troppo comuni di questi tempi: no, non credo che Saddam sia una brava persona o un nemico dell’imperialismo, tutt’altro) (esiste anche un gruppo di Istanbul legato all’anarchismo in salsa islam, adesso purtroppo non ricordo il nome… è citato nel libro di Deniz Yucel, Ogni Luogo è Taksim)
Ovviamente non sono un partigiano dell’islamismo, tutt’altro, e lo considero un avversario nelle varie forme (e sostanze…) con le quali si presenta di volta in volta nello scenario politico. Tuttavia, credo sia necessario fare la parte delle cose anche all’interno di quella roba li.
In ultima analisi: i compagni curdi non esitano a definire l’ISIS come fascista, e credo che dal loro punto di vista abbiano ragione. Dal nostro, tuttavia, forse occorre un pò di cautela perché la categoria si presta ad ambiguità legate alla storia dei posti da cui veniamo. Non penso che basti riconoscere il fatto che un movimento politico nasca nelle fratture e rovine imposte dal capitalismo per renderlo fascista, sebbene sia spesso un requisito.
Capisco sia l’inclinazione a usare il fascismo come categoria comparativa, e sussumere al suo interno Daesh, sia quella che sottolinea le differenze, ma preferisco la seconda. L’uso in senso comparativo del termine “fascismo” rischia di svuotarne sia la forza analitica sia l’uso politico. Non a caso, considerando “fascisti” tutta una serie di fenomeno e comportamenti, anziché il fascismo come tale, si finisce per usarlo nel modo di Habermas contro gli studenti, “fascisti di sinistra”. In questo contesto chi ci guadagna sono sempre i fascisti, perché possono mimetizzarsi in questa melassa e non apparire peggiori degli altri. Non a caso spesso all’università sono gli antifascisti che li cacciano ad essere chiamati “fascisti” dagli studenti, che hanno interiorizzato questo uso liberale della nozione di fascismo in voga dagli anni Novanta con la miriade di corsi universitari sul “totalitarismo” (altra categoria ben poco antifascista, visto che fa del nazismo e del socialismo reale lo stesso fenomeno, nella sostanza) (non sono un fan del socialismo reale, ma neanche mi va di insultare la memoria di così tante persone che fasciste non erano).
Nel caso di Daesh, oltre alla necessità generale di restituire al fascismo la sua specificità (che ci aiuta a interrogarci anche sulla sua italianità, almeno originaria), si aggiunge anche il problema della proiezione orientalistica, ossia la prassi di sovrapporre categorie europee a fenomeni non europei. Esempi: il fascismo era una forma di revanscismo, ma non si può dire che maturasse in un contesto postcoloniale, al contrario. Il fascismo era pagano e usava il riferimento cristiano in modo puramente nichilistico, Daesh al contrario esprime un riferimento effettivo all’islam e a un ritorno all’islam originario, almeno secondo la concezione moderna di questo ritorno. E’ vero che dentro Daesh ci sono anche degli atei che cercano solo il potere, ma non possiedono quella teorizzazione esplicita della volontà di potenza e tutto quell’armamentario esplicitamente extra-religioso proprio del fascismo. Il fascismo è fortemente legato all’idea di nazione e nazionalismo, mentre il salafismo, non solo di Daesh, aborre l’idea nazionale perché europea, ma ancor più perché idolatra, proprio come idolatra era l’identità tribale (peraltro fenomeno di resistenza reazionaria all’islam ancora oggi, nelle società musulmane) degli arabi dei tempi del “rivoluzionario” Mohamed: il riferimento islamico, anche di Daesh, è sempre alla ummah, la comunità dei credenti, a prescindere dalla lingua e dall’origine geografica (questo Daesh lo ha messo in pratica in modo abbastanza spettacolare, purtroppo, almeno in rapporto ai miliziani internazionali, cosa che ha contributo alla sua fine, giacché molti siriani tengono all’identità tribale o nazionale e non amano il potere “dello straniero” o “dell’estraneo”, con buona pace dell’autentico spirito islamico, cosa che fa impazzire i salafiti).
E’ verissimo che ci sono enormi similitudini, d’altro canto, tra nazifascismo e salafismo armato, e questo perché purtroppo tutto il mondo è paese; è vero però che elementi di analogia si possono trovare anche con il liberalismo armato e altri fenomeni. Insomma se vogliamo usare una categoria che descriva un certo uso del potere, che si riscontra tanto in certi fenomeni quanto in altri, non è giusto secondo me usare la categoria di fascismo, perché il fascismo dovrebbe restare proprio uno dei fenomeni da comparare con gli altri, ciò che ci porterebbe vantaggi sia teorici che politici.
[…] * Tommaso Baldo lavora nell’ambito della didattica della storia in un museo trentino, fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e collabora con Global Project. Su Giap ha pubblicato l’analisi della voce di Wikipedia dedicata alla storia del Trentino. Ha preso parte ad una tavola rotonda inerente le voci storiche di Wikipedia sul numero 29 della rivista storica on line Diacronie. Nel giugno 2018 è stato a Kobane per seguire le fasi finali della costruzione dell’orfanotrofio «L’Arcobaleno di Alan», curato da Docenti Senza Frontiere, con il finanziamento della Provincia Autonoma di Trento e ha raccontato quel viaggio su Giap nel post «Kobane, la rivoluzione oltre il mito». […]