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I potenti della Terra sono inquieti. Sanno cosa si pensa di noi fuori da qui.
Siamo lo zimbello della galassia, perché abbiamo ancora il capitalismo.
I potenti della Terra fanno bene a preoccuparsi.
Un videomessaggio per l’uscita di Proletkult.
DailyMotion – YouTube – Vimeo
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*SPOILER* Questo commento spoilera il romanzo. Se non hai ancora letto, o finito di leggere, Proletkult, e non vuoi conoscerne in anticipo parti salienti, evita di leggerlo!
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Il romanzo è molto bello, ricco di spunti, capace di trasportarti nell’Unione sovietica degli anni Venti. Riassume, con un linguaggio accessibile a tutt*, i dibattiti che caratterizzarono soprattutto la fase che precede la rivoluzione, ma tiene sullo sfondo la rottura che caratterizza gli anni nei quali è ambientata l’avventura di Bogdanov. Una rottura che in quel momento non si è ancora del tutto consumata, non ha ancora preso le forme tragiche che la caratterizzeranno in seguito.
Il finale lascia un po’ l’amaro in bocca… Lo immaginavo diverso, forse più scontato. Lascia intendere, però, che ci sarà un sequel, che magari descrive il viaggio di Bogdanov su Nacun, dove giunge per portare notizie della rivoluzione e per osservare come il pianeta è mutato rispetto a quello descritto in “Stella rossa”.
Ve lo hanno scritto in tanti, lo ripeto anch’io: la scena della partita a scacchi tra Lenin e Bogdanov è fantastica.
“Filma” momenti che la fotografia può rappresentare solo parzialmente, non facendo trapelare i movimenti e le parole che li caratterizzano. Descrive il dibattito tra i due protagonisti, in tutta la sua complessità, rendendo le loro parole comprensibili ai più.
Pensando a quanto avete scritto, mi sono chiesto se il dibattito sul filmare o fotografare sia reale, se sono metafore realmente utilizzate dai due, o se è un espediente che avete trovato per riassumerlo.
Credo che quelle riflessioni siano molto utili per descrivere e criticare il dibattito e le descrizioni della società che attualmente attraversano le scienze storiche e sociali.
Penso che la fotografia sia importante, a volte in grado di rappresentare magistralmente la sintesi di un momento. Il filmato, però, probabilmente, è più utile per rappresentare la società: restituisce movimenti, voci, rumori di fondo e suoni. È in grado di far comprendere come, in che momento, e seguendo quale strada, gli elementi che la fotografia immortala sono giunti nella posizione fermata dal ritratto.
Certo, bisogna essere consapevoli che spesso, nella ricostruzione storiografica o sociologica, la rappresentazione più vicina alla realtà che possiamo ottenere è simile al time-lapse: consente la presenza di voci, rumori e suoni, dà un’idea di movimento, ma ci saranno sempre momenti che sfuggono alla fotocamera. Momenti che potrebbero essere cruciali per comprendere i fenomeni che si stanno analizzando.
Bogdanov sostiene che, per capire una scena, “devi considerare l’intera sequenza”. Parole che condivido pienamente. Mi fanno venire in mente le riflessioni di Edward Carr (uno storico dell’Unione sovietica), quando sostiene che il passato è comprensibile solo alla luce del presente e che, viceversa, il presente è comprensibile unicamente alla luce del passato. Una riflessione che fa tesoro degli insegnamenti di Marc Bloch e di Lucien Febvre.
Anche se pieno di di significato, non è il solo passaggio del romanzo che stimola riflessioni.
In un’altra scena Bogdanov sostiene che Lenin ha trasformato il marxismo in un dogma, che il partito “si rivolgeva alla classe operaia per dirigerla, non per educarla. E le poche volte che ci provava, era un vecchio maestro che trasmette agli scolari un sapere in forma di fede e non di conoscenza collettiva.”
Io tendo a credere che siano stati più i leninisti, che Lenin stesso, a trasformare il marxismo in un dogma e che il partito non debba essere né educatore, né dirigente della classe lavoratrice, ma una struttura della quale la classe lavoratrice si dota per autoeducarsi, per “condividere saperi senza fondare poteri”. Un mezzo per attuare i propri propositi rivoluzionari.
