«Io suscitai e spinsi innanzi con la forza di un’idea uno di questi marosi (e non dei più piccoli), finché raggiunse e superò il culmine, e a Damasco si ruppe. Il riflusso di quell’ondata, respinto dalla resistenza degli oggetti investiti, fornirà materia all’ondata successiva, quando, compiuto il tempo, la marea monterà un’altra volta.»
Questo scriveva, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, T.E. Lawrence nell’introduzione a I Sette Pilastri della Saggezza, l’opera in cui raccontava dall’interno l’esperienza della rivolta araba contro l’Impero Ottomano (1916-1918).
Oggi la marea torna a montare, coinvolgendo a catena un’area geopolitica che va dal Golfo Persico al Mar Rosso e al cuore del Mediterraneo. Certo in novant’anni quella parte del globo tra Europa, Asia ed Africa è stata teatro di grandi trasformazioni politiche, rivoluzioni nazionali, rivolgimenti, ma mai prima d’ora si era innescato dal basso un effetto domino come quello a cui stiamo assistendo, e in un così breve lasso di tempo. Il mondo arabo è di nuovo in rivolta, in questo caso contro i governi corrotti che da decenni lo dominano incontrastati. Certo per chi ha letto I Sette Pilastri della Saggezza fa un certo effetto vedere balzare alla ribalta delle cronache luoghi dell’epopea “lawrenciana” come Deraa, Tafas, Damasco.
Negli ultimi dieci anni l’Occidente si è strafogato di immagini retoriche sul mondo arabo: i paesi arabo-islamici ci sono stati raccontati come prede inermi dei fondamentalisti religiosi, della demagogia anti-occidentale e anti-cristiana. Era la retorica utile a tenere in piedi il discorso sullo scontro di civiltà, a foraggiare l’economia di guerra che doveva rinviare di appena un lustro la più grande crisi economica della storia contemporanea, provocata dalle politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni. Ma quando alla fine la crisi è arrivata, improvvisamente il castello di carte è crollato.
Dopo il Sudamerica, il mondo arabo reagisce al disastro sociale economico e politico ribellandosi, invadendo le piazze, sfidando la repressione dei regimi con i quali i paesi occidentali hanno fatto affari d’oro. Milioni di persone scendono in strada reclamando democrazia, libertà, dignità, futuro. Parole che si volevano passate di moda, retaggio di un tempo perduto. Parole nostre, principi che l’illuminismo e il socialismo europei hanno inscritte nella propria storia. E che oggi ci vengono risbattute in faccia da coloro che per troppo tempo abbiamo voluto vedere come barbari, retrogradi, vittime della superstizione e del fanatismo.
Quelle rivolte, con tutto il loro carico di immancabili contraddizioni, ci rinfacciano d’aver creduto alle nostre stesse menzogne. Un vecchio vizio occidentale, duro a morire.
Per chi da questa sponda del Mediterraneo assiste a immense autoconvocazioni di piazza che tengono occupato lo spazio pubblico fino alla cacciata dei governanti corrotti – senza imam e partiti jihadisti a reggere il moccolo del razzismo occidentale – è come guardarsi in uno specchio deformato. E’ come scoprire la propria immagine, appena più giovane, che dice: “Si può fare”. Ma anche: “Noi siamo la vostra crisi”. Oppure: “Siete il Terzo Mondo di voi stessi”.
Alle nostre latitudini lo tsunami della crisi, giunto dopo un quarto di secolo di risacca, ci ha lasciati tramortiti, in balia di un establishment incapace quanto rapace, intento a fare man bassa di ogni bene mentre i capisaldi stessi del vivere associato si sgretolano. Eppure non regna la calma piatta. Gli scricchiolii si avvertono anche in Europa e quello che oggi turba i sonni dei potentati occidentali, occupati a vessare il pianeta e a tenerlo in ginocchio, è il timore che l’onda della rivolta attraversi il Mediterraneo.
D’altra parte, è chiaro che le democrazie occidentali, con il loro pervasivo apparato di manipolazione dell’opinione e del consenso, con l’ostentato rispetto per i diritti consacrati nelle carte costituzionali, con tutta la prosopopea ideologica su un’ambigua nozione di pace e sviluppo, non possono non schierarsi almeno a parole dalla parte della gente che ora combatte stati-cosca criminali. Si esaltano quindi le rivolte arabe per esorcizzare il timore di ciò che esse rappresentano: un risveglio generalizzato delle coscienze.
Le oligarchie dell’Occidente – finanzieri, politicanti, conduttori televisivi – sanno di essere impegnate in una battaglia decisiva. Il dominio neocoloniale potrebbe sfuggire di mano. Le diplomazie ufficiali e occulte lavorano perché gli interessi economici in quelle aree, che servono all’impresa sempre più disperata di sostenere un modo di vita senza senso, mortifero, antiumano, vengano perpetuati ed estesi. Una volta gli stati d’Europa combattevano fra loro, usando le popolazioni extra-occidentali come “truppe indigene”, oggi competono a suon di bombe umanitarie su popolazioni inermi e rigorosamente non-bianche per spostare gli equilibri economici a favore dell’una o dell’altra fazione all’interno del generale divenire-mafia del capitale.
Così si fissa la contraddizione nell’ideologia-mondo capitalista, evidente nella forma “democratica” e avanzata dell’Europa e dell’America. Da una parte si sostengono eguali diritti, il rispetto formale della diversità (al punto che si potrebbe pensare che la proliferazione di gruppi, di scelte e orientamenti, la soggettivizzazione incessante che attraversa le democrazie, rappresenti poco più che un altro modo di vendere merce, concreta, virtuale, identitaria, religiosa…). Dall’altra c’è la negazione reale della diversità, figlia dell’idea che la nostra “civiltà” sia in qualche modo superiore perché riconosce, formalmente, diritti ed eguaglianza a persone e culture, corpi e linguaggi, e che proprio questo le dia il diritto/dovere di dominare il pianeta. Per confermarsi, orwellianamente, “più uguale” delle altre.
In realtà dice bene Massimo Bucchi: la superiorità della nostra civiltà consiste nel fatto di non poter essere raggiunta dalla contraerea. Se nel discorso pubblico la democrazia è ridotta a confronto di opinioni; se opinioni che negano l’eguaglianza tra gli uomini, il diritto all’istruzione, alla salute, a un reddito dignitoso, hanno luogo e legittimità all’interno di questo discorso, e i partiti che le incarnano guidano nazioni; se il linguaggio del politicamente corretto coesiste coi lager preventivi; se gli psicologi per cani esistono nello stesso spazio politico, culturale e sociale dei manicomi criminali, significa, come dice Franco Berardi “Bifo”, che della nostra cultura occidentale, della cultura che ha prodotto affermazioni politiche dell’ordine più alto – libertà, uguaglianza – è rimasto solo il cinismo, l’idea assurda che la gente possa essere conculcata, dominata, deviata e ingannata per sempre. Più che un’idea, è una superstizione, una forma di articolato scongiuro.
La domanda che nasce spontanea quindi è se la marea montante potrà mai disperdere tale superstizione.
Per questo il presentimento è che la prospettiva di riscatto per le società senili d’Europa – se pure una prospettiva rimane – passi anche per l’abbattimento delle barriere pregiudiziali costruite in questi anni attraverso il Mediterraneo, e per la costruzione di ponti ben più lunghi di quello fantomatico sullo Stretto di Messina. Cioè per l’avveramento delle paure delle oligarchie occidentali.
Inutile dire che si tratta di un’impresa difficile. Tuttavia dall’altra parte del mare stanno gettando i pilastri. Traballanti, esposti alle mille onde del destino e ancora ai tratti culturali contraddittori di un mondo in trasformazione accelerata, nonché agli interessi dei paesi occidentali che – oggi come novant’anni fa – si affrettano ad appoggiare le rivolte anche a suon di bombe per rifarsi il trucco e rinnovare i propri interlocutori.
Eppure, forse proprio per questo, è l’impresa necessaria. (WM4 & WM5)
***
Sulle rivolte/rivoluzioni nordafricane e mediorientali si imperniano le conferenze che WM1 e WM2 terranno in North Carolina la prossima settimana, una alla Duke University (Durham), l’altra alla University of North Carolina (Chapel Hill). Il titolo-ombrello è in un inglese ellittico, sgrammaticato: “How to tell (of) a revolution (from)”, cioè: “How to tell of a revolution” (Come raccontare di una rivoluzione) e “How to tell a revolution from [something else]” (Come distinguere una rivoluzione da qualcos’altro).
Qui sotto, i dettagli degli eventi e gli abstract dei due interventi.
Duke University, Durham, NC
Monday, April 4
5:00 pm
Franklin Humanities Institute Garage, Smith Warehouse
This event is also sponsored by the Franklin Humanities Institute, the Program in Literature, the Marxism and Society Program, and the UNC Department of Romance Languages and Literatures.
University of North Carolina, Chapel Hill, NC
Tuesday, April 5
11:00 am
UNC Global Education Center, room 3024
[WM2:] A novembre dello scorso anno, quando abbiamo proposto il titolo per questa conferenza, il problema di distinguere una rivoluzione da qualcos’altro non era di particolare attualità. Nel frattempo, però, i tumulti sono tornati di moda, come non accadeva da oltre vent’anni, e giornali e riviste sono inondati di articoli dove ci si chiede se in Tunisia o in Libia sia in corso una rivoluzione, se il Bahrein, l’Oman o la Siria ne conosceranno davvero una, e via discorrendo.
Per rispondere a queste domande abbiamo bisogno di un buon concetto euristico e di una buona narrazione degli eventi, ovvero di una narrazione “vera” e “pertinente”.
