di Davide Grasso *
A fine novembre 2017 atterravo per la seconda volta in un aeroporto europeo dopo essere stato in Siria. Questa volta avevo lasciato due amici alle spalle: Eddi e Jacopo erano restati a difendere e portare avanti la rivoluzione del nord. Sarei giunto a Torino di notte e, la sera dopo, avrei raggiunto piazza Santa Giulia, dove avrei osservato – ancora una volta – la movida di una grande città con negli occhi una zona di guerra. Non che la Siria del nord – o Rojava – sia semplicemente una zona di guerra. È il luogo dove oggi, nel primo quarto inoltrato del ventunesimo secolo, si sviluppa il più grande movimento rivoluzionario della terra, in un mondo senza rivoluzioni. Ancora una volta, dopo due mesi di viaggi mesopotamici, assemblee, riunioni e seminari sostenuti a ritmo marziale – come se fossimo vivi, come se stessimo provando a cambiare il mondo – non potevo che guardare con perplessità il me stesso riflesso in tutti i cocktail e i sorrisi di quel venerdì sera. Perché non stavamo organizzando qualcosa di grande anche qui, anziché strillare senza scopo con delle birre in mano?
Allora, nove mesi fa, non avevo ancora potuto toccare una copia del libro che avevo scritto alcuni mesi prima, quello in cui raccontavo del divario tra Europa e Medio oriente, e del perché ero andato a combattere l’Isis, o Daesh. Dopo la sera in piazza Santa Giulia non ho atteso molto per rimettermi in viaggio. Questa volta era l’Italia che intendevo attraversare, con il libro che avevo scritto. Come è noto, i fucili sono ben lungi dall’essere l’unica arma da utilizzare a questo mondo; e, come avevo spiegato agli amici in Siria, Hevalen è un’azione politica: scritto diversamente da come la grande editoria l’avrebbe pubblicato, forse anche diversamente da come parte dei lettori lo avrebbero voluto, è pensato per tentare di trasmettere – di quel che trasmettere è possibile – ciò che più è doloroso là dove fa più male: cioè che non esiste un modo in cui io e voi possiamo essere onesti con noi stessi, da vivi, in un mondo così.
Da allora, fino all’ultima presentazione al festival Alta Felicità, in Val Susa, il 27 luglio appena passato [Audio in calce a questo post, N.d.R.], ho girato l’Italia portando a termine cinquantotto presentazioni in altrettante sale pubbliche, circoli, taverne, università, scuole, centri sociali, case del popolo, sedi sindacali, tanto in paesini di 600 abitanti come in metropoli di milioni di persone, dalle Dolomiti a Palermo, dall’Adriatico alle punte occidentali della Sardegna. Ho rivisto amici, incontrato facce e genti diverse, ascoltato dialetti, inclinazioni e manie, usanze di ospitalità e modi diversissimi di esprimere i propri dubbi o le proprie idee. Talvolta mi attendeva la domanda: come stai? Come stanno, laggiù? C’è speranza? A volte sembravano voler lasciar intendere che, se là c’è, ci può essere anche qui da noi. Altre volte sembrava che lo sfondo della domanda fosse maggiormente disincantato. «Visto che qui speranza non c’è… ci dici di quei luoghi lontani?»
Perché dire di ciò che è lontano? Ad alcuni il senso di questa mia attività sfugge; ma occorre andare lontano, talvolta, per trovare risposte vicine; soprattutto quando, in prossimità, sembriamo non trovare che muri dove sbattere la testa.
A Bologna, una delle prime tappe, ho rincontrato Wu Ming 1, che mi aveva seguito nella stesura del libro. Il suo intervento davanti agli studenti mi ha spiazzato. Avevo sempre creduto che se mai qualcuno avesse letto, oltre ad Hevalen, l’unico altro libro che avevo scritto (quattro anni prima, quando ero tornato da un periodo di studio negli States, e la Siria non occupava neanche lontanamente i miei pensieri), non avrebbe potuto credere che l’autore fosse lo stesso. Io per primo fatico a crederlo. New York Regina Underground era stato un resoconto autobiografico di follie metropolitane, feste e paradossi del piacere e, in qualche modo, pure del vizio. Hevalen nomina fatti a cui, in gran parte, vorrei riuscire a non pensare più, non foss’altro che perché non creano soltanto ossessioni, ma castelli di ossessioni. Eppure non soltanto sono lo stesso autore, disse Wu Ming 1, ma addirittura si dovrebbe leggere New York Regina Underground prima di leggere Hevalen.
