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[Nella primavera scorsa, a distanza di due settimane l’uno dall’altro, sono usciti due libri molto importanti: La buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski e La sinistra di destra di Mauro Vanetti. Libri che dialogano tra loro a più livelli, non a caso molte persone li hanno letti o li stanno leggendo come se fossero due volumi di una stessa opera. Libri dei quali siamo orgogliosi, perché Giap ha fatto da banco di prova per entrambi i progetti: Wolf e Mauro scrivono su questo blog da anni e nelle loro pagine hanno sviluppato riflessioni proposte qui. E che qui ora proseguono: nel lungo scambio che state per leggere, avvenuto via mail nelle ultime settimane, W. e M. riflettono su sinistra, classi sociali, sovranismi, diritti, «sicurezza» e «decoro», partendo ciascuno dal libro dell’altro, “pungolati” da Wu Ming 1 e Luca Casarotti. Buona lettura.]
Wu Ming 1
Allora, come avevamo stabilito, comincia l’autore del libro uscito per primo. Vai, Wolf.
1. Sinistra e «sinistra»
Wolf Bukowski
Voglio iniziare dando conto della difficoltà che abbiamo nel definire una parte della sinistra di questo paese, e di come la sistematizzazione proposta da Mauro in La sinistra di destra possa aiutare a superarla.
La parte che mi crea problemi è quella che di solito indico come «sinistra istituzionale». Questa aggettivazione, a cui pure ricorro, continua a sembrarmi un escamotage. Anche se si tratta di una sinistra che ha fatto della governance l’unico orizzonte della propria azione politica, egualmente essa non è definita solo dal suo rapporto con le istituzioni, ma ha una sua dimensione ideologica, culturale eccetera.
Parlando del PD, poi, è forte la tentazione di indicarlo semplicemente come destra, ma il rischio è che una definizione così semplificata suoni ambiguamente polemica: dire «il PD è di destra!» produce insomma l’effetto di quando si dice a un amico «non fare lo stronzo!», per richiamarlo a un comportamento che sia più in linea con il suo vero modo di essere, quello che conosciamo e stimiamo. Ma il PD non è nostro amico – è anzi proprio l’opposto – e non ci interessa dargli alcun consiglio, né allontanarlo da un posizionamento in cui si trova perfettamente a suo agio.
Molto più utile l’approccio di Mauro, che nel suo libro divide il campo in «vecchia sinistra di destra», cioè quella la cui cifra essenziale è il liberismo, e «nuova sinistra di destra», cioè quella segnata dal nazionalismo. Questa impostazione consente sia di distinguere tra le due sinistre di destra sia di riconoscere la loro tensione unitaria, evidenziata tanto dal nazionalismo esibito senza pudore dal Pd, quanto dall’emergere di soggetti come Patria e Costituzione di Stefano Fassina, ponte di corda tra la vecchia e la nuova sinistra di destra.
Wu Ming 1
O come Federico Rampini, il cui percorso è parimenti emblematico: da liberal a sovranista, da cantore della governance neoliberista della globalizzazione a tardivo ma veemente – e tanto più veemente quanto più tardivo – Savonarola neonazionalista e denunciatore del presunto «immigrazionismo» della sinistra.
Rampini arriva al sovranismo buon ultimo, quando tutto è già stato detto e sentito e votato per mandare al governo forze fintamente «anti-establishment». Per giunta, arriva al sovranismo dopo una traiettoria che lo rende ben poco credibile, eppure si mette in posa e pontifica, ieratico, come se stesse dicendo cose originalissime e tutti noi dovessimo pendere dalle sue labbra.
Il “bello” è che il suo passaggio dalla «vecchia» alla «nuova» sinistra di destra è reversibile, perché le due sinistre di destra sono in simbiosi. Come dicevi poco fa, la loro è una tensione unitaria.
Wolf Bukowski
Sì, e quella di cui Mauro traccia la mappa nel suo libro è una casa degli specchi, in cui le apparenze vanno toccate, pizzicate e interrogate, per verificare se la loro sinistra sia quella del corpo reale o quella dell’immagine speculare – e cioè la destra.
Luca Casarotti
Io vorrei partire dal titolo del libro di Mauro. Che figura retorica è «La sinistra di destra»?
È un ossimoro, ossia un’espressione che enuncia due concetti tra loro contrari, o almeno contraddittori. È così anche in politica? Un quarto di secolo fa, nel pieno della campagna elettorale che avrebbe portato Berlusconi al governo per la prima volta, Norberto Bobbio pubblicava Destra e sinistra. Ragioni di una distinzione politica. Curiosità: nel 2014, in occasione del ventennale della prima edizione, l’editore Donzelli forse preconizzava questa nostra discussione, perché lo ha ripubblicato con una postfazione di Matteo Renzi: Bobbio era morto da dieci anni, quindi non sappiamo cosa ne avrebbe pensato.
Importante in quel libretto – il diminutivo era dell’autore – è il primo capitolo, nel quale il problema è impostato in maniera cristallina: nell’universo di riferimento, la politica, destra e sinistra sono termini congiuntamente esaustivi e reciprocamente esclusivi. Congiuntamente esaustivi, nel senso che i due termini presi insieme descrivono la totalità dello spazio politico; reciprocamente esclusivi, nel senso che un medesimo soggetto politico non può essere allo stesso tempo di destra e di sinistra. Secondo questa visione, tertium non datur: in logica si parlerebbe di «terzo escluso».
Bobbio però continuava: già da quando ha fatto la sua comparsa durante la Révolution, si è sempre tentato di mettere in crisi questa distinzione rigidamente bipolare introducendo almeno un terzo elemento, e quindi trasformando la diade in una triade: in logica si parlerebbe di «terzo incluso». Questo terzo elemento può frapporsi tra destra e sinistra, senza negare i due poli (terzo inclusivo): abbiamo allora il centro. Ma dal momento che la politica non è una figura geometrica, il centro esatto non esiste: sarebbe come dire che esiste l’assoluta imparzialità. E un discorso a parte meriterebbe la terminologia eufemistica ben nota in Italia, nella storia tanto della cosiddetta prima quanto della cosiddetta seconda repubblica: «centrodestra» e «centrosinistra».
Ma il terzo elemento può anche presentarsi come superamento dialettico di destra e sinistra (terzo includente). È il caso della «terza via» del corporativismo fascista, che si autorappresentava come sintesi di socialismo e capitalismo. Naturalmente era tutta ideologia: a chi squarciava il velo della propaganda appariva chiaro come stessero le cose a livello strutturale. E a livello strutturale, il fascismo ha sempre fatto l’interesse degli agrari e della borghesia.
Il superamento dialettico della coppia concettuale destra-sinistra si è spesso incarnato in uno slogan basato sulla doppia negazione: «né destra, né sinistra». Dopo la seconda guerra mondiale, questo slogan è stato a lungo una prerogativa quasi esclusiva dei neofascisti. Ad esempio, «Ni droite, ni gauche, Front National!» era una delle parole d’ordine del partito di Jean-Marie Le Pen, prima che l’ereditasse la figlia Marine. Sconfitti nella seconda guerra mondiale, per i neofascisti era difficile presentarsi sic et simpliciter come tali: c’era bisogno di tutta una retorica che confondesse le acque: quel motto, che a ben vedere veniva dritto dall’idea di “terza via” di cui si diceva, ne era un po’ la summa.
Più di recente, slogan simili sono però stati adottati anche da movimenti che hanno avanzato istanze egualitarie e di giustizia sociale, tipicamente di sinistra: lo faceva notare proprio Wu Ming 1 nel 2011, portando l’esempio delle Acampadas e del movimento degli Indignados in Spagna. In questo caso lo slogan serviva più che altro a marcare l’alterità del movimento dalla sinistra istituzionale, che quelle istanze le aveva abbandonate da tempo. La parabola di Podemos – al momento alleato con Izquierda Unida – e quella del Movimento 5 Stelle – al momento alleato con la Lega – dimostrano che le posizioni «né… né…» – da cui il sostantivo «neneismo» – sono per forza di cose instabili: presto o tardi inevitabilmente se ne esce, da destra o da sinistra. E questo lo determina la prassi.
Dunque, siamo di nuovo al punto di partenza. È vero che i concetti di «destra» e «sinistra» non sono delle invarianti, e sono soggetti a evoluzione storica. Questo però non significa che vale tutto. I due termini si possono usare in senso descrittivo o in senso valutativo (o assiologico che dir si voglia): quando si usano in senso descrittivo, si accetta l’autorappresentazione che i soggetti politici fanno di loro stessi. Quando li si usa in senso valutativo, si sottopone a critica quell’autorappresentazione. Nel titolo ossimorico del libro di Mauro, il termine «sinistra» è usato in senso descrittivo, il termine «destra» in senso valutativo.
Ecco, a me pare che i libri di Mauro e di Wolf abbiano anzitutto questo in comune: che si sforzano di distinguere il piano descrittivo da quello valutativo; se mi si passa la terminologia, il piano dell’essere – la sinistra com’è – da quello del dover essere – la sinistra come vogliamo che sia. Ad esempio, per alludere alla sinistra in senso descrittivo, Wolf, come ricordava lui stesso all’inizio, ricorre all’aggettivazione: «la sinistra istituzionale».
Ridotta all’osso, la tesi di La sinistra di destra è secondo me questa: appartengono alla sinistra le forze politiche che assumono l’attualità della divisione verticale della società tendenzialmente in due classi, la borghesia e la classe lavoratrice, che individuano il discrimine tra le due nella proprietà dei mezzi di produzione, e che si pongono come scopo, anche nella differenza di tattiche e strategie, la lotta per l’emancipazione della classe oppressa. Ciò posto, il libro esamina le fallacie d’analisi, gli abbagli tattici e gli errori strategici che determinano una deviazione da questo scopo.
Wu Ming 1
Provo a precisare questo punto. Storicamente per le sinistre, compresa quella socialdemocratica – ricordiamo che fino al congresso di Bad Godesberg del 1959 la SPD si definiva «marxista» e parlava di lotta di classe –, la società è divisa in classi e il conflitto sociale deriva da questo, è costitutivo della società stessa e interno a essa, immanente, endemico.
Su questa premessa tutte le correnti della sinistra erano d’accordo, e anche sul fatto che il capitalismo fosse una costruzione storica e come tutte le costruzioni storiche fosse destinato a finire. Questo era detto con varie sfumature, la dialettica a due tra borghesia e classe lavoratrice poteva presentarsi come più o meno articolata, con la presenza più o meno rilevante di altri attori sociali – i contadini, i «tecnici», le «nuove figure sociali» di turno –, ma il nocciolo era la lotta di classe.
A distinguere le correnti era quel che seguiva: l’approccio, la strategia. Riforme o rivoluzione? Gradualismo o rottura netta? Essere «riformisti» significava avere un approccio graduale e cumulativo – riforma dopo riforma dopo riforma – al superamento del capitalismo. Questa teoria è rimasta come “postura” anche quando la prassi reale dei partiti riformisti era ormai lontanissima, basti dire che ancora negli anni di Craxi lo statuto del PSI parlava di società senza classi, superamento del capitalismo ecc.
La distinzione tra sinistra e destra, insomma, era una metafora spaziale di origine parlamentare che “traslava” sull’arco politico il conflitto che c’era nella società. Conflitto che era riconosciuto come ineluttabile, perché sistemico. Diciamo che la polarizzazione «destra vs. sinistra» era la contrapposizione «alto vs. basso» – classe dominante contro classe dominata – vista dopo una rotazione ad angolo retto. La “traslazione” non era mai perfetta, intervenivano sempre distorsioni, deformazioni, ma in buona sostanza rendeva l’idea.Ma se si disconosce il conflitto, com’è in effetti avvenuto, i due concetti smettono di esserne metafora spaziale, e allora si può dire che è «di sinistra» qualunque cosa, anche prendersela coi lavoratori nati in altri paesi, far chiudere la gente in veri e propri lager ecc.
Quanto al termine «riformista», non ha più alcun significato. Si definiva «riformista» chi proponeva le riforme come alternativa alla rivoluzione, cioè voleva procedere, o almeno diceva di voler procedere, a minore velocità verso il socialismo, verso il superamento del capitalismo. Chi si crogiola nel TINA e propone controriforme neoliberali non è «riformista», è fuori dalla tradizione che ho appena rievocato, e solamente tra virgolette possiamo definirlo «di “sinistra”».
Wolf Bukowski
Il fatto che, una volta disconosciuto il conflitto di classe, destra e sinistra finiscano per significare qualsiasi cosa è dimostrato dal fiorire, soprattutto negli Ottanta e Novanta, di liste di formaggi, tipi di alcoolici, arredamenti di interni… indicati come di destra oppure di sinistra.
In quegli anni, gli anni in cui si celebra il trionfo del capitale, la sinistra – mutilatasi dal conflitto – viene rappresentata come una variante liturgica del culto del consumo. Il farinettismo degli anni successivi emerge da quel calderone, così come ne emerge la sinistra comportamentale di oggi, quella basata sul lifestyle, sul bio, su come si differenziano i rifiuti eccetera. Una sinistra che, in ultima analisi, parla il linguaggio esclusivo ed escludente dei ceti medio-alto bianchi e urbani.
Wu Ming 1
Sentiamo cosa ne dice Mauro. Play fuckin’ loud.
Mauro Vanetti
Eccomi. Comincio da qui: le etichette politiche vanno usate con senso pratico. Sono categorie che servono a uno scopo, ma che non sostituiscono il pensiero critico. In questo non dobbiamo cadere nel gioco dei nostri avversari, che amano trascinarci in dispute inconcludenti: con piroette e giochi di parole è ben possibile a Minniti dire che la sicurezza è di sinistra o a Bagnai dire che lo è la Flat Tax.
Rivendico la parola «sinistra» e intendo difenderla dalle distorsioni, ma la cosa che davvero conta è rivendicare quello che dice Luca, ossia uno schierarsi coscientemente dalla parte della classe sfruttata.
Di recente, su Twitter, un’autrice minore della sinistra di destra, che ogni tanto si vede in TV e che ora ha ripubblicato un libro con Altaforte (la casa editrice di CasaPound che gli antifascisti hanno fatto espellere dal Salone del Libro), si è lamentata perché l’avevo sbrigativamente definita di estrema destra: preferisce definirsi una «nostalgica di Keynes». Ma questo è proprio il punto! La nostalgia della sinistra socialdemocratica e keynesiana, cioè di politiche espansive che lasciavano margini per riforme sociali dentro il capitalismo europeo, ma che oggi sono diventate impraticabili per ragioni oggettive, crea una voragine che viene riempita da idee conservatrici e reazionarie. Questa voragine non ha fondo e inabissandosi a sufficienza vi si può trovare di tutto, anche il fascismo o qualche sua ibridazione rossobruna.
Wu Ming 1
En passant: una che si dice di sinistra e al contempo pubblica per la casa editrice di Casapound rientra pienamente in quest’ultima definizione, è quasi uno stereotipo vivente, e dunque avrebbe ben poco margine per lamentarsi. E invece è addirittura arrivata a scrivere: «Non ho pubblicato per Altaforte, ma in self publishing come tutti i miei libri. Ho accettato una loro proposta di aggiornare un libro». Cioè non ha pubblicato il libro coi fascisti, no: lo ha ripubblicato con loro, il che è indubbiamente molto diverso.
I «sovranisti di sinistra» sono così: campioni di getto di sasso e occultamento di mano. La loro reazione è sempre: «Chi, io?»
Mauro Vanetti
Se riagganciamo il discorso alla realtà materiale, il senso di queste operazioni ideologiche si fa chiaro. Citando Loïc Wacquant, Wolf nel suo libro dice che nel ritiro dello Stato dalla regolazione dell’economia e dall’intervento sociale stanno le premesse dell’estensione del suo intervento penale e della sua regolazione autoritaria delle conseguenze delle disuguaglianze. Qualcuno potrebbe dire che ai ruoli “materni”, di cura, dello Stato si vanno sostituendo quelli “paterni”: punire, controllare, segregare, disciplinare. A questo sono funzionali l’offensiva contro le vite degli immigrati, la restrizione dei diritti civili per le minoranze, l’una e l’altra cosa talvolta dipinte come il recupero di un «vero socialismo», addirittura di una perduta ortodossia marxista (in realtà contraffatta), o, con un linguaggio più adatto al PD, come la nuova frontiera di un pensiero progressista moderno.
Così inquadrato, il gioco della classe dominante si fa più leggibile: per ogni milione di fondi tolti ai servizi sociali, al diritto alla casa, alle strutture per l’istruzione e il tempo libero dei giovani, il tuo comune spende cinquantamila euro in telecamere, cinquemila in panchine anti-bivacco, cinquecento in taser e spray al peperoncino per la polizia locale. I circenses li fanno buttando in pasto ai leoni quelli a cui hanno tolto il panem.
Gli manca solo un ingrediente: una sinistra addomesticata, pronta a dire che questa non è lotta di classe contro i proletari, ma a loro favore; meglio ancora: una sinistra che organizzi queste cose, che le promuova.
Quando il gioco riesce, si ottiene un «liberismo caldo» che può puntare a un consenso ampio, perché si presenta come una forma di riscossa popolare, apparentemente non è più il gelido calcolo dell’interesse dei ricchi, perché fa appello alla rabbia, all’indignazione, alla paura e ad altre emozioni forti, adeguatamente manipolate.
Gioco pericolosissimo, perché con l’arrivo della Grande recessione il tiepido diventa caldo e il caldo si fa rovente. Il partito dei sindaci-sceriffi, cioè il PD, è considerato «buonista». Lo stesso Berlusconi, che sul «liberismo popolare» ha costruito tutta la sua propaganda, passa ormai per un moderato troppo ingessato.
Arriviamo così all’estate 2019, quando lo scontro – in larga parte solo mimato – tra il governo Conte e il rigorismo dell’Unione Europea non si dà per rompere i vincoli di spesa pubblica a favore di una maggiore spesa per il welfare e per posti di lavoro pubblici, ma per tagliare le tasse in maniera regressiva, riducendo le aliquote medio-alte. Barricate populiste nel nome di John Maynard Keynes per fare la flat tax di Milton Friedman? C’è di che restare molto perplessi.
2. «Sicurezza» e «decoro»
Luca Casarotti
Questo rapido slittamento delle gradazioni e degli enunciati è la premessa da cui muove anche La buona educazione degli oppressi, nel dimostrare che la sicurezza e il decoro appartengono alla cultura di destra, e che il loro sdoganamento a «sinistra» è un’operazione ideologica, per di più condotta maldestramente.
L’esempio più istruttivo è la rassegna di dichiarazioni che Wolf fa ad un certo punto del suo libro (p. 125), da cui emerge come all’interno dello stesso Pd la linea è – o almeno era – piuttosto confusa: così, se per il sindaco di Brescia Emilio Del Bono «La sicurezza non è né di destra né di sinistra» (ci risiamo), per Minniti, manco a dirlo, è tout court di sinistra, oppure, a seconda delle occasioni, è «un bene comune».
Wu Ming 1
Ogni volta che sento queste frasi alla Minniti – «il decoro è di sinistra», «la sicurezza è di sinistra» ecc. – non posso non pensare a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, al discorso di insediamento del protagonista che culmina nel grido: «Repressione è civiltà!»
Mauro Vanetti
La buona educazione degli oppressi è un libro contro l’ideologia della sicurezza e del decoro e contro le politiche, obiettivamente di destra, che ne derivano. In realtà, però, è soprattutto un libro su come questa ideologia è stata plasmata; spiegando da dove salti fuori, quali interessi materiali rappresenti, che riflessi reazionari scateni, chi sa come schierarsi saprà anche cosa pensarne. Il libro risponde anche sul merito delle teorie securitarie e “decorose”, certo, ma il suo meccanismo polemico principale non è quello: soprattutto, mi pare, vuole indicare che è attorno a questo tema – Wolf spiega che è un unico tema, perché decoro = sicurezza = decoro – che gli eredi dell’ex PCI e del resto della sinistra riformista hanno fatto perno per compiere la trasformazione che li ha condotti a diventare il PD.
L’origine di tutto è individuata negli anni Ottanta. La tolleranza zero, così come la falsa teoria delle «finestre rotte» che ispira la copertina, sono invenzioni della destra neoliberista americana che vengono importate in Italia e finiscono per essere adottate in Italia dalla sinistra post-comunista orfana dell’URSS e pronta a diventare post-sinistra, quella che ho chiamato, senza particolari velleità analitiche ma solo per capirsi, la vecchia sinistra di destra; altrove è la sinistra socialdemocratica, socialista, laburista a seguire lo stesso sentiero, per esempio il New Labour di Tony Blair.
La chiave per capire questa deriva è individuata da Wolf nella stessa questione che apre la mia riflessione sulla vecchia e nuova sinistra di destra: l’abbandono di una visione della società capitalista come divisa in classi antagoniste tra loro. Dice Wolf nel primo capitolo:
«Cancellata la classe, le persone saranno da un lato isolate nell’individualismo, e dall’altro confusamente riunite nel nazionalismo».
Questo è il fenomeno che io ho descritto come ipertrofia ideologica del ceto medio: siamo tutti ceto medio, nella falsa rappresentazione cui ci hanno abituato gli anni Novanta «post-ideologici». Emergono due visioni di questo popolo piccolo-borghese e “perbene”, «quella progressiva e ottimista e quella rabbiosa e sovranista, che non si succedono né si sostituiscono, ma anzi si completano». Quasi con le stesse parole ho descritto la vecchia sinistra di destra e la nuova sinistra di destra.
Ma questo prepara la costruzione di antagonismi artificiali verso chi è rimasto fuori da questo vorace ceto medio che include tutti, anzi, quasi tutti: restano fuori infatti quelli sbagliati, gli outsider, i marginali, i maleducati, gli incivili, gli stranieri non turisti, la lower class. Costoro sono gli indecorosi, la fonte della stramaledetta «insicurezza percepita».
Luca Casarotti
La buona educazione degli oppressi mostra benissimo (cfr. soprattutto le pp. 107-111) che il concetto di «decoro», di cui il libro ricostruisce la genealogia, non ha una definizione giuridica, nonostante attorno ad esso sia stato edificato un imponente apparato punitivo.
La disposizione a cui bisogna guardare per cercare di comprendere cosa il legislatore intenda per decoro è quella dell’art. 4 del decreto legge 20 febbraio 2017 n. 14 («Decreto Minniti»), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017 n. 48. Riporto la disposizione per intero:
«Ai fini del presente decreto, si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione (anche urbanistica, sociale e culturale) e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione (della cultura) del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile, cui concorrono prioritariamente, anche con interventi integrati, lo Stato, le Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano e gli enti locali, nel rispetto delle rispettive competenze e funzioni.»
L’articolo è rubricato «definizione». Il definiendum, cioè il termine oggetto di definizione, è «sicurezza urbana». Anzitutto faccio notare che, a rigore, solo l’esordio della disposizione, fino alla parola «città», si può considerare una definizione. Il resto dell’articolo spiega quali misure dovrebbero essere adottate per garantire la sicurezza urbana («da perseguire anche attraverso etc.»): ma se si tratta di misure da attuare, il discorso si sposta dal piano della definizione a quello dell’applicazione. Sennonché è proprio la parte del testo che comincia con «da perseguirsi» a darci una vaga idea di cosa il legislatore intenda davvero per «sicurezza urbana». Questo è già un primo difetto nella tecnica di redazione.
Torniamo alla definizione in senso stretto, che quindi si riduce a queste due proposizioni: «Ai fini del presente decreto, si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città.» Com’è scritta questa definizione? È scritta male: è vaga, oscura e tecnicamente imprecisa. La sicurezza urbana, dice il «Decreto Minniti», si identifica con la vivibilità e il decoro delle città. Se la sicurezza urbana è il definiendum, vivibilità e decoro delle città sono il definiens, cioè i termini che definiscono.
Ma perché la definizione raggiunga il suo scopo, c’è bisogno di sapere cosa vogliano dire «vivibilità e decoro». Di questi termini si cercherebbe invano una definizione, tanto nel «Decreto Minniti» quanto in altri atti normativi. Un accenno al decoro delle città è contenuto nel «Decreto Maroni», ossia il decreto emanato dal ministero dell’interno il 5 agosto 2008 in attuazione del «pacchetto sicurezza» di quell’anno (legge 24 luglio 2008, n. 125). All’art. 2 si legge:
«[…] il sindaco interviene per prevenire e contrastare: […] d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico.»
Questa disposizione, se non altro, fa due esempi concreti di cosa, a giudizio del ministero dell’interno guidato dall’ex leader leghista, rappresentasse un’alterazione del decoro urbano.
Nove anni più tardi, transitando dal «Decreto Maroni» al «Decreto Minniti» e alla sua conversione in legge, il concetto di decoro diviene ancora più vago, perde anche quel poco di denotazione che aveva nel provvedimento del 2008. Il «Decreto Maroni”, non dimentichiamolo, non era nemmeno un atto avente forza di legge, quindi una fonte primaria dell’ordinamento giuridico: era il decreto attuativo di una legge, quindi una fonte secondaria.
Quando il diritto non definisce un concetto di cui pure si serve, l’interprete – ad esempio, un giudice – deve verificare se la definizione si possa trarre da un’altra disciplina: per i concetti di vivibilità e decoro delle città, si potrebbe ricorrere alla sociologia urbana. Come però mostra Wolf nel libro, non c’è nessuna disciplina che dia di questi concetti una definizione incontestata, tale da poter essere assunta come canone interpretativo adatto a chiarire in modo univoco il senso della norma. A questo punto, insegnano le regole di ermeneutica giuridica, all’interprete non resta che attribuire al concetto indefinito il significato corrente nella società o in una sua parte cospicua. A quali esiti si possa giungere per questa via è evidente.
Lo farò lo stesso, ma non ci sarebbe bisogno di scomodare le lezioni di Edward H. Carr sul rapporto tra storico e fatti storici, e su storia, scienza e giudizi morali – rispettivamente la prima e la terza delle sue Sei lezioni sulla storia, note in Italia grazie all’interessamento di Carlo Ginzburg, che ne è stato il traduttore: l’edizione italiana più recente è uscita per Einaudi nel 2000 –, per sapere che anche in quelle che per convenzione chiamiamo scienze umane, e tra esse c’è il diritto, l’osservatore non è inerte rispetto ai fenomeni osservati. Così l’universo valoriale, le convinzioni morali, vorrei dire: l’orientamento ideologico dell’operatore del diritto condizionano la percezione dei fatti sociali su cui è chiamato a esprimersi. Tanto più è inconsapevole, e dunque non sorvegliato, quanto più questo condizionamento è forte.
Scendo dall’astratto al concreto: Wolf ha demistificato l’ideologia del decoro che ha orientato le scelte legislative almeno dell’ultimo decennio. A partire da questa base, sarebbe utilissimo fare una ricerca a tappeto su come i concetti di sicurezza urbana, vivibilità e decoro, che il legislatore non ha davvero definito, vengono declinati nel concreto dei provvedimenti amministrativi e giurisdizionali: virtualmente, anche se sappiamo che nella realtà non è così, potrebbero esistere tante interpretazioni del termine «decoro» quanti sono gli interpreti: di sicuro si sono già date divergenze giurisprudenziali, orientamenti più o meno garantisti o forcaioli.