“Vera” in quanto capace di aumentare la nostra comprensione dei fatti, e “pertinente” nel senso che merita di essere raccontata, perché introduce una violazione nell’ordine del mondo.
Al contrario, una narrazione tossica è quella che cancella la sua dimensione congiuntiva, cerca di bloccare in tutti i modi la spinta a “raccontare altrimenti”, a pensare ipotesi alternative, altre storie possibili, altre verità poetiche per un insieme di fatti.
In questo senso, tutte le storie contengono una dose di tossine, perché – come ha dimostrato George Lakoff – quando accettiamo una narrazione, non vediamo più le realtà che la contraddicono. La proposta di Lakoff è quella di un Nuovo Illuminismo, nel quale diventare consapevoli delle narrazioni che sono cablate nel nostro cervello. Come cantastorie, aggiungo che mi piacerebbe produrre narrazioni che aumentino tale consapevolezza, che limitino il più possibile il proprio potere di nascondere la realtà e che anzi incoraggino narrazioni alternative, fornendo al lettore spunti, appigli, crepe.
Nel caso specifico della rivoluzione, allora, cercherò di capire dove si annidano le tossine e quali scelte narrative contribuiscono a renderle più pericolose.
Illustrerò la farmacologia di veleni come:
– l’illusione retrospettiva di fatalità;
– la miopia cronologica;
– il “peccato originale”;
– l’effetto sineddoche;
– le convenzioni di genere;
– l’intenzionalità parziale;
– l’assimilazione narrativa;
– le “macchie di leopardo”;
– la personalizzazione;
– la dialettica addomesticata e gonfiata;
– la stanchezza post coitum.
La mia speranza è che quest’analisi ci aiuti a non intossicare la narrazione oltre il livello di guardia, con il risultato di nascondere la realtà e di non capire quel che sta succedendo.
Perché capire, vivere, immaginare e sognare un racconto – grazie al meccanismo dei neuroni specchio – non sono attività cerebrali tanto diverse.
Capire la rivoluzione e raccontarla in maniera efficace, significa allora saperla sognare, cominciare a viverla, provare a immaginarla.
[WM1:] Il mio intervento ha come titolo di lavoro «Siamo tutti il febbraio del 1917» (criptico, ma il significato viene chiarito). Inizia con il racconto di come la classe operaia italiana, subito dopo le prime, vaghe notizie, reagì all’evento della prima rivoluzione russa del ’17 (non quella di ottobre a guida bolscevica, ma quella di febbraio a guida «democratico-borghese»).
In Italia la «buona novella» arrivò il 15 marzo, in un dispaccio dell’agenzia di stampa «Stefani», che fu pubblicato sull’Avanti! il giorno successivo.
I governi dell’Intesa festeggiarono la rivoluzione come uno sviluppo positivo per la prosecuzione della guerra contro gli «imperi centrali». L’evento fu salutato con gaudio anche alla Camera dei Deputati. Il governo provvisorio russo dichiarò subito che lo sforzo bellico sarebbe proseguito. Per settimane, nulla fece pensare che la rivoluzione sarebbe sfociata nell’uscita della Russia dal conflitto.
Eppure gli operai e le operaie d’Italia
– contro ogni evidenza e ogni giudizio razionale basato sui fatti;
– avendo a disposizione solo resoconti vaghissimi, per giunta mutilati dalla censura di guerra;
– suscitando forti perplessità nella dirigenza riformista del PSI, a sua volta poco informata sulla Russia e il suo movimento socialista…
…intuirono subito la natura profonda dell’evento prodottosi in Russia, cioè il suo essere antitetico alla guerra in corso. Meno di 48 ore dopo la pubblicazione del dispaccio d’agenzia, lavoratori in sciopero gridavano: «Abbasso la guerra! Fare come in Russia!», volantini e numeri unici di fogli d’agitazione collegavano la rivoluzione alla fine del conflitto, soldati scrivevano alle famiglie traendo l’apparentemente irrazionale conclusione: quella rivoluzione, il popolo russo l’ha fatta contro la guerra.
Oggi lo sappiamo, quei proletari avevano visto giusto, perché la seconda rivoluzione del ’17 avrebbe portato la Russia fuori dal conflitto (con la pace separata di Brest-Litovsk), ma in quei giorni di fine inverno, nulla di concreto corroborava la loro convinzione. Eppure la ribadirono per mesi, contro il sentire e i pronunciamenti degli «esperti», delle classi dirigenti di tutta Europa e di leader socialisti come Turati e Treves.
Come ci riuscirono? Cosa scattò nell’immaginazione di quei proletari? Quale visione anticipò il riconoscimento, quale sguardo furono in grado di gettare sull’Evento russo quelle persone disinformate, lontane migliaia di miglia, affondate nelle trincee o schiacciate dal lavoro di fabbrica, scarsamente o per nulla collegate persino tra di loro? A cosa somigliava nei suoi contorni, ai loro occhi, la rivoluzione russa?
Io azzardo due linee di riflessione.
La prima parte dalla fraseologia «rivoluzionaria» con cui propagandisti e tecnicizzatori (in Italia e nei paesi dell’Intesa) presentarono la guerra. Per farsi accettare, la guerra si travestì da rivoluzione. Molti si arruolarono per fare la rivoluzione. Alceste De Ambris scrisse che dalla guerra sarebbe scaturita la rivoluzione. E non aveva torto, solo che la rivoluzione giunse dalla negazione della guerra, dal disvelamento dell’inganno. Che rapporto c’è tra questo disvelamento e l’immediatezza con cui i proletari italiani intuirono la natura anti-bellica dell’Evento russo?
Per bizzarro che possa sembrare, la seconda linea porta a una lettura comparata di Marcel Proust e Vladimir Majakovskij, autori che, di primo acchito, non potrebbero sembrare più antitetici.
Per dirla meglio: la riflessione parte dal modo in cui il filosofo francese Jacques Rancière legge una magistrale sequenza di All’ombra delle fanciulle in fiore (1919). Nell’incredibile descrizione della comitiva di ragazze che avanza sul lungomare di Balbec, Rancière vede una manifestazione di «ecceità», concetto già riformulato da Deleuze & Guattari nel loro magnum opus Mille piani.
In quelle pagine proustiane, l’ecceità è una matassa di figure retoriche (immaginate una nube di zucchero filato multicolore, dove ombre e sfumature sono prodotte dall’intrecciarsi di ipotiposi, metafore, sinestesie), una super-figura retorica estesa atta a descrivere la disordinata configurazione che il mondo intorno al narratore assume in quel dato, irripetibile momento, senza gerarchie tra cose grandi e piccole, «sfondo» e «primo piano», umani e oggetti inanimati, luce e tempo etc.
L’ecceità (dal latino «Haec», questo: la «questità», la «this-ness» di qualcosa) è la caratteristica di una configurazione/momento: «Siamo tutti le cinque della sera», scrivono Deleuze & Guattari, con riferimento alla celebre poesia di Federico Garcia Lorca (Llanto por Ignacio Sánchez Mejías).
A questo punto, stabilisco un parallelo tra il narratore proustiano e gli operai italiani del 1917, e tra l’apparizione di una comitiva di ragazze sul lungomare e l’Evento rivoluzionario russo.
Dopodiché, ritrovo immagini molto simili in alcuni poemi di Vladimir Majakovskij sulla Rivoluzione d’Ottobre, soprattutto in 150.000.000 (1920) e Vladimir Ilic Lenin (1924). E un giudizio critico di Lev Trotskij su Majakovskij, una volta rovesciato, serve a farci capire come mai i versi di Majakovskij siano ancora tra le testimonianze più potenti e preziose dello sconquasso operato da una rivoluzione nel suo impatto con la vita quotidiana.
Due riflessioni.
1. Ho appena finito di ascoltare il documento audio sull’unità d’Italia e Benigni, e leggendo la prima parte di questo intervento di WM4 e WM5, non ho potuto non vedere un filo rosso. Un filo rosso tra quello che viene detto nell’audio sulla natura intrinseca e sull’origine dei movimenti ottocenteschi e del loro nazionalismo, e quello che ci troviamo tra le mani oggi.
E poi leggo questa frase: “…che della nostra cultura occidentale, della cultura che ha prodotto affermazioni politiche dell’ordine più alto – libertà, uguaglianza – è rimasto solo il cinismo, l’idea assurda che la gente possa essere conculcata, dominata, deviata e ingannata per sempre.”. Ecco, pensavo che questa libertà ed uguaglianza, forse, non siano così tanto autentiche, se già all’inizio sono partite male, e ora siamo quello che siamo. Prego di correggermi se ho interpretato male qualche vostro passaggio (ammetto che mi é difficile mantenere per 60 minuti alta l’attenzione nei confronti di un file audio parlato :P).