Di primo acchito poteva quasi apparire un accostamento poco rispettoso; ed è facile, di fronte alla guerra, mancare involontariamente di rispetto. Non era così: Wu Ming 1 aveva capito quanto profondamente occorra comprendere l’incipit di Hevalen per rispondere alla questione scritta sulla copertina. Non erano forse stati i sorrisi del Bataclan e i cocktail di Rue de Charonne, una volta affogati nel sangue il 13 novembre 2015, a spingermi a prendere un’arma per la prima volta nella mia vita, a contrastare i responsabili di quella strage con gli stessi mezzi che avevano usato per compierla? E non erano, quei cocktail e quei sorrisi, gli stessi che erano stati protagonisti del mio primo vero viaggio fuori dall’Europa – verso ovest – e quindi del primo libro? Certo: un amore simile per il proprio riflesso notturno, e per la sua rifrangenza in milioni di altri in mille altre notti, può infastidire. Nondimeno, proprio perché è vero non fa di tutto per farsi piacere.
Di questo amore sapevano qualcosa anche altri combattenti internazionali, in Rojava, ognuno in modo diverso. Durante le presentazioni del libro ho incontrato altri ragazzi che avevano combattuto nelle YPG dopo di me. Li ho osservati: piccoli, mingherlini, con le facce da bambinoni a volte, le T-shirt appese a spalle minute o una cartina per rollare il tabacco in mano. Loro? Dei combattenti? Combattenti in Siria, contro l’Isis? È un’incredulità del tutto comprensibile, che molti non possono non avere anche sul mio conto. È che ce lo siamo dimenticati, con tutti questi Rambo e questi Terminator che passano sui giornali e in televisione, con questi militari professionisti che, alti e impettiti, pattugliano le stazioni e le strade della movida, che la guerra vera l’abbiamo sempre fatta noi: poveri e sfigati, con i nostri padri e i nostri figli. La fanno i ragazzi di Manbij e Deir El Zor con le gambe troppo lunghe o troppo storte, con i nasi adunchi e lo sguardo perduto chissà dove, che tengono il fucile come se non volessero essere al mondo con quel coso, tutti e due nello stesso momento! Sveglia! Ci è rimasta un po’ di memoria? Com’erano i nostri morti di Caporetto, i morti del Grappa? Com’erano i giovani della pugnalata alle spalle in Francia, della ritirata di Russia, di Balmafol? Sempre nostri sono i morti, e anche i combattenti: dobbiamo ricordare.
Accade allora, per queste persone, che le madri, gli olivi, i sorrisi o le preghiere siano importanti. Sono fiero di aver combattuto, con in mente il suono delle corde dei Dire Straits, accanto a giovani il cui viso si illuminava se, in un’abitazione appena occupata durante i combattimenti, trovavamo una copia rilegata del Corano. Perché per noi comuni mortali, credenti o meno, la convivenza nella differenza – e la collaborazione nella differenza – sono una necessità.
A Firenze è stato Wu Ming 4 a presentare Hevalen. Mi aveva già aiutato a comprendere meglio perché sono andato in Siria grazie a un notevole saggio critico scritto da lui e che lessi su sua indicazione al ritorno, L’eroe imperfetto. Ha raccontato agli studenti un’epifania che aveva avuto a Londra, a Hyde Park credo. Suo figlio giocava con altri bambini e, come spesso accade in quella città, le famiglie che stavano attorno erano: una coppia biondissima, magari gallese, una signora che indossava l’hijab con il marito, magari egiziana, e persone dai tratti indocinesi, o africani. Guardando quella scena si era accorto che quello «era tutto ciò per cui avevo e avrei voluto lottare»; ed era lo stesso, si rendeva conto ora, per cui lottano i siriani, gli arabi, i curdi, gli iraniani, i mediorientali e gli occidentali di Hevalen. In Hevalen, disse a Firenze, si parla di uno “stile di vita”: ma non è lo «stile di vita» di Emmanuel Macron o Theresa May, che come unica identità possibile vede la coazione a ripetere del ristorante e del dehor, l’imperativo nichilista del consumo, senza vibrazione e senza vita. È lo stile di milioni di nuovi proletari del melting pot del globale – che fanno vivere e vibrare milioni di notti, anche nella musica, anche nella movida.
