È la notizia che da tempo temevamo di ricevere. La morte è sempre stata ai margini del quadro, sottesa a ogni discorso, a ogni aggiornamento sulla situazione, da quando compagne e compagni hanno cominciato a partire per la Siria del Nord con l’intenzione di dare un contributo alla rivoluzione del confederalismo democratico.
Va sempre ricordato, che c’è una rivoluzione. Non si è mai trattato “solo” di combattere contro l’ISIS – che già non sarebbe poco, da qui le virgolette –, ma di farlo in nome di una nuova società in costruzione, di un’esperienza comunitaria innovativa e preziosa.
Senza quella molla, la lotta di YPG e YPJ contro Daesh non sarebbe stata tanto efficace. Di più: senza quella molla, YPG e YPJ non esisterebbero.
Occorre avere presente la genealogia di quell’esperienza, per capire cosa spinga i combattenti autoctoni, i volontari internazionali e l’intera popolazione del Rojava.
Siamo alle foci di un grande fiume, costituito da cent’anni di resistenza curda, resistenza politica e culturale. Il Medio Oriente è l’esempio più lampante di come la prima guerra mondiale non sia finita, di come continuiamo a subirne direttamente le conseguenze. Stiamo facendo i conti con la spartizione imperialistica dell’ex-impero ottomano da parte delle potenze vincitrici. Durante il centenario appena trascorso, abbiamo sprecato mille occasioni di discuterne. A farlo ci abbiamo provato in pochi.
L’ultimo tratto di quel grande fiume lo hanno scavato trentacinque anni di attività del PKK. Ci sono reti sociali temprate in anni di guerriglia contro il secondo più grande esercito della NATO, quello turco. Ci sono le elaborazioni teoriche di Abdullah Öcalan, in carcere da vent’anni principalmente per colpa dell’Italia, o meglio, di un governo italiano di centrosinistra (abbiamo il vizio della memoria).
Dicevamo: è la notizia che temevamo di ricevere. Il primo caduto italiano non – genericamente – «nella guerra in Siria», come ha scritto qualcuno, ma nella rivoluzione della Siria del Nord.
Il combattente delle YPG Giovanni Francesco Asperti è morto nei pressi di Dêrika/Al Mālikiyah, città all’estremo lembo nordorientale della Siria, al confine con la Turchia, in circostanze imprecisate. Il rapporto parla di uno «sfortunato incidente». Il suo nome di battaglia era Hîwa Bosco. In curdo, hîwa significa «speranza».
Per noi un rivoluzionario caduto italiano non “pesa” più di un rivoluzionario caduto di altre nazionalità. Sono tutti allo stesso livello. Le persone – donne e uomini – morte in Rojava compongono un mosaico plurinazionale dalle tinte variegate e contrastate. Ma è fuor di dubbio che la morte di un italiano induca riflessioni sulla prossimità tra la sua formazione e la nostra, tra le sue esperienze e le nostre.
Asperti aveva 53 anni, veniva da Ponteranica, in provincia di Bergamo, ed era padre di due figli adolescenti. Poiché «teneva famiglia», nell’intestino crasso del piccolo-borghese qualunquista fermenterà già, escrementizia, la domanda: «Chi gliel’ha fatto fare?». Qualcuno gli starà dando dell’avventuriero, del genitore scriteriato, del cercatore di brividi, del «turista nelle rivoluzioni altrui». Fin dalla morte di Enzo Baldoni, nel 2004, si è manifestata un’Italietta sempre pronta a vomitare tonnellate di odio e dileggio su chiunque decida di non farsi «i cazzi propri». Ti rapiscono? Te la sei cercata! Ti ammazzano? Era meglio se stavi a casa tua! Ti stuprano? Magari ti è pure piaciuto!
Infatti: quando si tratta di una donna, si spalancano abissi, come abbiamo visto per l’ennesima volta nel novembre scorso, quando la cooperante di 23 anni Silvia Romano è stata sequestrata in Kenya, probabilmente da jihadisti somali. E non si tratta solo di «odiatori da social» o fascisti conclamati. Sarebbe troppo comodo. Basti ricordare che, sulla prima pagina del Corriere della Sera, l’opinionista Gramellini – propinatore “garbato” di ogni luogo comune reazionario sotto il cielo – ha definito «smania di altruismo» la spinta di Silvia alla solidarietà.
Tutto questo, ricordiamolo, nel paese dove ogni giorno i razzisti cercano di imbellettare lo schifo che fanno ripetendo: «Aiutiamoli a casa loro!»
C’è da sorprendersi, allora, se zelanti procuratori definiscono «socialmente pericoloso» chi è andato ad aiutare le genti del Rojava e a combattere contro l’ISIS, e chiedono che venga sottoposto a sorveglianza speciale?
È questo, non un altro, il trattamento che avrebbero riservato ad Asperti se fosse tornato in Italia sano e salvo.
Non conoscevamo Asperti, della sua vita e del suo eventuale attivismo in Italia non sappiamo nulla, ma conosciamo compagne e compagni che hanno fatto la sua stessa scelta e intrapreso un percorso analogo al suo, e soprattutto una cosa ci sentiamo di dire: lo sporco sotto le unghie dei piedi di una sola di queste persone ha più dignità di tutte le intere esistenze di chi le attacca e le insulta.
[…] Ο μαχητής των YPG Giovanni Francesco Asperti σκοτώθηκε κοντά στην Dêrika/Al Mālikiyah, πόλη στα μακρινά βορειοανατολικά σύνορα της Συρίας, στα σύνορα με την Τουρκία, κάτω από απροσδιόριστες συνθήκες. Η έκθεση μιλά για ένα «ατυχές γεγονός». Το όνομα του μάχης ήταν Hîwa Bosco. Στα κουρδικά, hîwa σημαίνει «ελπίδα». […]
[…] la propria esistenza – come nel caso del martire bergamasco Giovanni Asperti mancato a dicembre, nome di battaglia Hiwa Bosco – diviene perciò possibile per chi, come Luisi, crede fino in fondo alla necessità di dare […]