2. Ok le varie proteste in Europa di questi ultimi mesi, ma qui non siamo governati da dittatori definiti tali. Non fraintendetemi, sono consapevole di come siamo messi in Europa. Voglio dire che non c’è una repressione esplicita come nei paesi oggi in agitazione. Certo, poi vedendo cosa é successo a Forum, capisci che una certa repressione, una certa mancanza di libertà manca anche qui, eccome se manca… Ma capisci anche che un coinvolgimento totale o quasi come é avvenuto in Egitto qui, in Italia in particolare, sia improbabile. La dittatura in Europa é più subdola, invisibile, dittatura finanziaria e monetarista, come dice spesso Bifo. Questo per dire che sono pessimista su un eventuale passaggio della rivolta anche dall’altra parte del mediterraneo, proprio perché manca la scintilla che coinvolga tutto, o buona parte, del popolo. Ben venga una “insurrezione” (cfr. Bifo a Brera), eh, ma ne dubito fortemente. :S
Ciao :)
mathias
@ mathias
beh, i princìpi radicali di libertà e uguaglianza li abbiamo ereditati da secoli di lotte. Sono princìpi che ancora oggi continuano ad agire e, dopo lunghi scavi, erompono dove meno te l’aspetti. Guarda il cartello che ha in mano la donna tunisina qui sopra: la frase è di Montesquieu, ma va ben oltre chi la scrisse per primo. Potrebbe anche essere Rancière, e molti altri. Senza questo lavorìo incessante (questa tensione che per fortuna, anche quando cala qui da noi, aumenta in altri posti), non sarebbe nemmeno possibile la critica dei nazionalismi, degli sciovinismi, dei razzismi, e quindi nemmeno la decostruzione del mito tecnicizzato dell’Italianità. E’ in nome dei princìpi di cui sopra (mirabilmente espressi in quella frase scritta in rosso), che rigettiamo ogni modello di società basato su esclusione e odio.
@ mathias
1) Non so cosa intendi per “autentico”. Quello che si è cercato di dire nella conferenza sull’unità d’Italia è che essa si è nutrita di un’unità di concetti che sarebbe meglio spaccare, sezionare, per svelarne l’ambivalenza e vederla in azione sul banco di prova della storia. Questo però non è peculiare, vale per la maggior parte dei concetti e delle affermazioni politiche.
2) Io credo di essere anche più pessimista di te. Ma un po’ di ottimismo della volontà non vogliamo conservarcelo? E poi come diceva il compagno Bond: “Never say never again”…
@WM1 WM4
Ok, capisco. Grazie. Credo che volessi dire che, dopo aver ascoltato la vostra conferenza e dopo aver assistito alla decostruzione del mito tecnicizzato, leggere quella frase sulla libertà ed uguaglianza occidentale mi ha un po’ sorpreso. Non voglio dire che é in contraddizione, capisco quello che mi risponde WM1. Così, mi ha sorpreso. :)
È il pessimismo della ragione che poi mi tira giù. Ma certo, Bond é Bond. :)
«In una democrazia, l’amore per la repubblica non è altro che l’amore per la democrazia; e questo è l’amore per l’eguaglianza, il quale è, a sua volta, amore per la frugalità. Siccome vi devono esistere felicità e vantaggi eguali per tutti, ciascuno, nelle democrazie, deve gustare i medesimi piaceri e nutrire le medesime speranze; cosa che solo una generale frugalità può dare.» MONTESQUIEU, Lo Spirito delle leggi
Secondo me è più limitante la necessità della frugalità che non l’essere poco esplicita della repressione. Non voglio dire che gli italiani stiano ancora troppo bene. Ci sono tantissimi italiani che bene non stanno affatto. Ma c’è ancora troppa opulenza nei sogni, si preferisce una miseria che consenta di sognare l’opulenza che non una sana e lucida frugalità.
@WM4 WM5
commento poco utile ma sentito :
grazie per questo pezzo, la sua lettura un gran bel modo di iniziare la giornata :)
@uomoinpolvere
Interessante il punto sulla frugalità. Si potrebbe dire che le società Nord Africane e Medio Orientali, con i loro despoti cleptocrati, padri padroni totalmente castranti, sono ancora capaci di desiderare, e il loro desiderio li porta ad abbattere un Padre che non sa mettere insieme Legge e Desiderio. Invece qui da noi l’evaporazione del padre ha lasciato campo libero al discorso del capitalista, al godimento obbligatorio che ammazza il desiderio: così non siamo in grado di trovare né il padre padrone contro il quale ribellarci, né il padre testimone che ci mostri la via di una “sana e lucida frugalità”, ovvero di un desiderio che nasce dal limite, contro l’incubo travestito da sogno di un’illimitata opulenza.
…Scusate: non è l’acido lisergico che ho messo nel latte, sto solo leggendo l’ultimo libro di Recalcati, “Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna”. Lettura consigliata.
[…] L’articolo completo lo trovate sul sito della Wu Ming Foundation: […]
wm2 ha scritto:
Illustrerò la farmacologia di veleni come […]
sarei molto curioso di prendere visione del campionario. Il testo della conferenza sarà disponibile?
Grazie
ciao
filippo
@filippo
Il testo in italiano della conferenza c’è già, ma aspettiamo di tornare dagli States e di integrarlo con eventuali reazioni/discussioni per poi metterlo on-line. Inutile dire che il mio campionario deve molto alla discussione fatta qui su Giap a proposito dei minatori di San José e delle storie tossiche. In qualche modo il testo della conferenza è proprio quella “sintesi del commentarium” che mi ero riproposto di fare allora e che non avevo più fatto.
La società israeliana e le similitudini con la nostra
La mia ragazza è israeliana e vive a Tel Aviv. Ragionando con lei sulla questione delle rivolte mediorientali sono venuti a galla alcuni spunti molto interessanti, ve li propongo:
1) Frustrazione: per una buona parte della società civile israeliana, queste rivolte ed in generale i conflitti mediorientali sono “frustranti”. Non si riesce a vedere una soluzione, ogni scontro o conflitto porta una pluralità di voci ad esprimersi, che però non portano mai ad una soluzione definitiva o soddisfacente. Questo continuo discutere, tentativo di trovare una soluzione, un dialogo, crea una generale frustrazione che porta al secondo punto
2)Astensione: E’ una diretta conseguenza della prima. L’immobilità o l’impantanamento della discussione, quindi del rapporto dialettico, porta la società civile (precisazione: per “società civile israeliana” intendo una larga fascia del ceto medio borghese e mediamente istruito) all’astensione della critica e del ragionamento politico. Capita quindi di sentirsi dire che è meglio non occuparsi di quello che sta succedendo perchè tanto non c’è soluzione.
Mi pare che quello che succede nell’Unica Democrazia in Medioriente sia molto simile a quello che succede nel Bel Paese, o viceversa?
Quello che mi stupisce è che loro più di noi dovrebbero essere molto coinvolti in quello che succede fuori dai loro confini eppure mi sembra di notare una generale “assuefazione” se non addirittura ostilità. Eppure masse di milioni di persone si stanno ribellando, ma questo sembra non toccare più di tanto il sentire comune.
@wuming2 penso che la narrazione tossica per eccellenza sia stata quella dello scontro fra civilta’ e piu’ precisamente quella reazione ultra conservatrice che ha portato “the clash of civilaziation and the remaking of new world order” ad essere uno dei manifesti piu’ potenti degli 00’s . E’ impressionante renderci conto adesso che Al quaeda sia una specie di keyser soze che viene usata regolarmente x randellare qualsiasi tentativo di integrazione con l’ islam. secondo me la narrazione tossica nostrana recente invece e’ quella che fino a 3 mesi fa’ faceva passare marchionne come un grande innovatore.
@wuming1 please ,come si chiama il testo di ranciere che hai citato ?
ma alle universita’ italiane non interessano questi argomenti ???
cmq thanks x agitare le menti e le coscienze con questi contributi
@ castorp
è il saggio “La condanna a morte di Emma Bovary. Letteratura, democrazia e medicina”, incluso nella raccolta Politica della letteratura (traduzione di Anna Bissanti, Sellerio, 2010):
http://www.libreriauniversitaria.it/BIT/8838924473/ASI/300131
Sull’altra questione: è un innegabile dato di fatto che facciamo molte più conferenze, workshop e seminari nelle università estere (soprattutto nord-americane) che negli atenei italiani.
Però già la “Lezione su 300” era nell’ambito di un seminario al DAMS di Torino, e WM2 e WM4 hanno una docenza a contratto all’Università di Pesaro-Urbino. Insomma, qualcosa c’è, qualcuno ci contatta. Anche se questo avviene, ehm, *rigorosamente* fuori dai dipartimenti di italianistica. Evidentemente siamo considerati “troppo poco italiani” (qui ci starebbe bene una citazione di Stanis La Rochelle).
@castorp
Nella conferenza non parlo solo di narrazioni tossiche sulla rivoluzione, ma anche delle narrazioni tossiche che le rivolte arabe hanno mandato in pezzi. Tra queste, primeggia l’idea che la società civile di un paese arabo debba avere qualcosa a che fare con la religione e che la religione sia la chiave per instaurare qualunque dialogo. Non parlo solo dell’equivalenza tossica tra arabi, musulmani e fondamentalisti. Credo sia tossico anche il discorso “progressista” di cercare il dialogo con l’islam moderato, come se non si potesse cercare il dialogo con la società civile di certi paesi, punto e basta.
C’è un articolo su The National che sintetizza bene la rottura di questa narrazione tossica. Si intitola: “Suddenly, it’s cool to be an arab” (All’improvviso, è figo essere arabi). E l’accento è su “suddenly”, come se le rivolte avessero risvegliato l’Occidente da un lungo (auto-)inganno.
Hayrettin Yucesoy sostiene che il discorso sul “dialogo religioso” e la “comprensione culturale” come unici mezzi per rapportarsi agli arabi, somiglia alla famosa frase di Maria Antonietta: “Il popolo non ha pane? Che mangino le brioches”. Magari si basa su ottime intenzioni, ma non risolve il problema. Per fortuna, tunisini ed egiziani sembrano avercele cantate abbastanza chiare, questa volta.
[…] Ed è la prospettiva, che partendo anche da altre premesse e procedendo su toni diversi, di un intervento di Wu Ming 4 e Wu Ming 5 su Giap. Per chi da questa sponda del Mediterraneo assiste a immense autoconvocazioni di piazza che tengono […]
Se interessa, vista la citazione fatta nel post, questo è Carmelo Bene che legge il “Lamento per la morte di Ignacio Sánchez Mejías” di Garcia Lorca.