Però, le parole che attribuite a Bogdanov sono importanti, evidenziano dei limiti che hanno portato l’esperienza sovietica, ma anche quella del movimento comunista internazionale, a esaurirsi.
Sono considerazioni che fanno eco alle parole di Hobsbawm, quando, ne “Il secolo breve”, scrive che:
“Il modello leninista del «partito d’avanguardia», cioè un insieme di quadri efficienti e disciplinatissimi di rivoluzionari di professione, organizzati in modo tale da realizzare i compiti assegnati loro da una direzione centrale, era potenzialmente autoritario, come avevano indicato sin dall’inizio molti altri marxisti russi, non meno rivoluzionari dei bolscevichi.” [pg.452]
Credo che sia un passaggio fondamentale, perché, forse, ci fa comprendere meglio come le lotte intestine che al romanzo fanno da sfondo abbiano preso la piega tragica che tutt* conosciamo.
Io, magari sarà una posizione impopolare, tendo a pensare che stalinismo e trotskismo siano due facce della stessa medaglia, che entrambe le correnti, nascendo da una radice comune, quella descritta con le parole di Bogdanov e di Hobsbawm, abbiano al loro interno una tendenza al dogmatismo e all’autoritarismo. Entrambe le posizioni sono figlie di una stessa era, e delle teorie che la permeavano.
“Scambiano il lavoro per una battaglia, la cultura per un’arringa alle truppe, l’economia per un servizio di vettovagliamento. La logica della caserma stava rimpiazzando quella della fabbrica” – riflette Bogdanov. E questa logica militarista non caratterizza solo la parte che si sta affermando, quella che oggi chiamiamo stalinista, ma anche quella che allora era l’opposizione.
È Trockij a sostenere che è necessario “militarizzare il lavoro”, che i sindacati devono divenire apparati di repressione rivoluzionaria (tra le altre cose anche contro gli anarchici), che è necessaria un’industrializzazione forzata.
Ne “La fattoria degli animali” Orwell sostiene che Napoleone (Stalin) si è appropriato del pensiero di Palla di neve (Trockij), spacciandolo per suo.
Penso che le due posizioni siano speculari e, nella sostanza, tendo a pensarla come Bogdanov: fu semplicemente uno scontro di potere, una lotta per la supremazia non delle idee ma degli individui.
Credo che se quello scontro si fosse risolto diversamente, a parti invertite, i risultati non sarebbero stati diversi. Gli oppositori sarebbero stati comunque perseguitati. La storia non sarebbe stata molto differente…
“Adesso Trockij, Kamenev e Zinov’ev denunciano lo strapotere del partito sui soviet, ma sono stati loro a costruire il partito. Hanno ottenuto esattamente ciò per cui hanno lavorato: una gerarchia di militanti di professione, un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario e conservatore. Il fatto che oggi cadano vittime della loro creatura è l’ironia della Storia” – dice Bogdanov. E mi sento di condividere questa riflessione che gli attribuite.
Credo che a distruggere il sogno rivoluzionario sia stata la tendenza al dogmatismo e alla militarizzazione, penso che questo sia un errore da non commettere nuovamente. E, per evitarlo, forse, potrebbe essere utile lasciarsi contaminare dal pensiero anarchico e libertario. Sforzarsi di immaginare nuove istituzioni dove il potere sia diluito il più possibile, istituzioni che tendono verso l’estinzione dello stato. Del resto Marx sosteneva più o meno questo…
Oggi, almeno in Italia, le categorie di “stalinismo” e “trotskismo” forse non sono neanche più utili per un’indagine storica del comunismo italiano. Il dibattito riflette alcuni processi che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta, quando il dissenso verso il Pci, visto come un blocco monolitico (cosa che non era, anche se spesso all’esterno non trapelava), portò molti a rivolgersi verso il trotskismo, considerandolo l’unica “tradizione” rivoluzionaria presente nel Paese. Un processo che, tra le altre cose, ha impedito al pensiero gramsciano di diffondersi in alcuni settori, anche di movimento. Cosa che sta avvenendo con una certa intensità solo negli ultimi anni.