È chiaro che non possiamo accontentarci di un simile scenario o, tanto meno, della sua contemplazione. Il mondo è ambivalente. Le uniche false flag sono quelle che credono di sventolare al vento che soffia soltanto da una direzione. Dietro gli arcobaleni da difendere ci sono le tempeste del divario abissale causato dall’ingiustizia. Ho cercato di chiarire lungo lo stivale che il mio libro è un libro sull’ingiustizia – fino alle estreme conseguenze. Ho affrontato, su sollecitazione di Christian Raimo, a Roma, la dedica in calce al testo, che per un sussulto di materialismo – gesto di ribellione che di cui il lettore trova nel seguito la spiegazione – non comprende i caduti. I caduti sono i protagonisti del libro, ma il libro non è a loro dedicato. Dobbiamo sentire la loro assenza per essere loro fedeli. Dobbiamo capire che non ci sono più. Non ci possono sentire.
Con i ragazzi del Dordoni e con il libraio cremonese Mario Feraboli ho discusso di questo divario tra «noi» che (soprav)viviamo e «loro», che muoiono. Non è facile. Senza reticenze o pose patetiche, in totale sincerità. A Cremona ci siamo riusciti. Merito di chi era lì quella sera, ma merito in primo luogo di chi non c’era. I ragazzi che lottano in Siria e che mi hanno cambiato, rendendo un minimo, un infinitesimo meno distorta e autocentrata la mia personalità; i caduti, che mi inchiodano alle mie responsabilità di fronte a chiunque. I caduti su cui ho potuto per un’ultima volta confrontarmi con l’amico Peppino, militante del Boccaccio di Monza, che poco dopo ci ha lasciati. C’è un modo decente e rispettoso in cui possiamo esprimere i nostri riferimenti alla maledetta necessità della violenza? Lui sapeva delle conseguenze di questa necessità, per via del suo amico di cui mi aveva parlato, che aveva aiutato le Ypg e poi si era tolto la vita, per ciò che era stato necessario. Necessario? Per chi? Per loro, per noi? Per me? A Palermo la filosofa Serena Marcenò mi ha ricordato che, di questa necessità, pur dopo aver letto il mio libro, si può rimanere tutt’altro che convinti.
Quando sono atterrato su piazza Santa Giulia, nove mesi fa, Raqqa era stata appena liberata e la campagna contro Daesh nel deserto orientale era iniziata. La pace sembrava vicina. Il regime siriano incalzava il nemico da sud, pur non disdegnando di bombardare anche i nostri compagni. Un difficile ma necessario compromesso tra due forze opposte – un movimento socialista e libertario da un lato, uno stato autoritario e fascista dall’altro – unite dal comune interesse di impedire la nascita di una Siria teocratica, sembrava poter essere raggiunto grazie alla mediazione naturale della Russia, alleato militare di entrambi. Due mesi dopo questo scenario veniva invece seppellito da Putin, che preferiva ingraziarsi la potenza regionale turca, un tempo nemica, consegnandole Afrin, baluardo della rivoluzione.
Girando l’Italia con Hevalen in mano ho cercato di informare sulle fasi della battaglia, ho condiviso i video inviati da Jacopo, Eddi, Gelhat, Dilsoz – tutti militanti e combattenti italiani – mentre mi muovevo dal Veneto all’Umbria, dal Lazio alla Lombardia e alle Marche, all’Emilia Romagna. Ho rilanciato le parole d’ordine di resistenza dai cortei di Torino e Milano. Mi trovavo al Festival del cinema palestinese di Cagliari quando però Afrin, improvvisamente, tra il 17 e il 18 marzo, è caduta, evacuata dalle forze rivoluzionarie. Al massacro della popolazione, che per lo più era fino a quel momento restata, si era preferita la guerriglia, la resistenza in clandestinità che dura tuttora. In quella fase terribile ricevere applausi scroscianti per il mio impegno militare passato, come è accaduto all’inizio del mio intervento al Palazzo municipale di Padova, è stata occasione per non fare spallucce, ma affrontare il problema recondito che in quegli applausi è contenuto.
