Sul senso di un’operazione editoriale: la nuova traduzione del Signore degli Anelli

1. La quiete dopo la tempesta… in un bicchier d’acqua

Passata la nottata del primo mese di permanenza in libreria, è possibile scrivere dell’importanza di un’operazione editoriale come la ritraduzione del Lord of the Rings senza il rumore di fondo delle proteste per le nuove versioni di alcuni nomi di personaggi e toponimi. Per altro, si è detto giustamente che è stata comprensibilissima, oltreché prevedibile, la reazione dei fan di fronte al cambiamento di una nomenclatura consolidatasi nell’arco di cinque decenni. Questo anche se in certi casi le scelte contestate a Ottavio Fatica – come l’ormai noto «Forestale» per «Ranger» – non sono più arbitrarie di quelle della traduzione precedente – «Ramingo», elegante ed evocativo, ma di registro decisamente alto per il gioco di accezioni voluto da Tolkien; e tuttavia l’affezione per il romanzo preferito letto e riletto in italiano spinge ad affermare una sorta di diritto di primogenitura.

Ovviamente in termini di pratica della ritraduzione questo diritto non esiste e non ha alcun senso, come non ce l’ha giudicare una nuova traduzione dalla resa dei nomi. È piuttosto lo stile generale che andrà valutato. Perché è lì che si svela il senso ultimo di un’operazione editoriale come questa.

Lo ha riconosciuto qualche settimana fa Cesare Catà in un articolo sull’Huffington Post, dal titolo un po’ falsante, perché a fronte di una preferenza espressa per la vecchia traduzione, l’autore del pezzo ha avuto parole di apprezzamento per l’iniziativa editoriale di Bompiani e per la traduzione di Fatica.

Il motivo della preferenza di Catà, a suo dire, risiede nelle diverse scelte che stanno alla base delle due traduzioni. È proprio questo il discorso interessante.

Secondo Catà, il grande pregio della traduzione storica di Alliata risiede, per così dire, nell’aver parafrasato lo stile letterario di Tolkien, ovvero nell’aver reso nella nostra lingua l’afflato e l’atmosfera epica della grande narrazione tolkieniana. Qualcuno direbbe nell’averne trasmesso lo «spirito». Invece la traduzione realizzata da Fatica renderebbe il romanzo più realistico e contemporaneo. Vale la pena riportare il passaggio cruciale della recensione:

«Da questi approcci agli antipodi scaturiscono due traduzioni del testo profondamente differenti, che sottintendono due diverse concezioni dell’opera di Tolkien. Potremmo infatti chiederci quale delle due traduzioni sia più rispondente all’originale, ma la domanda sarebbe posta male e ci porterebbe fuoristrada: perché non esiste mai un “noumenico” testo originale scevro da interpretazioni (ce lo insegna Gadamer). La domanda giusta è forse: che cosa pensiamo dell’opera di Tolkien? Sì, perché quelli che le due traduzioni italiane restituiscono sono due racconti che parrebbero forgiati su due differenti generi letterari. Quello che Alliata aveva consegnato decenni fa al lettore italiano era, ed è, un testo epico: strutturato cioè in una forma che richiama, da un lato, le saghe cavalleresche e l’arte retorica petrarchesca; e, dall’altro, il dettato delle saghe norrene e celtiche. Quello di Ottavio Fatica, invece, è un Tolkien quotidiano, scorrevole alla lettura, asciutto, realistico; il suo è un lavoro che (coscientemente, credo) toglie Tolkien dal genere epico per porlo nel genere contemporaneo della Young Adult Fiction. Non si tratta dunque di capire quale traduzione sia più “fedele”, ma di fare i conti con la nostra concezione del testo tolkieniano.»

Da questa riflessione di Catà si deduce che se preferiamo il Tolkien “epico” dovremmo continuare a leggere la vecchia traduzione, mentre se preferiamo quello “realistico” dovremmo leggere la nuova. Questo sforzo d’equanimità implica evidentemente un equivoco su cosa sia l’epico, come genere che viene schiacciato su determinate forme e stilemi letterari debitori de «l’arte retorica petrarchesca» e ariostea e delle «saghe norrene e celtiche». Ovvero implica una visione piuttosto riduttiva del modo di contrarre tale debito.

2. Equivoco epico

Epico significa «pertinente alla narrazione poetica di gesta eroiche» (Treccani), ossia è un genere definito dal suo oggetto, dalla storia che racconta, non dalle forme scelte per farlo. Un poema epico come Beowulf ha uno stile poetico asciutto e diretto come il carattere dei suoi eroi, senza troppe concessioni all’aulicità. L’elegia epica gallese Gododdin si presenta come un lungo, scarnificato epitaffio di caduti in battaglia, in una sequenza sincopata di immagini semplici nella forma quanto blocchi di granito. Epico è anche I sette pilastri della saggezza (1922) di T.E. Lawrence – romanzo abilmente travestito da memoriale di guerra -, scritto in una lingua che solo a tratti sfocia nella prosa poetica, ma più spesso serve la fredda concretezza delle descrizioni belliche o delle riflessioni politiche ed etnografiche. Epico è il più recente ciclo delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di Martin, con il suo stile assolutamente realistico.