Segnalo Giuliano Santoro su Carta:
Boomerang libico per un fragile Occidente
http://www.carta.org/2011/03/boomerang-libico-per-un-fragile-occidente/
Aggiungerei qualcosa, anche se non si tratta di parole o di un contesto attuali: T.E. Lawrence nel periodo successivo al conflitto mondiale, scrisse alcune lettere ai giornali e fece commenti a proposito del comportamento inglese in Mesopotamia, che sono una critica alla miopia, oltre che alla spietatezza dei governanti britannici. C’è l’analisi del potenziale di queste popolazioni e giudizi sulla loro capacità di autodeterminarsi.
Fra l’altro, queste parole, parte di un articolo richiesto dal Sunday Times, scritte il 22 agosto 1920 :
“Il nostro governo è peggiore del vecchio sistema turco. I turchi avevano nelle loro forze armate 14.000 coscritti locali, e uccidevano una media annuale di 200 arabi per mantenere la pace. Noi abbiamo 90.000 uomini, oltre a aeroplani, autoblindo, cannoniere e treni blindati. Nella rivolta di quest’estate abbiamo ucciso circa 10.000 arabi. Non possiamo pensare di mantenere questa media (!) … Per quanto tempo permetteremo che milioni di sterline, migliaia di soldati imperiali e decine di migliaia di arabi siano sacrificati per difendere un’amministrazione coloniale che non può beneficiare nessuno tranne che i suoi amministratori?”.
Scusate, Punco mi fa notare via mail che ho fatto confusione, l’articolo linkato sopra è di Raffaele Sciortino. La svista dipende dal fatto che nel feed il post risulta “di Giuliano Santoro”, perché è lui ad averlo postato.
http://www.wumingfoundation.com/images/screenshot_feedreader.png
Nel leggere “evaporazione del padre” non ho resistito alla tentazione di ricambiare alle tante segnalazioni di cui ho goduto grazie a voi:
Luigi Zoja Il gesto di Ettore, Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre. Mirabile saggio che m’ha fatto innamorare dell’Ettore mitologico e scoprire il capolavoro di John Steinbeck, The Grapes Of Wrath, segnalazione doppia dunque :)
e che dire della narrazione supertossica dell’ “invasione” dei boat people? lampedusa e i suoi abitanti sequestrati per la messa in scena dello “scontro di civilta’”.
per non parlare della narrazione delle narrazioni tossiche:”la crescita sostenibile” il grande ossimoro dell’era moderna la giustificazione di tutte le aberrazioni (tra cui il nucleare). tema off topic ampiamente dibattuto in altri post.
Mi colpisce molto il post di Wu Ming 2 sulla concreta possibilità, mostrata dalle rivoluzioni tunisina e egiziana, di instaurare un dialogo con le società civili arabe prescindendo dal fattore religioso.
Io ci spero molto.
@furore
Nel libro, Recalcati cita esplicitamente Zoja e sintetizza la sua lettura del gesto di Ettore che si toglie l’elmo davanti al figlio, per non spaventarlo. Grazie, metterò in lista la lettura…
Una strana teoria
Ho letto l’articolo di “Carta”. Voglio aggiungere qualcosa che ho sentito alla radio una settimana fa da un dettagliato diritto internazionale, specializzato nei cambiamenti geopolitici.
Ha segnalato il rapporto tra Stati Uniti e Cina.
C’è una teoria dice che tutti questi che succedono in Libiai non sono per il petrolio ma per i metalli nobili (oro, argento…).
http://it.wikipedia.org/wiki/Metalli_nobili
Ha detto:
a)ricordate quante migliaia di lavoratori cinesi lasciato Libia e quale percentuale è stata inferiore in lavoratori di altri paesi?
b)Vedete il fine di febbraio come saltano i prezzi di metalli grezzi e nobili nei giornali ecomomici a causa della crisi Libia.
c)In questa zona (Africa) i cinesi hanno preso “tutta” la testa degli americani molto tempo fa.
d)non dimenticate la crescita demografica ed economica di Cina.
Forse c’ e qualcuno….
(sarebbe interassante)
siti per libia:
http://www.telegraph.co.uk/finance/newsbysector/energy/8349563/British-businesss-taste-for-Libyan-oil-money-exposed.html
http://www.facebook.com/pages/The-National-Conference-of-the-Libyan-Opposition/131216563561636?sk=photos
http://www.worldpoliticsreview.com/articles/8326/obamas-problematic-approach-to-war
sito per Egitto
http://www.tahrirdocuments.org/
Qui come in Nord Africa ribellarsi è necessario. Ma non basta.
In Egitto, ad esempio, hanno mandato a casa Mubarak e ora si beccano il regime dell’esercito che, tanto per cominciare, ha tolto il diritto di sciopero e di manifestazione…
Scendere nelle strade è condizione necessaria ma non sufficiente. Ci vuole un progetto, una prospettiva che non sia solo la sostituzione di un’oppressione odiosa con un’oppressione più tollerabile.
Ma è pur sempre un inizio.
[…] Non posso fare a meno di condividere il ragionamento, come al solito prezioso, che proviene dai Wu Ming. L’intero articolo potete leggerlo sul mitico GIAP. […]
@ Giacomo
In questo momento io non mi sento nemmeno in grado di dire se si tratta di un “inizio”. E’ senz’altro una grandiosa manifestazione di dignità e presa di coscienza, ma è presto per capire come andrà a finire. Mi sembra senz’altro azzardato parlare di “rivoluzioni”, come fanno alcuni. Spodestare un tiranno non è già fare la rivoluzione, cioè cambiare radicalmente gli assetti sociali, le costituzioni formali e materiali. Per altro la carenza di prospettiva è il male comune di questa epoca, sono d’accordo, e ci riguarda parecchio. Tuttavia, in un modo o nell’altro, sta accadendo qualcosa di importante, che non potrà non lasciare il segno.
È dal Cairo che vi scrivo ed anche se come dice WM4 dal punto di vista formale non si può parlare di rivoluzione, dal punto di vista, diciamo, spirituale, forse sentimentale, mi sento di poterlo fare, perché l’aria che si respira tra la gente è un’aria rivoluzionaria: per 30 anni gli egiziani sono stati zitti, compiti e contriti, impauriti e vessati ed alla fine hanno detto basta e sono stati i giovani per primi a farlo. È vero che manca un disegno, un progetto politico, che non si sa come andrà a finire, ma la gente non parla d’altro, se non del cambiamento, che tutti a gran voce, ogni venerdì rivendicano in Midan (piazza) Tahrir. Questa rivoluzione è nata su Face Book e continua a muoversi sulla rete, la grande piazza virtuale in cui tutti quotidianamente si trovano, commentano e discutono, ecco perché a gennaio ci hanno lasciato per due giorni senza internet e senza campo per i cellulari. Quando penso all’utilizzo dei social network che si fa in Italia, mi viene il volta stomaco. Qui la tecnologia è servita come mezzo per cambiare il sistema operando da dentro il sistema stesso (un po’ quello che diceva Toni Negri in Impero), o almeno ci si sta provando e si continua quotidianamente a farlo. Noi tutti, qui residenti, ci rivolgiamo a TWITTER per sapere che sta succedendo a Tahrir o che si progetta di fare il prossimo venerdì, infatti, il prossimo venerdì ci sarà una supermanifestazione vs la “proposta” di legge fatta dal governo provvisorio, che vuole criminalizzare gli scioperi e le manifestazioni pubbliche. Per ritornare però allo scontro di civiltà, quello che è veramente vergognoso è il fatto che i nostrani mass-media, e nello specifico quelli che si supporrebbero essere di sinistra, tipo RADIO3, che seguo in streaming, pure loro continuano con i loro “presunti” esperti, e inviati dal Cairo, a fare disinformazione e in un modo o nell’altro a sostenere la tesi dei musulmani vs i cristiani, che per chi si trova qui, e parla pure arabo, è quanto di più falso si possa affermare. Nessuno ha mai detto per esempio, che negli archivi della polizia segreta si è scoperto che il famoso ex-ministro dell’interno Habib El Adli (che verrà processato sabato prossimo) era implicato nella strage del 31 dicembre 2010, davanti alla chiesa di Alessandria d’Egitto; nessuno ha detto che il suo governo era implicato anche nell’attentato di Sharm El Sheykh di cinque anni fa e non continuo con i “nessuno a detto” per evitare di essere troppo prolissa. Nelle ultime manifestazioni di piazza a Londra c’erano dei cartelli con su scritto “Strike like an Egyptian”, quindi per chiudere mi sento di dire che questo popolo, che fino a due mesi fa si vergognava del proprio passaporto e della propria nazionalità, ora è a buon ragione orgoglioso di essere quello che è, cioè egiziani. Kullena id wahda (tutti noi un’unica mano) e se questa non è una rivoluzione, non saprei proprio come chiamarla.
@ Wu Ming 4.
Sono pienamente d’accordo. In questo momento, nonostante Fb e twitter, ci manca la visione di insieme per poter affermare “come andrà a finire” la questione Maghrebina (e non solo). L’entusiasmo rivoluzionario e la presa di coscienza degli insorti lasciano ben sperare, “mandano a quel paese” tutte quelle cretinate post-coloniali sulla immobilità della società africana. E. Todd e Y.Courbage lo avevano lasciato intravedere analizzando il tasso di natalià e di alfabetizzazione tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 24 nel libro “”L’incontro delle civiltà”. Adesso la grande sfida consiste nel ripensare le strutture sociali, ormai più che obsolete.