L’intenzione degli applausi, delle strette di mano e degli attestati di stima nei miei confronti, e nei confronti degli altri italiani delle YPG, è limpida, chiara e buona; ma è l’effetto su chi ha imbracciato le armi in una guerra, per di più ancora in corso, che è contraddittorio. In quell’occasione ho preso due minuti per spiegare che gli applausi e i complimenti sono comprensibili e accettabili secondo il punto di vista italiano, che chi ha combattuto in Siria possiede ormai soltanto in parte. Dal punto di vista siriano, dal punto di vista rivoluzionario, aver messo a disposizione il proprio corpo per cinque mesi, come ho fatto io, è nulla. Questa è la verità. Qualcuno mi chiedeva: come puoi girare tutto il tempo, senza fermarti mai? Non sei stanco? È nulla. Laggiù le persone combattono a vita. I giovani combattono e ancora combattono, fino al nuovo villaggio e alla nuova operazione, fino alla morte; e sono giovani che sorridono come me e come voi, che piangono come voi, che hanno coraggio e paura come voi. Che diritto abbiamo di ricevere encomi popolari?
È giusto che presentare Hevalen sia servito anche a spiegare questo: perché questo sta scritto nel libro. Sta scritto che quei ragazzi ci gridano che sperare, o fingere di sperare, non serve, bisogna battersi – anche in territorio di pace perché, se non la guerra, è la lotta a essere globale. Nei giorni del saccheggio di Afrin sono atterrato a Napoli. Un gruppo di strani studenti ha fatto trovare una bandiera tricolore con tre stelle allineate sopra il portone dell’Orientale: la bandiera del cosiddetto Esercito Libero Siriano, che – paradosso – mai è stato libero e mai è stato siriano (e mai è stato un esercito). È la stessa bandiera che avevano appeso due giorni prima i balordi che hanno occupato Afrin su un identico balcone, quello del suo municipio, accanto alla bandiera turca. Quel vessillo di morte e di furto, ovunque come in quella città preludio alla conversione forzata delle minoranze, alla tortura sistematica dei dissidenti, alla pulizia etnica, alla segregazione delle donne, sventolava sulle mura di una delle più nobili università italiane. Dissi agli studenti che mi avevano invitato che avrei rimosso di persona la bandiera, se non lo avessero fatto loro. In pochi minuti sparì.
Sedutomi, iniziai a elencare i crimini e le atrocità compiuti in Siria dietro quella bandiera dai jihadisti che i nostri telegiornali, a causa dell’infame politica estera italiana, chiamano «ribelli». Una ragazza con i capelli coperti dall’hijab, in terza fila, tentò di interrompermi. Non mi interessavano le sue rimostranze. Il suo abbigliamento poteva qualificarla come ex colonizzata, o migrante. Devo ringraziare la Siria per avermi reso immune – almeno lo spero – da quello specifico razzismo, di “sinistra” stavolta, che si qualifica come insopportabile paternalismo, accondiscendenza irriflessa verso qualunque comportamento provenga, ad esempio, da persone percepite come musulmane, quasi che il rispetto per l’altro non si esprima anzitutto proprio nel dare a tutti la dignità di essere interlocutori effettivi e non soltanto formali, non sorte di minorenni menomati della capacità di confrontarsi, se necessario aspramente, alla pari e ricevere, se necessario, delle critiche. Una mentalità che mi avrebbe indotto a cedere alle pressioni di quella ragazza, soltanto per il velo che indossava. E invece continuai. Raccontai – per le vittime, per i martiri. La ragazza iniziò a piangere. Continuai. Lei come tutti dovevano ascoltare la verità dei bambini decapitati, delle donne stuprate, delle famiglie rinchiuse nelle gabbie. Quando ebbi terminato, si scusò per il suo comportamento e disse di essere da tempo cosciente di non poter più sventolare quella bandiera, di doverla tenere «chiusa nel cassetto, per colpa di chi ne ha tradito gli ideali originari». Nel comune rispetto per le origini della rivoluzione siriana ci siamo stretti la mano al termine del dibattito. Ho scoperto che era italiana, convertita all’Islam.