In realtà, nel Pci, a essere bollate come staliniste erano le sue correnti rivoluzionarie. “Stalinista” era Pietro Secchia (“l’uomo che sognava la lotta armata”, scrisse di lui Miriam Mafai), non Togliatti, che lo estromise dagli incarichi dirigenziali del partito. “Stalinista” era definito Giovanni Pesce, e, con lui, tanti altri eroi della Resistenza.
Per comprendere lo “stalinismo” italiano, più che il pensiero di Stalin, credo sia utile considerare quello che l’Unione sovietica rappresentò nell’immaginario di una generazione di rivoluzionari, i quali vedevano in quel paese la possibilità di realizzare il comunismo anche qui da noi, oltre che la forza in grado di sconfiggere il nazifascismo.
Con molt* di quelle compagne e di quei compagni ci ho parlato, di stalinista (come comunemente si intende questo termine), tranne l’etichetta che è stata loro affibbiata, avevano ben poco: è da loro che ho appreso i valori dell’internazionalismo e la speranza in una rivoluzione globale.
Forse oggi, che ci troviamo a dover comprendere e affrontare una fase del tutto nuova, dovremmo essere in grado di superare gli strascichi di quello scontro. È più d’intralcio che d’aiuto. Per costruire qualcosa di completamente nuovo, probabilmente, dovremmo essere in grado di andare oltre, di portare con noi solo quello che ci può aiutare nella lotta di oggi.
Un’ultima cosa, che già mi sono dilungato oltremodo. Non conosco il dibattito tra Lenin e Bogdanov, se non per come l’avete descritto. Però mi sembra che Bogdanov non si allontani poi tanto dal materialismo storico. Certo, forse tende all’idealismo, come sostiene Lenin, ma le sue teorie non tralasciano di considerare che una nuova cultura nasce necessariamente da un nuovo modo di produzione, da nuove forme di organizzazione (anche della produzione) e dalla realtà materiale che caratterizza la società in un dato momento.
La chiudo qui.
Grazie per questo romanzo, che dà mille spunti di riflessione, e per quello che fate. Sono cose che aiutano a vivere meglio nella tempesta di merda.
La metafora della conoscenza come fotografia o come montaggio cinematografico non è farina del nostro sacco e riprende solo a metà uno scritto dei due contendenti. In Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin scrive che “la realtà oggettiva si trasmette all’uomo attraverso le sue sensazioni, ed è copiata, fotografata, riflessa dalle nostre sensazioni, sebbene esista indipendentemente da esse”. Naturalmente, qualunque fotografo di oggi potrebbe obiettare che tra una fotografia e un riflesso nello specchio c’è una grande differenza, e che nessuna immagine stampata su pellicola può essere considerata neutrale. Tuttavia, questa era l’idea di Lenin. Quanto a Bogdanov, sappiamo che conosceva e apprezzava il cinema e che lo riteneva un mezzo straordinariamente efficace – quasi “mistico” – di rapprresentazione della realtà. In “Stella Rossa” immagina che su Marte abbiano inventato un cinema immersivo, in 3D, che rende ancora più sorprendente l’effetto di realtà. Inoltre, Ėjzenštejn, all’inizio della sua carriera, aveva collaborato con il teatro del Proletkult e possiamo immaginare che Bogdanov fosse a conoscenza delle sue riflessioni sul montaggio. Va notato, però, che tutte queste cose (Stella Rossa, il Proletkult) avvengono in seguito, rispetto al presente nel quale collochiamo il flusso di coscienza di Bogdanov, cioè la primavera del 1908. A quel tempo, il montaggio non aveva ancora l’importanza che si guadagnò nei vent’anni successivi, ma possiamo immaginare che Bogdanov avesse visto a Parigi i film di Meliès, dove la pellicola viene manipolata e montata per creare nuove, meravigliose realtà. La metafora, comunque, ci arriva da un articolo di Daniela Steila, contenuto nel volume collettivo “Culture as organization in early soviet thought. Bogdanov, Eisenstein and the Proletkult”.