C’è da augurarsi che la platea dei frequentatori, dei lettori, sappia confrontarsi con la densità dei contributi proposti, e far circolare in maniera attiva l’impulso che ne scaturisce alla ricerca di cornici di senso condivise.
Sono le ultime occasioni per lo sviluppo di un discorso pubblico, poco o nulla a che vedere con la produzione di opinione. Sono le ultime occasioni per costituire quella piccola parola, quel piccolo sapere tecnico, la piccola idea, da portare con sè adesso che “quella grande viene a spazzarci via”.
Ciascuno lavori sul segmento che avverte come immediato nei pressi del proprio codice, in forma -alla lettera- ‘patetica’, e da lì lo ricollega al resto. Lo porti con sè, e lo offra agli altri. Provi ad avere fiducia nella qualità del proprio minuscolo tassello.
In fondo potremmo essere liberi. Non c’è più alcuna catastrofe da temere o da attendere. Poichè essa è alle nostre spalle, e i suoi terribili effetti ci sorridono.
I movimenti cui assistiamo saranno di onde ripetute, consecutive, ritmiche, fuori dalla nostra comprensione.
Si insedieranno oligarchie in luogo di tiranni, e poi cadranno, sotto nuovi flutti e vecchi ricatti. Potremo solo misurarne le conseguenze, esserne attraversati, travolti, come già accade, e cola ai bordi dello schermo, e si coagula, e sale. Tracima di liquami la sentina della storia, e al colmo ci siamo noi, che abbiamo intasato gli scarichi per non scaricare noi stessi. Il tappo di veleno chimico salta e si scioglie nel flusso.
Lampedusa squarcia il suo nome di metafora assoluta, come solo la realtà può fare.
Non abbiamo niente da offrire, fino a cibo e acqua, se non segregazione, proposta di albergare nei propri escrementi, e, adesso vedrete, galere, nel senso originale di navi-prigione.
E sofferenza ai migliori tra i suoi concittadini, i lampedusani appunto. Gente di mare, pescatori, donne consapevoli di cos’è un salvataggio, un naufrago, una vita in difficoltà. Indifferenza e disprezzo, perchè non danno fuoco, non ammazzano, non impongono con la forza l’unico strumento che li sostiene, la cortina tossica del racconto ossessivo della paura.
Eppure arrivano. Sorridenti, sfiniti, spezzati e moltiplicati.
Bastano poche migliaia. Per sollevare la nostra ossessione.
La stessa Tunisia da dove arrivano, scappano, sciamano, nei giorni successivi l’esplosione libica, ha accolto oltre duecentomila fuggiti da tutto il paese. Bengalesi, egiziani, somali, eritrei, cinesi, vietnamiti, filippini e ancora. Si sono formate povere e poderose catene di solidarietà tra villaggi, che noi consideriamo dietro gli ultimi, e profughi.
Eppure arrivano, e non smetteranno. Più bombardiamo, e conteniamo, e contaminiamo, più ne filtrano, colano, trasudano.
E’ un lavoraccio giù nella sala macchine, le turbine sono ferme e le barre fondono, ma non ci sono rischi per la salute e stiamo lavorando per voi, racconta qualche capitano di giornata e ride di sè mentre lo dice.
Cosa abbiamo da fare. Cosa ci resta, ora che non abbiamo nulla.
La digrignante umanità di Walt “NonChiamarmiWally” Kowalsky.
L’ammissione sconsolata e felice che abbiamo più in comune con quel muso giallo che il bastardo razzista del nostro vicino. La consapevolezza dolente di vecchiaia e cicatrici che non si possono nascondere. Dei segni di una fine necessaria, ma che potrebbe essere anche dignitosa, addirittura offrire squarci di luce. Con nient’altro che una vecchia automobile da lasciare in eredità.
Andando a morire da vivi.
L.
@luca
la zona del disastro. come in un racconto di ballard.
@WM1, una domanda: da quale spettacolo/opera è presa la lettura di Lorca di CB?
@ eFFe
è un’incisione discografica del ’65. Su una facciata del 33 giri c’era “La nuvola in calzoni” di Majakovskij, sull’altra il “Lamento” di Lorca.
(Però prendi quest’informazione con le pinze, è quel che sono riuscito a ricostruire, ma io quel disco non l’ho mai avuto in mano, l’mp3 l’ho trovato in rete.)
Oggi su Repubblica c’è una intervista a Fukuyama, nella quale il teorico della fine della storia afferma come le rivolte arabe di questi mesi siano una conferma delle sue tesi: in quei paesi “vaste masse si mobilitano perché non tollerano più di vivere sotto il giogo delle dittature. E quel che vogliono non è molto diverso dalla democrazia in senso occidentale. […] Ora abbiamo la prova che i valori della liberaldemocrazia non sono esclusivi, non appartengono a un solo tipo di cultura”.
Ecco, a me sembra che un’affermazione di questo tipo sia semplicemente miope (e orgogliosa di esserlo) prima ancora che sbagliata o in mala fede, e che sia rappresentativa di una cultura (chiamiamola post-moderna, scusate l’iper-semplificazione) che ha perso tanto la curiosità di capire ciò che accade quanto il desiderio di immaginare quello che potrà accadere.
Che cosa ne sa Fukuyama dei desideri dei popoli arabi? E quanti desideri, quanti interessi, quante aspirazioni anche fra loro confliggenti si mischiano nelle rivolte di questi giorni? Dal basso della mia ignoranza non ho risposte, ma dubito fortemente che Fukuyama ci azzecchi dicendo che le masse arabe aspirano alla liberaldemocrazia – a quella forma di liberaldemocrazia che hanno assunto i paesi occidentali oggi.
Mi sembra la versione 2.0 di quel luogo comune secondo il quale i tunisini vengono in Europa perché sono rimasti incantati dai paradisi visti in tv (e quasta a sua volta sembra una riedizione del mito del buon selvaggio, o del libico che aspira a essere civilizzato dalle italiche genti).
–
Lo sconforto che spinge a dire che non ci resta altro da fare oltre ad “andare a morire da vivi” lo capisco, anche perché mi capita talvolta di attraversarlo. Però ho l’impressione che sia un atteggiamento figlio di Fukuyama, in un certo senso, dell’ammissione che in fondo lui ha ragione, la storia (la nostra storia) è finita, che ci rimaniamo a fare qua, a guardare le macerie della metafora Lampedusa e il rigurgito di odio e stolidità del leghista?
Non so, credo che lui, il Fukuyama maledetto, abbia torto marcio, che ci sia molto da capire, da immaginare, e anche, perché no, da fare. Certo, bisogna darsi una mossa.
Io non so se gli arabi che si stanno rivoltando contro i loro satrapi vogliono la liberaldemocrazia come si è sviluppata in occidente, sinceramente non credo.
Penso e spero che WM4 e WM5 abbiano ragione quando scrivono: “Milioni di persone scendono in strada reclamando democrazia, libertà, dignità, futuro. Parole che si volevano passate di moda, retaggio di un tempo perduto. Parole nostre, principi che l’illuminismo e il socialismo europei hanno inscritte nella propria storia. E che oggi ci vengono risbattute in faccia da coloro che per troppo tempo abbiamo voluto vedere come barbari, retrogradi, vittime della superstizione e del fanatismo.”
E certamente questo non ha a che fare con la liberaldemocrazia, ma col fatto che determinate lotte per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale, determinati valori anche se si sono formati nell’alveo della nostra storia e della nostra cultura europea non appartengono esclusivamente a noi ma hanno una valenza universale.
Nulla mi è più estraneo di Fukuyama e di un inno alla liberaldemocrazia. Altrettanto non è lo sconforto un sentimento che mi attraversa. Considero la nostra fase terminale un beneficio per l’umanità nel suo complesso. Posso solo dolermi non sia ‘ancora abbastanza’ terminale.
L.
Democrazia, libertà, dignità, futuro. Sono senz’altro parole nostre, nel senso che scaturiscono dal pensiero greco e poi dall’illuminismo e dal socialismo. Ma vorrei essere abbastanza erudito per rispondere a una domanda difficile: sono solo nostre? Siamo sicuri che nel pensiero cinese, indiano, arabo, maya o masai non ci siano versioni altrettanto forti degli stessi concetti, nate in maniera indipendente dall’Europa e dalla sua storia? La Lega delle Sei Nazioni Irochesi aveva una legge scritta, di democrazia diretta, già quattrocento anni prima dell’arrivo dei bianchi. Franklin si ispirò a loro per immaginare la Confederazione americana. Di certo gli Ojibwa e gli Ottawa avevano un concetto alto di libertà, se quando la nazione dichiarava guerra il singolo guerriero poteva rifiutarsi di partecipare, prendere la sua tenda e andare a caccia un po’ più in là… Cosa dice la cultura araba a proposito del diritto a ribellarsi? Non lo so. So che sul controllo delle nascite e sull’aborto, ad esempio, i musulmani hanno una posizione di base ben più libera di quella cattolica o di Giuliano Ferrara. So che in Tunisia certe forme di “eutanasia passiva” sono state permesse senza i nostri polveroni. Non so, ho l’impressione che ci siamo fin troppo illusi di conoscere il mondo…
Quel sentire non è solo “nostro”, non è “europeo”, non è nostra proprietà, non abbiamo il copyright. Semmai sono “europee” (cioè: tipiche di un pensiero critico di origine europea) le formulazioni di cui sopra (“democrazia”, “uguaglianza”), è “europeo” l’aver isolato dei concetti. Ma il sentire che quei concetti hanno cercato di definire è potenzialmente universale, altrimenti cosa stiamo qui a fare? :-) Che ci facciamo accampati sulla riva sinistra del fiume? E’ universale “in ultima istanza”, cioè *una volta tenuto conto* delle differenze culturali, sociali etc.