Quanto all’accostamento tra la nuova traduzione e la letteratura Young Adult, suona abbastanza ridicolo, giacché tutto si può dire del lavoro di Fatica fuorché che abbia scelto una lingua adatta a quel target di pubblico. Lo testimoniano le rimostranze di certi fan del Signore degli Anelli verso la nuova traduzione, per via della resa di alcuni vocaboli con parole italiane arcaiche e obsolete, per le quali «si deve andare a consultare il dizionario». La lingua di Fatica è più fluida rispetto alla traduzione preesistente semplicemente perché il traduttore non ha avvertito il bisogno di “epicizzare” il registro e appesantire la prosa tolkieniana secondo l’equivoco summenzionato. Gli è bastato attenersi a una resa più prossima allo stile di Tolkien.

Anche se Catà ha ragione da vendere nel dire che non esiste una traduzione scevra da interpretazione, è lapalissiano che ogni traduttore debba confrontarsi con il testo di riferimento, o meglio, scegliere come confrontarsi con esso. Dunque per capire la differenza interpretativa tra le due traduzioni italiane non è superfluo chiedersi qual è, in effetti, lo stile di Tolkien. Lo ha indagato a suo tempo lo studioso americano Steve Walker, in The Power of Tolkien’s Prose: Middle-Earth Magical Style (Palgrave McMillan, 2009). Walker spiega che una delle chiavi connotative della prosa tolkieniana è l’arcaismo. Non tanto o non solo per la presenza di parole prese a prestito direttamente dall’Old English, quanto piuttosto per l’uso di una terminologia comune in altre epoche, quindi obsoleta, oppure di parole d’uso corrente ma con sfumature di significato antiche (solitamente la quarta o quinta accezione dell’Oxford English Dictionary):

«Tuttavia l’effetto arcaico dello stile di Tolkien deriva più direttamente da termini meno arcaici, ovvero da termini d’uso più comune, dai vari “sooth”, “rede”, “deem”, “wight”, e “moot”. È quel tipo di arcaismo comune che produce l’atmosfera in cui parole rare come “tilth” o specialistiche come “coomb” o con un evidente riferimento storico come “vambrace” sembrano per associazione arcaiche. L’aura d’antichità può evocare accezioni arcaiche da termini manifestamente moderni come “darkling”, “lade” e “westering”. Questa interrelazione tra stile arcaico e stile moderno è profonda.»

E ancora:

«La tendenza arcaizzante dello stile di Tolkien è complicata dal fatto che nella narrazione viene presentata come attuale. Parole che nel nostro mondo suonano arcaiche, nella Terra di Mezzo sono termini correnti. I termini arcaici non sono spiegati in nota, non vengono giustificati; sono semplicemente inclusi come dati di fatto linguistici.»

In definitiva, quindi, leggere Tolkien con il vocabolario accanto è uno degli effetti collaterali del suo stesso stile, prima ancora che di quello di Fatica. Ma soprattutto, l’arcaismo di questo stile non risiede né in un tono aulico né in una prosa ampollosa, quanto piuttosto in un’originale commistione di registro medio e parole/accezioni obsolete.

3. Confronti e carotaggi

Per fare capire la differenza d’approccio tra le due traduzioni italiane si può scegliere un esempio a campione, vale a dire una descrizione circostanziale e psicologica, come ce ne sono tante nel Signore degli Anelli:

«They would soon now be going forward into lands wholly strange to them, and beyond all but the most vague and distant legends of the Shire, and in the gathering twilight they longed for home. A deep loneliness and sense of loss was on them. They stood silent, reluctant to make the final parting […]» (LotR, FR, I. VIII).

Abbiamo qui un registro medio e una prosa asciutta, in questo passo priva di arcaismi.
La traduzione Alliata-Principe rende il brano così:

«Fra poco si sarebbero avventurati in paesi del tutto sconosciuti, nominati soltanto dalle più vaghe, lontane e misteriose leggende della Contea; alla luce del crepuscolo sentirono improvvisamente una grande nostalgia della loro casa. Una profonda solitudine e un senso di smarrimento si impadronirono della loro anima. Rimasero in piedi, silenziosi, restii all’idea della separazione definitiva».

Si rileva l’aggiunta di un participio («nominati»), di due aggettivi («misteriose», «grande»), di un avverbio («improvvisamente») e di un sostantivo («idea») non presenti nell’originale; la mancata resa del participio «gathering» riferito al tramonto; la resa aulica («si impadronirono della loro anima») del semplice «was on them»; l’imprecisa traduzione dell’espressione «to stand silent», che non significa restare in piedi silenziosi, ma semplicemente rimanere in silenzio.
Questa invece è la traduzione di Fatica dello stesso passo:

«Di lì a poco si sarebbero avventurati in terre a loro completamente ignote, ben oltre le più vaghe e remote leggende della Contea, e nel crepuscolo crescente ebbero nostalgia di casa. Una profonda solitudine li prese e come un senso di smarrimento. Rimasero in silenzio, riluttanti alla definitiva separazione».