Beninteso, il caso della sicurezza urbana, della vivibilità e soprattutto del decoro vale come sineddoche di un meccanismo giuridico frequente: sicurezza urbana, vivibilità e decoro non sono i primi né saranno gli ultimi concetti impiegati nell’universo del diritto, di cui il diritto non dà una definizione. Per quanto sia curioso che, in questo caso, una definizione il legislatore è convinto di averla data.
Tipicamente indefiniti sono i termini impiegati in quelle che vengono chiamate «norme di chiusura» dell’ordinamento. Un esempio vale più della menzione di una categoria astratta. Pensiamo al concetto di «buon costume», che proviene da un campo semantico affine a quello del decoro. L’ultimo comma dell’art. 21 della costituzione italiana indica il buon costume come limite alla libertà d’espressione. Una definizione di «buon costume» non è posta una volta per tutte da una norma; non la si trova se non nelle sentenze e nei libri dei giuristi: perché, si suole dire, l’interprete deve poter adattare il significato dell’espressione all’evolversi della società.
Se vogliamo, lasciare indefinito un termine non è un’operazione negativa in sé: se una disposizione è ben congegnata, il fatto che adoperi termini indefiniti potrebbe salvarla dal diventare inattuale, e dalla necessità di doverla modificare di continuo, con il rischio magari di peggiorarla. I problemi nascono quando i termini indefiniti stanno a fondamento di un complesso di norme repressive, come accade con il binomio sicurezza – decoro.
Posto davanti a quel binomio, un giurista ragionerebbe grossomodo come – o meglio di come – ho fatto io fin qui. Invece Wolf, e con questo concludo la mia riflessione, svela la vacuità della definizione di sicurezza urbana contenuta nel «Decreto Minniti» per tutt’altra via: per dimostrare che sicurezza e decoro sono termini che si rimandano a vicenda, dunque che la definizione di sicurezza urbana è circolare, dunque che è una tautologia, Wolf mette al lavoro il concetto di «idee senza parole» ripreso da Furio Jesi. È una strategia argomentativa che mi ha sorpreso: personalmente è la prima volta che la vedo applicata a degli enunciati giuridici con un esito interpretativo così devastante. Strategia argomentativa che tra l’altro permette a Wolf di giungere in pochi passaggi ad ascrivere alla cultura di destra l’idea di decoro, immettendola in quella più generale di ordine.
Wolf Bukowski
Non ho nulla da aggiungere sul decoro come idea senza parole, ma vorrei invece tornare brevemente alla genesi storica della coppia oppositiva decoro/degrado e alle radici che ha nella vecchia sinistra di destra. Lo faccio seguendo il percorso proposto in un ottimo articolo di Nick Dines sul caso della città di Napoli.
Dal dopoguerra in poi il PCI napoletano – in gran parte amendoliano, quindi interclassista e moderato – considera il sottoproletariato del centro storico incapace di soggettivazione e bisognoso di una guida, che è la guida offerta dal proletariato industriale, naturalmente per mezzo del partito e dei suoi dirigenti. Questa esigenza di organizzare da fuori il sottoproletariato convive però con la tentazione di considerarlo, come sintetizza Dines, un «ostacolo alla costruzione di una coscienza di classe, di un partito di massa e di una città produttiva».
Negli anni Settanta quel sottoproletariato smentisce clamorosamente lo stigma e si organizza, diventando protagonista di lotte per il lavoro, la casa, la salubrità dei quartieri… Questo accade a sinistra e fuori dal PCI – e del tutto ragionevolmente, visto che quel partito lo considera in fondo incapace di coscienza di classe. Intanto il PCI, in cui cresce la componente borghese a scapito di quella operaia, diventa, dal 1975 e per numerosi mandati amministrativi, forza di governo locale (e lo è stabilmente dal 1993 fino all’arrivo di Luigi de Magistris).
Alla prova del governo il rapporto con il sottoproletariato urbano si deteriora ulteriormente, arrivando a una rottura conclamata in seguito al terremoto dell’Irpinia del 1980, che rende inagibili diversi edifici del centro cittadino. Il PCI bolla le proteste popolari contro i trasferimenti forzati fuori dai quartieri storici come «estremismo» e il punto di riferimento del partito si avvia a essere l’intera città – da sottoporre a faraonici progetti urbanistici – e non più la sua classe operaia. Il sottoproletariato viene via via identificato con la criminalità, e da questa rimodulazione ideologica emerge, nello specifico napoletano, la categoria del degrado.
Trovo questo esempio illuminante. Mostra come il dispositivo economico dei grandi progetti urbani – dalle ricostruzioni post-sisma a grandi opere, grandi eventi, bollini Unesco… – sia un catalizzatore nell’assunzione di categorie di destra da parte di forze nominalmente di sinistra. Questo, semplicemente, perché le categorie di destra sono più amichevoli verso il profitto e più efficaci nell’imporre la disciplina di cui il capitale necessita in occasione della trasformazione urbana stessa. Trasformazione al cui successo la sinistra di governo si dedica anima e corpo.
Sul piano ideologico, è inoltre illuminante verificare come le accuse fatte ieri dal PCI amendoliano al sottoproletariato napoletano siano sovrapponibili, mutatis mutandis, a quelle che oggi la sinistra di destra indirizza ai migranti, tra cui la più pretestuosa è proprio quella di essere ostacolo alla coscienza di classe. Allora come oggi quell’accusa va a infrangersi contro la realtà delle lotte: nella Napoli degli anni Settanta quella dei «disoccupati organizzati», oggi quelle meticce nella logistica e nel bracciantato.
Infine, la facilità nello spostamento del riferimento ideale, che dalla classe operaia diventa tutta la città, illustra il modo in cui la sinistra di destra darà, più tardi, una nuova centralità alla nazione. Anzi, si potrebbe forse dire che il nazionalismo della nuova sinistra di destra è stato preceduto dall’enfasi data dalla vecchia sinistra di destra alle città come sedi naturali di comunità organiche. Il «siamo tutti nella stessa barca» ha insomma funzionato prima nei municipi grandi e piccoli, per poi essere assunto pienamente a livello nazionale. E ora ci troviamo con un sindaco-sceriffo d’Italia al ministero dell’interno.
3. «Diritti civili» e «diritti sociali»
Luca Casarotti
Una delle retoriche della sinistra di destra esaminate nel libro di Mauro, soprattutto alle pagine 116-120, è quella che si fonda sulla contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali: i primi pensati come residuali rispetto ai secondi, sui quali si dovrebbe concentrare la lotta politica. A insistere su questa retorica sono soprattutto personaggi, come Marco Rizzo, Diego Fusaro o il meno noto Roberto Vallepiano, che a parole non rigettano una lettura classista della società, e anzi condiscono spesso e volentieri le loro dichiarazioni con l’immancabile richiamo all’ormai tanto famigerata quanto fraintesa categoria marxiana di «esercito industriale di riserva».
Mauro Vanetti
Nel libro mi domando in effetti quale sia la differenza, che non riesco a capire. Ignoro se esistano delle definizioni giuridiche ma nel linguaggio comune mi pare una distinzione molto superficiale…
Luca Casarotti
Onestamente è difficile spiegare con precisione quali sarebbero, in questa dicotomia, i diritti civili e quali i diritti sociali. A volte quelli civili vengono identificati tout court con i diritti borghesi, il che non aiuta molto a capire di cosa si tratta. Altre volte qualche esempio concreto viene fatto: su tutti, il matrimonio egualitario. Qualcuno, con malcelato spregio, parla più in generale dei «diritti degli omosessuali». Sociali invece sarebbero i diritti che riguardano l’ambito economico, in particolare quello del lavoro.
Pur nella difficoltà di individuare con precisione i confini di queste due categorie, qualche osservazione si può comunque fare. La prima è lessicale. Il diritto italiano – e non solo quello italiano – non intende per diritti civili e sociali quello che intende almeno una parte della sinistra di destra.
La prima parte della Costituzione italiana dedica il titolo I (artt. 13-28) ai rapporti civili e il titolo II (artt. 29-34) ai rapporti etico-sociali. Dei rapporti civili fanno parte le cosiddette libertà negative, cioè quelle di cui i cittadini godono in modo tendenzialmente assoluto, e che lo stato non può comprimere salvo in casi tassativamente stabiliti dalla costituzione o dalla legge: libertà personale (habeas corpus), inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di circolazione e di soggiorno, di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero etc. Tra i rapporti etico-sociali la Costituzione menziona il matrimonio, il diritto alla salute, la libertà dell’arte, della scienza e del loro insegnamento, il diritto allo studio.
Ecco una prima sorpresa: il matrimonio egualitario, diritto civile par excellence per i critici dei diritti civili, stando alla nomenclatura costituzionale sarebbe un diritto sociale. E i diritti dei lavoratori? Quelli che per i sostenitori dei diritti sociali (= critici dei diritti civili) sono i diritti sociali, per la Costituzione si chiamano rapporti economici, e trovano posto nel titolo III della prima parte (artt. 35-47): diritto alla retribuzione delle lavoratrici e dei lavoratori, diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite, diritto di sciopero etc.
Dunque, la distinzione tra diritti civili e diritti sociali che siamo abituati a sentir fare è lessicalmente inesatta: se proprio si vuol distinguere, sarebbe più corretto adottare una tripartizione, e parlare di diritti civili, diritti etico-sociali e diritti economici.
Mauro Vanetti
A volte si parla di diritti individuali contro diritti collettivi, ma anche questo linguaggio aiuta poco. Il «matrimonio omosessuale» non mi sembra un diritto individuale, visto che ci si sposa in due. Viceversa l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, affondato da Renzi dopo tanti attacchi partiti da Bonino, Berlusconi ecc., è in fondo un diritto dell’individuo a non essere allontanato illegittimamente dal suo posto di lavoro. Naturalmente l’uno e l’altro diritto riguardano anche la comunità, ma questa è un’ovvietà, non vedo come si potrebbe parlare di diritto in un’isola deserta.
Luca Casarotti
Ma il lessico improprio non è poi davvero il punto. In fondo si potrebbe sempre dire che politica e diritto sono due universi distinti, e che ognuno ha il suo lessico. Anche se, quando i due universi s’intersecano, il che è piuttosto frequente, sarebbe sempre meglio usare le stesse parole per parlare delle stesse cose. Il punto vero è che tra diritti civili, sociali ed economici non esiste in fondo nessuna differenza strutturale.
Mi spiego: è chiaro che la distinzione tra le tre categorie ha un fondamento materiale, perché sono diversi gli ambiti della vita in cui gli uni e gli altri diritti vengono fruiti. Ma dal punto di vista – per dir così – del loro funzionamento, di differenze non ce ne sono. Un diritto, sia esso civile, sociale o economico, ha sempre la stessa struttura. È posto da una norma o da un complesso di norme. La norma ha un numero indefinito di destinatari, il che implica questo: che saranno titolari del diritto tutti coloro che si troveranno in una situazione di fatto – tecnicamente si parla di «fattispecie concreta» – che corrisponde a quella formalizzata nella norma – tecnicamente si parla di «fattispecie astratta» – e a fronte della quale la norma concede il diritto.
Dato il tipo di diritti che stiamo considerando, dalla parte opposta a quella del loro titolare ci sarà un soggetto obbligato a fare o non fare qualcosa: il datore di lavoro sarà obbligato a retribuire il lavoratore (diritto economico), le università saranno obbligate a istituire borse di studio per attuare il diritto all’istruzione (diritto sociale), lo stato, per il tramite dei suoi pubblici ufficiali, sarà tenuto a unire in matrimonio le persone che lo vogliano e che presentino i requisiti richiesti dalla legge per potersi sposare (diritto sociale) e così via.
Cosa succede quando l’obbligato non adempie? La risposta è banale. Il titolare del diritto si rivolgerà al giudice, per ottenere o che l’obbligato adempia o che risarcisca il danno derivato dall’inadempimento. In linea di principio, rivolgersi al giudice è un atto individuale: davanti al giudice va il singolo titolare di un diritto che non abbia visto soddisfatte le proprie legittime pretese.
Questo, ovviamente, anche quando sono in molti a essere titolari dello stesso diritto: ognuno ne è titolare per suo conto. Se più titolari dello stesso diritto vedranno frustrate le loro pretese, allora tutti costoro potranno andare dal giudice. Ma la regola non cambia: a poter ottenere il soddisfacimento del proprio diritto è anzitutto il singolo. E questo indipendentemente dal fatto che il diritto in gioco sia sociale o economico. È vero che c’è un diritto economico che deve essere necessariamente esercitato in forma collettiva: il diritto di sciopero. Ma questo non toglie che possa essere impedito di scioperare a una sola persona, da un solo datore di lavoro.
Mauro Vanetti
Tra l’altro è da alcuni anni che si sta cercando di ripristinare la tradizione di scioperare l’Otto Marzo, a conferma che la questione femminile, che è impropriamente associata da questi gran pensatori solamente ai cosiddetti diritti civili, in realtà è una questione ben più ampia e si intreccia con la lotta di classe e i diritti sociali. Del resto tu ed io viviamo in una zona del Paese nella quale alle origini del movimento operaio delle sue prime grandi lotte erano molto spesso artefici le lavoratrici; il sedimento di quell’età eroica del movimento sindacale femminile si rintraccia per esempio nell’inno della Lega socialista, «Sebben che siamo donne / paura non abbiamo…».
Luca Casarotti
Spero di aver mostrato che la differenza tra diritti cosiddetti civili e diritti cosiddetti sociali è solo contenutistica e non tecnica. Non è vero che i primi riguardano solo l’individuo, come non è vero che i secondi riguardano necessariamente la collettività. Bollare come residuale la lotta per i diritti civili, insomma, significa semplicemente ritenere determinati aspetti e fasi della vita d’una stessa persona meno importanti e degni di altri. So che la dicotomia diritti civili vs diritti sociali è diffusa, e anche i giuristi talvolta se ne servono. Ma nel dibattito politico dobbiamo secondo me sforzarci di contestarla e abbandonarla, almeno per tre motivi. Dei primi due ho parlato sin qui, uno lo aggiungo ora.
Primo motivo: è una distinzione lessicalmente impropria;
secondo motivo: tra l’una e l’altra categoria non c’è nessuna differenza tecnica;
terzo motivo: posporre temporalmente e subordinare la lotta per i diritti civili a quella per i diritti sociali ha un solo esito: rimandare il problema dell’eguaglianza sostanziale e del suo conseguimento a un futuro che è sempre di là da venire, e frammentare la classe lungo svariate linee di discriminazione. Riproporre, insomma, il motivo della politica dei due tempi.
Wolf Bukowski
La distinzione netta tra «diritti civili» e «diritti sociali» – ripristino la nomenclatura corrente – è in realtà solo nella testa di chi vuole contrapporli. Nel capitalismo autoritario la negazione dei diritti sociali, per esempio quello della casa, diventa persino negazione del diritto elementare alla residenza anagrafica, quindi alla possibilità giuridica di esercitare diritti (civili) nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
O ancora, se mi trovo a dormire su una panchina la causa è assai probabilmente quella di un annullamento del mio diritto di accesso al welfare: alla disintossicazione se sono alcolista, a politiche di riduzione del danno se mi drogo, alla casa, a un supporto psicologico eccetera. Se la ronda mi scova a dormire su una panchina mi prendo un Daspo, che è una negazione del mio diritto (civile) alla libertà di movimento. Lo stesso si potrebbe dire sui trasporti: la persecuzione di chi viaggia senza biglietto nega il diritto sociale al trasporto pubblico o il diritto civile alla libertà di movimento? Entrambi, ovviamente.
In un’ordinanza del 2012 contro la prostituzione il sindaco piddino di Pisa Marco Filippeschi riesce a conculcare, in un gesto solo, il diritto d’espressione e quello di abbigliarsi e comportarsi liberamente (diritti sommamente «civili») insieme al diritto al lavoro dei/delle sex workers, facendo divieto di
«intrattenersi, anche dichiaratamente solo per chiedere informazioni, con soggetti che esercitano l’attività di meretricio su strada o che per l’atteggiamento, ovvero per l’abbigliamento, ovvero per le modalità comportamentali manifestano comunque l’intenzione di esercitare l’attività consistente in prestazioni sessuali».
Ovviamente il tutto è fatto in modo straordinariamente ipocrita, e cioè cercando di intervenire sull’uso che i/le sex workers fanno del proprio corpo ma senza neppure preoccuparsi di offrire loro, almeno, un’alternativa di reddito.
La contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali ha un fascino perverso, quello dell’apparente alternativa: con un po’ meno dei primi si immagina di ottenere un po’ più dei secondi. Ma la nostra vita è unica, è un impasto di queste due dimensioni; e queste due dimensioni sono a loro volta indissolubili.
Mauro Vanetti
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere, in un commento su Facebook di Thomas Fazi, che «l’uguaglianza di genere» è «attivamente promossa» dal capitalismo e che questa è la differenza profonda che c’è rispetto alle differenze di classe, che invece il capitale ha interesse a preservare. Mi sono cascate le braccia. Non si capisce quindi chi le proletarie di tutto il mondo dovrebbero ringraziare per il divario salariale spaventoso tra uomini e donne, visto che secondo Fazi i capitalisti promuovono attivamente di colmarlo.
Mi sembra che non serva una gran preparazione marxista per capire che se i salari di uomini e donne sono differenziati questo è dovuto direttamente ai loro padroni e indirettamente all’intera classe dominante per cui questo gap è un ottimo affare: mette in concorrenza lavoratori e lavoratrici, danneggiando entrambi. In forma meno eclatante, lo stesso discorso vale per altre divisioni che sono utilizzate per spaccare la classe, come quella per orientamento sessuale.
Naturalmente, però, ai padroni non piace trovarsi in minoranza e in quei Paesi in cui la battaglia culturale per l’accettazione della parità formale tra uomini e donne o per la tolleranza verso le minoranze sessuali è vinta o quasi vinta, vediamo le grandi multinazionali adeguare il proprio marketing a dove tira il vento. I carri delle multinazionali ai Pride non sono un bello spettacolo, e hanno anche lo scopo di depoliticizzare il movimento LGBT; ma queste sono cose che dentro il movimento sono dibattute e dal suo interno vanno fatte maturare le condizioni per ritrovare lo spirito di Stonewall di mezzo secolo fa.
Da qui a dire che si tratta di una sola grande cospirazione capitalista, ne passa. Le grandi aziende che inseguono i sentimenti di nuovi segmenti di consumatori sono banderuole al vento, ma solo uno sciocco può credere che il vento sia causato dal movimento delle banderuole invece che viceversa.
Di fronte a un segmento di borghesia che tenta di saltare sul carro dei vincitori, nel caso del Pride anche letteralmente, la sinistra di destra non fa altro che associarsi a quell’altro segmento che resta invece aggrappato alle posizioni più reazionarie e retrive. Se non c’è marxismo nel correre dietro ai liberali, di certo non ce n’è neppure nel correre dietro ai conservatori; ma queste sono tutte cose ben note già ai tempi di Marx ed Engels, che nel Manifesto mettevano in guardia contro il «socialismo borghese» tanto quanto contro il «socialismo reazionario»: i trisnonni delle attuali sinistre di destra, vecchia e nuova.
Al fondo di questa polemica c’è, quindi, ancora una volta una questione di classe. Paradossalmente, chi mitizza a parole la classe lavoratrice, respingendo però i passi necessari a ricomporla, sta di fatto voltandole le spalle.
Tra tali passi necessari c’è senz’altro la riconnessione alla lotta di classe generale delle lotte particolari di questa o quella categoria oppressa. Per questo la misoginia, il razzismo, l’omofobia, il disprezzo verso i marginali e verso le minoranze, alla fine servono solo a chi vuole connettere un frammento bianco, maschio, eterosessuale, autoctono della classe con i suoi sfruttatori politici: i Salvini, i Trump, i Farage, i Putin, le Le Pen. Sono i suoi sfruttatori politici e sono più che ben disposti a fare affari dietro le quinte coi suoi sfruttatori economici, come si è visto.
Wu Ming 1
Ok, di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta. Io farei il post, e al limite si prosegue nei commenti.
Ciurma
Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019). Su Twitter è @vukbuk.
Luca Casarotti è un giurista. Scrive su Giap, Jacobin Italia e Carmilla. È presidente del circolo ANPI «Onorina Pesce Brambilla» di Pavia. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale. Su Twitter è @lucacasarotti.
Mauro Vanetti scrive su marxist.com, Giap e Carmilla. Con altri attivisti ha pubblicato Vivere senza slot (Ediciclo, 2013) sull’opposizione al gioco d’azzardo di massa. Di mestiere è ingegnere del software; con questa scusa ultimamente si occupa anche di videogiochi. Su Twitter è @maurovanetti.
Si fa fatica a stare sul pezzo, perché (a) per chi ha letto i libri questa discussione chiude il cerchio, e (b) gli stimoli per aggiungere temi sono davvero tanti. Provo a dire alcuni di questi (separando i commenti).
1. Io sono molto più preoccupato di Mauro sull’argine fra «sinistra di destra» e destra (che io chiamerei fascismo del terzo millennio, non per differenziarlo da quello storico, del quale mantiene tutti i tratti costitutivi, ma perché ne aggiunge altri, in un patchwork che andrebbe scomposto e interpretato). Nel senso che non si tratta solo di porgere strumenti e aprire cancelli e caselli alla destra (NB: impressionante leggere la profezia, con tanto di nome e cognome, su come sarebbero andate le elezioni locali a Ferrara nel libro di Wolf!), ma di introiettare posture, frame, sintassi e morfologie della destra da parte di una sé-dicente «sinistra».
Un esempio? Il cybersquadrismo on line, che caratterizza alcune delle sette nominate da Vanetti: vedi, caso più recente, quanto accaduto su bacheche «sovraniste di sinistra» a Francesca Coin, che da veneta si è vista definire giudea, cioè (((Coin))). Un paio di nomi, uno che dice di fare l’economista e l’altro di fare il filosofo (più o meno come chi si masturba dice di fare l’amore, e magari usa Lacan come pezza d’appoggio), sono esemplari di una platea di fan adoranti che non solo praticano lo stesso squadrismo mediatico della Bestia salviniana, ma nel corso del tempo sono di fatto approdati a un esplicito collocamento a destra.
Ecco: vedere queste pratiche anche fra quelli che Vanetti definisce ancora «sinistra di destra» o «sovranisti di sinistra» è quantomeno inquietante. Su questo, Mauro avrebbe dovuto picchiare più duro: in ogni caso, questo nesso fra cybersquadrismo e «sinistra di destra» va portato alla luce.
2. Un secondo spunto è implicito, in parte, in quanto ho commentato sopra. Esiste un economismo virtuale, una sorta di «Keynes e non solo spiegato al popolo», che fa dell’economia una scienza da Twitter. E ci sono platee di cinguettatori che credono di essere economisti, che sono convinti in questi anni di «aver studiato economia» (e magari anche di aver «studiato Marx», in particolare la «questione irlandese»).
Questo uso disciplinare del sapere – perché la scienza divulgata su Twitter è un modo raffinato e subdolo di reintrodurre il principio di autorità – è stato utilizzato per traghettare consenso (anche elettorale) dalla «sinistra di destra» alla destra. E non si è fermato all’€uro o a B-movies tipo «Marx Vs i lavapoco gaelici»: basta pensare a chi ha cavalcato la tigre dei no-vax, salvo sganciarsene quando non c’era più utile (ma tenendo la brace calda sotto la cenere).
In parole povere: non basta dire che la tal teoria è una finta teoria di sinistra, o keynesiana, che favorisce la destra, bisogna anche dire (come peraltro fanno un tot di economisti liberali o di destra, ma avversi al cialtronismo) che quelle teorie non sono scientifiche, non più del creazionismo o del terrapiattismo. Insomma, al di là della «sinistra di destra», dimostrare contro i terrapiattisti che l’Oceania esiste, che gli All Blacks non sono ex braccianti di Cerignola, e Il Signore degli Anelli non è stato girato nel bellunese.
3. Un terzo spunto è presente in ambedue i libri, ma è davvero esplicito in quello di Wolf: l’uso politico del passato. La costruzione di un passato immaginario cui fare ritorno, dal momento che l’ordine del discorso neo-liberale presuppone che all’attuale presente non c’è alternativa (There Is No Alternative): è il «realismo capitalista» di cui ha scritto Mark Fisher, che genera un uso del passato come nostalgia di un futuro perduto, e una generalizzata «retromania», cioè lo sguardo rivolto a un passato nostalgico e retrò nell’immaginario sociale.
Tutto il discorso sul decoro è incentrato sul doppio movimento di cancellare i segni di classe come prove di un passato “reale”, e nostalgia retrò di un passato mai esistito. Una sintassi che si può rintracciare anche nelal nostalgia per i tempi in cui c’era la lira, la Lancia vinceva il mondiale rally dando la paga all’Audi (giuro che non è una battuta), ecc.
Mark Fisher dice: il neoliberismo ha cancellato la memoria delle conquiste dello stato sociale e l’ha sostituita con una memoria della sociatà degradata e caotica, per imporre un presente TINA fondato sull’individualismo proprietario e l’imprenditore di se stesso. E nel momento in cui questa svolta avviene (la sconfitta dei minatori nel 1984), il post-punk non riesce più ad avere qualcosa da dire, e si torna a un pop commerciale e melodico, esemplificato dalla cover retrò di You can’t hurry love di Phil Collins che va in vetta alle classifiche (NB: non per caso, Irvine Welsh fa iniziare il prequel di Trainspotting, Skagboys, con la sconfitta dei minatori negli scontri con i gendarmi thatcheriani, e Renton che al termine della giornata si chiede «Che cazzo farò della mia vita?», e noi lettori che Traispotting l’abbiamo già letto lo sappiamo cosa ne farà).
Questa chiave di lettura credo davvero possa tenere insieme molte delle analisi che vanno fatte, e indicare uno dei fili comuni fra ambiti che appaiono diversi, e che vanno invece unificati. Ad esempio, e chiudo: quale recupero del passato può sostenere visioni che – NUDN, Friday for Future, Mediterranea , ecc. – non si limitano a un presente invalicabile, ma guardano al di là del muro (della siepe, per dirla col primo nichilista europeo)?
Pur non avendo alcuna risposta a quest’ultima domanda di Girolamo, ne pongo una ulteriore. Come strappare consenso alla «nostalgia» quando – oggettivamente, in un rapido precipitare – ogni giorno porta una pena in più, e un nuovo peggioramento? Un peggioramento delle condizioni di vita, dell’agibilità politica, e una crescita del consenso al fascismo più o meno reloaded? Come contrastare la nostalgia – che subito si fa moralismo, e pappa modellabile di destra, lo sappiamo – quando però *ieri* era davvero *meglio*, non perché il capitalismo e lo stato fossero meno crudeli, ma perché erano più forti di oggi gli anticorpi?
Forse pure questo dilemma è datato – penso all’«egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto» dell’angelo di Benjamin – eppure come dare voce, e una dimensione politica e di speranza, a questa ingombrante sensazione di perdita?
Ho deciso coscientemente di non picchiare troppo duro sulla contiguità tra sovranismo di destra e fascismo per un ragione ben precisa: non voglio dargli vie d’uscita comode attaccando, invece che le loro idee più raffinate, la versione più becera e caricaturale delle stesse.