Voilà…
…Žižek on Egypt: the universal at work
http://www.youtube.com/watch?v=QyLB7BSvCl4
Questo del confronto di culture mi pare un ottimo caso di studio su come funzionano i frame.
C’è una narrazione tossica che dice “andiamo alla scontro di civiltà”, “L’islam è intrinsecamente fondamentalista”, “gli arabi non sanno fare la democrazia, dobbiamo esportargliela noi”. Allora tu, progressista, pensi che il discorso opposto sia “Andiamo all’incontro tra culture”, “facciamo il dialogo religioso”, “l’Islam non è tutto fondamentalista, ci sono pure i moderati”, “Gli arabi possono imparare le regole democratiche”, and so on, and so on. E non ti accorgi che tutta ‘sta roba, a prescindere dai buoni propositi e dai buoni risultati che magari ottieni, non fa che legittimare il frame culturalista e differenzialista, dal quale non sei veramente uscito. E l’Occidente non ne sarebbe uscito, senza queste rivolte: secondo me, è un punto di non ritorno. Quel frame verrà riproposto, mieterà ancora vittime, e pure quello presuntamente opposto continuerà a non centrare il problema. Eppure, l’universalismo ormai è al lavoro. Yesterday came suddenly…
Huntington è miope proprio in questo senso quando afferma che l’universalismo è la causa logica e necessaria dell’imperialismo, quando invece il primo è un concetto svuotato del suo contenuto e riempito dalla concezione dell’universalizzazione di un MODELLO (democratico, col suo potente involucro di marketing) e non di aspirazioni, tensioni, evoluzioni, aneliti che sono tipicamente e semplicemente umani. E’ morto nel 2008, la data è emblematica per l’uomo che ha tracciato le linee di conflitto lungo i confini delle “civiltà”, scordandosi la linea che unisce le piazze finanziarie con le banche centrali con il fondo monetario con la banca mondiale con le serpentine geografiche di oleodotti e gasdotti con le rotte delle petroliere delle portaerei dei torpedinieri. Scordandosi, ecco, la rappresentazione geografica del capitale che schiaccia la libertà, la dignità, i diritti umani, che dispiega la sua forza dilagando. Un clash non da poco. Scientificamente mi pare che valga molto di più a spiegare la situazione l’analisi di Toni Negri..
http://bartleby.info/sites/bartleby.info/files_upload/ToniNegri1_0.mp3
WM2 ha scritto: Inutile dire che il mio campionario deve molto alla discussione fatta qui su Giap a proposito dei minatori di San José e delle storie tossiche…
dopo aver letto il post e l’intero corpus di commenti avrei desiderato aggiungere un aspetto alla discussione, ma mi sembra di capire che non sia più possibile farlo lì. Nella speranza di non uscire troppo dal seminato – ma cerco di farla corta! – lo sottopongo alla vostra attenzione qui.
In ambito teatrale per distinguere uno spettacolo fertile da uno tossico, si usa il binomio finto/falso. Uno spettacolo fertile è finto, uno spettacolo tossico è falso. Il dichiarare la finzione, ovvero esplicitare che ciò che si sta recitando non è la realtà, serve a porre l’accento su quanto sta accadendo realmente: degli esseri umani si stanno esibendo davanti ad altri esseri umani. Quando la finzione non è dichiarata, quando gli attori non fanno vedere che recitano, quando il regista cerca di mascherare il luogo scenico siamo in presenza di uno spettacolo falso, uno spettacolo che si vuole far passare per la realtà e ci relega in un mondo di sogno, in cui non ci sono, nemmeno in potenza, atti di ribellione possibili. In uno spettacolo in cui la finzione è esplicitata, possiamo avvertire lo scorrere del tempo e sapere che da un momento all’altro può capitare qualcosa di imprevisto. Brecht, Mejerchold e Artaud, con declinazioni diverse, hanno teorizzato questo teatro, Carmelo Bene e Carlo Cecchi (cito solo i due più grandi) ce lo hanno mostrato.
Mutatis mutandi le storie fertili sono quelle i cui autori sanno anche mostrarci il mezzo attraverso il quale si mettono in comunicazione con noi. Un buon romanzo non ha paura di mostrarsi come letteratura e un buon film ci rivela che è un film (Herzog!), i modi per farlo ci sono.
@ filosottile
“Mutatis mutandi le storie fertili sono quelle i cui autori sanno anche mostrarci il mezzo attraverso il quale si mettono in comunicazione con noi. Un buon romanzo non ha paura di mostrarsi come letteratura e un buon film ci rivela che è un film”
E’ esattamente quel che cerca di dire Furio Jesi quando conia il concetto di “macchina mitologica”: giocare contro il Mito la consapevolezza che ogni mito è lavoro e lavorìo su “materiali mitologici”.
Più in alto, in questo thread, è appena “spuntato” un commento di Barbara B. dal Cairo. Lo ha lasciato due giorni fa, ma per qualche motivo (forse l’IP egiziano è in qualche lista anti-spam), era rimasto impigliato nel filo spinato. Ce ne siamo accorti soltanto adesso e, armati di cesoie, lo abbiamo liberato. Ci scusiamo con Barbara. Leggetelo.
@ barbarab
Non vorrei essere frainteso. Non voglio in alcun modo mettere in dubbio che il clima e l’afflato condiviso laggiù sia rivoluzionario. Credo davvero, come ho scritto, che questa ondata di rivolta e di cambiamento sia la cosa più importante successa nel mondo arabo dopo la liberazione dall’impero ottomano e le lotte anticoloniali. La mia riflessione era sull’uso del termine rivoluzionario “in senso stretto”, cioè come termine associato a una determinata fenomenologia politica. “In senso lato” è evidente che un risveglio generale della società araba dal basso è di per sé un evento rivoluzionario, perché rivoluziona la percezione che quel mondo ha di se stesso e anche la nostra. Vedremo poi in cosa questo si concretizzerà.
Questo è quello che nella storia io chiamerei un momento interessante.
@ WM4
Grazie per aver liberato il mio commento, d’altro canto Piazza Tahrir è proprio Piazza della Liberazione :)!
Vi passo qualche link interessante sulle questioni cui accennavo prima.
Il primo è tratto dal blog di Jasmine, una mamma italo-egiziana, così lei stessa si definisce, e riguarda l’incendio della chiesa nel villaggio di Sol ( a 20km dal Cairo) di cui ampiamente, ma erroneamente, si sono occupati i media nostrani.
http://ilmioegitto.splinder.com/post/24280248/la-finta-guerra-religiosa
Il secondo, in inglese, è una riflessione post referendum del 19 marzo scorso, relativa al “che fare?” dopo la sconfitta del NO, per evitare che la rivoluzione finisca in un nulla di fatto, o in come diceva il Principe Salina in un “cambiar tutto per non cambiare niente”.
http://www.sandmonkey.org/2011/03/20/playing-politics/
Da ultimo, un articolo tradotto in italiano che riporta il testo di un blog di Ahmed Nàgi, uno dei più famosi blogger egiziani, da lui scritto durante i giorni della “rivoluzione”. In queste sue riflessioni Ahmed evidenzia ciò che è capitato a tutti quanti qui, cioè l’evoluzione dall’apatia/disillusione all’attivismo/militanza. Se poi vi interessa, di Ahmed Nàgi è uscito l’anno scorso in Italia “Rogers e la via del drago divorato dal sole”, per l’Editore Il Sirente.
http://www.unacitta.it/newsite/altritesti.asp?anno=2011&id=187
Ed un “Strike like an Egyptian” a tutti! :)
@ Wu Ming 1
Grazie per il link a Zizek, un filosofo tanto pericoloso quanto sconociuto in Italia. La sua critica perversa alle politiche multiculturaliste e dei diritti universali – ormai in mano alla destra neoliberista più che alla sinistra – offre un paradigma interpretativo originale ed efficace per smascherare le strumentalizzazioni partitiche che riguardano “l’altro”.
Come disse al convegno romano lo scorso anno: “la vera integrazione avviene quando ci si inizia a raccontare le barzellette sporche” ;)
@ Nexus
beh, dài, Zizek non mi sembra così “sconosciuto” in Italia: “Internazionale” pubblica suoi articoli quasi tutte le settimane, e tutti i suoi libri sono tradotti in italiano. Certo, è famoso quanto può esserlo un filosofo famoso, non lo vedrai ospite da Bruno Vespa, ma da qui a dire che è sconosciuto…
@ Wu Ming 1
“Il fatto di rendermi famoso è un tentativo di non prendermi sul serio” dice spesso Zizek.
Ho scritto “sconociuto” poichè avendo scritto una tesi magistrale su di lui, ho trovato serie difficoltà a trovare riferimenti significativi al suo lavoro nell’ambito accademico.
Il problema è che in Italia sono stati tradotti per la maggior parte quei testi che l’hanno reso “l’elvis della filosofia”, accentuandone il lato comedian a dispetto di quello intellettuale.
I suoi libri filosofici a partire da The Sublime Object of Ideology (o Parallaxes View) restano in inglese, ma almeno sul cinema hanno tradotto quasi tutto (recentemente anche il saggio su Kieslowsky) grazie al lavoro dell’Univ. di Udine.
In attesa di vedere Zizek a Porta a Porta, colgo l’occasione per farvi i complimenti per il lavoro che svolgete.
Ieri sera ho guardato un interessante documentario «hackers».