Viaggiare per l’Italia permette di comprendere che la reale malafede non alberga, spesso, nei primi sospettati, ma nei cittadini al di sopra di ogni sospetto. Durante la presentazione di Perugia ho conosciuto un gruppo di tifosi locali banditi da ogni manifestazione sportiva per aver aperto, durante una partita, uno striscione con scritto: «Difendi Afrin, Erdogan terrorista». Il questore aveva motivato il provvedimento affermando che lo striscione ledeva l’onore di un capo di stato straniero. Ho approfittato del mio intervento per invitare il questore di Perugia a trasferirsi con la sua famiglia nella nuova Afrin di Erdogan, per provare cosa si vive sotto un potere teocratico amministrato da canaglie, tra dissidenti appesi ai pali e decapitazioni in piazza al grido «Allah Akhbar!». A Pisa gli studenti che mi hanno accolto avevano appena realizzato un murales per Afrin, ma era stato cancellato dall’università. Se solo il rettore di Pisa dovesse un giorno abbracciare qualcuno che sanguina per aver difeso la sua città, o per la possibilità stessa che esistano le università, capirebbe quanto certi gesti siano accettabili soltanto da un punto di vista italiano, quello che noi abbiamo in parte perduto.
È stato faticoso, ma anche bello, vedere il mio paese, che amo. Sull’Appennino sono intervenuto alle Casematte dell’Aquila, dove migliaia di persone trovarono rifugio durante il terremoto; a Ferrara ho discusso con studenti adorabili – alcuni italiani, altri palestinesi (Hevalen è anche un libro sulla Palestina) – al Liceo Ariosto. Sulle pareti della scuola una lapide mi ha fatto scoprire che uno degli insegnanti di latino e greco morì per mano nazifascista. Attraversare l’Italia è attraversare memorie di resistenza: basta fermarsi un attimo e non incedere oltre; darsi il tempo. Un amico mi ha portato in furgone da Carpi a Reggio Emilia, mostrandomi lo stillicidio di cippi di condannati e il campo di concentramento di Fossoli, in quel triangolo della morte dove la necessaria lotta contro il fascismo è stata così dura. Tra le montagne alte e imponenti della Val Belluna, dove avevano agito altre unità partigiane, ho incontrato di nuovo il combattente senz’armi Fabio Vettorel, che ha resistito con lucidità e coerenza nelle carceri tedesche dopo il G20 di Amburgo.
A Bozen/Bolzano ho incontrato una scolaresca madrelingua tedesca con cui ho discusso dell’importanza della tutela della lingua, del rifiuto dell’assimilazione e del sistema delle autonomie democratiche della Siria del nord come modello che potremmo promuovere anche in Europa. Molti, lì e altrove, mi hanno chiesto: è possibile che alcune delle conquiste del Rojava trovino affermazione anche da noi? Nulla è esportabile come un pacco di patate, in politica; ma i siriani o i curdi hanno due gambe e due braccia come noi, tant’è che hanno creato una società fondata sulle comuni, il cui concetto deriva dalla storia rivoluzionaria europea, e le comuni sono durate in Rojava più che a Parigi, benché non siano certo costate meno sangue che qui da noi. Esistono fonti di ispirazione in tutte le rivoluzioni, e quella della Siria del nord non e è esclusa; tanto più che accanto alle trasformazioni pratiche sono in atto laggiù profonde e utili riflessioni teoriche sulla storia del socialismo, del comunismo e del colonialismo, e sull’autocritica che devono approfondire in questo secolo i rivoluzionari (della quale uno dei tratti più preziosi è, finalmente, comprendere criticamente il 1989).
Certo, serve a poco trarre ispirazione dalle comuni e dai congressi delle donne, o dalle cooperative egualitarie del Rojava, se non ci si pone il problema del come tutto ciò abbia avuto inizio e come possa continuare: poiché tutti coloro che hanno attraversato quel processo di cambiamento sanno quanto decisivo sia il ruolo di un movimento forte e organizzato, del soggetto rivoluzionario e dei suoi militanti. La verità è questa: non una sola comune sarebbe sorta senza l’azione di stimolo, pungolo, formazione e organizzazione esercitata dal partito, anche prima dei moti del 2011, quando sotto il tallone di Assad si agiva in clandestinità; e quel che risulta più paradossale è che per alcuni, in Siria come in Italia, questo finisce per essere fondamento di scetticismo, anziché di riflessione a partire dai propri fallimenti, che proprio con questo tema difficilmente possono essere irrelati. Oggi l’opera e la mentalità dei militanti confederali è il lascito più prezioso per i giovani che in Europa cercano un esempio di dedizione, coraggio, visione, concretezza e disciplina.