Sono d’accordo con Girolamo che in ogni sinistro di destra si annida il germe di un fascista. In un certo senso, il fascismo è l’apoteosi della sinistra di destra; Mussolini era un socialista rivoluzionario che tramite il sovranismo (nazionalismo) diventa il capo prima di una rete di bande reazionarie dedite ad assassinare socialisti, comunisti, anarchici e sindacalisti, e poi di un regime borghese monarchico che ha come principale ragione sociale difendere il capitalismo italiano dai rischi di una rivoluzione; Hitler ha addirittura l’impudenza di chiamare il suo partito «socialista nazionale», cioè letteralmente una perifrasi di «sovranista di sinistra».
Tuttavia, la forma dominante della nuova sinistra di destra oggi non è il rossobrunismo bensì il patriottismo costituzionale. Sono abbastanza convinto che potrebbero serenamente epurare ogni traccia di fascismo dalle loro file e dai loro ragionamenti e restare una corrente o un’area pericolosa – forse, addirittura, più pericolosa dal punto di vista strategico. Mi sembra quindi corretto e per certi versi, come dire?, “più cavalleresco” prenderli sul serio e mostrare che anche nella versione più sofisticata e nominalmente antifascista sono succubi di idee, se non proprio fasciste, di destra.
A proposito di ciò che è qui definito come “patriottismo costituzionale”, come commentare quegli sforzi intellettuali che da sinistra si propongono di separare la nozione storica e politica di “sovranità” (declinata in senso democratico e costituzionale) da quella più opaca di “sovranismo”?
Penso soprattutto agli ultimi lavori di Carlo Galli, oppure a Geminello Preterossi, Alfredo D’Attorre.
Non vorrei sbilanciarmi perché non ho letto tutti gli autori che citi, ma mi sembra che il concetto sia in fondo lo stesso. Il sovranismo è la difesa della sovranità nazionale o popolare. La distinzione tra sovranità nazionale e sovranità popolare è abbastanza vaga perché di solito per queste persone la nazione e il popolo si identificano o in maniera ontologica (sono la stessa cosa) o in maniera prescrittiva (“dovrebbero” andare a coincidere).
La mia sensazione è che ogni tentativo di costruire un sovranismo democratico e popolare distinto dal sovranismo nazionalista e populista si riduca a un gioco di parole. Se il perno non è la classe con le sue condizioni materiali, il perno diventa la nazione-popolo-etnia con le sue astrazioni ideali.
Altro discorso è dire che la classe lavoratrice «si fa popolo» o addirittura «si fa nazione» e cioè acquista un’egemonia anche su elementi di altre classi, di cui incarna alcune aspirazioni storiche attraverso la sua azione politica di classe. Questo ha particolarmente senso in quei Paesi dove i compiti storici della rivoluzione democratico-borghese non sono stati portati a compimento, in particolare cioè i Paesi soggetti allo sfruttamento imperialista che svolgono un ruolo subalterno nella divisione internazionale del lavoro.
Non confonderei però il senso che può avere oggi la questione dell’indipendenza nazionale in Bolivia con quello che (non) può avere in Italia.
A parte maledirvi per aver concepito questo dibattito direi fondamentale in queste torride giornate estive, col cervello già surriscaldato di suo, e chiarire fin da subito che mi ritrovo in pieno nelle considerazioni e nelle analisi lette, butto lì un paio di problemi (“un paio” alla sarda, quindi tendenzialmente più di due) su cui mi interrogo da tempo e su cui non ho ancora trovato una concettualizzazione non dico definitiva, ma quanto meno esaustiva.
OK la lotta di classe e la contrapposizione tra classe dominante e classe subalterna (con le loro rispettive articolazioni interne). Noto però che nel senso comune, anche a sinistra, su questa faccenda c’è molto disorientamento. Non esistendo più una divisione del lavoro di facile lettura, sembra che siano svanite anche le sue componenti reali/sociali: chi possiede i mezzi di produzione (e – aggiungerei – le informazioni) e chi fornisce il proprio lavoro, o ormai anche la propria stessa esistenza, per consentire ai primi di estrarne valore. Andrebbe concettualizzata, attualizzandola e rendendola più dinamica, una distinzione che tende ad essere facilmente manipolata, o persino negata. E questo pur essendo evidente che al mondo esiste una minoranza di ricchi e potenti e una vasta maggioranza di esseri umani, e persino interi popoli, che sostanzialmente vivono in funzione della loro ricchezza.
Altro problema è il ruolo dello stato. Storicamente non si può non constatare che attribuire allo stato la sola soggettività capace di imporre la democrazia popolare, l’eguaglianza e la libertà (in una parola, il socialismo) sia stato un abbaglio. Di suo lo stato non è un’entità autosufficiente o trascendente che produce effetti per il fatto stesso di esistere e di essere animata (dominata) da questa o quella classe. I meccanismi di potere e la forma stessa dell’ordinamento giuridico statuale sono più adatti a realizzare una forma di autoritarismo o al più di oligarchia e un dominio di classe, che a sconfiggerli. Credo che nessuno qui intenda difendere l’idea che il socialismo reale (chiamiamolo così, anche se non credo si sia mai trattato di socialismo, e figuriamoci di comunismo), così come storicamente è esistito, sia stato una realizzazione del tutto coerente con le sue premesse e soprattutto con i suoi obiettivi teorici e politici finali. Quindi il problema mi pare ancora aperto. Anche perché non è dato intravvedere la fine storica della rilevanza della forma-stato nei rapporti giuridico-politici a livello internazionale. (Noto comunque, di passaggio, quanto sia curioso che, nella formulazione costituzionale italiana, allo Stato siano precluse azioni lesive della sfera individuale e della libertà personale che invece sono ormai largamente consentite – esplicitamente o implicitamente, di diritto e/o di fatto – a grandi aziende private.)
Mi piacerebbe reperire una formula nuova per conciliare le necessità – dialetticamente contrapposte ma tutte legittime – di eguaglianza e libertà, delle diversità (territoriali, culturali, ecc.) con l’universalismo (dei diritti, della solidarietà, ecc.), dell’autodeterminazione dei popoli con l’internazionalismo. Lo stato in tutto questo ha ancora un ruolo? Quale? E di quale stato parliamo? E, sennò, cos’altro potrebbe prenderne il posto?
E qui vengo all’ultimo problema, quello appunto dell’autodeterminazione dei popoli. Avrete senz’altro notato che nella recente questione catalana la “sinistra di destra” (quella vecchia e quella nuova) si è ampiamente schierata a difesa della “legalità” e della repressione – di sapore palesemente neo-franchista – operata dal governo centrale spagnolo. In questa faccenda è facile ignorare, confondere o mistificare i due piani possibili su cui essa si può affrontare: quello emancipativo, egualitario, aperto, solidale e internazionalista e quello “sovranista”, etno-centrico, xenofobo, reazionario. Non è una questione facile. Gli stessi movimenti indipendentisti europei – pure largamente democratici e popolari, quando non apertamente socialisti, quindi schierati sul fronte opposto a quello dei sovranismi e dei leghismi – a volte faticano a mantenere limpido e netto il discrimine. Penso però che sia un tema decisivo, per la nostra porzione di pianeta ma non solo (si veda, per esempio, la vicenda della Federazione della Siria del Nord, con tutto il suo portato teorico, pragmatico e simbolico). In Italia è un tema tabù. Per dire, il dibattito sull’autonomismo differenziato o “dei ricchi” preteso da Veneto, Lombardia ed Emila Romagna è largamente inficiato da argomentazioni fallaci, panzane storiche, ideologismi spacciati per dati di fatto, renitenze. Anche – moltissimo – a sinistra (“di destra” o “vera” che sia).
Pongo queste questioni come ulteriore carne al fuoco. Non ho risposte da offrire qui e ora. Ma se qualcuno volesse cimentarsi in qualche tentativo di considerazione, mi interesserà molto leggerlo.
Ringrazio anticipatamente.
Rispondo a Omar sulle questioni che pone a proposito di forma di stato e ordinamento giuridico. Rispondo con un’ovvietà e con una considerazione forse meno scontata. Infine indico qualche riferimento bibliografico che può tornare utile.
L’ovvietà è questa: per Marx (sicuramente per il Marx maturo, ma il tema si affaccia già nei suoi scritti d’inizio anni ’50), il problema della dittatura del proletariato (non dimentichiamoci mai, altra ovvietà, che Marx assegna al termine dittatura un significato in pratica corrispondente a quello che aveva l’omonima magistratura straordinaria romana) non si risolve nel fatto della classe che s’impadronisce degli apparati statali borghesi. Marx è conscio che lo stato borghese è (e in specie i suoi apparati coercitivi sono) uno strumento di dominio d’una classe sull’altra, ragion per cui l’obiettivo della società senza classi non si può ottenere semplicemente impadronendosi di quegli apparati, ma occorre pensare una transizione che passi per una forma di stato del tutto nuova. Engels, forse irrigidendo il pensiero di Marx, ma cavandone fuori una sententia iconica, scriverà: «guardate alla Comune di Parigi. Ecco la dittatura del proletariato!»
Vengo alla considerazione forse meno scontata. Un certo modo troppo schematico di pensare i rapporti tra economia, stato e ordinamento giuridico assegna il diritto senz’altro alla sovrastruttura. Posto che in Marx il tema non è affrontato in maniera esplicita, alcuni interpreti del suo pensiero (ad es. Bobbio) distinguono, all’interno dell’ordinamento giuridico, la sfera del diritto privato da quella del diritto pubblico, e riferiscono la prima alla struttura e la seconda alla sovrastruttura: il diritto pubblico afferisce senz’altro alla sovrastruttura, perché disciplina la forma di stato e quella di governo. Mentre il diritto privato afferisce alla struttura, perché regola i rapporti economici, venendo non di rado plasmato dai soggetti privatistici che, sfruttando il principio della libertà e dell’autonomia contrattuale, hanno una forza tale da poter di fatto creare diritto. Quest’afferenza o comunque maggiore prossimità del diritto privato alla struttura economica aiuta a rispondere alla domanda di Omar, sul perché le costituzioni come la nostra, che mettono capo a quella che i costituzionalisti chiamano “democrazia pluralistica”, ma pur sempre democrazia borghese (e dunque in un regime di economia di mercato), vietano allo stato ciò che alle grandi corporation è permesso. Mi rammarico di non conoscere a sufficienza il pensiero del giurista marxista Evgenij Pasukanis, uno dei cui assunti principali era, semplifico, che il diritto pubblico fosse in ultima analisi appunto un mascheramento di quello privato. Ma tra chi ha già commentato questo post c’è qualcuno che ne sa molto più di me… 😊
Dicevo della bibliografia. Il rapporto tra libertà, eguaglianza e dignità della persona, con le questioni che ne conseguono quanto a solidarietà e universalismo dei diritti sono state indagate a fondo, per fare due soli nomi, da Stefano Rodotà e da Luigi Ferrajoli: non certo due rivoluzionari, ma due giuristi che prendono la democrazia molto molto sul serio. Del primo si possono vedere Il diritto di avere diritti (Laterza 2012) e la raccolta di saggi pubblicata postuma Vivere la democrazia (Laterza 2018); del secondo si può leggere un libro che non mi sento di condividere in ogni sua tesi, ma che è senz’altro rigoroso e pieno di spunti, ossia Uguaglianza: un manifesto (Laterza 2018).
Credo che tra diritti «civili» e «sociali» (al di là di come li si voglia chiamare) esista invece una distinzione, che non implica affatto la liquidazione dei primi come «lusso borghese» o come battaglia residuale.
Quelli che concepisco – e che sento perlopiù definire da chi li promuove – come diritti «civili» non toccano la possibilità economica di esercitarli concretamente; quelli che considero diritti «sociali» hanno invece una relazione diretta con questa possibilità concreta di esercizio.
Il diritto «civile» a sposarmi con chi voglio, senza restrizioni legate al genere o all’orientamento sessuale (diritto di cui sono sostenitore), non mi conferisce la possibilità di farlo effettivamente se non ho i mezzi economici per farlo. Il diritto «sociale» a non essere licenziato senza giusta causa, invece, mi conferisce la possibilità di ottenere i mezzi economici per esercitare concretamente questo e altri diritti.
La persecuzione di chi viaggia senza biglietto nega in primo luogo il diritto «sociale» al trasporto pubblico a chi non può permettersi di pagare il biglietto; solo in subordine nega il diritto «civile» alla libertà di movimento, che a chi mi fa la multa non interessa affatto (e che il viaggiatore dotato di mezzi economici può comunque esercitare tramite il trasporto pubblico o privato).
Sul rapporto tra il capitalismo e alcuni diritti solitamente definiti come «civili» (legati alla parità di genere, al rispetto delle minoranze sessuali o all’antirazzismo), non è necessario inventarsi grandi cospirazioni capitaliste (a cui non credo) per percepire che l’atteggiamento del capitale verso i diritti «civili» sia ben diverso da quello verso i diritti «sociali».
Non ho mai visto i logo delle multinazionali a un picchetto dei lavoratori della logistica, né la pubblicità di un biscotto o di un deodorante in cui comparissero persone sfrattate o licenziate. Invece, le multinazionali fanno la loro comparsata al Pride (e non mi pare che l’Italia sia un Paese «in cui la battaglia culturale (…) per la tolleranza verso le minoranze sessuali è vinta o quasi vinta») e usano coppie omosessuali o persone non «bianche» negli spot in questione.
Ripeto: a mio avviso non c’è dietro alcuna cospirazione, e men che meno un’inesistente volontà da parte del capitale di «promuovere attivamente» determinati diritti.
Semplicemente, ho la sensazione che il capitale si senta molto meno minacciato dalla rivendicazione dei diritti «civili» che non da quella dei diritti «sociali». E mi sembra ovvio che questo abbia delle conseguenze sulle scelte da compiere in termini di lotte, se non altro in termini di allocazione delle risorse – il che, ripeto ancora una volta, NON significa contrapporre i due tipi di diritti esaltando l’uno e banalizzando l’altro. Non credo che pensarla così faccia di me un «sinistro di destra».
La “sinistra di destra” (ma qui è davvero solo una “destra di destra”) si caratterizza non, in punta di penna, per la distinzione fra diritti civili e sociali, ma per il farne conseguire l’idea che le lotte per i diritti civili sarebbero una losca manovra del capitale per distogliere l’attenzione dall’unità proletaria per i diritti sociali.
Esemplare, a questo proposito, l’atteggiamento di costoro verso Non Una Di Meno: esemplare soprattutto perché le lotte delle donne – con quanto di innovativo ha immesso nel conflitto NUDM, a partire dall’intersezionalità – vengono derubricate a mere lotte per il riconoscimento o per diritti che non si capisce perché sono solo “civili”. Come se la “civiltà” fosse un dato naturale, e non una condizione storica conquistata con le lotte, per inciso.
Ma è la stessa distinzione fra due tipologie di diritti che non tiene.
Sul lato di chi resiste al potere: perché la lotta, che sia per “più salario meno orario” o per le unioni civili, è sempre e comunque un processo mediante il quale i soggetti in lotta si costituiscono come tali, a partire dal riconoscimento della propria posizione avversa a quella del potere, delle sue maglie, delle sue strutture. I gay pride possono sembrare folklore, in confronto al testosteronico operaio eterosessuale in tuta blu che eccita i sogni di Fusaro o Rizzo: ma Engels in persona ci ricorda (in una pagina della sua inchiesta sulla classe operaia inglese citata da Vanetti a p. 83) come il “brutale egoismo” della borghesia inglese che la working class aveva introiettato (Foucault direbbe: cui era assoggettata) è stato dissolto dalla contaminazione col migrante irlandese, portatore di un carattere “generoso” e “sentimentale” (Foucault direbbe: processo di soggettivazione attraverso cui gli operai si costituiscono come né inglesi né irlandesi, ma come qualcosa di nuovo). Le lotte, quali che siano, creano sempre nuove soggettività che, contaminandosi fra loro, superano quello stallo cui l’assoggettamento al potere aveva condotto la precedente generazione, riaprono il conflitto, e permettono di pensare che “C’è Un’Alternativa”.
Sul lato del potere, cioè del capitale: non ci sono diritti che il capitale concede, e diritti che non concede. Intanto, perché *tutti* i diritti non scaturiscono dalla ragione come Minerva dalla testa di Giove (e anche lì, ci vuole qualcun@ che quella testa la apra), men che meno dalla libertà che guida i popoli e la storia. Ma soprattutto, perché il capitale concede, se costretto, i diritti se questi possono essere messi al servizio del processo di valorizzazione, e se li riprende quando le condizioni storiche e i rapporti di forza glielo consentono. A meno di non pensare che Gianni Agnelli negli anni ’50 fosse un povero scemo, quando conduceva la battaglia dentro Confindustria per una politica di sviluppo accellerato, senza immaginare che più fabbriche avrebbe significato più classe operaia, e dunque più conflitto. Il conflitto (con la conseguente concessione dei diritti *sociali*) era il prezzo da pagare per una più estesa circolazione, distribuzione e valorizzazione delle merci (l’operaia che si compra l’elettrodomestico che lei stessa produce all’Ignis, e il motorino per andare a lavorare, per dire). E la circolazione allargata delle merci, oltre a valorizzare il capitale, è sempre, anche, distribuzione di relazioni sociali e rapporti di classe, dunque di relazioni di potere. Così come, la negazione dei diritti *civili* è sempre un processo di assoggettamento che crea soggetti docili e obbedienti: anche non conoscendo i “classici”, basta Margaret Atwood e il suo Racconto dell’ancella (con o senza fiction) a dimostrarcelo.
Chiedo venia in anticipo se non riuscirò ad esprimermi in modo compiuto e rischio di suonare maschilista, omofobo o altro di simile.
A me sembra, a proposito di distinzioni tra “diritti civili” e “diritti sociali”, che esista anche una tendenza opposta della “sinistra di destra” a difendere (o fingere di?) unicamente i primi.
Del tipo: la lotta di classe è morta, ma difendiamo i matrimoni omosessuali.
E mi piacerebbe una discussione anche da questo punto di vista.
Ci sono sempre stati omosessuali di destra, siamo d’accordo? Personalmente l’ho sempre ritenuta una posizione incoerente da un punto di vista “logico”, ma è anche “ovvia” da un altro punto di vista (del tipo, sempre banalizzando: “se la maggioranza dei maschi bianchi italiani è di destra, presumibilmente lo sarà anche la maggioranza dei maschi bianchi italiani gay”).
Ovviamente non posso reagire dicendo “e allora QUESTA lotta fatevela da soli”. Epperò mi fa incazzare.
E mi fa incazzare anche vedere amici gay sindacalisti per cui la distinzione sarebbe che il PD almeno sui diritti civili non è come la lega.
Perdonate le banalità. E’ che mi sembra che ci sia del potenziale di riflessione. Se questo è il modo di ragionare di persone da cui ti aspetteresti maggiore sensibilità e mentalità critica, allora uno dei problemi è che il TINA è stato interiorizzato anche in luoghi della mente insospettabili.
E che forse bisogna attaccare la narrazione della “sinistra di destra” quando si presenti come in qualche modo “amica delle minoranze” finché le minoranze afferiscono appunto alla categoria dei “diritti civili”. Perché questa è una strategia che attua per nascondere il suo NON essere amica delle minoranze quando si tratta di “diritti sociali”.
Ma non ti pare che questo tema sia già stato affrontato nel post?
1) La «vecchia sinistra di destra» (qui il Pd, per capirci) *divide di fatto* diritti civili e diritti sociali proprio per poter dire: «ehi, noi sì che siamo di sinistra: noi difendiamo i diritti civili!».
La fase terminale del renzismo è stata un’apoteosi di questa retorica. A tutti quelli che chiedevano cosa avesse fatto Renzi/Gentiloni di «sinistra», quando avevano devastato il poco che restava della legislazione che tutelava i diritti dei lavoratori, i piddini rispondevano «le unioni civili».
Il messaggio implicito che la «vecchia sinistra di destra» faceva così passare era: «non c’è spazio/soldi per diritti civili *e* diritti sociali, quindi accontentatevi dei primi». Altro messaggio, quasi esplicito: «i diritti sociali sono roba vecchia, guardate come risplende la capacità del capitalismo di correggere le proprie storture, dunque la cosa di sinistra da fare è difendervi dai retrogradi che negano i diritti civili, il resto va da sé».
Il risultato di questa scelta scellerata- che rispecchia l’ideologia della «scarsità» applicata in modo criminale ai diritti – è che emerge, prima sottilmente poi sempre più forte, l’idea che i diritti civili siano da contrapporre a quelli sociali
2) la «nuova sinistra di destra», diciamo sovranisti & C., assume esattamente lo stesso pensiero del Pd. Questo pensiero presuppone che i diritti siano un bene scarso, una coperta corta, e se ne dai *troppi* di un tipo non c’è spazio per coprire gli altri.
Il Pd e questa gente sono quindi perfettamente complementari: il primo dice: «beccatevi un po’ di diritti civili e non rompete le palle con quelli sociali»; i sovranisti sedicenti di sinistra obiettano: «eh no, noi vogliamo quelli sociali, quindi piantatela con quella roba dei diritti civili».
Le due sinistre di destra sono quindi dentro la stessa bolla, e dentro la bolla presto l’aria diventa irrespirabile, e così i sovranisti cominciano a prenderci gusto a fare le puzzette e a dire «eh, ma siete proprio una sinistra fucsia», e a tirare fuori battute da caserma.
(Battute che rivelano spesso poi un problema con i propri desideri sessuali repressi, ma questa è altra storia – anche se è potenzialmente anche questa è la storia di una liberazione mancata e tradita)
Serve a questo punto il bambino che faccia scoppiare la bolla e gridi che il re è nudo, e cioè: «ehi, ma i diritti civili e sociali sono inscindibili, sono *entrambi* quello che vogliamo!»
Ps: ciò detto dissento, nel tuo commento, dall’idea che si debba pensare a categorie come «gli omosessuali di destra» che però non dovrebbero essere di destra: non mi interessa ritagliare in questo modo, affibbiare automatismi sul posizionamento ideale di una minoranza (o gruppo determinato) che poi rischiano di diventare sovradeterminanti e colpevolizzanti.
Guarda per esempio quanti etero stanno costruendo la propria sciagura, anche nel campo delle libertà sessuali. Le multe da 10mila a testa (ventimila se si è in coppia, a salire se la festa è più affollata) per il sesso in macchina se le sono beccate, a quanto ne so, solo etero, finora. Perché allora gli etero che hanno fatto sesso in macchina (direi un buon 80% almeno degli etero) non si ribellano, e non si battono contro la destra che impone questa assurda repressione (in questo caso la destra che era Renzi, ma anche la destra salviniana che la porta avanti questa repressione oggi)? Come vedi, questo tipo di domande sono senza risposta, probabilmente perché malposte. Ed è peggio quando sono malposte nei confronti di una minoranza.
Continuo a non capire alcune cose.
Non capisco perché tracciare una distinzione tra due tipi di diritti dovrebbe equivalere automaticamente a concepirne alcuni come «autentici» e desiderabili e altri come «fasulli» o inutili. Operare una distinzione tra gatti e cani, pur riconoscendo che sono entrambi animali, mammiferi, quadrupedi e quant’altro, non implica automaticamente la volontà di sterminare i cani dandoli in pasto ai gatti, o viceversa.
E non capisco come si possano mettere sullo stesso piano le due «sinistre di destra», né concettualmente, né in relazione alle potenzialità dannose che possiedono. Quella che il post e molti commenti definiscono «vecchia sinistra di destra» coincide con la totalità delle forze di «sinistra» organizzate a livello nazionale, presenti in Parlamento e concepite come tali nella narrazione mediatica e nella percezione dei più. È stata al governo nazionale per anni, ci tornerà appena possibile e governa tuttora numerose amministrazioni locali. È direttamente responsabile di buona parte dell’opera di distruzione dei diritti dei lavoratori condotta negli ultimi anni. E il suo modello «diritti “sociali”=superati/divisivi/non ce li possiamo (più) permettere; diritti “civili”=attuali/riguardano davvero tutti/impegniamoci a (o facciamo finta di) realizzarli» ha contagiato buona parte dell’informazione «di sinistra» o che si presenta/viene percepita come tale.
A confronto, la «nuova sinistra di destra» mi sembra straordinariamente marginale, insignificante e limitata in massima parte ai social. Chi è questa gente? Cosa fa concretamente? Chi le dà retta? Voglio dire, di Fusaro non ho mai sentito parlare che male da qualsiasi compagno (anche in senso lato) che si prendesse il disturbo di parlarne. I più lo considerano un provocatore; i più teneri, un ciarlatano che ha trovato un modo originale per fare soldi. E Rizzo che rilevanza ha, al di fuori della cerchia dei parenti stretti e degli amici intimi? Taccio dell’altro «sinistrodestro» da voi citato – non l’ho mai sentito nominare.
Insomma, la mia sensazione è che la «vecchia» sinistra di destra costituisca un problema molto più grave, urgente e impegnativo rispetto alla «nuova», e che il tono di questo dibattito su Giap tenda a comunicare una sensazione opposta. (Magari nei due libri non è così: non li ho ancora letti). Senza contare il rapporto di causa ed effetto che lega la «vecchia sinistra di destra» a quella «nuova»: se la prima non avesse tentato attivamente per anni di imbellettare la distruzione dei diritti sociali con la promozione in buona parte simulata dei diritti civili, nessuno oggi potrebbe in buona fede (lasciando da parte i provocatori) reagire (sbagliando) in senso opposto, cioè sostenere la necessità di promuovere i primi ignorando o banalizzando i secondi.
Ciao @Myc.
Sono stato via quindi non ho avuto modo di rispondere a niente finora ma il dibattito mi sembra parecchio interessante.
Sui diritti sociali, vorrei far notare una cosa. Teniamo l’esempio dell’art. 18, ossia del diritto (oggi rintuzzato) a non farsi mandar via senza una giusta causa da un posto di lavoro. Abbiamo già osservato che si tratta di un diritto individuale, non collettivo. Ora vorrei far notare un’altra cosa: proprio come i cosiddetti diritti civili, anche questo diritto è “formale” e va poi reso applicabile con misure sociali. Infatti, un sacco di persone venivano licenziate ingiustamente anche prima del Jobs Act; solo una piccola minoranza esercitava poi concretamente questo diritto.
Per esercitare tale diritto, serviva infatti intraprendere un percorso giudiziario che non tutti avevano gli strumenti, la voglia, il tempo e in qualche misura le risorse per affrontare. Proprio come il diritto di due gay a sposarsi è un’astrazione se poi nei fatti non ci sono le condizioni di lavoro, welfare ecc. per esercitarlo, così per molti decenni è stata un’astrazione l’articolo 18 che veniva invocato più che altro come spada di Damocle contro i padroni troppo spudorati – per non parlare del fatto che costitutivamente l’articolo era inapplicabile alle aziende medio-piccole.
Ancora una volta, insomma, mi pare che la distinzione tra le due categorie di diritti sia alquanto fumosa.
Concordo sul fatto che la vecchia sinistra di destra, cioè per capirci quella che oggi orbita attorno al PD e ieri ha portato alla formazione del PD stesso, sia un problema maggiore che Diego Fusaro. Mi viene difficile applicare lo stesso ragionamento ad Alberto Bagnai, però, che è al potere diversamente dal PD e che è un Fusaro che ce l’ha fatta (anche perché invece di scrivere fregnacce filosofiche per CasaPound si occupa di economia per la Lega: ha giocato le sue carte in modo decisamente più astuto). Direi che ad ogni modo sia un discorso terribilmente ozioso: né questo post né i due libri pretendono di dire quali siano le sole cose importanti al mondo.