La prima parte è stata dedicata a Wikileaks, la seconda è stata dedicata al ruolo che hanno svolto Facebook e Twitter dala rivolta in Egitto (secondo me il prima). La signiora Asma Mahfouz (aveva fatto 2 videos in 21 / 25 gennaio e chiamava la gente ad uscire sulle strade). Ha detto che la rivolta ha successo perché Mubarak ha fatto un’ ERRORE TRAGICO. Ha vietato Internet e cellulari. Così, quando le informazioni hanno smesso, tutti sono usitti delle loro case.
In Egitto sensa Internet hanno fatto la revoluzione?
Qui vorrei fare un riferimento un po’ irrilevante, ma penso che sia solo un’ «altra parte della stessa moneta».
L’ Argentina in 2001/2002 (the bankruptcy of a country).
Quando i resident non avevano soldi, hanno fatto una sistema si chiamava «troueche» (scambio di beni e servici senza denaro). Un’ altra revoluzione contro il sistema finanziario globale (in America ha chiamato terrosismo economico).
Internet, denario… Non è molto pericoloso quando la gente fa pratica un metodo pratico che permette di essere indipendente e solidale?
L’ indipendenza e la solidarietà non hanno bisogno ne lingua, ne religione, ne stati… Sono proprietà dei umani.
Ma per creare uno “stato” come in parte “altra” del Mediterraneo o del mondo, chi tra noi potrebbe dire che e indipendentè? Chi tra noi potrebbe rimanere in una piazza per un’ obiettivo una o due settimane? (come Tunisia, Egitto…)
Noi che cosa faremmo se non abbiamo, per esempio, Internet o cellulari o denari ? Sarremo tutti in piazze? Non siamo molto beneducati?
Per la solidarietà non voglio parlare, sapiamo tutti…
Quello che scrivo e’ un’ utopia? Non so…
Ora in Twitter c’è trasmissione diretta, minuto per minuto, le manifestazioni di oggi a Tahir piazza e Alessandria.
Anche vorrei riportare due siti interessanti:
Come una revoluzione diventa pubblicità (by Goggle, flying carpet tours, CNN…).
http://flyingcarpettours.com/Campaigns/Tahrir-square-tour/index.html?gclid=CJDhpIig-acCFQQQfAod8zyeqA
http://www.washingtonpost.com/blogs/post-partisan/post/what-happens-in-tahrir-square-stays-in-tahrir-square/2011/03/21/ABTOcf8_blog.html
@ Nexus
su questo ne sai più di me. Generalmente leggo i libri di Zizek in inglese (se non ricordo male, l’unico che ho letto in italiano è In difesa delle cause perse), e non me n’ero nemmeno accorto, che The Sublime Object of Ideology e The Parallax View non fossero disponibili in italiano! Chissà poi perché. Cmq, vedo ora che tra le sue opere più “hard” hanno tradotto Il soggetto scabroso, che non è proprio un libro “presleyano” :-)
@filosottile
Direi che la distinzione finto/falso ha molto a che fare con la questione parziale/obiettivo che tracciavo nell’articolo per l’Unità sui minatori di San José:
“[…] le storie al metanolo sono totalitarie: cercano in tutti i modi di apparire neutre, trasparenti, imparziali, quando invece non è possibile raccontare senza assumere un punto di vista, e occorre ricordarlo fin dalle prime righe. Se un racconto spaccia per totalità, visione dall’alto, la sua ineludibile parzialità, allora è tossico e bisogna assumerlo solo in piccole dosi, per avere fantastiche allucinazioni e vedere le mille alternative nascoste dall’autore sotto il tappeto.”
@barbarab & moustroufo.
Rispetto all’importanza di Twitter & Facebook per le rivoluzioni arabe, io vedo in agguato una narrazione tossica. Anticipo qui un passaggio di quel che andrò a dire alla Duke University:
“Twitter e i social network sono stati strumenti utili di raccordo e di informazione per le proteste tunisine, ma queste proteste non si sono svolte su Twitter. Come ha fatto notare Tarak Barkawi, “revolutionaries in France and Haiti in the 1790s received news of one another’s activities by the regular packet ship that plied between Jamaica and London.”
Le narrazioni tecnofile – nel caso del Nord Africa e del Medio Oriente – hanno avuto come effetto quello di rassicurare chi le ascoltava, di rendere la violazione della quotidianità meno dirompente. Se diciamo che in Tunisia si è sviluppata una “Twitter revolution” ci sentiamo più a nostro agio che raccontando una rivolta dura, lontana dai nostri standard, con gente che si brucia viva o si ribella contro il prezzo del pane e dell’olio da frittura.
[…]Twitter e Facebook sono in un certo senso i Lawrence d’Arabia del ventunesimo secolo: porre l’accento sui social network ci dà la piacevole sensazione che queste rivolte “per la democrazia” siano un sotto-prodotto di Internet, strumento democratico e partecipativo per antonomasia, che è a sua volta un prodotto dell’Occidente. Dunque, ci diciamo, se l’Egitto si è rivoltato grazie a Internet, allora in fondo si è rivoltato grazie a noi, e tendiamo a dimenticare così che il luogo simbolo di quella rivolta non è il cyberspazio, è una piazza, anche perché rovesciare un despota via Twitter non è così semplice: primo, perché l’accesso a Internet può essere bloccato, – e infatti è stato bloccato – secondo perché anche i dittatori lurkano nei social network.”
Qui l’articolo di Tarak Barkawi sull’eurocentrismo del concetto di “twitter revolution”:
http://goo.gl/SMxNE
“Most narratives of globalisation are fantastically Eurocentric, stories of Western white men burdened with responsibility for interconnecting the world, by colonising it, providing it with economic theories and finance, and inventing communications technologies. Of course globalisation is about flows of people as well, about diasporas and cultural fusion.”
@WM2 e moustroufo
E’ vero, avete perfettamente ragione, quindi chiedo venia, le mie parole sono state mal espresse. Twitter e FB sono serviti e servono solo come cassa di risonanza, per trascinare sempre più gente in piazza Tahrir, ma non sono stati la causa. Lungi da me il voler sminuire il ruolo degli esseri umani che si sono dati fuoco in Tunisia o di quelli che sono caduti vittime delle pallottole della polizia qui al Cairo, a Mansura, a Suez ecc.
Tra le altre abbiamo appena sentito una forte scossa di terremoto! M’è pigliato un colpo!
@barbarab
il senso del tuo discorso era chiaro, ma la narrazione tossica è dietro l’angolo. Ad esempio, non mi convince la spiegazione della rivolta come “Mubarak ha fatto un errore, ha vietato Internet, e allora la gente è scesa in piazza”. Io sono convinto che la gente, in piazza, ci sarebbe finita comunque, a prescindere da Internet, che senz’altro ha avuto un ruolo, ma non così fondamentale. Se le informazioni avessero dovuto viaggiare a dorso di cammello, ci avrebbero messo più tempo, ma avrebbero viaggiato lo stesso, e prima o poi la rivolta si sarebbe diffusa, com’è sempre successo.
@Wu Ming 2
Mi sembra che mi ha frainteso.
Intendevo che “il taglio” di Internet servito come un pretesto “ha traboccato il bicchiere”, di fronte il sentimento di rabbia per la loro vita, in tutto cio che li opprimere.
Ripeto l’ Internet non è stata la causa è stata il protesto.
Chiaramente, la loro rivolta ha cominciato con il modo in cui vivono brutto (l’ingiustizia, la povertà …).
Dovremmo essere tutti con la loro parte e forniamo un maggiore sostegno…
D’altro con Internet non hanno visto, “aperti gli occhi”, come viviamo “noi occidentali” dall’ “altra parte” con la vita piena di “giustizia” buona “…
Ci sediamo di fronte a un computer, un televisione, ascoltiamo e guardiamo discorsi. Interviste, parole, parole parole… per noi, per le cose sulla nostra vita senza fare nulla.
Conosco una canzone che dice. “Temo che tutto ciò che sarà per me, senza di me”
La Tunisia e Egitto devono essere l’ esempio.
Un’anticipazione un po’ “sghemba”: ecco i primi 5 minuti di ciascun intervento… letti dal computer :-)
WM2 – How to tell a revolution from something else
http://www.wumingfoundation.com/suoni/prova_speech_wm2.mp3
WM1 – We are all February of 1917
http://www.wumingfoundation.com/suoni/quarta_prova_speech.mp3
Gli interventi avranno più o meno la stessa durata, 45 minuti ciascuno.