Altri mi hanno chiesto: come possiamo aiutare, da qui? Ho sempre risposto che è necessario trovare il coraggio di mettersi in viaggio, sebbene viaggi del genere non possano e non debbano essere intrapresi allo sbaraglio, né da soli. Viaggiare è importante non per combattere, ma per mostrare che siamo disposti a fare al contrario gli itinerari che altri compiono per trovare una vita migliore o mettersi in salvo, e dimostrare nei fatti che non tutti gli “occidentali” sono uguali, se c’è anche chi è disposto, almeno in minima parte, a farsi migrante capovolto. Si può inoltre informarsi e informare, ho sempre detto, e donare alla Mezzaluna rossa Kurdistan Italia Onlus per sostenere i feriti e i profughi.
Stavo per partire per l’ultima parte del mio viaggio, a giugno verso sud, quando Eddi e Jacopo, che avevo lasciato in Siria a novembre, improvvisamente, sono tornati. Senza pensarci due volte, senza tirare il fiato, si sono aggregati al mio viaggio, da veri hevalen, e assieme siamo stati a Pigantaro, a Sparanise, a Venaus e a Cosenza, quest’ultima una serata che per me rimarrà speciale, perché si è aggiunta quasi per caso anche la testimonianza di Dilsoz, un combattente italiano Ypg tornato da Afrin da pochissimo, come loro.
Perdere Afrin è stato terribile per tutti. Anche per me che, a differenza loro, non ci sono mai stato. Gli hevalen resistono, attaccano il nemico ogni volta che possono, trovando rifugio nei casolari, nei quartieri e nei villaggi abbandonati, nelle macchie, nelle campagne. Sono convinti che un giorno la città tornerà libera, come soltanto chi crede e lotta può essere convinto. La «Rabbia degli olivi» (così hanno chiamato la resistenza) colpisce anche nel cuore delle terre islamiste occupate dalla Turchia, a Idlib, ad Azaz; e la lotta contro l’Isis è tutt’altro che finita, a Deir El Zor.
Dilsoz, una volta, mentre ci scambiavamo sorrisi e bevevamo cocktail, una volta si è interrotto. Mi ha mostrato la foto di un ragazzino. Era un ragazzino arabo proprio di Deir El Zor, che lui aveva conosciuto. Era morto cercando di liberare il suo villaggio dall’Isis.
Pregava cinque volte al giorno, mi ha detto.
Per questi amici dobbiamo fare tutto il possibile.
Scrivere libri, se necessario, e molto altro ancora.
* Davide Grasso ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del Nord. Nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere Daesh. La sua esperienza è raccontata nel libro Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, uscito per Edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo curata da Wu Ming 1.
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Audio dell’incontro
«Siria: la rivoluzione delle comuni contro ISIS ed Erdogan»
con Davide Grasso, Jacopo Bindi, Maria Edgarda Marcucci (Eddi).
Introduce Wu Ming 1.
Grazie a Radio Sonar per la registrazione. La musica che si sente all’inizio è: Yellowjackets, Song For Carla (2001).
Audio dell’incontro «Siria: la guerra delle YPG contro ISIS ed Erdogan», con Davide Grasso, Jacopo Bindi, Maria Edgarda Marcucci (Eddi). Introduce Wu Ming 1.
↑ Ascolta in streaming – 1h18′
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N.B. Il libro Laboratorio Rojava, edito da Red Star Press e caldamente consigliato da Davide in coda al dibattito, si trova qui.
N.B.2 Sulle origini mistificate, deviate e poi rimosse della rivoluzione siriana contro il regime di Assad, consigliamo il libro di Lorenzo Declich Siria, La rivoluzione rimossa. Dalla rivolta del 2011 alla guerra (Alegre 2017).
[…] libri e raccontare la sua esperienza in giro per l’Italia, cosa che negli ultimi due anni ha fatto indefessamente. Ma anche gli altri compagni presi di mira hanno tenuto conferenze sul Rojava, partecipato ad […]