In ogni caso, anche questo post e i due libri mettono le priorità nell’ordine giusto, visto che il punto essenziale che stiamo sottolineando è proprio il danno originario ed enorme costituito dall’adesione della vecchia sinistra alla visione neoliberista, europeista, classista. Il populismo/sovranismo di sinistra in qualche misura ne è una conseguenza.
Repost solo per una minuzia @Wolf a proposito del poscritto: ma certamente, hai ragione, io per primo ho premesso che sarebbe una reazione viscerale sbagliata.
(Però almeno non colpevolizzerei la minoranza ma solo la parte di destra della minoranza ^_^)
«Il marxismo è l’unica forma di cinismo ottimista». Partirei dal cinismo ottimista del marxismo, come già fatto in una recensione della «Sinistra di destra» (http://www.avvocatolaser.net/2019/07/04/la-sinistra-di-destra/). Un cinismo che, a guardarlo bene, nel libro di Mauro Vanetti prende una forma settecentesca, un viaggio à la Swift ma senza misantropia.
È un atteggiamento del pensiero e della prassi, ed entrambi (pensiero e prassi) sono la parte migliore della carne messa al fuoco in questo post.
Un elemento interessante di questo dialogo ciurmesco – e anche dei libri di Wolf Bukowski e Mauro Vanetti – è la ricostruzione di una genealogia. A risalire indietro, qui, non si fa un’operazione nostalgica (che non vogliamo), non si va a cercare il filo di una vendetta (che non ci è utile), ma – semplicemente – si mettono in fila e in ordine i discorsi. Mi sembra che sia una grande indicazione di metodo, oltre – altro elemento comune ai due libri – all’analisi dei dati, delle prassi, di episodi concreti.
Per questo si “avverano” le profezie di cui dice @girolamo nel primo dei suoi commenti; e non so se questa sia un inizio di risposta alla domanda del terzo commento di @girolamo e a quella di @wolfbukowski.
Quello che ci dimentichiamo, a volte, è che la lotta di classe mira alla vittoria del proletariato, allo sviluppo della classe operaia. La lotta di classe *non può* essere la condizione perenne, così come *non può* essere perenne una condizione senza speranze. Qui dobbiamo cogliere il senso di “sicurezza” che le persone hanno quando gli si dice che sono “ceto medio”. Dico spesso che quando vincerà la Rivoluzione avremo più Dior per tutt* e non sentiremo freddo nelle assemblee invernali. Non è un orizzonte di futilità, per me, ma un modo per uscire da una logica pericolosa: pensare che la bellezza sia una roba borghese. È borghese una bellezza fredda e congelata, una bellezza intoccabile, il Medioevo ridisegnato e falsato, la perdita del senso dello scorrere del tempo, dei luoghi che sono tali solo se abitati dalle persone (abitati = non sfruttati), dei mutamenti delle culture, delle mescolanze delle lingue.
[Giusto per cominciare]
Un compagno qui a Roma era solito dire – a ragione, e io lo condivido – che dobbiamo volere il socialismo dell’abbondanza, e non la condivisione delle privazioni. Per sottolineare la giustezza delle tue conclusioni. Più lusso per tutti, insomma.
Però abbiamo bisogno di nuovi concetti e nuovi termini. Nel capitalismo il “lusso” può essere solo predatorio delle risorse nelle sue premesse e classista e discriminatorio nei suoi esiti, perciò se diciamo che vogliamo il “lusso” non facciamo capire cosa intendiamo. Di fronte alla catastrofe ambientale planetaria, poi, è proprio stridente.
Certo, ovvio, «lusso» era un boutade. Così come diceva Danae per «bellezza», che non deve essere intesa in un’accezione borghese, anche il concetto di «abbondanza» deve avere parametri diversissimi da quelli capitalisti. In un’organizzazione sociale e politica basata su parametri di redistribuzione della ricchezza egualitari, e non discriminatori e predatori, potremmo tutte e tutti vivere con risorse più che sufficienti per una vita più che dignitosa e senza privazioni, ma in un sistema sostenibile, in cui la somma complessiva di “ricchezza” sarebbe (in termini assoluti) comunque di gran lunga inferiore all’attuale ma redistribuita più che degnamente (in termini relativi) tra tutte e tutti.
È giusto infatti trovare nuovi concetti e nuovi termini (non userei mai il termine «lusso» in una rivendicazione politica) anche perché, oltre a veicolare il nuovo, bisogna anche scrostare residui tossici incrostatisi, cioè demolire un’immagine stereotipica del socialismo/comunismo/qualsiasi-nome-gli-vorremo-dare come sistema in cui si è tutti uguali ma perché egualmente miseri, insomma una società di stenti. Un’immagine stereotipata figlia del fallimentare socialismo reale stalinista novecentesco, cui il capitale ha sempre contrapposto una narrazione in cui il liberismo è l’unico sistema in cui l’umanità possa vivere non in povertà, da cui a cascata tutte le teorie del trickle down, ecc., per cui lasciando arricchire liberamente (e all’inverosimile) pochi poi saremmo stati meglio tutti.
Concordo, evidentemente, sul punto di avere e usare concetti nuovi e nuovi termini. Soprattutto, mi sembra importante riempire di contenuto e di relazioni liberanti la “bellezza”. Il capitalismo va abbattuto, anche nelle sue parole.
Qui c’è più spazio per scrivere che su twitter, quindi mi sbizzarrirò, ma sarò meno criptico. Nei due saggi, che ho comprato entrambi, in abbinamento, e in questo dialogo, si sfiora spesso un argomento, riguardo alla classe lavoratrice. Qui ad esempio un po’ si tocca, quello che intendo dire, quando Wolf parla del saggio di Nick Dines su Napoli, dove il conflitto viene vissuto su una dimensione urbana ed il Partito Comunista arriva a considerare le classi sottoproletarie (non operaie, dunque) come un ostacolo; anche Mauro Vannetti sfiora il tema sia nel libro che qua (quando parla dell’otto marzo e dello sciopero). L’argomento è il lavoro come luogo di conflitto di classe. Chiaramente il libro di Wolf è orientato ad una prospettiva di resistenza, e quindi di conflitto “urbana”, ma da quel brano traspare uno “scollamento”, si diceva una volta, che riguarda per converso anche il luogo di lavoro. Quel luogo resta o no il punto di attrito numero uno del conflitto di classe? Ovviamente sì, ma La classe lavoratrice ha perso coscienza di sé. Sindacato, per colpe del Sindacato, certo, ma anche dei lavoratori, è diventato sinonimo di corporativismo. Quella “cinghia di trasmissione” ha continuato a funzionare, continua a trasmettere, ma cosa? Cosa ha trasmesso nel corso dei decenni? Basta farci questa domanda per non sorprenderci del fatto che il 40% degli iscritti CGIL voti Lega. I sindacati, parlo dei confederali e delle sigle corporative di settore, si sono, nel corso del tempo, sempre più trasformati in “club rotary” dei poveri, luoghi di esaltazione dell’ambizione individuale a scapito delle lotte solidaristiche. Io lavoro in un call center composto per l’80% da donne: sono l’unico a scioperare l’8 marzo da tre anni. La conflittualità, vera, è stata confinata ai margini del mondo del lavoro: facchinaggio, mondo dei servizi, incluso quello degli educatori, agricoltura. Ma anche nei call center oggi ci si accorge della questione di classe solo quando non c’è più niente da fare. “Mi sembra che non serva una gran preparazione marxista per capire che se i salari di uomini e donne sono differenziati questo è dovuto direttamente ai loro padroni e indirettamente all’intera classe dominante per cui questo gap è un ottimo affare: mette in concorrenza lavoratori e lavoratrici” dice Vannetti, ma non è così. Thomas Fazi parla un lingua che i miei colleghi capiscono. Ma non solo i miei, anche quelli del call center dove lavora la mia ragazza, che rinunciano a far rispettare i loro diritti costituzionali sulle ferie e danno ragione all’azienda, anche gli operai (molti immigrati) dell’azienda metalmeccanica dove lavora un mio carissimo amico, che non fanno valere gli inquadramenti ed i minimi salariali previsti dal contratto per non inimicarsi il datore di lavoro, gli insegnanti che rinunciano ai giorni di permesso della scuola dove lavora un altro mio caro amico. Non solo l’articolo 18 è sepolto nel mondo del lavoro. Presto tutta la legge 300 sarà cancellata, con la firma dei confederali – e da loro ce lo aspettiamo, certo – ed il plauso dei lavoratori. Quando verrà posto il problema cruciale del conflitto sul luogo di lavoro?
Rispondo solo per la parte dell’«urbano». Il conflitto di classe nell’«urbano» straripa dal luogo di lavoro e investe le condizioni di riproduzione: è lotta di classe (dall’alto) quella che strappa i ceti popolari dalle proprie abitazioni in affitto per consegnarle a turisti sempre più esclusivi e ricchi, con l’uso di una tecnologia (Airbnb). L’aggressione investe le condizioni di riproduzione sociale – la casa – per aprire in modo sempre più violento un mercato nuovo (quindi interessando le condizioni di produzione).
Nel tempo della sussunzione reale (sempre perfezionabile, sempre più «reale» di un momento prima) il luogo della produzione finisce così per sovrapporsi spesso al luogo di vita. Rimane, certo, la necessità di alimentare l’emergere di soggettività nelle nuove fabbriche del plusvalore (logistica, ma anche il percolato del welfare in dismissione, che giustamente citi), ma senza perdere di vista questa dimensione «esplosa».
Il caso napoletano, in effetti, finisce male: con la Napoli operaia in dismissione, e una parte del sottoproletariato costretta alla messinscena perenne della propria condizione, in nome del folklore turistico: https://napolimonitor.it/parco-tematico-quartieri-spagnoli-uninchiesta-sul-boom-del-turismo/
Non poter poter neppure più sperare un miglioramento della propria condizioni, anzi simularne una peggiore di quanto non sia davvero (vedi il link(ì), come orizzonte? Anche qui – anche se non è propriamente un «luogo di lavoro» – c’è un bell’attrito di classe, e potenziali scintille…
Di base sono ovviamente d’accordo: il conflitto nella dimensione urbana è sempre conflitto di classe; però (“sono d’accordo ma…”) la mia è una provocazione, non polemica, ma che vorrebbe essere portatrice di un’istanza.
Nel senso: oggi il conflitto esiste “solo” nella dimensione urbana. Questo è lo scollamento più grave.
Sono napoletano, ed in passato ho anche incrociato il movimento napoletano, conosco abbastanza bene quella realtà e l’evoluzione economico-sociale della città è esattamente come scrivi, ma siccome da vent’anni vivo a Bologna, vorrei riportare questa mia teoria alla realtà bolognese: la battaglia del XM24, sacrosanta, non è questo in discussione, da quali lavoratori è sentita? Certmente XM24 è una realtà attorno alla quale si raccolgono studenti, lavoratori della cultura, educatori, persone sensibili alle questioni sociali. Quanti operai metalmeccanici, quanti operatori call center, sono coinvolti da quella battaglia, ripeto, sacrosanta?
E non solo: io, moderato frequentatore non (più) militante dei centri sociali, ho amici che li frequentano anche più di me, ci passano le serate. Tra questi frequentatori non militanti, quanti di questi portano il conflitto nel luogo di lavoro, facendo nei fatti essere il conflitto una cosa sola, da combattere ovunque?
Io penso che la questione di XM24 sia poco sentita nel mondo del lavoro salariato più vasto, molto sentita in alcuni settori, il che può dare una percezione falsata della realtà a chi esce poco dalla propria “comfort zone”, tipo studenti, lavoratori dell’istruzione o della cultura, educatori, qualche abitante della Bolognina, e che anche tra quei pochi che vengono dai call center e dalle fabbriche che lo frequentano, ci sia pochissima voglia di portare quel conflitto, anche in altre forme, sul luogo di lavoro (è una sensazione che ho prodotto da esperienze personali, quindi nulla di scientifico). Come se il conflitto urbano e il conflitto di classe nel luogo in cui esso si manifesta in tutta la sua potenza, attraverso lo sfruttamento, fossero due cose distinte.
Allora mi chiedo: perché questa alienazione? Perché XM24 non parla al luogo di lavoro ed il luogo di lavoro non parla ad XM24?
Dov’è l’errore? Perché la battaglia conflittuale di XM24 resta solo una battaglia urbana e non si vede in nessun modo nei luoghi di lavoro, neanche come posizione di una sparuta minoranza? Perché alla gran parte dei miei colleghi, dei colleghi della mia compagna, dei colleghi di tutti i miei amici e conoscenti, non gliene frega nulla di quella battaglia, e a quei pochi che gliene frega al lavoro fanno finta di niente anche per questioni come il diritto a fruire delle ferie?
La domanda è più o meno questa.
Giusto porre queste domande, però faccio notare che qualche esempio di circolo virtuoso tra battaglia «urbana» – nel senso dei commenti sopra – e lotta sul luogo di lavoro a Bologna lo abbiamo avuto anche di recente. Penso al rapporto tra sindacalismo di base e lotta per la casa, e penso al fecondo intreccio tra gli scioperi e i blocchi nella logistica e le lotte urbane animate da Social Log e dintorni. Spesso a lottare all’interporto o in altri snodi logistici dell’hinterland bolognese erano gli stessi proletari che poi occupavano le case e/o partecipavano ai picchetti antisfratto, accanto a un corpo militante che, intervenendo con continuità in entrambi i contesti, faceva da connessione.
Sì nella logistica, come in tutti i luoghi dove il conflitto è più estremo, è così, il conflitto non è alienato. Ho lavorato anche come facchino in passato.
Però a mio avviso non basta essere lì.
Salariati sono anche i lavoratori con contratti a tempo indeterminato e la quattordicesima. Producono profitto, e spesso sono anche più sfruttati, nel senso che il valore prodotto da un’ora del loro lavoro (pensiamo ai cc HERA o del Gruppo Unipol, per restare a Bologna) si sviluppa in fatturati a dieci undici, zeri.
Però è chiaro che se venissero i sindacalisti di Social Log da me non fanno una tessera. Io ho provato a fondare USB in azienda, mi è andata male.Poi gran pacche sulle spalle quando intevengo in asseblema, ma ognuno resta con la sua tesserina confederale.
E il fatto è che è così anche in altre aziende. Poi certo alla GD ottimo lavoro di USB, anche in altre situazioni, ma sono fenomeni marginali. E allora come si fa? Come facciamo a coinvolgere tutti i salariati in questo discorso? Partiamo dai bisogni dei salariati?
E’ la prima volta che scrivo qui, ma salto le presentazioni per non appesantire il thread.
“Come facciamo a coinvolgere tutti i salariati in questo discorso?”
Questa domanda me la sono fatta anche io e ovviamente non mi sono dato manco mezza risposta, ma butto lì due sensazioni che vengono dal mio luogo di lavoro. Temo che ripartire dai “bisogni dei salariati”, come giustamente tu dici, sia estremamente difficile: e questo perché la maggior parte di quei bisogni i salariati tendono a soddisfarli tramite la negoziazione personale sul luogo di lavoro: quello che prima si sarebbe cercato di ottenere in modo collettivo adesso viene perseguito come *benefit personale*: “sono più *bravo* degli altri, valgo di più sul mercato e quindi mi devi aumentare lo stipendio, altrimenti me ne vado”. E il vero guaio poi è che questo comportamento non viene neanche visto come una forma di egoismo, ma è ritenuto, semplicemente, giusto. La meritocrazia ha fatto più danni della peste ormai, e molti ritengono che se hanno lo stipendio più alto (o, più miseramente, hanno ottenuto il bonus asilo per i figli) è perché se lo meritano, così come meriterebbe a loro avviso di essere disoccupato uno che non ha studiato. Il problema li è culturale e questa cultura è ormai egemone.
Il mio esempio è molto limitato ovviamente, parlo di lavoratori salariati a tempo indeterminato, quasi tutti laureati. Ma credo che abbia senso ragionare su come portare il conflitto anche tra queste persone, anche perché, come diceva @Ubik75, il loro lavoro si trasforma in fatturati a parecchi zeri. (Aggiungo in coda che dove lavoro io è già un miracolo che ci sia gente con la tessera confederale: USB è fantascienza pura)
Ciao, Ubik.
XM parla al mondo del lavoro. Parla talmente tanto al mondo del lavoro che gli offre uno spazio non assoggettato alle regole di mercato del divertimentificio cittadino: puoi andare a XM senza consumare, consumando a poco prezzo, a studiare, a fare sport (praticamente gratis), a farti riparare la bici e ad imparare a farlo, a prendere libri, a ballare o a parlare dei tuoi problemi nei vari sportelli sociali che offre.
Non è rivolgersi ai lavoratori ultimi questo servizio?
I lavoratori frequentano XM e portano XM al lavoro: io (portiere precario), Gianluca (correttore di bozze precario), Giulia (guida turistica a partita iva), Tommaso (call center Tim), Marco (magazziniere), Alessandro (aiuto cuoco sottopagato), Paolo (operaio alla Weber) e tanti altri che hanno fatto politica negli anni 90 e conoscono, e riconoscono oggi, il valore di quel luogo.
Il perchè i tuoi amici e colleghi non ne parlino mi fa pensare che forse ci sono stati percorsi politici e formativi differenti e che oggi hanno un’idea dei centri sociali parziale, forse non avendoli mai frequentati. O poco.
Questi ragazzi che ti ho elencato, sono compagni tra i 40 e i 47 anni, non votano, fanno politica più o meno attiva da sempre e sono ancora qui, come me.
Gli attestati di solidarietà del mondo del lavoro sono stati tanti, non c’è solo l’intellettuale, perché la distinzione tra intelletuale e lavoro manuale, tra salario e stipendio, oggi non ha molto senso. Almeno nella distinzione che sembra emergere dalle tue parole:
XM lo frequenta chi ha studiato e si occupa di cultura, ma Mimì metallurgico no.
E dove va, Mimì?
Con che coscienza di classe, va dove va?
XM è un luogo, va riempito e non ha mai respinto nessuno.
Porta i tuoi amici e colleghi e se me lo dici vengo anche io e ci beviamo una birra e ne parliamo.
Secondo me si innamorano di XM come tutti noi.
Ecco la tua risposta c’entra poco. Ho parlato di grandi numeri. Io stesso ti parlavo di amici che lavorano nei call center, fanno gli insegnanti e gli operai che lo frequentano. Ne ho fatto una distinzione di classe così rigida come tu la descrivi:
“Gli attestati di solidarietà del mondo del lavoro sono stati tanti, non c’è solo l’intellettuale, perché la distinzione tra intelletuale e lavoro manuale, tra salario e stipendio, oggi non ha molto senso. Almeno nella distinzione che sembra emergere dalle tue parole:”.
Non ho mai scritto che XM respinge, mi facevo delle domande; questa tua risposta è respingente.
Però, d’altra parte, mi conforta. Se è così forte nel mondo del lavoro, non potrà cadere. E questo, da un certo punto di vista, è un bene.
Ha già detto alcune cose @Ombrerosse, ma provo a vedere lo stesso discorso da un altro punto di vista. Non è che in questo domandarsi perché la battaglia per XM24 (usiamola come esempio) non sia sentita dai lavoratori ci mostriamo subalterni al capitale nella definizione di «lavoratori»?
Il capitale dice: i riders, cuochi e camerieri a chiamata con contratti del cazzo, gente che alterna borse di studio con lavori manuali, «operai» del software etc, non sono «veri» lavoratori, ma semmai *fanno* dei «lavoretti».
Ovviamente la coscienza di classe di questi lavoratori è minata da tale ideologia corrente, e quindi alcuni di loro finiscono per non percepirsi come lavoratori, ma come gente di passaggio che ha solo bisogno di un reddito (come se non fossimo tutti «gente di passaggio che ha bisogno d un reddito»…).
Negli ultimi tempi, anche grazie alle lotte dei riders e al loro impatto mediatico, questa narrazione dell’economia dei lavoretti sta cominciando a puzzare, e su questo dobbiamo picchiare duro.
Però, come spesso accade, il suo fondo ideologico potrebbe essere rimasto appiccicato dentro di noi, finendo per non farci considerare quei lavoratori-dei-lavoretti come veri-lavoratori.
Non trovi ci sia questo rischio?
Guarda se da quello che ho scritto si evince questo allora c’è qualcosa che non va in quello che ho scritto. Perché assolutamente non c’è nessuna discriminazione “aristocratica” per alcun tipo di lavoratore da parte mia. Il mio problema è come fare esistere il conflitto in modo meno marginale di adesso, come farlo essere condiviso da chi subisce alienazione e sfruttamento. Offendere un rider o un facchino, un precario, offenderebbe me stesso.
Mi chiedevo, in quante aziende bolognesi da migliaia di dipendenti, il livello di conflitto, la solidarietà di classe e la coscienza di classe siano argomenti che sensibilizzano i lavoratori. Tutto qua.
Vorrei chiudere, per quanto riguarda me, la discussione su XM24, lo usavo come esempio. Ma usavo come esempio anche l’8 marzo. Mi dispiace essere stato etichettato come riformista o rossobruno, se ciò fosse avvenuto, come leggo tra le righe. Non era XM24 il centro del mio discorso ma solo come far essere il conflitto un fenomeno non marginale. Ora mi risponderete che non lo è, e quindi bene, sono felice. Il mio è solo un errore prospettico/percettivo.
O meglio, più che “come far essere il conflitto un fenomeno non marginale”, come condividere una strada antagonista del conflitto con più realtà, molto distanti. Perché, forse, una cosa giusta, l’ha scritta ombrerosse: molti non conoscono i centri sociali e hanno dei preconcetti. Ma sono pur sempre classe lavoratrice.
Secondo me i discorsi di Ubik75 e di Wolf sono complementari. E mi pare che Wolf abbia colto un punto essenziale riguardo alla percezione. Vale a dire: certe tipologie di lavoro e di contratto non sono considerate centrali nell’economia (urbana e non), anche se tutto ci dice il contrario.
Il motivo per cui la classe dirigente del PD sta perdendo l’Emilia-Romagna una provincia dopo l’altra è anche questo. Che abbiano sessant’anni, cinquanta, o quaranta, i pidini emiliani seguitano a considerare cittadini attivi ed elettori soltanto coloro che hanno un certo tenore di vita, non necessariamente medio-alto ma senz’altro regolato da contratti di lavoro relativamente stabili, dal vivere in coppia, dal mutuo per la prima casa, da un’automobile, uno o due figli, ecc. Se corrispondi a questo identikit appartieni alla “cittadinanza”, altrimenti sei un@ di passaggio, a prescindere da quanto tempo vivi in città (magari decenni).
Nel momento in cui le stesse politiche di questa classe dirigente svuotano le città di abitanti per riempirle di turisti (quelli sì, davvero di passaggio), risulta chiaro come questi amministratori si stiano togliendo da soli la terra da sotto i piedi. Come dire: per questi non c’è speranza, devono fracassarsi la testa contro il muro della propria ottusità. Perderanno l’Emilia-Romagna, e presto o tardi perderanno anche Bologna.
Diverso è il discorso per la percezione delle persone: una quota parte dei lavoratori appartenenti alla categoria suddetta non riesce a identificarsi con le istanze rappresentate da un luogo come XM24. Probabilmente è perfino respinta dall’estetica e dal modo di porsi di una comunità come quella. La cosa non dovrebbe stupire, dato che, in un certo senso, è sempre stato così. I pregiudizi si radicano facilissimamente e ci toccano da vicino. Un paio d’anni fa ho chiuso un’amicizia trentennale in seguito al fatto che avevamo sostenuto l’appello contro lo sgombero di XM. Mi sono trovato a confrontarmi con l’idea che un centro sociale sia un luogo animato da figli di papà fancazzisti che disturbano il sonno della gente “normale”. Sinceramente ho la sensazione che questa percezione sia maggioritaria in una fascia di lavoratori e lavoratrici relativamente stabilizzati.
Parlo di lavoratori e lavoratrici perché è questa l’angolazione che si è scelta qui, e che mi trova d’accordo, in effetti. Allora è proprio sui nuovi soggetti del mondo del lavoro che bisogna scommettere se si vuole sperare di sopravvivere. Che poi sono soggetti vecchissimi, cioè i lavoratori sfruttati e sottopagati e di passaggio (migranti interni o internazionali) che svolgono appunto i “lavoretti”. Toccherà a loro portare avanti il conflitto, credo, e sviluppare una nuova coscienza di classe. Come del resto sta iniziando a succedere. Il sindacalismo di base l’ha capito, e infatti ci sta lavorando, pur con tutti i limiti del caso. Quello confederale è arrivato al massimo ai call centre, per il resto mi sembra abbastanza fermo al palo.
Lavoratori precari e di fascia bassa, così come le famiglie povere immigrate, finiranno per ritrovarsi sempre di più lontani dai centri storici e finanche dagli stessi centri urbani. I centri sociali indisponibili a piegarsi alle linee guida della gentrificazione trendy verranno sgomberati o trasferiti all’estrema periferia urbana. La frontiera del conflitto si sposta fuori dai centri urbani, nelle periferie, negli Hub delle merci, lungo le direttrici logistiche, nelle campagne. Quello che mi viene da chiedermi è se anche il margine di possibilità per le nuove esperienze non si decentrerà di conseguenza. Chissà che continuare a ragionare sui territori urbani come epicentro di tutto non si rivelerà limitante alla lunga. Confesso che è una delle riflessioni che mi sono sorte leggendo il libro di Wolf e osservando le vicende della città in cui vivo. Chi vivrà vedrà.
Molto interessante Wu Ming 4. Rileggendo il post di Wolf, in effetti se è questo che intendeva sottoporre alla mia attenzione, allora ci siamo, entro nella prospettiva. Condivido praticamente tutto, anche in considerazione del fatto che, probabilmente di “indeterminato” nel lavoro ci sarà sempre meno. Sono stato giù a Napoli due settimane fa ed ho visto sugli scooter padri di famiglia napoletani cinquantenni con la divisa di “Just eat”, “Deliveroo” o “Uber eats”, ho chiesto e mi hanno confermato che è un fenomeno stabile e non limitato ai quartieri popolari, che coinvolge persone che qui magari sarebbero in fabbrica o in un CC. Quel modello di lavoro è il modello verso cui andiamo tutti. Questo apre anche una prospettiva sul medio termine, in effeti, che avevo sottovalutato
Guardando al caso davvero emblematico di #Bologna, mi viene da pensare che la tendenza «centrifuga» potrebbe non durare molto a lungo.
L’andazzo degli ultimi anni dipende da una combinazione molto labile di fattori:
– Ryanair ha molti voli su Bologna;
– Bologna è a metà strada fra Venezia e Firenze ma costa meno di entrambe;
– molti turisti, dunque, prendono il B&B a Bologna poi un giorno vanno a Venezia e il giorno dopo a Firenze;
– solo se resta un po’ di tempo, l’ultimo giorno salgono sulla Torre degli Asinelli e si mangiano un tortellino in centro (di certo non si addentrano per chilometri nell’hinterland post-industriale bolognese al solo scopo di vedere Fico Eataly World, quella è una scommessa già persa da tempo);
– la città è stata messa completamente al servizio di questo turismo mordi-e-fuggi che non solo vive Bologna solo di striscio, ma la svuota e la impoverisce di vita e relazioni (perché se migliaia di appartamenti vengono tolti dal mercato degli affitti e messi su AirBnB, il risultato è quello);
– il centro è ormai quasi solo una colossale mangiatoia, ci sono vie dove c’è offerta di cibo – anzi, di «food» – a ogni numero civico.