E’ verissimo quello che dici, infatti le rarissime volte in cui ho parlato dell’Egitto, – e non dei paesi arabi, perché la mia esperienza decennale qui, mi permette di farlo solo per questo paese e non per gli altri, che sono realtà molto diverse tra loro – ho cercato sempre di tenere a mente quello che io considero un po’ la Bibbia di noi arabisti, cioè “Orientalismo” di Edward Said. Quando il 4 febbraio sono fuggita dal Cairo, perché per noi stranieri era diventato veramente pericoloso continuare a stare qui, al mio arrivo in Italia mi ha veramente stupita l’interesse dei miei concittadini ferraresi per quel che stava capitando qui, e soprattutto il loro senso d’invidia, direi, verso gli egiziani che ce l’avevano fatta, mentre noi stiamo ancora qui a subire. Mi son detta, era ora! Ma quello che mi sorprende ancor più, ora che sono ritornata qui, parlando con i miei studenti di italiano, è la loro dedizione alla causa della rivoluzione. Non tutti, è ovvio, possiedono il computer e quindi l’accesso ad internet, perciò il tam tam via rete vale per una fetta relativamente esigua della popolazione e i giovani, ben coscienti di questo fatto, scendono in strada e parlano con la gente, con i portieri, i bottegai, i giovani commessi dell’home delivery, le donne che vendono fazzolettini agli angoli delle strade, i taxisti ecc, insomma tutti quelli che altrimenti riceverebbero informazioni solo dalla TV di stato. Un lavoro che nasce dal basso, dal contatto tra esseri umani ed è certamente questa, forse, la grande rivoluzione, ovvio ora è solo l’inizio, ma tifiamo tutti per loro. La manifestazione di oggi sembra essersi svolta senza incidenti, pacificamente, speriamo continui così. Prima o poi, come dici tu, sarebbe successo, ma la scintilla è stata la Tunisia: quello che hanno ottenuto i tunisini lì, ha restituito il coraggio a tutti quanti, e così il 25 gennaio, che per il governo doveva essere la Festa Nazionale delle Forze di Polizia, si è trasformato nel primo giorno della loro rivolta. Ora dovranno organizzarsi e usare la politica, ma mantenendo un costante contatto con la piazza, che è quello che ha fatto la differenza, perché gli altri, i Fratelli Musulmani per primi, hanno un’esperienza politica ben superiore alla loro, e l’ex-regime, che non è improvvisamente scomparso, lo sa perfettamente.
@ WM2
Ti rispondo, anche se un po’ in ritardo, alla domanda “Cosa dice la cultura araba a proposito del diritto a ribellarsi?”
La prendo un po’ alla larga, concedimelo: quando nel 632 morì il Profeta Muhammad, la comunità musulmana di Medina si trovò davanti al dilemma di scegliere chi l’avrebbe sostituito e democraticamente si scelse Abu Bakr, poi alla sua morte Omar ed infine Othman. Quando questi venne ucciso, la comunità aveva scelto come suo successore Ali, genero del Profeta, in quanto ne aveva sposato la figlia Fatma, ma anche suo cugino, solo che per i vari intrighi di palazzo, si fece una guerra, cui partecipò la famosa Aisha, la bellissima, giovane ed emancipata moglie del Profeta Muhammad, e quindi invisa alla comunità conservatrice meccana, che tanto il Profeta aveva combattuto mentre era in vita, e che portò alla grande divisione tra Sunniti e Sciiti. Gli Sciiti divennero coloro che parteggiavano per Ali ed e i Sunniti, coloro che al contrario parteggiavano per un’altra branca di discendenza del Profeta, che fu poi alla fine quella vincente.
Ora, avendo vinto la branca della famiglia più conservatrice, cioè quella di Muawiya e non quella di Ali, il genero democraticamente eletto dalla comunità di Medina, si arrivò ad una trasmissione del potere di padre in figlio, cosa che agli albori dell’Islam non si era minimamente verificata. Come vedi, dal punto di vista della pratica, la democrazia non era minimamente estranea all’islam, ma sono stati gli intrighi di palazzo a metterla a latere. Nel Corano stesso e quindi nella Shari’a che da esso si ricava, il buon musulmano ha l’obbligo di ribellarsi contro il mal governo di un despota, ecco quindi perché negli anni 80-90, alcuni ideologi dell’islam politico, tipo i fondatori della Gihad islamica in Egitto, si sentirono ampiamente supportati dal Corano stesso e dalla Shari’a quando uccisero il presidente egiziano Anwar el Sadat, che con le sue politiche di rialzo dei prezzi del pane e soprattutto con la firma del trattato di Pace di Camp David con Israele, aveva, dal loro punto di vista, tradito la causa araba e palestinese alleandosi con il nemico.
Una domanda per Wu Ming 1: Cosa intendi per “decostruzione del mito tecnicizzato dell’Italianità”? Notevole la frase, è da meccanico, anzi direi da vivisezionatore delle parole, in uno stile che ricorda musicalmente l’ultimo Beethoven. Sul concetto di “nazionalità” ci sarebbe da aprire un lungo dibattito, anche perchè molti non sanno cche l’idea di nazione ha cominciato a svilupparsi a partire dall’800.
@ merkur70
beh, è quello che ho fatto nell’intervento “Patria o morte”, e prima ancora nella “Lezione su 300”: distinguere ciò che in apparenza è uguale, separare ciò che in apparenza è unito, e mostrare che il Mito non è unitario come appare, ma è un assemblaggio di materiali eterogenei.
Non sto a rifare proprio *tutti* gli esempi perchè li ho già fatti nell’intervento e annoierei molta gente, ma a grandi linee:
Benigni (e Mameli prima di lui) propone un’idea di “Italianità” che risale nei secoli e nei millenni. Per lui già Scipione era “italiano”, la vittoria nelle guerre puniche fu una vittoria “italiana”, l’esercito dell’impero romano era un esercito “italiano”, e via così: la rivoluzione di Pontoria fu fatta per la libertà “italiana”, i Vespri siciliani furono fatti per la libertà “italiana” etc.
Si propone, insomma, una narrazione *unitaria*, apparentemente coesa, e un’identità che si protrae dalla notte dei tempi senza soluzioni di continuità. Identità evocata per contrapporsi alle altre. Questo è un caso da manuale di “mito tecnicizzato”, secondo le definizioni e descrizioni di Kerenyi e Jesi. E al tempo stesso è un caso da manuale di “invenzione della tradizione”. I due concetti sono in molte parti (anche se non del tutto) sovrapponibili.
L’atteggiamento critico di fronte al Mito che si propone come unitario e indiscutibile consiste nello scindere e nel mettere in discussione. L’etimologia della parola “critica” rimanda infatti al tagliare, al separare.
Se uno va a vedere ciascuno dei precedenti mitico-storici proposti (e assemblati nell’Ottocento), vedrà che questa “Italianità” fu un’invenzione retrospettiva. L’impero romano e Scipione non erano “italiani” (parlavano un’altra lingua, avevano un’altra religione, e ovviamente non avevano alcuna concezione di stato-nazione, perché non era un’idea dei loro tempi), e che nessuna delle rivolte evocate nell’Inno di Mameli fu fatta per la libertà “italiana”. Le soluzioni di continuità tra i tempi antichi e i nostri ci sono state eccome, e in abbondanza. La nazione non esiste ab aeterno.
Non è sano riproporre oggi, come niente fosse e celando le “suture”, lo stesso assemblaggio mitologico che Mameli e tanti altri produssero nell’Ottocento. Perché nel frattempo abbiamo visto che quell’assemblaggio, quell’idea di Patria, di Stirpe italica e di Nazione, non è innocente, ha lati oscuri che poi si sono espressi nel colonialismo, nel fascismo e nel carnaio delle guerre mondiali.
Ogni volta che si parla di patria, di Risorgimento, di “italianità”, bisognerebbe farlo tenendo conto di tutto ciò, e tenendo la guardia alta contro certe riproposizione acritiche. Siamo un Paese che ha messo sotto il tappeto un sacco di polvere e merda, che si rifiuta di affrontare le proprie colpe. Riproporre un Mito dell’Italianità, a-storico e trascendente, è la strada sbagliata, che non può che riportarci verso nuovi sfracelli.
Ecco, questa è la decostruzione del mito tecnicizzato.
Grazie Wu Ming 1 per la pronta e dettagliata risposta, bisogna affermare che siamo un popolo privo di memoria storica, intorpidito e reso ottuso dal benessere: “non è che il benessere degli ultimi anni ci ha dato alla testa?”, ricordo di aver letto in un articolo scritto da non so quale giornalista. Inoltre, il concetto di “nazione” qui in Italia è sempre stato piuttosto vago, data la millenaria frammentazione in stati e staterelli vari, ed anche le varietà e diversità regionali.
Ehi, siamo tornati!
Qui:
http://goo.gl/fb/S9bY3
l’audio e i testi in inglese della conferenza all’University of North Carolina.
Tra pochi giorni, i testi saranno anche qui su Giap in italiano, prima quello di WM1, poi quello di WM2.
bentornati!!!
aspetto di leggere i testi in italiano…
Gia ascoltati e letti (utile, si ascolta e si legge l’inglese, così si fa pure esercizio!). Grazie. Oltretutto aggiungo sempre qualcosa alla lettura di T.E.Lawrence…:-))
be’, per prima cosa ben rientrati!
Ho appena finito di ascoltare entrambi gli interventi… mi sa che veniamo dalle stesse parti dall’accento :))
cmq. tanto di cappello!
@ WMING1
Mi ha colpita molto il link rivoluzione/5 ragazze di Proust, un lampo di genio!
@WMING2
Condivido tutta la tua analisi e sai cos’è buffo? oggi c’è stata e c’è tutt’ora una super manifestazione a tahrir e in molte altre piazze, dal titolo “purificazione”: in una delle foto pubblicate su FB si vede un tizio su una macchina con tutti i prodotti per pulire la casa… in pratica sono tutti in piazza per ripulire l’egitto dai vecchi leader che ad oggi non sono stati ancora processati… quale miglior esempio di detoxication!
@ WMING1 E 2 A parte gli scherzi: è ufficiale il Festival di Internazionale di Ferrara, quest’anno sarà dal 30 settembre al 2 ottobre e verterà anche sull’Egitto ed il ruolo dei media nella rivoluzione. Hanno invitato anche Ahmed Nagi, il giornalista/scrittore/blogger di cui vi parlavo nel mio post precedente. Spero verrete.
Mabrouk (congratulazioni) ancora per gli speech!
@ barbarab
“mi sa che veniamo dalle stesse parti dall’accento :))”
Oh, yeah. Io vengo, precisamente, da qui:
http://bit.ly/dEfBCf
mi sembrava una “s” un po’ familiare…