Questo il quadro attuale. Ma forse il flop (per ora) silenzioso di Fico Eataly World ci mostra già il futuro della bolla del «food» e delle scelte scriteriate fatte dalla classe dirigente bolognese.
L’impressione è che si stia andando verso un patatrac che getterà la città in una grossa crisi. Non solo perché c’è un limite al depauperamento che l’identità di una città può subire senza che questo si traduca in una perdita di *valore* (è l’ineludibile contraddizione del «marketing territoriale») , ma perché, se ci pensiamo, tutti i fattori elencati sopra sono destinati alla crisi.
– L’emergenza climatica, presto o tardi, porterà per forza a ridurre il traffico aereo, e non è detto che l’attuale modello di business di Ryanair sopravviva;
– di conseguenza, il turismo come lo stiamo conoscendo oggi, interamente dipendente dai voli low cost, potrebbe a sua volta entrare in crisi;
[Aggiungo, ma questo è più vago: il disastro climatico potrebbe portare molto presto a una ridefinizione dei rapporti tra le città e i loro dintorni produttivi, e già adesso molte coltivazioni che alimentano la bolla del “tipico” subiscono forti contraccolpi per via di siccità, temperature troppo alte, tempeste di grandine e quant’altro. L’Italia potrebbe perdere molto del suo “tipico”, ed essere costretta a rimpiazzarlo con coltivazioni più adatte al nuovo clima. L’ideologia enogastronomica italiana – ovvero lo spettacolo del cibo e del vino italiano – potrebbe subirne duri colpi.]
Insomma, Bologna ha scommesso interamente su fenomeni a breve-medio termine, “success stories” che potrebbero rivelarsi molto più effimere di quanto appaiono ora.
Quando la bolla si sgonfierà, cosa potrebbe succedere al centro di Bologna? Ad esempio, che un sacco di serrande si abbassino. Centinaia di serrande. Che intere zone del centro divengano spettrali monumenti al fallimento. Che, in un centro divenuto squallido e pieno di aree dismesse, il valore degli immobili torni per forza a riabbassarsi.
P.S. Un effetto collaterale di questo disastro potrebbe essere la fine del diktat cittadino secondo il quale ogni tentativo di occupare un immobile in centro dev’essere represso all’istante e con la massima durezza. Niente occupazioni in centro, è stata la regola imposta in questi anni. Sarà ancora così?
La classe lavoratrice di cui parlo, quella ancora legata alla legge 300, al tempo indeterminato, che comunque non è minoritaria, ha già abbandonato il centro di Bologna da anni e vive ai margini, tra Loiano, Budrio, San Giorgio di Piano, Bentivoglio, Castel Maggiore, al massimo Borgo Panigale, quando non oltre Zola, o addirittura Ferrara o Altedo (Casalecchio, San Lazzaro e Zola stessa sono troppo care e borghesi).
Questo dato non aggiunge nulla a quanto nel commento di Wu Ming 1, però paradossalmente, stiamo parlando di una bella fetta di popolazione, spesso molto bolognese, a volte meridionale ed immigrata, che si è bevuta la storia del degrado, il battage della Republica Bologna, del Carlino, delle radio e delle TV locali, così ben descritta nel necessario libro di Wolf, ed ora è ben contenta di essere lontana dal centro della città. Ne è certamente respinta dai costi al metroquadro degli appartamenti e degli affitti (che non sono comunque quelli dei quartieri centrali di Roma, Milano o addirittura Napoli), conseguenti alla gentrificazione (degrado/decoro non sono serviti ad altro, se non a questo, una speculazione sui centri storici abbandonati dalle classi lavoratrici, come fa notare molto bene Wolf) ma nemmeno lo frequenta più.
Conosco bolognesi che non entrano in via Zamboni, come se fosse “il rione dei fiori” o le “case dei puffi” a Napoli, con la differenza che la zone di Scampia note come “rione dei fiori” (in realtà lo chiamano “terzo mondo”) o “case dei puffi”, possono essere realmente molto pericolose (ma anche lì, non è detto che lo siano, dipende).
Per cui la triste parabola del centro di Bologna è già di brutto fuori dalla storia quotidiana della, come dire, “classe operaia”, o comunque di una buona fetta di quella.
Quello che mi pare di capire è che, in pratica, non restano che battaglie di “avanguardia”. La difesa del territorio “liberato” è una di queste (ma non viene letta in questo modo da tutta la classe lavoratrice) e non ci resta che attendere tempi peggiori, che certamente arriveranno.
Poi, sul lungo termine, il sol dell’avvenire.
E del motto keynesiano “sul lungo periodo saremo tutti morti” ce ne facciamo un baffo, motto riformista, borghese, liberale, antirivoluzionario.
A parte che non ho mai sopportato l’utilizzo sarcastico e passivo-aggressivo dell’espressione “sol dell’avvenire”, perché di fatto equivale a prendere in giro – in piena consonanza col “realismo capitalista” che ci imbozzola – la fiducia nella possibilità di un futuro migliore… A parte questa nota di stile, dicevo, davvero non capisco su cosa si basi il tuo mini-riassuntino finale della discussione. Di certo non su cose scritte qui. Boh.
Sulla nota stilistica: la mia riflessione, fin dal primo post, era proprio sulla possibilità di un futuro migliore. Io non sopporto chi usa i termini del linguaggio psicanalitico per obiettare a un ragionamento che non gli piace o non ha compreso. A chi somiglia questo modo di fare? A quello in uso nelle questure?
Notavo come sarebbe complicato da raggiungere questo “futuro” senza il coinvolgimento abbastanza condiviso di una classe lavoratrice, che, sui grandi numeri, a me sembra un po’ distratta, un po’ con la testa altrove. La cosa non mi fa piacere, te lo assicuro. Poi, non so se sia realmente così. Può essere che riders e facchini siano talmente tanti da essere più dei lavoratori ancora nella legge 300, e dunque che la mia percezione sia falsata. Condivido anche il ragionamento secondo il quale Riders e facchini, i cosiddetti “lavoratori atipici” (che poi sono lavoratori e basta) rappresentino il futuro e verso dove va il mondo del lavoro. In fondo se leggo libri come quello di WB o i vostri è per avere maggiori strumenti interpretativi della realtà. E su questo ragionavo, il mio ultimo post non era un riassunto. Era un ragionamento.
A parte che io non ho tirato in ballo la psicanalisi bensì la retorica, perché ho parlato di una figura retorica (il sarcasmo) e di un tono del discorso (quello passivo-aggressivo), il paragone tra Giap e la questura normalmente sarebbe da ban immediato. Ti ho chiesto già un paio di volte di non attribuire agli interlocutori cose che non hanno scritto: come nessuno ti aveva dato del “rossobruno” (non si capisce poi perché), nessuno si è mai sognato di dire che non c’è niente da fare salvo attendere tempi peggiori e poi il sol dell’avvenire. Questa è una proiezione tua.
Ma era un ragionamento che condividevo proprio perché venisse vagliato.
Che cazzo di modo di rispondere è?
Vabbé,lasciamo perdere.
Stateve bbuon
Ecco, l’abbiamo vagliato.
Un allenamento sempre utile, per sfuggire alle spire del capitalismo, è quello di guardare alle lotte belle, intense, lunghe, partecipate come a… lotte belle, intense, lunghe, partecipate. È un allenamento della volontà e della resistenza. Dire «Sì però», invece, è parente prossimo di «ma anche» :-)
E poi, pazienza, ci vuole molta pazienza per spiegare e rispiegare: è tutto nell’aggettivo «ottimista» che ho usato nell’altro mio commento per dire del marxismo.
Ubik, a nessuno è passata nemmeno per l’atrio da cui si accede all’anticamera del cervello di etichettarti come dici, cerchiamo di discutere senza inutili vittimismi, per favore.
Grazie Wu Ming. Posso farvi una sviolinata? I vostri romanzi sono un esempio di quello che vorrei dire: uniscono tutte le tribù. Il vostro romanzo è vicino a tutti, non fa distinzioni, va messo sullo scaffale di mezzo, perché chiunque passi lo possa leggere ed appassionarsi. È come la musica di Pino Daniele nella Napoli anni ’70, unisce tutti quartieri, tutte le classi, tutti nella stessa appartenenza, negli stessi pensieri. Parlano davvero a tutti. E dicono cose importanti. Ammiro anche la vostra scelta militante in un mondo come quello dell’editoria. Finita sviolinata. Grazie
Veramente, stiamo sul cazzo a un sacco di gente :-)
Anche io :-D
Io ho lavorato in un call centre e ho provato anche a fare delle piccole lotte, a sindacalizzare i miei colleghi ecc.
Non mi pare che il linguaggio del sovranismo di sinistra sia in grado di parlare ai problemi concreti di quei lavoratori, perché in realtà tale linguaggio considera lo Stato come unico terreno di riconquista di posizioni da parte delle classi subalterne. Viceversa, è lo Stato che ha creato a tavolino i call centre, legalizzando certe forme di lavoro precario, liberalizzando alcuni mercati (io per esempio lavoravo soprattutto per la TIM, che neppure dovrebbe esistere senza l’ondata di privatizzazioni), partecipando addirittura in prima persona alla diffusione di forme di lavoro precarie. Anche quando lo Stato “fa un passo indietro” privatizzando, si tratta di un’operazione capitalista condotta *dallo* Stato borghese e non *contro* di esso.
Va detto però che una mia collega, ai tempi vagamenti di sinistra, in effetti ha trovato nel sovranismo un approdo convincente: infatti sta facendo una piccola carriera politica come consigliera comunale della destra. Quando lavoravamo outbound era, guarda caso, la più brava a vendere fuffa a vecchietti ignari.
Sono assolutamente d’accordo con la questione del Sovranismo di sinistra: è fuffa, per altro già ampiamente criticata, da Marx ed Engels stessi, nel “Manifesto del Partito Comunista”. Non capisco infatti a chi ti riferisci quando parli del Sovranismo di sinistra, se intendi rispondere ad un mio post o a quello di qualcun altro. Per quanto mi riguarda, la mia riflessione partiva da un’esigenza, del tutto, genuinamente, gramsciana. Se io leggo Bukowski, Vannetti e Wu Ming lo faccio consapevolmente e considero Fusaro una pataccata.
Le mie esperienze di sindacato nei cc (ma anche in altri settori) mi dicono che il coinvolgimento dei lavoratori su temi di classe adesso è molto complicato. E anche che il lavoratore che prova a fare un discorso di classe non fa carriera, né nel Sindacato né nel lavoro. Per altro nel mio cc non vendiamo nulla, facciamo assistenza. Mi sono sempre rifiutato di vendere per una questione etica e per ora riesco a campare.
Sento l’esigenza di confermare, non so perché, che non ho mai votato a destra (PD, M5S, Forza Italia, Lega, Fdi, Casamerda o peggio). Sento l’esigenza di confermare che non ho un etichetta (nel senso di un’appartenenza politica ad un gruppo individuato) a parte l’antifascismo ed un profondo anticapitalismo. I miei post in questa chat sono assolutamente sinceri, privi di retroscena: un lavoratore di un cc, in passato attivista nei centri sociali, oggi solo passivo frequentatore e sostenitore, che lavora in un cc e che ha una lunga storia di attività sindacale alle spalle (anche molto recente) molto complicata e che non gli ha fatto fare nessuna carriera (né la cercava).
Sul carrierismo di certi sindacalisti potrei scrivere un saggio io, caro Vannetti. Non avrei alcun bisogno di leggerti.
Ciao Ubik75,
non so perché sei così sulla difensiva: dicendo «sovranisti di sinistra» mi riferivo, naturalmente, ai sovranisti di sinistra e non a te. Stavo rispondendo a quando sostenevi che loro sanno parlare ai lavoratori dei call centre e noi no. Mi pare invece che, riportando ogni possibile avanzamento a un ruolo salvifico dello Stato, e dunque dicendo che i lavoratori in prima persona non possono ottenere nulla con le lotte (in soldoni: perché ci sono stati il divorzio Tesoro-Bankitalia e l’introduzione dell’euro e dunque siamo tutti condannati alla povertà), i sovranisti di sinistra creino una forte distanza rispetto alle esigenze immediate della classe operaia.
Naturalmente, il fatto che invece noi non siamo abbastanza bravi nel rispondere con efficacia a quelle medesime esigenze fa sì che tutto sommato i lavoratori considerino anche altre sirene, ma più che di una particolare abilità loro mi sembra che ciò sia indice di una inettitudine nostra.
In generale io mi riferivo all’appeal che ha avuto il M5S e ora sta avendo la Lega, anche se, in un CC di Bologna la Lega viaggia comunque ad una media inferiore che su scala nazionale. E questo c’entra molto col discorso sul “civismo” analizzato da Bukowski e, come giustamente viene fatto notare, si collega perfettamente al tuo sulle “sinistre di destra”. Il mio intervento in questa sede è proprio legato a questa connessione: come è che una massa sostanzialmente inerte, che in massima parte votava PD (siamo a Bologna città, ripeto) per inerzia, appunto, con la stessa inerzia ha votato in buona parte M5S, ed ora si avvia a non votare o votare (in piccola parte) Lega. Certamente c’entra il discorso sul civismo, fatto dal PD. C’entra il liberismo del PD. Ma l’incanto della destra resta la forza da battere. Io temo sia una questione di linguaggio.
Ciao a tutti, in attesa di dire qualcos’altro forse può aiutare quello che per la scienza politica era più o meno assodato (scienza più incerta non c’è. ah sì, l’economia) sui diritti, almeno fino ad una decina d’anni fa.
Andava in auge la spiegazione di Marshall (e Bendix, mi pare) che vedeva i “diritti” legati al processo di democratizzazione. Detto forse male, il percorso verso la democratizzazione passava attraverso l’estensione progressiva dei diritti. I diritti sarebbero l’essenza della “cittadinanza”. E storicamente procedevano a tappe. I sistemi politici concedevano prima i diritti civili. Per essi però non si intendono diritti che non sono universali (detto male: che non riguardano tutti) ma quelli classici che di fatto non discutiamo più perché ormai sono pacifici (non nel senso di pacificati): libertà di parola, di pensiero, di fede, di ottenere giustizia, e – ovviamente, considerato il contesto – di proprietà (lasciatela lì per adesso).
Questi diritti erano (sono) strettamente legati allo sviluppo della giurisprudenza, che consentirebbe, sul piano formale, di avere garanzie di un equo processo. Hai i diritti quando sei davvero in condizione di farli valere.
I diritti politici vengono dopo e riguardano il voto (forse da qui, l’idea della sacralità del voto) e quindi l’elettorato attivo e passivo.
E infine i diritti sociali, che vanno, cito, “dal minimo di benessere e sicurezza economica fino al massimo della partecipazione a tutte le attività della società in cui si vive”.
Per quando analiticamente distinti (si pensa ad un progressivo sviluppo temporale, sostanzialmente nelle democrazie occidentali) naturalmente c’è un certo intreccio, ma in sostanza fanno parte del progressivo processo di democratizzazione. Mi fermo perché sono questioni forse contorte, se serve magari ci si torna. Finisco con l’avvertenza iniziale: sono distinzioni politologiche, cioè di una scienza sostanzialmente conservatrice.
1) Forse ciò che unisce l’immaginario neoliberista e quello keynesiano è l’esaltazione della “crescita” che invece per Marx-e già per il Marx dei”Manoscritti”-è sempre”crescita capitalista” e DUNQUE una”montagna di merda”.Il sogno di una”comunità” che scateni le sue forze produttive e crei “ricchezza per tutti” (via “mano invisibile” o via “mediazione Statale”) unisce il piccolo imprenditore veneto e il sindacalista della Fiom. Parafrasando Bordiga si potrebbe dire che il peggior effetto dell’austerity deflazionista sono le nostalgie inflattive da crisi d’astinenza. Da qui l’orrore della “flat tax keynesiana”.
2) Forse si dovrebbero paragonare i “rossobruni” italiani a una “corrente” che in apparenza sembra loro opposta;gli”Antideutsche” tedeschi. Entrambi, sotto apparenza “anticonformista” e con citazioni”compagne”sono l'”essenza rivelata a sé stesa” della merda ideologica dello Stato-nazione di cui sono cittadini.
In Italia il rossobruno che dice che i “migranti sono l’esercito di riserva del capitale”-che usa una categoria”para-economica”al posto di una “politica”per giustificare una “guerra civile” rappresenta la perfetta “autocoscienza” del burocrate (non del militare) che li vorrebbe tanto ammazzare ma non può farlo “apertamente” e allora “lascia che le onde facciano il loro lavoro”.
In Germania l'”AntiGerman” che esalta in nome della “lotta al fascismo e all’antisemitismo” le stragi di palestinesi è la “condensazione” del militante della Junge Union che mette sulla sua pagina Fb “Defend Israel” vicino alle insegne della sua lega goliardica. L'”anti” del primo è il lusso feroce che è dato alle”nazioni forti”di poter giocare al'”antinazionaluismo” sulla pelle degli altri; l’equivalente dello sfregio da spada che ostenta il suo “fratello rivale”; cosi come in Italia la “tela di ragno marx-keynesiana” tessuta dal trentenne “disagiato” e la ferocia disperata del burocrate con laurea a Bologna sono i due volti di uno Stato “debole” spaventato e risentito e QUINDI pericolosissimo.
Peraltro, sia l’Antideutsch che il “rossobruno” si presentano come “inquisitori-purificatori” del “discorso compagno”. Per il primo la “vera sinistra” si deve “liberare” dai suoi “residui nazionalisti e antisemiti”; e può “dimostrare” di averlo fatto solo….identificandosi con le stragi dello Tsahal. Per il secondo la “vera sinistra” si deve “liberare” dai suoi”residui” liberal-liberisti e può farlo solo…identificandosi con le stragi di migranti nel Mediterraneo. Entrambi, al di la della loro consistenza reale e anche della loro “coerenza” o omogeneità teoriche, stanno riuscendo a imporre le loro “associazioni mentali” nei rispettivi ambiti politici di riferimento. L’Antifa tedesco che crede che il soldato israeliano che macella i palestinesi stia facendo un atto di resistenza antinazista; il compagno italiano che crede che “le frontiere aperte sono un complotto dei padroni” sono VERAMENTE lo specchio ribaltato l’uno dell’altro….
P.S. Che poi-ma qui siamo VERAMENTE o.t e semmai entriamo nelle vicinanze del vecchio post sulla “alt right”– bisognerebbe ,spostandoci” sull’altro versante”, fare un paragone tra la storia “interrotta” della goliardia italiana-storia APPARENTEMENTE interrotta, perchè rivive come un fantasma o una maledizione nello humor colto e feroce, nelle “strizzatine d’occhio” razziste-chic che si scambiano i “ventenni-trentenni” disagiati su Facebook; e la storia MAI interrotta di quella tedesca,che pure si sta creando una sua “cultura da web” (che qualcuno dovrebbe cominciare ad analizzare)
Tutto questo per dire che fra “noi” e “i crucchi” c’è sempre come un rapporto di strana “fratellanza invertita”. Lo dimostrano le vicende di questi giorni; ma anche il ruolo che “la Germania” (l’invidia risentita verso la “Germania” ha nel”discorso sovranista” italiano. Anche -e soprattutto- in quello “di sinistra”.
Posso permettermi di fare una critica?
Tutto interessante, bella la vostra chiacchierata con Mr Wolf e Vanetti, però io avrei tenuto separati i due libri.
I commenti sotto rischiano di accavallarsi in un salto alla quaglia difficile da stargli dietro. Tanto più che i due argomenti trattati meriterebbero una discussione a parte per la complessità degli argomenti e degli spunti di riflessione che ne escono.
IMHO.
Ma senza la fortissima e condivisa impressione di continuità tematica e argomentativa tra i due libri (cioè l’impressione che non siano «due argomenti trattati» ma due modi di trattare lo stesso tema, due direzioni diverse da cui aggredirlo), non ci sarebbe nemmeno venuta l’idea di fare la discussione. I libri sono già separati, nel senso che sono due testi diversi, con titoli e copertine diverse, e sono due oggetti acquistabili indipendentemente l’uno dall’altro. Di recensioni dei singoli libri e discussioni sull’uno o sull’altro se ne trovano già tante, mentre una lettura incrociata e un dibattito *convergente* ancora non c’erano.
Vi racconto una storia che interseca decoro e sinistra forse per la tangente, tra l’altro di questi giorni. Il sindaco apparentemente anti-sistema di Messina (ha vinto contro l’ex sindaco dei movimenti dal basso, ricorderete, Accorinti che non è riuscito in un mandato purtroppo a convincere la città), uno che purtroppo conosco, il classico democristiano che le prova tutte e infatti alle europee si è portato una sua fedelissima tramite FI e punta alla presidenza della Regione, ohibò, ha fatto la classica ordinanza per il decoro, contro i poveri e affanculo la povertà. Multe a chi bivacca, a chi chiede l’elemosina, eccetera eccetera. Il dibattito in città è mediamente triste, con i poveracci che non vedono l’ora di accanirsi contro quelli che stanno appena peggio di loro. Rompe lo schema una lettera della comunità nigeriana: http://www.letteraemme.it/2019/07/24/ordinanza-anti-elemosina-la-comunita-nigeriana-scrive-a-de-luca-per-noi-non-e-una-scelta-e-una-necessita/ Non vi dico la canea di commenti in calce al post su Facebook. Per fortuna è intervenuto il mio amico e sociologo Pietro Saitta che ha messo un po’ di punti in chiaro: http://www.letteraemme.it/2019/07/25/orgoglio-nero-e-balbettii-barbari-come-la-rivendicazione-politica-puo-mettere-a-nudo-la-mediocrita-del-sentire-comune/ Un estratto: “Una cosa mi ha colpito: l’intervento di un giovane uomo che diceva che l’ordinanza della Giunta De Luca non è un’ordinanza contro i neri, ma un atto rivolto contro tutti. Ossia contro gli immigrati che chiedono l’elemosina così come contro gli italiani poveri e quelli che vendono in strada. Dobbiamo mettere assieme tutti, ha aggiunto: gli africani e gli italiani. Una capacità di lettura politica raffinata, che pochi tra noi sarebbero capaci di fare oggi, e che lascia rinfrancati malgrado tutto. Come dire, orgoglio nero da un lato, balbettii barbari dall’altro. A ognuno il suo.”
Grazie di questa interessante segnalazione. Sono contento che nel post e nei commenti si affronti il lato meridionale del decoro, invece poco presente nel mio libro, molto settentrionale (e qui e là romano).
Le due lettere sono illuminanti. Trovo un poco allarmante, lo ammetto, una certa assunzione probabilmente «tattica» da parte della comunità nigeriana di alcuni luoghi comuni perbenisti: la rivendicazione del pagare le tasse, il timore di essere visti come «parassiti» etc. Ovviamente non giudico: prendere parola da parte di una comunità stigmatizzata è già difficile, non voglio certo dire cosa piace a me o meno. Mi limito a notare che quel tatticismo (se è tale), alla luce delle reazioni raccolte da Saitta, è stato probabilmente inutile.
Il centro, comunque, voglio vederlo in quella considerazione tanto chiara quanto difficile da far passare, nell’Italia del decoro: la povertà non è una colpa, ma una condizione da cui si vorrebbe uscire.
Se ti interessa il lato meridionale del decoro (che definizione!) mi sento di consigliarti una recente ricerca etnografica sempre di Pietro, sulle occupazioni a Messina, qui una recensione per avere un’idea: https://www.che-fare.com/istituzione-cittadinanza-messina-municipalita-ribelli/?fbclid=IwAR04yKtf1mkSHrzjVCGtySMt6g5u57uEYRN073MbxsAYgElpBdzgCpDOoRM
Ho fatto sopra alcuni commenti che attenevano più al “versante Vanetti”;ne facci uno che attiene più al “versante Bukowski”. Mio grosso limite non riuscire a coagularli.
Conseguenza della”storia napoletana” di cui parla Nick Dines è la lettura che il PCI napoletano fece della camorra come “fenomeno regressivo” a cui contrapporre un “sano e regolare sviluppo economico” Non hanno MAI capito che la camorra era la forma in cui al Sud( e non solo) si presentava PROPRIO quello sviluppo capitalistico che tanto amavano. Da qui anche l’incomprensione per “Gomorra”, il fastidio per Saviano e/o la sua riduzione a “eroe civile”. Una “storia” che purtroppo ha finito per distruggere lo stesso Saviano.
Forse sono fasi diverse però. Quel Pci era un partito industrialista; lo «sviluppo» che cercava era associato con la crescita dell’occupazione operaia. La religione dello «sviluppo» in sé si afferma quando viene perso ogni residuo di analisi di classe. A quel punto tutto fa brodo: urbanistica, turismo, grandi opere ed eventi, ed è proprio a quel punto che il modello di sviluppo perseguito dal partito diventa analogo a quello desiderato dalle mafie, quindi emerge il bisogno di tracciare un confine, e viene feticizzata la «legalità».
E’ solo un’ipotesi, eh.
Un’ipotesi che condivido pienamente!
Aggiungo solo – e cosi il “versante Bukowski” retroagisce sul “versante Vanetti” :-) – che, alla base del “discorso rossobruno” nelle sue forme più “coerenti” c’è la mitizzazione “utopistico-reazionaria” proprio del “trentennio keynesiano” e del “sogno industrialista” del vecchio PCI. Ecco perché – e questo va detto – quel discorso “seduce” alcuni “compagni” che vengono dalla militanza sindacale. E evidente che lo “sguardo reazionario” posato su quel periodo lo deforma, ne nasconde le contraddizioni interne (le ragioni che, proprio al suo acme, dovevano portarlo ad esplodere) e, come tutti gli sguardi “reazionari” è “maschera” di qualcosa d’altro. Il “sogno keynesiano” si riduce alla “variante” risentita e sfigata del “sogno liberista”; perfetto “spaeculum” del funzionario ministeriale con la sua “buona coscienza” di essere un “avversario del neoliberismo” e un “rappresentate degli interessi ella nazione”. La vera “forza” di Salvini sono i burocrati del ministero degli interni – tutta gente “di buone letture” (spesso laureati a Bologna); forse ancora di più degli imprenditori del Nord Est. Ecco perché il suo – di Salvini – “discorso ideologico” (una parte del suo “discorso ideologico”) DEVE essere “rossobruna”; perchè – a differenza di Berlusconi -lui è un “uomo di Stato”. E i “compagni” – alcuni con un percorso di militanza rispettabile -abbacinati dal loro sogno del “Grande Braccio dello Stato Che Spezza Le Oscure Forze Del Globalismo Neoliberista” diventati – volens aut nolens – ghostwriters dell’alta burocrazia del Viminale…..i preti che reggono il mantello al Barone Scarpia (scusate la citazione da melomane…ma pensavo anche al “solerte funzionario dell’alta polizia” del film di Magni!)
Mi accorgo che, nella foga, sono stato impreciso….in realtà è il Barone Scarpia a “lavorare per” i preti !!
Diciamo: i “chierichetti” che gli reggono il mantello !!! :-)
“E avanti a lui tremava tutta Roma”……
https://www.youtube.com/watch?v=4pxkxup4cRg
Provo a gettare un altro sasso nello stagno dei temi trattati da entrambi i libri, cioè il tentativo di disegnare dall’alto un’idea di società basata su comunità escludenti e identitarie.
Parto dal libro di Mauro, in quanto è evidente a tutti come le sinistre di destra si costruiscano per esclusione di alcuni gruppi da parte di altri.
Innanzitutto sovranismo e nazionalismo sono per loro natura posizioni politiche che sostengono come necessaria una divisione sull’appartenenza nazionale, identificando gli appartenenti alla comunità in base a una comune religione, lingua, cultura, ma anche abitudini alimentari (e qui fa scuola il libro di Wolf “La santa crociata del porco”), stili di vita, ecc.
Il discorso si allarga poi anche a genere, orientamento sessuale, sessualità non conformi, quando i vari destrosinisti parlano di famiglia “naturale” (quindi una comunità di persone che “seguono la natura”, ovviamente esclusivamente eterosessuali) o di ruoli sociali “tradizionali” (ovviamente delle donna, che se non ci sta a passare la vita in cucina allora va esclusa).
Non c’è poi bisogno di stare a spiegare come le teorie per cui i lavoratori stranieri creino concorrenza dentro la classe, bla bla, ecc., siano escludenti.
Queste retoriche escludenti dei sinistri di destra ricalcano più o meno perfettamente le posizioni di destra “classica”. Cioè ricercare astratte comunità in cui una totale piattezza culturale/nazionale/etnica/sociale/familiare, che si rifarebbe a modelli atavici, arcaici, a mitiche e felici età dell’oro, permetterebbe di avere società totalmente pacificate al loro interno (con lo scopo reale, invece, di sterilizzare qualsiasi conflittualità sociale incentrata sul conflitto di classe). Quindi la necessità di costruire confini tra «noi» e «loro», tra chi appartiene a quell’idea astratta di comunità – escludente – e chi non vi appartiene (anzi arriverebbe da fuori a turbarla). Tra chi fa parte di quell’identità, e vi si riconosce, e chi no. Gli “italiani veri”. O quelli della “vera sinistra” non petalosa, rosè, fucsia, frocia no border e buonista.
Ovviamente nel demistificare tutto questo è fondamentale il lavoro di Jesi, e fondamentale è l’uso che fa Wolf di Jesi e, nello specifico, della categoria delle «idee senza parole» come chiave inglese per smontare i concetti di «decoro» e «sicurezza».
E qui arrivo al libro di Wolf. Tra le altre cose vi si mostra come «decoro» e «sicurezza» si ammantino anche di un alone mitico per cui “prima” (un fantomatico prima) nel quartiere/città si viveva nel decoro e in sicurezza. Poi sono arrivati «loro» (inserire parola a caso tra: barboni, poveri, terroni, immigrati/clandestini/extracomunitari, punkabbestia, ecc., ma anche «turisti cafoni»), l’elemento di disturbo.
La guerra ai poveri è un altro tentativo di creare una comunità escludente, in cui qualsiasi elemento estraneo a un’idea astratta di pacificazione sociale deve essere espulso (proprio come devono essere espulsi dai sacri confini italici i migranti). Pensiamo alla retorica per cui un centro storico (elemento estraneo, esterno, di disturbo) vada sgomberato perché con la musica alta disturba i residenti. Questo a prescindere dal fatto che i residenti siano davvero infastiditi o meno (e non è vero quasi mai). Così come si vorrebbero espellere gli stranieri perché «rubano il lavoro» («o fanno concorrenza alla classe autoctona») a prescindere dal fatto che questo sia vero o no (e non lo è). Quindi i “veri” residenti contro i centrosocialari (magari fuorisede). Oppure le “persone per bene”. Anche qui quindi spesso un identitarismo, anche molto contraddittorio tra l’altro se pensiamo al fatto che dai centri storici vengono poi espulsi i residenti storici per fare b&b e alloggi per turisti (che però portano soldi ai “cittadini per bene”, quindi foraggiano quella comunità di riferimento del Pd di cui parlava Wu Ming 4, cioè di volta in volta i “veri bolognesi”, i “veri fiorentini”, ecc. che si gioverebbero della turistificazione).
La faccio breve ma andrebbero approfondite molte cose su cui mi sono soffermato troppo brevemente, rischiando anche di fare strafalcioni. Ma la mia impressione è che tramite «decoro» e «sicurezza» si stia applicando alle città, o spesso addirittura ai singoli quartieri, lo stesso identico frame che si applica alla «nazione». Una comunità coesa in sé stessa, chiusa, escludente, impermeabile a qualsiasi stimolo esterno, anche potenzialmente arricchente. Il tutto basato su retoriche identitarie. Con tutta la pericolosità che il concetto di «identità» (statico, storicamente e socialmente determinato ma presuntamente naturale, escludente, predeterminato e quindi avulso da processi di soggettivazione creatisi nelle lotte e/o nella rivendicazione di un qualcosa) porta con sé.
Correggo un errore nel penultimo paragrafo:
«Pensiamo alla retorica per cui un centro storico (elemento estraneo, esterno, di disturbo) vada sgomberato perché con la musica alta disturba i residenti».
Ovviamente qui volevo scrivere «centro sociale» e non «centro storico».
E ovviamente, nel finale, con «lo stesso identico frame che si applica alla “nazione”» intendo soprattutto l’uso che il nazionalismo fa del concetto di «nazione», e non un giusto difendere le diversità culturali, linguistiche, di tradizioni, ecc., che le varie nazioni portano con sé, e che tra l’altro storicamente – specie quando agite dal basso – si sono spesso caratterizzate anche per una proficua mescolanza. Cosa diversa, mi pare, dal concetto di “identità”, che porta con sé sin dalla sua etimologia e dalla sua radice semantica il significato dell’essere uguali a sé stessi, cioè identici.
Premetto che non vi piacerò, sono di un’altra parrocchia, più vicino ad un conservatore di sinistra (amo le contraddizioni, fanno per me) vicino a Norman Mailer, Camus, Orwell, Christopher Lasch, insomma distante da voi. Però siete tra i pochi che mi stimolano dubbi e dopo diversi errori (politicamente parlando) ho iniziato a mettere tutto in discussione. Vi dico le mie perplessità: Mi sembra che da questa intervista emerga che a parte i Wu ming, Vanetti e Buk sono tutti di destra dal Pd a Fassina. Trovo quantomeno azzardato quel tentativo di unire terza via fascista e terza via blairiana dato che esiste anche la terza via tra comunismo e capitalismo alla Camus (e molti altri che ora non mi vengono in mente). La divisione della società in classi non è falsa, ma se non teniamo conto che il 90% dei lavoratori è subordinato al 10% non capiamo bene chi è l’avversario. Avete mai visto quello schema che riconduce tutte le grandi aziende del mondo ad una manciata? Oppure il fatto che i più grandi fondi di investimento tipo Blackrock, Vanguard hanno tra i principali azionisti proprio Blackrock e Vanguard in un incrocio di poteri spaventoso. Certo, i piccoli caporali vanno combattuti negli abusi, ma per me sono vittime inconsapevoli preda della sindrome di Stoccolma. Sui diritti civili, a me sembra evidente che la strategia del capitale sia truccarsi per sembrare buono, ed è questa funzione da utili idioti delle associazioni che va contestata, non la causa in sé, che sia a favore di donne, gay o stranieri. Come dice Woody non è dio a spaventarmi ma il suo fan club, lo stesso vale per i diritti civili, mi spaventano i movimenti da squinternati soprattutto statunitensi, quella non è rivolta ma psicosi. Dirgli sempre “avete ragione” per paura di sembrare cattivi conservatori non fa bene alla causa. In più il modello androgino, liquido, flessibile è guarda un po’ perfetto per questo capitalismo contemporaneo. Tanto è vero che viene pompato da anni sia con l’arte (guardate gli ultimi oscar) sia con le multinazionali che appoggiano tutte queste cose. Perchè lo fanno? Perchè ci vogliono bene? No. Lo fanno per due motivi che sembrano contraddittori ma non lo sono. Uno per pompare una micro-guerra civile in stile gangs of new york tra sessi e etnie, per poi pacificarlo in nome della convivenza civile. Una strategia vecchia come il mondo. Per quanto riguarda il decoro sono tutto sommato d’accordo, anche a me scatta una campanella quando sento che premono molto su questi temi, però mi sembra che ci sia anche dell’idealismo ingenuo sui luoghi degradati. Ad esempio da Napoli scappano giustamente. Non è questione di palazzi fatiscenti o del fastidio di vedere il lazzaro pascolare per i vicoli ma proprio di botte prese, servizi inesistenti, intimidazioni, vere e proprie zone franche dove non si crea nulla, altro che coscienza di classe. Siete contro il socialismo borghese e reazionario ma mi sembrate anarchici romantici.
Metti in campo molti temi, provo a risponderti su due, a cominciare da: «il modello androgino, liquido, flessibile è guarda un po’ perfetto per questo capitalismo contemporaneo».
Ebbene, che cosa non è «perfetto per questo capitalismo contemporaneo»? Il modello viril-celodurista non è forse perfetto per la vendita dei Suv? Il modello fobico non è forse perfetto per i sistemi di videosorveglianza? Il modello apprensivo non è ideale per la vendita dei servizi di geolocalizzazione dei figli? Il modello romantico non porta forse reddito alle compagnie telefoniche per il costante scambio di cuoricini e a quelle di logistica per l’invio a domicilio di scatole di cioccolatini? Il modello «curioso per il mondo» non è forse la gioia di Airbnb?
Tra tutti questi «modelli» puntare su quello che indichi tu dimostra una subalternità al pensiero reazionario, che del controllo della sessualità fa sempre un punto determinante.
Piuttusto, poiché *tutti* i modelli di vita vengono messi a reddito e sussunti dal capitalismo, il nostro criterio morale di scelta su quali istanze promuovere dopo e oltre il capitalismo non può essere quello di aver dimostrato compatibilità col capitalismo, perché appunto su *tutti* il capitalismo ha cercato di mettere le mani, quasi sempre riuscendoci.
(Lo sciopero, il sabotaggio, non possono essere messi a reddito; perà ovviamente non possiamo immaginare una società futura basandoci solo su sciopero e sabotaggio).
Il criterio morale sarà quindi più complesso, e io credo che avrà tra le cose da valorizzare e potenziare la libertà sessuale, la fluidità eccetera, semplicemente perché esse hanno portato più libertà e gioia alle persone, e perché non sono minimante consustanziali allo sfruttamento capitalistico, e anzi senza e oltre il capitalismo potranno esprimere ancora di più il proprio potenziale liberatorio, non gravato dalle questioni di reddito e di classe.
Sul «degrado» e la nostra visione suppostamente romantica ti rispondo più tardi.
Risposta eccellente di Wolf, come al solito.
Posso fare una chiosa brutale? Ma che due coglioni questa preoccupazione costante su cosa i capitalisti possano o non possano sfruttare a proprio vantaggio!
Non mi importa un fico secco se una certa posizione politica che prendo o un certo fenomeno che difendo o un modo di vita che incoraggio siano ben visti o mal visti dai padroni. Non sono comunista perché voglio fare dispetto ai padroni su ogni singolo tema, ma perché porto avanti una mia visione del mondo in cui i padroni non ci saranno più.
Non c’è peggior forma di subalternità al nemico che costringersi a essere il suo antagonista complementare. Preferisco il protagonismo, e ci pensino i padroni a preoccuparsi di cosa pensiamo noi e di cosa ci torna comodo o meno.
Che cosa i capitalisti possono sfruttare a proprio vantaggio? Vediamo un po’: qualunque cosa.
Possono sfruttare a proprio vantaggio la capacità dell’essere umano (inteso come “genere umano”) di modificare la natura e produrre il mondo, trasformandola in quella merce chiamata “forza lavoro”.
Possono sfruttare a proprio vantaggio l’esistenza stessa dell’essere umano, cioè di tutti gli “altri” uomini, trasformandoli in venditori della propria essenza secondo il suo valore di scambio, e non d’uso, e in definitiva trasformandoli in bestie, cioè in esseri indistinguibili da quello specifico animale detto “umano”.
Possono sfruttare a proprio vantaggio l’innata capacità, che si manifesta sin dall’infanzia, di creare libere regole *durante*, e non *prima*, quella particolare attività chiamata “gioco”, trasformando il gioco in, poniamo, “un conflitto fra i rappresentanti di due nazioni per il possesso di una palla”(il mondiale di calcio visto da un monaco buddhista nel film “La coppa”), e mettendo a valore questo conflitto con la vendita di azioni, la generazione di plusvalenze e l’implementazione di valore virtuale, che producono capitale finanziario.
Possono sfruttare a proprio vantaggio persino la lotta di classe, sciopero e sabotaggio compresi, ex ante, costringendosi all’innovazione in vista della diminuzione del profitto che deriverà da una futura vertenza persa, ed ex post ristrutturando in modo selvaggio al termine di una futura vertenza vinta (a meno che la vertenza non finisca con la rivoluzione: ma i capitalisti sanno giocare alla roulette russa).
Questo elenco potrebbe continuare all’infinito: questo stesso elenco, nella sua brevità, ha consumato energia, quindi generato profitto e contribuito all’aumento del PIL.
L’unico atteggiamento valido davanti a chi si chiede se una certa cosa sarà usata a proprio profitto dai capitalisti è quella di Vasco Rossi davanti a Kierkegard (vado a memoria): “aut aut è stato un libro importante, perché mi ha insegnato che nella vita le decisioni è meglio prenderle, piuttosto che chiedersi se sia meglio prenderle o no e non fare niente”.
Più in breve, sull’«idealismo ingenuo sui luoghi degradati»:
non considero «degrado» una categoria utile ad alcunché. Ho avuto una faticosa discussione a Roma su questo. Qualcuno diceva che la spazzatura non raccolta era «degrado», io dicevo che non era «degrado», era un grave problema del ciclo di smaltimento dei RSU (per non parlare di un gravissimo problema sulla produzione dei rifiuti, ma qui andiamo fuori tema).
Il tipo continuava ad accusami: «tu *riduci* tutto a una questione di nettezza urbana!»; io rispondevo: «no, io *elevo* tutto a una questione di nettezza urbana, sottraendo il tema al torbido nulla della retorica del “degrado”».
Quindi se accetti il concetto di «degrado» ho poco da dirti; anche perché il concetto di «degrado» spesso viene appiccicato a situazioni e quartieri che non hanno nessun problema reale se non quello del basso reddito degli abitanti, o della bava alla bocca degli speculatori (per il differenziale che si aspettano tra il valore immobiliare di oggi e quello che si aspettano post-riqualificazione). Oppure a zone che hanno generici problemi di servizi e trasporti che vanno risolti con servizi e trasporti, non certo con il «decoro».
Sullo «scappare» da Napoli: prima di tutto bisogna conoscere il saldo migratorio di Napoli, che io non conosco e non ho reperito in rete (di certo ci sarà, ma io non lo sto trovando). Napoli è una città in cui in tanti/e immigrano, è una metropoli che offre occasioni di lavoro. D’altra parte gli stipendi per questi lavori spesso fanno schifo, e il boom turistico, con il suo modello economico di merda, non fa che peggiorarli. E’ in questi dati su reddito – casa – lavoro che vanno cercate delle risposte, non certo nella retorica del «degrado» e delle «zone franche in cui non si produce nulla», formulazione che peraltro mi ricorda quelle del pessimo PCI amendoliano che ricordo qui sopra nell’articolo.
Etichette come “degrado”, o “pazzia” (ad es. per etichettare le stragi neonaziste di questi giorni) servono solo a sollevarci dal compito di capire. Sono categorie prive di capacità interpretativa e – appunto per questo – spesso politicamente redditizie per chi le utilizza. Detto questo, il saldo netto migratorio di Napoli (provincia, non ho i dati comunali) è negativo da anni. Il profilo demografico è qui: http://dati.istat.it//Index.aspx?QueryId=37569 (il saldo migratorio del 2013 risente della correzione apportata ai dati anagrafici in base ai risultati del Censimento 2011)
Ma è tutto il sud a svuotarsi : https://ilmanifesto.it/perche-lemigrazione-meridionale-galoppa-e-non-si-fermera/ e https://ilmanifesto.it/meridione-sempre-piu-povero-e-spopolato-ormai-e-alla-deriva/
La “riqualificazione” o “rigenerazione” o “gentrification” – o come vogliamo chiamare il processo che rende più costoso vivere in certi quartieri e quindi li imborghesisce allontanandone gli abitanti a basso reddito – molto raramente riguarda luoghi davvero “degradati” (qualunque cosa ciò significhi), ma si avvale di campagne allarmistiche che *inventano* un “degrado” dove non c’è.
La Bolognina, dove vivo, non è affatto un “luogo degradato” e nessuno vuole “scappare” da lì, anzi, molti vorrebbero venire a viverci e chi ci vive già vorrebbe continuare a farlo, perché è un quartiere ancora popolare (nonostante tutto) ma a ridosso del centro, ben servito dai mezzi, con rapporti di vicinato, con una sua storia e una sua vita (multi)culturale. Come tutto questo possa definirsi “degrado” è un mistero della fede neoliberale che Wolf ha spiegato nel suo libro annoverando “decoro” e “degrado” tra le “idee senza parole” nelle quali si riassume ogni cultura di destra.
La Bolognina è appetibile a scopo “rigenerazione”, e sta subendo quel che sta subendo, proprio perché *non* è degradata. Tutte le caratteristiche di cui sopra, reinterpretate in chiave “hip”, cool, neo-bohemienne e “affluente”, sono anzi parte della propaganda dei gentrificatori più astuti, come ha dimostrato sempre Wolf nella sua inchiesta su The Student Hotel. È questo l’unico “romanticismo” da denunciare, quello strumentale e finto, quello che celebra un quartiere “sgarrupato” nel mentre lo lecca, lo pialla e lo infighettisce; quello che celebra un quartiere “multietnico” mentre si adopera per allontanare le famiglie proletarie, che guardacaso sono in gran parte migranti (nel quartiere sono rappresentate quasi 50 diverse nazionalità).
Vorrei rispondere al punto dove si dice che secondo noi dal PD a Fassina sono tutti di destra. Be’, un po’ sì.
Il punto non è etichettare e lanciare anatemi, il punto è capire se esiste un’egemonia di alcune idee di destra in questo momento storico in Italia. Io credo che tale egemonia esista, per una serie di ragioni storiche e congiunturali. Uno dei modi in cui si esprime è nel costringere anche il centrosinistra e la sinistra a parlare come i partiti di destra.
Poi, andando nei dettagli, si vede che la faccenda è più complicata. Perché in effetti l’egemonia di alcune idee di destra è stata resa possibile anche dal fatto che le organizzazioni di destra come la Lega o “né né” come il M5S si sono impadronite di alcuni temi di sinistra, distorcendoli. La sinistra di destra è in fondo succube di una destra di sinistra.
Si può reagire a questa confusione alzando gli occhi al cielo e scrollando la testa oppure cercando di esercitare le facoltà critiche per distinguere e fare ordine. Ovviamente non ci troveremo facilmente d’accordo, e questo è lo scopo di questo tipo di polemiche: provare a illuminare una via di uscita.
Fassina per esempio sembra sostenere che il nazionalismo è un valore di sinistra che la destra ci ha sottratto. Io credo invece che sia un valore di destra che va respinto. Tuttavia credo che il M5S sia riuscito davvero ad appropriarsi di alcuni temi (un salario ai disoccupati, la difesa del territorio dalle devastazioni delle multinazionali, la necessità di una riconquista di spazi democratici dal basso ecc.) che potrebbero e dovrebbero essere di sinistra; ce l’ha fatta addirittura la Lega con la lotta contro la riforma Fornero e contro i vincoli di bilancio dell’UE. Tutti questi temi sono stati portati avanti in forma distorta e alla fine della fiera traditi dal governo gialloverde, ma sono in campo e la risposta non può essere quella classista del PD che vede con disprezzo i poveri.
Il punto dunque non è ergersi su un piedistallo e bearsi di essere l’unica sinistra vera esistente. Il punto è riconoscere che abbiamo un problema perché non abbiamo una voce chiara e distinta, e respingere le scorciatoie che cercano di fare di necessità virtù dicendo che questa sudditanza ideologica è in realtà da coltivare.
Io non so come possa Fassina presentare il nazionalismo nei termini di un’ideologia di sinistra, a meno che non lo siano anche il bellicismo, la credenza nell’omogeneità della nazione (ovvero il rifiuto a leggere la società in termini di lotta di classe), l’apologia della forza e tutto il resto del corredo.
Mi piace il tuo appello a fare ordine con spirito critico, infatti anche a me sembra che vi sia un forte inquinamento concettuale nel dibattito pubblico odierno che impedisce di fare emergere con chiarezza alcune distinzioni per niente capziose. Oltre che scorretto, trovo pericoloso identificare o confondere “nazione” con “Stato”, e anche “Stato” con “sovranità”, dal momento che quest’ultimo concetto in particolare indica un orizzonte complesso e refrattario a definizioni essenzialistiche. Come tutte le realtà storiche, della sovranità non si dà definizione bensì una genealogia, e nel caso dell’Italia (non solo ovviamente) sovranità ha significato (significa?) anche conflitto, lotta vittoriosa contro il nazifascismo, di cui resta traccia nella XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Ora io non so se si possa o si debba fare della sovranità un valore di sinistra, a ogni modo non la si può liquidare tanto facilmente, perché volendo radicalizzare la cosa – e le questioni diventano interessanti quando le si dimensiona su un piano davvero radicale –, essa trascende tale cleavage moderno per attingere alle radici della filosofia stessa, all’originaria relazione uno/molti che da ventisei secoli e rotti impegna tutto il pensiero, non solo quello politico. Nella sovranità vi è “tanto il lato ordinato” (la cittadinanza) quanto il lato drammatico (la rivoluzione, la decisione)” [Galli, C., “Sovranità”, p. 9]. C’è dentro anche il potere costituente, insomma, quello che nel conflitto dissolve la vecchia sovranità per instaurarne una nuova e più legittima dal punto di vista della parte vincente. Unità, ma anche parzialità, dunque una nozione che non esclude affatto la lotta. Il problema è che quando si pensa alla sovranità solitamente se ne pensa solo un lato, quello giuridico dell’ordinamento e della norma. In realtà è un concetto contraddittorio in senso dialettico, del quale perciò non ci si può sbarazzare assimilandolo immediatamente a “sovranismo”, cioè a un’ingiuria (da parte liberal) o a un titolo di merito (da parte dell’estrema destra).
Se poi allarghiamo legittimamente il campo, sovranità non è solo quella dello Stato, ma è “l’egemonia di una forza sociale, di un potere, che si rivela in grado di organizzare intorno a sé la sfera pubblica, di darne una proiezione politica, e di essere così il motore di un Intero vivente” [Galli, C., “Sovranità”, pp. 16-17]. Non c’è nulla di necessariamente reazionario in questo, io credo.
Non sono d’accordo sul fatto che 5S e Lega si siano “impadroniti di temi di sinistra, distorcendoli”, per il semplice motivo che “temi di sinistra” non è una categoria interpretativa consistente ed efficace. Un po’ come “degrado”. Non credo che esistano “temi” di sinistra, mentre esistono certamente politiche economiche concretamente di destra. Questa gente appiccica marchi fasulli a provvedimenti di autentica destra. L’errore sta nel credere che certi argomenti siano “di sinistra” a priori, prima di analizzare in che modo vengono declinati e affrontati: se il confronto con la realtà può smentire la valutazione a priori, allora questa è inutile e fallace. “Li riconoscerete dai loro frutti”, direbbe qualcuno, e a me sembra il metodo giusto.
Qui salta fuori un secondo problema: se voglio valutare la bontà di una linea economica analizzandola direttamente, indipendentemente dalla maggiore o minore coerenza con presunti “temi di sinistra”, che strumenti uso? Dal dibattito mi sembra di capire che dovremmo rifiutare sia il “neoliberismo” sia il subdolo “keynesismo”. E che sarebbe il “keynesismo”? Di chi parliamo? Recupero dai miei purtroppo lontani studi qualche nome: Hicks, Samuelson, Kaldor, Robinson, Minsky? O, per restare in Italia, Pasinetti, Graziani, Lunghini, Caffè? O quel Keynes “parallelo” che fu (con le dovute differenze) Kalecki? Ricordo che c’è un bel cazzo di differenza (teorica e politica) fra questi signori e che il rapporto tra marxisti e Keynes non è mai stato univoco (v. ad es. Joan Robinson qui: https://jacobinmag.com/2011/07/joan-robinsons-open-letter-from-a-keynesian-to-a-marxist-2). Ma oh, mi raccomando, come ha detto qualcuno, ascoltiamo invece i paludati economisti di destra, che pur appoggiandosi su teorie economiche fallate (qui in sintesi https://jacobinitalia.it/la-controversia-del-capitale/, più estesamente as es. in A. Roncaglia “Economisti che sbagliano”), si sentono in diritto di dare dei “cialtroni” ai “keynesiani da Twitter”. Seguiamoli fino in fondo, allora, e proviamo, che so, a stimolare l’occupazione abbassando il salario e togliendo “rigidità” al mercato del lavoro. Proprio nel passaggio dalla teoria alla politica economica sta il problema: media e social appiccicano continuamente l’etichetta “keynesiano” (normalmente in senso spregiativo) a qualsiasi aumento di spesa pubblica, che siano investimenti, trasferimenti o regali a evasori, che contrastino o invece siano indifferenti al ciclo economico. Questi sono i veri cialtroni. Per quella che è la mia formazione, buttare via Keynes e la rielaborazione critica che anche tanti intellettuali di sinistra ne hanno fatto condanni la sinistra alla subalternità intellettuale di fatto alla teoria mainstream e la privi insieme di strumenti interpretativi e di capacità progettuale.
Ciao Stefano,
sulla prima parte del discorso, credo che stiamo dicendo cose compatibili ma prendendole da punti di osservazione diversi. Ho parlato di temi e non di programmi proprio per intendere quello che affermi: dipende da come vengono declinati. Ci sono dei temi «che potrebbero e dovrebbero essere di sinistra» nel senso che su questi argomenti dovrebbe essere secondo me la sinistra ad agire.
Non penso che sia sufficiente dire che si deve avere un programma corretto sui vari punti, perché nella democrazia concreta la battaglia politica si fa simultaneamente su due assi: mettere alcuni punti “in agenda” e imporre il proprio programma sui punti che sono finiti in agenda. Per fare un esempio, se nessuno parla del cambiamento climatico (come era fino a pochi mesi fa in Italia) non ha neppure moltissima importanza cosa proponi, perché di fatto il tema non è in agenda e politicamente è come se non esistesse. Non è solo una questione di comunicazione politico-elettorale o di propaganda, perché anche il governo funziona così: bisogna calendarizzare dei provvedimenti, aprire un dibattito parlamentare (o consiliare) ecc.
Nel dibattito politico, non conta dunque solo cosa la sinistra afferma programmaticamente ma anche quali argomenti “si intesta”. Se la Lega passa come quella che si occupa prioritariamente degli esodati e il M5S dei disoccupati, be’, le loro proposte possono anche essere peggiori di quelle di qualche gruppetto mal cagato di sinistra, ma il dato di fatto è che quelle categorie vedranno Salvini e Di Maio come il loro referente politico, a cui semmai chiedere di correggere il programma in meglio. L’egemonia della destra sul campo della sinistra non si è verificata soltanto nei contenuti, ma anche e oserei dire soprattutto sul presidio di alcuni temi.
Per quanto riguarda il keynesismo, so benissimo che esiste tutta una tassonomia di varie teorie keynesiane e tentativi (che guardo con poca simpatia) di ibridare marxismo e keynesismo. In effetti, è interessante proprio vedere come il keynesismo odierno della nuova sinistra di destra sia una variante o una famiglia di varianti (in cui ci infilerei anche la MMT) che ovviamente nasce non nel vuoto pneumatico dell’accademia ma in rapporto stretto con le esigenze materiali di questa fase. Per esempio, l’enfasi si sposta sempre più dagli strumenti fiscali a quelli monetari e il keynesismo dei sovranisti è sempre più soprattutto una difesa teorica dell’importanza di spendere in deficit finanziandosi con la creazione di moneta. Ovviamente, questo dipende dalle circostanze concrete in cui si trova il capitalismo oggi.
Quanto sostengo anche nel libro è che la caduta in disgrazia del keynesismo attorno alla morte dell’equilibrio di Bretton-Woods e alla quasi contemporanea crisi cosiddetta petrolifera del ’73 sia irreversibile. Il keynesismo si è trovato di fronte a fenomeni che riteneva impossibili come la stagflazione e, invece di aprire una nuova era, senza crisi periodiche, nel capitalismo, sembra soltanto avergli permesso di campare a debito per alcuni decenni, finché il calo della crescita media della produttività e la finanziarizzazione (di cui il superindebitamento degli Stati capitalisti fa parte) non sono arrivati a farci pagare il conto. Riproporre il keynesismo oggi è fuori tempo massimo e le politiche espansive, che pure vengono fatte su scala massiccia dalla Grande Recessione (bail-out giganti in USA, QE in Europa ecc.), non sono risolutive. Anche per questa ragione, mentre i keynesiani negli anni Cinquanta prendevano l’aspetto di liberal-progressisti illuminati o di ragionevoli e lungimiranti socialdemocratici, oggi prendono la forma di ciarlatani, fascisti, populisti o nel caso migliore riformisti utopisti del tipo dei DSA americani che vogliono fare il Green New Deal con l’MMT (cioè stampando dollari a manazza).
Non credo che si tratti di «buttar via Keynes», fa parte della storia dello sviluppo del pensiero economico e ci dà strumenti analitici interessanti. Quel che credo è che non si debba aderire né al liberismo né al keynesismo, cioè a nessuna teoria pro-capitalista. Mi pare che abbia capito anche tu che è quello che affermo, quindi non mi è chiaro il senso della tua obiezione: dire che il keynesismo è tanta roba diversa non implica che si debba per forza imbarcarsi qualcuno di quella banda.
Ovviamente sono invece favorevole a una colossale spesa pubblica a favore dei lavoratori, ma non perché credo con Keynes che questo salverà il capitalismo: viceversa, perché credo che sia incompatibile con esso.
Sottoscrivo questa risposta di Mauro.
Il keynesismo è inservibile sia da un punto di vista storico (finito il suo tempo) , sia da un punto di vista teorico.
Ricordo uno scambio di vedute – a dire il vero non troppo amichevole, sebbene a distanza – tra Piketty e Stiglitz, nel corso di un’edizione del Festival dell’Economia di Trento.
Piketty, nella sua conferenza, aveva esposto le tesi emerse dal suo lavoro sul capitalismo contemporaneo, finendo per concludere che il meccanismo capitalistico non solo produce tutti i guasti che sappiamo (e che la teoria economica dominante tende a relegare nell’alveo delle fantomatiche *esternalità*, o a negare tout court), ma che è anche irreformabile dall’interno. Quasi a voler replicare una sorta di teroema dell’incompletezza in ambito economico, Piketty negava al capitalismo la capacità di autoriformarsi in meglio in virtù dei suoi stessi mezzi e metodi.
Stiglitz, il giorno dopo, nel suo intervento, aveva fatto riferimento a tali posizioni teoriche, senza nominare Piketty, obiettando che invece non è tanto il capitalismo in sé a produrre problemi, quanto il suo cattivo funzionamento, la cattiva ingerenza degli attori umani nei suoi meccanismi. Agendo diversamente, all’interno di un quadro capitalista, secondo Stiglitz, anche i guasti del capitalismo potrebbero essere attenuati o annullati. Quindi è la cattiva politica che non fa funzionare bene il capitalismo, non il capitalismo che fa funzionare male la politica.
Questa posizione di Stiglitz mi sembra rappresentare bene l’equivoco di fondo su cui si basa il keynesismo (lascio perdere le sue varie declinazioni e i suoi meticciamenti con altri campi teorici e/o politici). Un equivoco di successo, per un certo – breve – periodo storico.
Oggi, con consapevolezza maggiore, anche alla luce delle parabole politiche dei keynesiani attuali (per lo più confluiti nel sovranismo), possiamo serenamente fare a meno di lambiccarci i pochi neuroni rimastici nel tentativo di salvare un ambito teorico sostanzialmente inutile, quando non dannoso o come minimo fuorviante.
scusa, vorrei qualche esempio di “keynesiano attuale finito nel sovranismo”, con la spiegazione del perché lo ritieni un keynesiano (nei fatti, intendo, non perché si autoproclama tale) e perché sovranista.
Scusate, mozione d’ordine: la discussione in questo sotto-thread sta diventando molto tecnica, tendente all’ultra-specifico, con evidente rischio di OT – o almeno di crescente divergenza – rispetto ai focus della conversazione originaria e dei due libri di cui stiamo discutendo. La maggioranza di chi sta leggendo non capisce buona parte dei riferimenti. Cerchiamo di rimanere comprensibili ai più, grazie.
Sperando di rispettare la mozione d’ordine, direi che letteralmente tutti gli esponenti sovranisti che provino a teorizzare qualcosa dal punto di vista economico siano keynesiani. Tanto per fare un esempio, Alberto Bagnai. Ma anche tutta l’area (oggi per fortuna impegnata in una guerra fratricida) di Senso Comune, Patria e Costituzione, Nuova Direzione, Rinascita e via dicendo è fatta da keynesiani più o meno influenzati dall’MMT. Anche molti sovranisti di destra pura fanno riferimento a concetti keynesiani.
Senza andare sul tecnico e annoiare tutti, e per giunta non sono neanche sicuro che ne sarei capace, la cosa che va superata è l’idea che chiunque voglia un capitalismo con più intervento statale sia per forza di cose un nostro amico. Anche per questo non mi appassiona l’uso eccessivo dell’espressione «neoliberismo», siamo entrati in una fase dove hanno sempre più il vento in poppa il protezionismo e politiche inflazionistiche, ma anche questo può essere fatto a vantaggio dei padroni e non dei lavoratori.
Io credo che tu confonda due piani di giudizio: quello sulla politica economica, con la sua presunta volontà/capacità/incapacità di “salvare il capitalismo” e quello sul fascio di teorie originate dal pensiero di Keynes. Sul secondo punto registro solo un rifiuto basato sul suo essere “pro-capitalismo”, una formula forse rilevante per il primo dei due piani, ma del tutto inadatta a qualificare una teoria economica. O la teoria è internamente coerente e ha una capacità esplicativa forte del mondo reale, e allora è “buona” e può essere utilizzata / modificata / integrata in una visione politica, oppure no, e allora va semplicemente buttata. I nomi che citavo non sono quelli di grigi epigoni, ma di seri economisti che si sono confrontati (con esiti e obbiettivi diversi) con il pensiero di JMK. Alcuni di loro hanno contribuito a scrivere la storia del pensiero economico riformista e marxista in Italia e all’estero. Considero questa confusione e la sottovalutazione di questi contributi un triste sottoprodotto dell’egemonia del paradigma teorico dominante. Quello sotteso alle politiche di austerità, per intenderci. Aggiungo che il keynesismo non ha fatto sopravvivere per decenni alcunché, visto che i paradigmi economici dominanti erano già altri fin dagli anni ’80 (ricordiamo Reagan e Thatcher, i Chicago Boys ecc.)
Un secondo tipo di confusione è relativo alle politiche economiche. Citi due esempi, ma il bail out non rientra nelle politiche espansive, mentre il QE è una politica *monetaria* espansiva, e ha effetto sull’economia reale (su Y) solo nella misura in cui stimola il credito e per questa via la domanda, obbiettivo che però il QE non ha esattamente centrato. Ma parlando di misure “keynesiane” ci si riferisce di solito a misure espansive di natura fiscale, che operano nell’ambito *reale*, misure cioè che hanno un effetto diretto su Y. E qui c’è un bel po’ di differenza tra chi usa la spesa pubblica a fini elettorali, con mance e provvedimenti pasticciati e un Green New Deal, che sul versante reale ha una visione (condivisibile o meno) ampia e centrata sull’investimento, anzi sulla ristrutturazione della matrice produttiva – e questo è in effetti qualcosa di più che keynesiano (sul versante del finanziamento non mi pronuncio perché so davvero poco di MMT, ma si tratta comunque di un aspetto che qui può essere ignorato). Non è che qualsiasi spesa pubblica finanziata in deficit è automaticamente “keynesiana”, soprattutto in una situazione lontana dal pieno impiego.
Tutto questo impedisce di apprezzare le conseguenze e le implicazioni rivoluzionarie che ha avuto il pensiero di JMK, col suo riportare al centro della teoria la macroeconomia, il ciclo produttivo, la realtà dei fatti economici, il ruolo delle istituzioni, lo squilibrio (molto meglio di me – ovviamente – spiega la portata di questa rivoluzione Pasinetti ad es. in “Keynes e i Keynesiani di Cambridge”). E’ un frame, un modo di strutturare la teoria economica e di rapportarla alla società che si colloca nel solco degli economisti classici. E’ in questo tipo di teatro, con (anche) questa cassetta degli attrezzi che si può muovere un pensiero di sinistra. Non certo nel mondo disincarnato dei modelli matematici e degli agenti razionali, dove l’intervento statale e il sindacato sono elementi perturbanti di un equilibrio “naturale” da ridurre ai minimi termini e la distribuzione del reddito è un fastidioso tema marginale.
Idem come sopra, mozione d’ordine. Grazie dell’attenzione.
Mea culpa (due volte). Sono argomenti che mi appassionano e tendo a debordare.
Per quanto mi riguarda li trovo i commenti più pertinenti e soprattutto utili su questa parte di discussione. Il che non significa che si debba essere d’accordo o che si debba individuare o meno il cosiddetto Green new deal come obiettivo fattibile o augurabile.
Ma, presupponendo la buona fede, se non discute sull’oggetto cercando di capire di cosa si tratta lo facciamo semplicemente schiacciare dalla teoria. Leggersi qualche rudimento di storia e ricezione delle teorie economiche non è un’impresa lacerante o impossibile. Molto peggio il far passare a chi legge qui, ignorando la questione, l’idea che addentrarsi in certe teorie, e nella maniera in cui oggi esse possano interagire con determinate costruzioni ordinamentali e ideologiche, sia implicitamente qualcosa da cui guardarsi in sé, perché si spalancano davanti le fiamme dell’inferno.
Un approccio proprio non convincente.
C’è modo e modo. Parlare cifrato, dando tutto per scontato, presupponendo che qui tutti siano specialisti della materia, sciorinando nomi di economisti e acronimi che stanno per dottrine economiche, addentrandosi nei meandri delle distinzioni tra quelle dottrine, non è il modo che apprezziamo qui su Giap, e non è l’impostazione che abbiamo dato alla discussione. Ci sono altri posti dove metterla giù in quei termini e disputare come si vuole.
[rispondo qui perché sotto è chiuso] Vengo qui spesso, nonostante abbia idee non di rado diverse, perché la qualità e il metodo del dibattito mi costringono a ribattere i chiodi dei miei ragionamenti, a modificarli, a buttarli. Se intervengo lo faccio per dare un contributo, spesso critico, altrimenti non mi pare un contributo. Se cito qualcosa è per integrare le informazioni o per suggerirne la lettura. Quindi mi spiace particolarmente dare l’impressione di voler sfoggiare grandi competenze: non potrei proprio permettermelo, ed è un comportamento che detesto. D’altra parte, difficilmente avrei potuto rispondere a critiche (che trovo poco motivate e confuse) ad una teoria economica complessa e importante (in assoluto e per la mia formazione) senza parlare “da economista”, utilizzando le conoscenze di cui dispongo. Le oscurità dipendono dalla mia capacità espositiva, ma anche dal fatto che esiste un livello “tecnico” minimo del discorso che non si può evitare, pena il blabla ideologico. Se poi mi vengono opposte affermazioni in cui si fa un uso non corretto di termini che hanno un significato preciso (v. “politiche espansive”) non posso accettarle come critiche pertinenti senza dire nulla – e lì ci risiamo coi tecnicismi. La finirei qui, comunque, per non annoiare
Tu puoi benissimo toccare questi argomenti, purché ci si sforzi:
1) di rimanere il più vicini possibile al focus della discussione (la sinistra di destra);
2) di rendere comprensibili ai più i riferimenti;
Insomma, si commenti senza tendere verso discussioni da scolastica medievale.
@Stefano Concordo con tutti e tre i tuoi interventi e aggiungo che è esattamente quella cialtronaggine non disinteressata a squalificare e distruggere ogni ragionamento su una questione quanto mai importante. Se il punto fosse quello. Non riesco ancora per motivi meramente logistici a procurarmi il testo, per cui è possibile che sbagli totalmente e che si tratti di un testo di analisi più che di un pamphlet. Ma l’impressione che sorge a leggere la discussione è che qui si sia davanti anzitutto a uno scontro o a una lotta per l’egemonia, di una quanto vasta platea non saprei dire, in contesto sostanzialmente europeista, probabilmente.
@Saul: stavolta sono d’accordo con Mauro Vanetti e anzi senza il suo un po’: SONO di destra dal PD ruspaiolo del JA al querimonioso e pavido Fassina, perfetta discendenza del mota quietare del PCI degli anni ‘70 davanti a tutto cio’ che non poteva controllare, e in generale chiunque non metta la demolizione di Maastricht e dell’Atto unico tra le essenziali priorità di azione politica (e su questo so di non essere d’accordo con V.).
Riprendendo un discorso di un post precedente, ho capito che non avrei mai più potuto votare certi partiti quando ho letto, in occasione delle penultime elezioni UE, un parlamentare non anonimo e italiano, italianissimo della “sinistra radicale”, dichiarare, senza suscitare neanche un garbato dissenso, che dico, una incuriosita sorpresa, che per carità, si poteva fare tutto, ma “senza rimettere in discussione i nostri obblighi europei”. Era stato appena votato il fiscal compact.
Quella gente È di destra perché lavora per la nostra miseria (che si metta o no a giocherellare con il concetto di “patria” è totalmente secondario). Prima sparisce politicamente meglio è. Che non mi si avvicini mai più. Fine.
Si’, era uno sfogo.
(Non era il tema di questo dialogo, ma il mio libro è inequivocabilmente contrario all’ideologia europeista. Vedo anzi nell’adesione alla logica dei “vincoli europei” una delle piaghe purulente che ha portato la sinistra italiana in questa situazione.
Mi tocca chiarirlo per l’ennesima volta vista l’incredibile tendenza esistente in ambito sovranista e più specificamente bagnaista a darmi del sostenitore dell’Unione Europea capitalista e imperialista, cosa che letteralmente non sono mai stato in nessun momento della mia vita.
Mi scuso coi giapster per l’uso quasi privato di questo spazio. Tutto sommato sticazzi ma è una questione di igiene dialettica.)
Tendenza doppiamente incredibile, dal momento che sei entrato nel mirino della setta bagnaista – e noi con te – dopo questo articolo del 2012, che era contro l’UE e anche contro l’euro. Solo che era contro l’UE e contro l’euro *in modo diverso da quello di Bagnai*, e quindi anatema from the top down, e quindi anni di attacchi.
Oh porco dio sempre noi froci dovete tirare in mezzo. Guarda che voi bestie da monta siete i padroni del mondo: vi sposate, figliate, adottate figli, fate quello che cazzo volete pure se avete un cancro nero di satana al posto dell’anima. Noi senza un documento firmato da tre psicologi e due magistrati non riconoscono neanche che esistiamo. Quanto mi riderebbe il culo se vi toccasse fare il minnesota 2, il rorschach, farvi un anno di libertà vigilata e subire un’operazione chirurgica ogni volta che volete mischiarvi i cromosomi, così provate anche voi un po’ a farvi amare dal capitalismo come ci ama a noi
Manco ci lasciate esistere per i cazzi nostri, secondo voi ci hanno inventato i rettiliani (o gli ebrei, stessa cosa, tipo che Sem è caduto nell’orto dei Noè in un razzo kryptoniano) per convincervi a odiare la figa, smettere di riprodurvi, voi bianchi liberi e indipendenti con la laurea breve appesa al DNA, e sostituirvi con gli IQ a due cifre che figliano come conigli (e maiala la madonna provaci a negare che si va a parare lì), che nei giorni pari non rispettano altra legge che il corano (che, en passant, condanna ferocemente l’usura) e non si piegheranno mai ai nostri valori (che mi pare siano la salamella, i calzini e il capello mesciato) ma anzi hanno la resistenza violenta nel sangue, e nei giorni dispari sono bestiame mansueto e schiavitù perfetta
(Gilgamesh sogna un manico d’ascia e il giorno dopo incontra Enkidu il rude montanaro peloso e si innamora. Horus sborra di nascosto sull’insalata dello zio Set per fargliela ingoiare e farlo passare per sottomesso. Il saggio visir Ptahhotep, nelle sue Massime, mette in guardia l’uomo dai pericoli morali di scoparsi i ladyboy)
Tu parli di conflitto tra i sessi, ma il conflitto è che in fatto di sesso l’uomo ha la terza media, la donna è minimo perito industriale, ma froci, frocie, e rebis come me, noi ci abbiamo il master. Uno che viene dall’africa è professore ordinario di etnia, viene da un paese con venti lingue dieci religioni e quattro guerre civili. Questi sono i termini del conflitto: è un conflitto sul conflitto, un conflitto tra chi la dialettica la incarna, e chi quando vede per strada un ex compagno di scuola che però non è tanto amico fa finta di non averlo visto perché guardava le affissioni per sapere se la sagra del papero fritto è questa settimana o quella a venire
Miglior commento del thread.
Vince a mani basse.
Basse, e sul pacco.
Grandissim*.
Ciao J. B. Bulliard, scusa il ritardo con cui ti rispondo: rientro ora da qualche giorno di ferie trascorso lontano dal computer.>br>
È senz’altro corretto distinguere sovranità e sovranismo, se non altro perché il termine “sovranità” ha un preciso significato giuridico, oltreché politico, mentre “sovranismo” ne ha soltanto uno politico, o al più politologico. E anche in ambito politologico, il concetto è ancora instabile, tant’è che ne sono state proposte definizioni diverse: ci torno tra un attimo. Cominciamo dal significato di sovranità: il suffisso “ità” (= lat. “itas”) indica una qualità o una condizione. Quindi la sovranità è la condizione del sovrano, ossia di chi esercita il potere non riconoscendone alcuno superiore al proprio. Nell’età contemporanea, il soggetto che tipicamente si attribuisce la sovranità è lo stato. Lo stato può per propria decisione acconsentire a restrizioni del proprio potere sovrano, come avviene con gli artt. 10 e 11 della Costituzione italiana, che sanciscono rispettivamente l’accettazione delle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10), e delle limitazioni di sovranità finalizzate a creare organismi internazionali e sovranazionali a scopo di pace e giustizia (art. 11). Classicamente si dice perciò che il concetto di “sovranità” riguarda da un lato il rapporto tra lo stato, il suo territorio e i suoi cittadini (ma anche tra lo stato e chi, pur non essendo cittadino, si trova sul suo territorio), dall’altro i rapporti reciproci tra gli stati.
Il suffisso “ismo” del termine “sovranismo” indica una prassi, un orientamento di pensiero, o -più propriamente in questo caso- un’ideologia. Potremmo dire che il sovranismo è un certo modo di concepire il sovrano e la sua azione politica. Come dicevo, si tratta di un concetto relativamente nuovo, entrato nel vocabolario politico da nemmeno un ventennio (e nell’uso comune da molto meno) del quale la scienza politica è ancora alla ricerca di una definizione esaustiva. Alcuni autori ne mettono in luce il carattere esibito, vistoso: erigere muri e barriere è, secondo questa lettura, il modo spettacolare in cui i sovranisti reagiscono alla crisi dello stato-nazione. È questa, ad es., la tesi che Donatella Di Cesare esprime nell’articolo “Democrazia sovranista e sciovinismo del benessere”, apparso sul n. 3 (giugno 2019) di Jacobin Italia.
Una sintesi secondo me efficacie di cosa sia il sovranismo nel momento presente l’ha proposta Francesco Strazzari in un altro articolo apparso su Jacobin Italia (n. 1, novembre 2018) con il titolo “Si scrive popolo, si legge nazione”. L’articolo ha tra l’altro il merito particolare di tracciare una genealogia molto acuta del fenomeno: una genealogia in cui la prassi di governo messa a punto da Putin e dai suoi ideologi intreccia temi classici di autori reazionari come Karl Schmitt. Per Strazzari, i caratteri distintivi del sovranismo sono essenzialmente tre. La massima estensione possibile dei poteri dell’esecutivo, secondo il principio per cui non esiste stato al di fuori del governo. Il rifiuto di forme di organizzazione sovrastatali, per cui la sovranità appartiene solo allo stato, e al più possono darsi convergenze d’interessi tra stati, ciascuno dei quali conserva però integra la propria sovranità. Infine, l’identità tra popolo e nazione: ne deriva che lo stato sovrano esercita il potere su un popolo che, sulla base dell’identità nazionale, è concepito come una comunità internamente coesa, non attraversata da conflitti. L’identità nazionale, a sua volta, è plasmata a partire da una tradizione inventata, che trasceglie, selezionandoli a tavolino, i presunti tratti unificanti del popolo-nazione: ad es. la religione ortodossa per il sovranismo russo, le radici cattoliche per molti sovranismi dell’europa occidentale, fin’anche un’inventatissima tradizione culinaria italiana (quella esibita da Salvini in innumerevoli post sui social). Su questi temi, il punto di riferimento è il classico di Hobsbawn e Ranger, L’invenzione della tradizione (trad. it. Einaudi 1987). Un altro bel libro lo ha scritto Maurizio Bettini, e s’intitola Radici. Tradizioni, identità, memoria (Il mulino 2016). Come in ogni concezione della comunità di questo tipo, il nemico è sempre esterno: e quando per avventura sono membri della comunità a farsi portatori di valori diversi da quelli che ne costituiscono l’identità, essi vengono bollati con lo stigma del tradimento. Costoro, scrive Strazzari, sono inesorabilmente «quinte colonne di potenze straniere che tramano per minare la sovranità nazionale.»
Insomma, il concetto di “sovranismo” incrocia certamente quello di “sovranità”, della quale predica la totale riappropriazione da parte dello stato: potremmo dire che il sovranismo è -conio un neologismo che spero non faccia orrore ai latinisti- un nazionalismo in nomine sovranitatis. Questo però non toglie nulla alla premessa che sovranità e sovranismo siano due lemmi da tenere distinti.
Chiarito questo punto, sulla sovranità declinata in senso costituzionale resta da dire la cosa più importante. È notissima la formula dell’art. 1 della Costituzione italiana, il cui comma II attribuisce la sovranità al popolo, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.» Quali siano queste forme e questi limiti è un quesito a cui si deve rispondere con argomenti di ordine sia giuridico sia storico-materiale. Quanto al primo punto, la Costituzione disegna una forma di stato e una forma di governo incardinate sugli istituti della democrazia rappresentativa, e lascia uno spazio residuale a quelli della democrazia diretta. Una volta delineato l’assetto istituzionale, quale risulta dalla costituzione formale, il problema non è però esaurito. Resta da domandarsi cosa sia il popolo al quale la Costituzione attribuisce la sovranità. Là dove un sovranista (ma anche un populista) costruisce il popolo attorno a un qualche tratto d’identità collettiva, il materialista vede una società: e ne indaga la composizione, i conflitti che l’attraversano, i rapporti di forza che al suo interno si determinano. E non può fare a meno di chiedersi, ancora, come questi rapporti di forza agiscano sulla forma di governo; come ridisegnino la costituzione materiale; di quale parte della società rappresenta gli interessi chi di volta in volta impersoni le istituzioni dello stato. Per tornare al tema del post: sono queste le domande a cui Mauro dà una risposta nel suo libro (spec. Pp. 159-166, in un paragrafo emblematicamente intitolato “che la esercita nelle forme e nei limiti del capitalismo).
Ciao Luca,
Io di Maurizio Bettini ho “Contro le radici: Tradizione, identità, memoria”, del 2012, che ho molto apprezzato. Non conoscevo “Radici” del 2016. Per caso sai dirmi se si tratta di contenuti nuovi o se è più o meno una riedizione dell’altro Pamphlet?
Ciao Mario. Il libro del 2016 raccoglie Contro le radici (che se non ricordo male era uscito solo in ebook) e un altro paio di brevi saggi.
Grazie!
Comunque per info, c’era già anche il cartaceo di “Contro le radici”: il mio riporta “Finito di stampare nel dicembre 2011”
Grazie Luca per la tua articolata e assai esplicativa risposta.
A proposito di Carl Schmitt (che citi), non mi stupisce che sia stato assunto come pensatore di riferimento nella Russia di Putin, mentre continuano a lasciarmi interdetto i tentativi di certa sinistra di appropriarsi della sua elaborazione teorica. Per dire, io sono arrivato in un primo momento a Schmitt attraverso la lettura che ne dà Tronti già da molti anni. Tronti è stato un pensatore importante, credo anche per molti lettori e scrittori di Giap. Poi penso alle sue discutibili prestazioni da senatore PD nel corso della precedente legislatura, e comincio a darmi qualche risposta, poco rassicurante.
Provo a inserire qualche tassello nella conversazione.
Io credo che tanto il libro di Bukowski quanto quello di Vanetti provino a tracciare una critica della “sinistra di destra”, chiaramente l’uno a partire da un tema specifico e l’altro in maniera più generale.
È evidente come la sinistra abbia un problema enorme di (ri)definizione dell’identità. Nel preciso momento in cui si è lasciata alle spalle il concetto di classe e anticapitalismo spostandosi su posizioni liberiste, si è scelta le classi popolari come nemico pur rilanciando, in alcuni casi, una fantomatica identità combat («come molti degli individui che guidano la sinistra di destra, la loro appartenenza teorica alla sinistra non ha mai significato una vicinanza concreta ai luoghi di conflitto»).
Mauro e Wolf tracciano però questo discorso, a mio avviso, parlando di e rivolgendosi a soggetti diversi. “La sinistra di destra” parla di e al “popolo della sinistra” cercando di definire delle categorie di lettura degli orientamenti politici nella sinistra; “La buona educazione degli oppressi” parla, appunto, di e a oppressi, sfruttati, classi popolari, blocco sociale.
Potrei sbagliarmi ma credo che il discorso di Bukowski risulti alla fine più ampio sull’identità delle classi popolari, rispetto a Vanetti che, pur ben identificando gli errori di approccio della sinistra, finisce poi per identificare l’identità di classe solo in legame a questa (quando sappiamo perfettamente che il blocco sociale a cui ci riferiamo è sparpagliato da destra a sinistra, verso chiunque dia soluzioni che la “sinistra di sinistra” non sa proporre efficacemente).
Un passaggio che mi aspettavo di trovare proprio nel libro di Vanetti, date le premesse, è la critica all’elettoralismo di sinistra che a ogni giro elettorale si ritrova a formare carrozzoni senza contenuto e senza alcuna risposta alle necessità del blocco sociale. Ricompattare la sinistra a ogni tornata elettorale senza ricomporre il blocco sociale a cui fa riferimento non ha alcun senso. Ricompattare la sinistra sotto enormi cartelli elettorali con temi di ampia condivisibilità come antifascismo o antirazzismo è un’operazione a mio avviso tipica della sinistra di destra. Antifascismo e antirazzismo ampiamente negati nella prassi quotidiana: vedesi la repressione durante le contestazioni antifasciste (a Bologna gli antifascisti sono stati caricati durante la manifestazione contro lo stragista Fiore e una manifestante – Giusy – ha ora problemi sul posto di lavoro per aver partecipato alla manifestazione; o vedesi il tentativo di deportazione dei migranti dell’hub Mattei a Caltanissetta (non riuscita solo grazie alla lotta del movimento bolognese).
Un elemento che problematizzerei in rapporto a entrambi i libri è proprio la deriva securitaria che stavo menzionando sopra. La repressione per scompaginare la riorganizzazione/la ricomposizione di un blocco sociale è un’arma della destra, diventata squisitamente arma della “sinistra di destra”. Repressione che va, per prendere l’esempio dell’amministrazione bolognese targata PD, dalla cancellazione dell’esistenza del dissenso in zona universitaria con investimenti di 100.000€ l’anno per ripulire i muri, allo sgombero di spazi di socialità e aggregazione come XM24, passando per pratiche “anti-degrado” rivendicate dalla sinistra di destra bolognese come il non far sedere le persone in terra in Piazza Verdi a favore del sedersi negli esercizi commerciali.
Concordo pienamente con Elyza sul fatto che Wolf faccia un’indagine sulla classe lavoratrice e le altre classi oppresse nel contesto urbano molto più ampia di quanto faccio io. A me in realtà interessava soprattutto un discorso statistico e ideologico, che fa da premessa al resto della polemica: il proletariato, cioè la working class, esiste ed è maggioranza nella società e non è vero che siamo diventati tutti ceto medio o “popolo”. Di più non mi serviva dire in quel momento, ma ovviamente il discorso è mooolto più complicato. Non penso però che l’identità di classe si definisca in rapporto alla sinistra né organizzata né diffusa; semmai, è il contrario: la sinistra si definisce in rapporto all’identità di classe e senza quella abbiamo una sinistra indefinita e subalterna, che alla lunga non è neanche più sinistra.
Concordo anche sulla critica all’elettoralismo di sinistra, nel senso dei tentativi ripetuti della sinistra radical-riformista di ricostruirsi non in rapporto alle lotte di classe e a un’operazione di necessaria chiarificazione teorica e programmatica, ma solo con i meccanismi degli appelli online seguiti da riunioni in un teatro (solitamente a Roma) seguite da lista elettorale eterogenea seguita da ripetuti gesti apotropaici sperando di passare il quorum. Non credo che avrebbe trovato uno spazio adatto nel discorso che faccio nel libro, ma sicuramente ho scritto un libro con quell’impostazione anche perché penso che dalla classe e dalla chiarezza teorica si debba partire.
Il commento di Elyza precede tra l’altro di poche ore lo sgombero di XM24, che purtroppo riassume bene tutto questo discorso.
Segnalo questo articolo di Alessandro Calvi su Internazionale:
«La sinistra ovvero l’essere di destra a propria insaputa».
A tratti mi sembra presentare la sindrome del «dire a un amico di non fare lo stronzo» a cui accennava Wolf all’inizio della conversazione qui sopra; Calvi, poi, gira intorno al nocciolo – la lotta di classe, la necessità di superare il capitalismo – sfiorandolo, senza mai toccarlo con decisione, ed è anche questo a far terminare il pezzo in evidente anticlimax. Tuttavia, contiene passaggi acuti e ben scritti, come questo:
«Tutto ciò è potuto accadere negli ultimi trent’anni in nome di un realismo politico che si è fondato sull’esistenza di un nemico il quale è sempre stato rappresentato come un pericolo per la tenuta democratica del paese. Ciò ha consentito di proclamare un’emergenza permanente e, così, di soprassedere sulla costruzione di una propria identità politica nuova. Allo stesso tempo, mancando un disegno politico alternativo, a quel nemico ci si è fatti però sempre più simili nella cultura politica, nel linguaggio, nell’organizzazione del proprio agire.»
Quanto segue è un tentativo di fare ordine in testa e portare un punto di vista che non so in quale misura collimi con le riflessioni precedenti. Può darsi che sia anche un intervento ot, ma arrivando così fuori tempo massimo magari darà meno fastidio. Può anche darsi, come spero, dia uno stimolo ulteriore a questa discussione già davvero intensa e pregnante.
Premetto che odio le etichette, sia quando si deve specificare un genere cinematografico sia quando si deve ottenere un patentino politico. Confesso anche che mi dà molto fastidio essere etichettato; so che è una prassi abbastanza frequente nell’homo sapiens, ma nondimeno non mi garba per niente. Quindi non so se appartengo alla “sinistra di sinistra”, o alla “sinistra di centro” (ammesso che centrum datur, cosa di cui qui sopra si dubitava fortemente), o alla “sinistra di destra”. Per quanto mi riguarda poi, un’etichetta di “sinistra di sinistra” non è conditio sufficiente affinché una persona possa meritarsi la mia stima, né un partito il mio voto, né un movimento la mia simpatia. Non vale esattamente il contrario: se è vero che ho conosciuto, amato ed apprezzato persone di destra, non sono mai riuscito a farmi andare giù in alcun modo partiti e movimenti di destra.
Premetto anche che “Realismo capitalista” è stata una delle letture più belle ed emozionantidegli ultimi 15 mesi, e ancora non sono stato in grado di metabolizzarlo a pieno.
Ciò detto, ecco le mie nugae. Le ricompongo in punti, per facilitarmi la scrittura e magari a voi la comprensione.
1) Quando sento parlare di “sistema”, di “capitalismo”, di “lotta di classe”, di “comunismo”, di “mafia”, di “mercato”, di “economia”, io mi trovo sempre a pensare a delle persone, quasi mai a delle idee, o a dei concetti. Questo mi permette un blando ottimismo sulla fine del capitalismo. Io riesco ad immaginarla, anche abbastanza facilmente.
2) Se l’obiettivo della sinistra di sinistra è rovesciare il sistema, ed annullare le differenze di classe per cui non ci saranno più sfruttatori e sfruttati, io mi domando: di preciso qual è l’idea di società che si ha in mente? Perché io faccio – qui sì – moltissima fatica ad immaginarmi una società del genere. Provo a guardare alla storia, forse alla preistoria, ma di esempi me ne vengono pochi. Non so, forse una tribù di nativi nordamericani? E mi chiedo: è qui che vorrei davvero vivere? In un mondo senza cinema e senza letteratura?
Oppure no, si tratta di un’evoluzione di quel modello? In cui non ci sono le differenze di classe, ma puoi andarti a vedere comunque l’ultimo film di Peter Weir? Allora la faccenda si fa complessa. Perché il “sistema” in cui sono nato e cresciuto ha delle cose che mi piacciono dannatamente, e mi spiacerebbe doverle perdere. Se il capitalismo si origina nel tardo medioevo, e poi guardo ad oggi, io vedo tanti bei cambiamenti. Ma anche se guardo agli ultimi 40 anni, io vedo tanti splendidi cambiamenti. Faccio l’insegnante di sostegno, e forse non tutti sanno che mentre la DC negli anni ’70 era impelagata con le BR, trovò il tempo e il modo di realizzare una delle più straordinarie riforme a favore della disabilità. Non riesco a trovare un motivo per cui inserire nelle classi “normali” i bambini con handicap potesse giovare ai potenti, e trovo invece che la legge Falcucci sia stata eccezionalmente di sinistra, avanti coi tempi, e persino “italiana”. Diritto sociale? Diritto civile? Io penso ad un passo avanti nella storia dell’umanità. Ma non solo, nell’occidente colonialista e razzista si sono verificate alcune delle più grandiose scoperte di sempre, che hanno radicalmente migliorato la nostra vita. Non c’è bisogno di elencarle. Cosa significa superare il capitalismo? Significa poggiare le basi per una nuova società in cui queste scoperte saranno ancora possibili?
3) Qualora si fosse compreso diversamente, lo chiarisco qua (anche se è molto naif). E’ palese che il mondo attuale non possa andarci bene. Se davvero il 5% delle persone di questo pianeta riesce a decidere le sorti di quasi 8 miliardi di persone, lasciandone tantissime a morire di sete e di fame, o senza una casa, o senza dignità – e ciò è vero – è chiaro che qualcosa non torni e che debba essere cambiato. Trovo allucinante chi pur essendo nel 95% dei restanti non se ne curi o addirittura parteggi per quella super élite. Però ciò che manca (non solo a me, reputo) è capire quale storia la sinistra di sinistra voglia raccontare. Quale scenario immagina alla fine di questo percorso di cambiamento, di rivoluzione, aldilà della lotta di classe? Possiamo davvero fidarci così tanto delle persone da immaginarle desiderose di una società senza gerarchie? Domando e la domanda non mi è affatto peregrina, perché ad esempio io non credo più che la democrazia possa funzionare.
Si parla spesso di “narrazioni tossiche”, e di “narrazioni antidotiche”. Ma io vorrei vedere l’intero affresco, ascoltare l’Ainulindale, perché senza sapere dove vogliamo andare, come ci vogliamo arrivare, in quanti vogliamo passare dal prossimo traguardo, cosa ci aspettiamo dal prossimo capitolo, io faccio fatica a capire. Mentre io mi ritrovo a 37 anni come quel personaggio di Murakami che non è più in grado né di andare avanti, né di andare indietro.
4) Chiudo qui con un’ultima riflessione. Su Giap si è scritto tante volte: IL problema è la questione climatica. Ora, perché questo dovrebbe essere un problema di sinistra-sinistra e non un problema anche del fascio più stronzo? Non dovrebbe diventare il collante per movimenti, persone che magari non sono d’accordo, ma potrebbero considerare infine che senza un pianeta, c’è poco da gongolarsi con razze, classi e lider maximi. Non è questo il momento in cui Rohan, Gondor e Lorien si trovano assieme? Non è questo il momento in cui primo, secondo e terzo mondo si trovano contemporaneamente con la merda fino al collo?
Vorrei scrivere altro, ma è già stato complicato arrivare qui.
p.s. Comunque in un mondo senza classi, tutti i docenti perderebbero il lavoro. Quindi lasciamone qualcuna!
Abbi pazienza se non rispondo a tutto, ma solo a quello che mi pare il tema centrale, anzi l’errore centrale. Ovvero quello di considerare scienza e tecnologia, e pure le forme d’arte tecnologicamente avanzate (dal cinema in poi) come consustanziali al capitalismo: simul stabunt, simul cadent.
Allora, qui l’errore ne contiene due:
1) buona parte delle migliori scoperte scientifiche del novecento nascono fuori dalla logica del profitto, ovvero in enti di ricerca pubblici. Questo vale sommamente per la medicina.
Sub1) oggi, nel regime neoliberale, questa distizione salta, perché anche il settore pubblico – tranne isole felici residuali – viene indirizzato verso il profitto privato.
2) la scienza e la tecnologia non sono neutre, ma sono un campo di battaglia. Vanno ricondotte a un controllo sociale (come attuare questo controllo sociale dovrebbe essere *la questione politica* per eccellenza, in una società migliore). Perché vi vanno ricondotte? Ehm, semplicemente perché lasciate in mano al profitto esse sono *già* oggi in grado di distruggere la vita umana sul pianeta. Compreso «l’ultimo film di Peter Weir».
Mi riallaccio qui al tuo punto 4: riconoscere che è il profitto – tramite la *sua* tecnoscienza – a mettere a rischio la vita umana rende la questione climatica-ambientale una questione che può e deve essere affrontata da un punto di vista anticapitalista (quindi di sinistra di sinistra). Questo impedisce convergenze con ogni tipo di destra, che non può essere anticapitalista, mentre si diverte spesso a scimmiottare una generica contrarietà alla tecnologia (di solito però “salvando” nelle sue “critiche” quella più funzionale al profitto).
Aggiungo alla risposta di Wolf, che sottoscrivo, questa considerazione.
Il mondo in cui viviamo è complesso. La storia e le relazioni umane sono faccende estremamente complesse.
Complesse, ma non incomprensibili. Bisogna comprendere nessi, cause, modi di esistere, sviluppi nel tempo.
Ipotizzare una forma di convivenza umana in cui non prevalga lo sfruttamento rapace ed egoistico di altri esseri umani, di interi territori, dell’ecosistema e della vita stessa non significa immaginare un mondo necessariamente più povero e nemmeno un mondo più semplice, più “facile”.
Le dinamiche interne alle collettività umane, le differenze, i conflitti ci saranno sempre. Chi propone un superamento del capitalismo e della sua cruda gerarchia classista non è che sogna un mondo “fatato per sognar”.
Sappiamo che non c’è nulla di scontato, in questa faccenda. Ma sappiamo anche che sottomettere tutto, ma proprio tutto, alla legge del profitto privato, alla legge dell’accaparramento rapace, della competizione individualista, alla cieca pulsione egotica non è tanto una disfunzione morale o un problema di “cattivo funzionamento di un sistema altrimenti virtuoso”.
Si tratta invece di una forma storicamente situata, con cause e meccanismi concreti abbastanza visibili, di regolazione delle relazioni umane e della relazione tra la nostra specie e l’ambiente in cui vive. Forma di regolazione che ci sta procurando problemi enormi, a un passo dal diventare insormontabili.
Esiste la possibilità concreta di produrre beni materiali e immateriali, di servirsene, di scambiarli senza ignorare i costi di tutto questo e senza presupporre che tutto debba essere finalizzato all’estrazione di valore economico, che a sua volta deve alimentare l’arricchimento individuale di pochi fortunati, ai danni di tutti gli altri.
Non c’è nessuna legge di natura che prescriva di subire qualche secolo di capitalismo – ossia di sfruttamento, di colonialismo, di razzismi, di guerre, di fascismi, ecc. – per poter godere di un film di Peter Weir. Tanto meno che questo debba valere per sempre.
Ogni “conquista” che la modernità e l’età contemporanea ci hanno concesso – in quanto appartenenti alla frazione “dominante” dell’umanità – ha avuto un costo enorme.
Oggi cominciamo a realizzare che tale costo prima o poi diventerà un prezzo che saremo tenuti a pagare anche noi “privilegiati”.
In realtà molti di noi lo stanno già pagando, sotto forma di precarietà dell’esistenza. E tutti lo pagheremo (e forse anche in questo senso abbiamo già iniziato a pagarlo) sotto forma di guasti irreparabili (almeno su scala umana) all’ecosistema e alla biosfera.
Pochi anni fa Naomi Klein tematizzò abilmente il nesso stretto e funzionale tra capitalismo e mutamenti climatici (in Italia il suo saggio si intitola Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, pubblicato da Rizzoli).
È un nesso evidente, che però la “sinistra di destra” deve rimuovere, per evitare di mettere in discussione le proprie scelte e le proprie ragioni. (Meglio parlare di “decoro” e “sicurezza”, o buttarla sul nazionalismo patriottardo.)
A maggior ragione viene rimosso dalle tesi neoliberali, dalle narrazioni padronali, e dalle farneticazioni dei loro cani da guardia fascisti. I quali, simulando di farli propri, intorbidano il discorso ecologista e lo stesso discorso anti-capitalista con ingenti dosi tossiche di complottismo, di panzane pseudo-storiche e pseudo-scientifiche, finendo sempre per colpire i nemici del padrone o i capri espiatori di turno.
Già solo questo può bastare a capire perché sulla questione climatica è impossibile condurre una battaglia unitaria tra sinistra e destra.
C’è chi ci guadagna, dal cambiamento climatico. Ci ha guadagnato dalle cause che lo hanno prodotto e conta di guadagnare ancora persino dalla grande crisi dentro cui siamo già entrati. E se questo comporterà ulteriore sfruttamento, e persino stragi e devastazioni, che importa?
La stessa democrazia – oggi inevitabilmente in crisi, nella sua forma “rappresentativa”, come dici tu stesso, Ekerot – può essere ri-declinata in forme realmente paritarie e solidali. Anche questo è tutt’altro che utopico. Ma va conquistato.
Non ci sono automatismi, qui. Il capitalismo magari finirà per morte naturale, come sembri auspicare tu stesso, ma potrebbe essere una morte catastrofica, che non risparmierà affatto la nostra specie e/o il pianeta medesimo (l’unico di cui disponiamo, ricordo).
Torno al punto iniziale. È necessario mettere in evidenza i nessi, le connessioni, svelare il sostrato materiale, ideologico e politico della deriva attuale. Per renderla comprensibile. Per comprenderne i meccanismi e ipotizzare soluzioni alternative. Che non sono così fantasiose e illusorie come la retorica dominante (tramite una potente egemonia culturale) ci suggerisce.
Svelare gli inganni che il potere economico e politico usa per camuffare, nel proprio interesse, la cruda realtà è un compito decisivo, preliminare e propedeutico a qualsiasi altro discorso.
Ecco perché libri come i due a cui è dedicata questa discussione sono “strumenti di lavoro” preziosi. Non perché forniscono soluzioni pronte all’uso, ma perché rimuovono stratificazioni di pretesti e di diversivi, fanno un po’ di pulizia concettuale e semantica (dunque teorica e politica), mostrano – appunto – nessi e connessioni altrimenti rimossi e misconosciuti.
Dopo di che, ovviamente, ciascuno di noi dovrà fare la sua parte.
Io non so se l’arte occidentale, per fare un esempio, sia un “frutto” della civiltà occidentale, se ne sia un banale “accidente”, se sia un misto delle due cose. Non so se la filosofia sia nata in Grecia e non in Nord America per una casualità, o per una causalità.
Il fatto che nessuno di noi si sia mai visto di persona e che possa però comunicare con l’altro e gli altri a kilometri di distanza è sicuramente una conseguenza di tante azioni e reazioni tutte avvenute all’interno di un sistema che noi oggi valutiamo come estremamente pericoloso. E al contempo è un sistema che ci offre tantissime opportunità.
In un gruppo di umani, dove il numero di membri è superiore a 100, è piuttosto facile che dopo un po’ di rodaggio, si crei una parte che “detiene il potere” e un’altra che lo subisce. Esistono in natura esempi straordinari di società complesse, divise in ruoli ben definiti, in cui tutti cooperano. Ma per quanto ne sappiamo, nessuna ape operaia ha mai desiderato diventare qualcun altro, né l’ape regina ha scelto, ha lottato, ha complottato contro sua sorella per fare la “regina”. Di fatto, invece, il sapiens ha trovato con molta comodità l’opzione “c’è chi comanda e chi obbedisce”. Anche se quest’opzione ha comportato decine di millenni di guerre, massacri, genocidi, etc…
Non voglio con questo dire che il capitalismo, o il sistema schiavistico prima di esso, siano “naturali”. Dovrei infatti spiegare il concetto di “naturale” e questo va ben oltre le mie competenze, e mi pare anzi che finirebbe per confondere soltanto. Il capitalismo, almeno in modo illusorio, “semplifica” e questo piace. Ti fa apparire gli aspetti negativi come piccoli ostacoli facilmente sormontabili, e comunque “inevitabili” (vedi TINA e affini).
Basterebbe astrarsi per qualche settimana dalla vita quotidiana per capire che non c’è nulla di semplice, di inevitabile, di positivo nel trascorrere la maggior parte della nostra vita facendo un lavoro che non offre soddisfazioni, salvo poi avere la “pensione” per godersi i frutti di tanto lavoro. Eppure è la scelta “comoda”, la scelta già predisposta, l’opzione a portata di mano che fanno “tutti gli altri”.
Ciò che non riesco a comprendere della “sinistra di sinistra” è come dalle intenzioni voglia passare alla realtà. Gli esempi, per carità, sono visibili e tutt’altro che rari. Ma non riguardano mai il quadro generale, o almeno non in un modo che io riesco ad osservare. Il movimento contro la Torino-Lione è formato da persone che davvero vogliono sovvertire il sistema, ridistribuire la ricchezza, diminuire le differenze sociali tra i propri membri?
Si potrà dire che una delle strategie possibili è proprio partire dal locale perché è troppo complesso agire nel generale. Domando, però: in una democrazia parlamentare il fatto che da almeno decenni non c’è un deputato di “sinistra di sinistra” nel parlamento è parte della strategia?
Per come la vedo io, sicuramente errando, la tragedia ambientale – che riguarda non il pianeta ma il sapiens e diverse altre specie animali – potrebbe essere un’occasione per aprire la questione sull’anticapitalismo e sulla ricerca di un sistema più “sano” di stare al mondo. Il fatto che già da ora subito si cerchino patentini del tipo “non è possibile dialogare con loro perché in realtà il loro (inteso tutti quelli non di sx-sx) ecologismo è un ecologismo di facciata” mi sembra reiterare errori e miopie del recente passato.
Sto leggendo un libro molto interessante, il cui autore non è marxista e anzi pensa di dire cose che ai seguaci di Engels non piaceranno, ma io sono un seguace di Engels e lo trovo affascinante. Il libro del resto l’ho trovato in una libreria socialista di Londra (Bookmarks).
Fatto sta che questo libro parla della nascita dello Stato. Spiega parecchie cose notevoli, ma quel che ci interessa in questo dibattito è semplicemente questo: il primo Stato si è formato nella città di Uruk intorno al 3300 avanti Cristo. Ai tempi e per diversi millenni dopo la fondazione, la maggior parte della popolazione mondiale (già allora, milioni di persone) è vissuta fuori dagli Stati. Il processo di consolidamento dei primi Stati è stato estremamente difficoltoso, con numerosi crolli, e lo Stato è riuscito a imporsi solo “a spallate”.
Non si tratta neanche lontanamente di un fenomeno “naturale”.
Il libro è «Against the Grain: A Deep History of the Earliest States» di James C. Scott. Il gioco di parole del titolo fa riferimento al rapporto tra la coltivazione dei cereali e la nascita dello Stato. Non ce l’abbiamo scritto nel DNA, e neppure è scritto naturalmente nel DNA dei cereali perché quel DNA lo abbiamo modificato noi in millenni di addomesticamento delle piante.
Davvero tante cose sono artificiali e quindi potremmo cambiarle. So che questo punto era solo un passaggio in un ragionamento più ampio ma mi andava di dirlo. :-)
E’ una “branca” della questione secondo me molto importante e al contempo interessante. Se non ricordo male, se ne iniziò il ragionamento qui su Giap alcuni mesi (anni?) fa analizzando alcuni esempi di società preistoriche e non-capitaliste. Uruk oltretutto fu una città-stato con una serie di problemi e di contingenze anche differenti rispetto a civiltà più recenti.
C’è anche da considerare l’aspetto “scientifico” citato da Wolf. In civiltà sparse nel mondo e quasi certamente avulse se non proprio aliene da qualsiasi sistema capitalista, si ottennero conoscenze “protoscientifiche” straordinarie. E si parla di migliaia di anni prima dell’invenzione della scrittura. Ne lessi in un saggio presumo noto che è “Il mulino di Amleto”: aldilà di alcune considerazioni degli autori poco ortodosse, le prove che apportano sono massicce.
***
In conclusione, penso dunque sia possibile e necessario strutturare uno stato più equo e più “ecologico” dove al contempo si scopriranno le ultime leggi della meccanica quantistica, si girerà un altro Breaking Bad, e si arriverà su Marte. Il problema è il come, il con chi, in quanto tempo, e qual sarà la prossima mossa… Sicuramente far emergere dal sommerso della storia tutti gli esempi “alternativi” e “funzionanti” è un lavoro prezioso.
Ekerot, su questo versante rischiamo di farla lunga e di attivare un livello del discorso ulteriore e forse troppo lontano dal nucleo tematico di questa discussione.
Per conto mio posso solo osservare che anche dare per scontata l’esistenza dello “stato” senza definirlo, mettendo sullo stesso piano l’antica Uruk e lo stato-nazione europeo, come sviluppatosi in età moderna e contemporanea, è già una forzatura che non aiuta la comprensione.
Le forme in cui – in concreto e sul piano giuridico – si sono organizzate le collettività storiche umane lungo il corso dei secoli sono tante e diverse.
Noi diamo per scontato lo stato *così com’è*, perché quello conosciamo. Ma si tratta di una forma di organizzazione della convivenza umana che solo tre secoli fa era tutt’altro che consolidata e ancor meno generalizzata.
Oggi viviamo la crisi della forma-stato borghese, senza però che intravvediamo un ragionevole e intellegibile sbocco alla sua parabola discendente.
Ci sono teorizzazioni – anche recenti – che tentano di prescindere, per dire. Una è quella del “confederalismo democratico”, elaborata da Abdullah “Apo” Öcalan.
Ma tutta la riflessione socialista contempla una ridefinizione radicale del concetto e della declinazione storica della forma-stato (sugli esiti pratici del cosiddetto socialismo reale in questo ambito possiamo discutere, chiaramente).
In ogni caso, non vale alcun determinismo, qui come altrove. Non c’è alcuna “legge di natura” che abbia imposto la supremazia europea capitalista e le sue forme giuridiche e politiche sul resto del mondo, bensì una serie di circostanze storiche, basate su fattori materiali e a volte su snodi casuali della storia, che hanno prodotto tali esiti e non altri.
Jared Diamond, nel suo Armi, acciaio e malattie lo dimostra in termini alquanto efficaci (per citare un classico).
Io mi terrei sul crinale tematico della discussione, che è già tanto. Senza dare per scontato che non ci siano alternative.
Mi dispiace non poterti rispondere – per ragioni di spazio, di opportunità e di tempo – in modo più puntuale e diffuso di così.
Cosa ha in più la sinistra di sinistra? L’ottimismo razionale che la spinge alla rivoluzione e non agli accomodamenti, agli aggiustamenti. :-)
Vorrei, poi, solo aggiungere a quanto scritto da Mauro e Omar che interessanti approfondimenti sulla città, sulla città stato (e di lato sullo stato) stanno arrivando da tutti gli studi di archeologia dell’alimentazione. Conosco il versante dell’archeologia della vite e del vino, ad esempio. Anche gli abitati etruschi, l’evoluzione della loro struttura, è molto utile in questo senso.
[…] di opposto colore politico è ben spiegato dall’ottimo testo di Wolf Bukowski (@vukbuk), La buona educazione degli oppressi, che ricostruisce la “piccola storia del decoro” spiegando come siamo arrivati a […]
[…] dopo il necessario La buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski col quale si può ben fare un discorso comune, mi viene in soccorso l’ottimo libro del compagno Vanetti La sinistra di destra, il cui […]
[…] spicciolo (dell’intreccio tra diritti civili e sociali abbiamo discusso ampiamente qui). Sto dicendo che più sono forti quelle restrizioni più devono essere precisi e correttamente […]