Si può notare che in due casi Fatica sceglie un termine di registro un po’ più alto rispetto ad Alliata («ignote» per «strange»; «remote» per «distant», laddove Alliata optava per «sconosciuti» e «lontane»), ma non vengono aggiunti aggettivi, sostantivi, avverbi, né vengono trasformate le espressioni semplici di Tolkien in immagini figurate auliche.
Prendiamo un altro esempio, un estratto da un discorso di Gandalf:

«A shadow fell on my heart then, though I did not know yet what I feared. I wondered often how Gollum came by a Great Ring, as plainly it was – that at least was clear from the first. Then I heard Bilbo’s strange story of how he had ‘won’ it, and I could not believe it. When I at last got the truth out of him, I saw at once that he had been trying to put his claim to the ring beyond doubt. Much like Gollum with his ‘birthday present’.» (LotR, FR, I. II).

La resa nella vecchia traduzione è questa:

«Un’ombra, un’ombra cadde allora sulla mia anima, benché non sapessi ancora quale fosse la causa del mio timore. Mi sono spesso chiesto come avesse fatto Gollum a procurarsi un Grande Anello (infatti non ebbi mai alcun dubbio sulla natura del suo “tesoro”). Poi Bilbo mi raccontò la sua curiosa storia, sostenendo di averlo “vinto”, ma non vi prestai fede. Quando infine riuscii a fargli confessare la verità, compresi subito che egli aveva mentito per scongiurare qualsiasi rivendicazione sull’anello che possedeva “di diritto”. Molto simile alla storia di Gollum e del suo ‘regalo di compleanno’».

Notiamo la ripetizione enfatica della parola «ombra» e la resa di «heart» con «anima», due scelte che alzano di molto il tono della prosa; la resa di un’espressione semplice e piana («what I feared») con una frase più lunga e alta («quale fosse la causa del mio timore»); la messa tra parentesi di una frase («infatti non ebbi mai alcun dubbio sulla natura del suo ‘tesoro’») che riscrive molto liberamente l’inglese «that at least was clear from the first»; nonché la parafrasi della frase «he had been trying to put his claim to the ring beyond doubt» con: «egli aveva mentito per scongiurare qualsiasi rivendicazione sull’anello che possedeva di diritto».

Ecco invece come traduce Fatica:

«Pur ignaro di cosa ancora temessi, un’ombra calò allora sul mio cuore. Mi sono chiesto spesso come Gollum si fosse procurato un Grande Anello, quale evidentemente era: questo se non altro mi fu chiaro dal principio. Poi sentii la strana storia di come Bilbo lo avesse ‘vinto’, ma non potevo crederci. Quando finalmente riuscii a tirargli fuori la verità, mi resi conto subito che il suo era un tentativo di rivendicare il possesso dell’anello al di là di ogni dubbio. Un po’ come Gollum e il suo ‘regalo di compleanno’».

Si può notare, proprio all’inizio, l’inversione di reggente e subordinata, ed è l’unica libertà che il traduttore si prende, non avvertendo evidentemente l’esigenza di implementare la prosa di Tolkien con tagli, aggiunte, parafrasi.

Questi due piccoli esempi servono a dare l’idea di come lo stile traduttivo della vecchia versione tendesse all’enfasi, all’aulicità e a frasi più lunghe e complesse anche senza riscontro nell’originale. È chiaro che questa scelta pretendeva di rendere il testo “epico” nell’accezione parzialissima già menzionata, propria di chi la tradusse.

Per quanto riguarda la resa degli arcaismi o delle accezioni obsolete nel passaggio da una lingua all’altra, è ovvio che si tratta di un’impresa tutt’altro che semplice. Nondimeno Fatica ci prova. Si pensi ad esempio alla resa che offre della forma plurale arcaica «turves» – utilizzata da Tolkien per descrivere i tetti delle case hobbit – con il raro «cotica», e che Alliata rendeva molto liberamente con «muschio». Un altro esempio evidente è la parola «moot» (citata da Walker), che nell’Inghilterra pre-normanna indicava l’assemblea degli uomini liberi, e che compare nel composto «Shire-moot», reso da Fatica con «Assemblea conteale» e da Alliata ancora molto liberamente con «Assemblea nazionale». O ancora vediamo il caso della parola «wight», nel composto «Barrow-wight», che Alliata traduceva con «spettro» (Spettro dei Tumuli) trattandolo alla stregua di un sinonimo di «wraith» nel composto «Ringwraith» (Spettro dell’Anello). Fatica lo traduce invece con il significato che la parola – di radice completamente diversa da wraith – ha in Old English, cioè quello di essere vivente, creatura non meglio precisata, e dunque «Essere dei Tumuli».

È evidente che Fatica ha colto la centralità degli arcaismi per lo stile tolkieniano e ha fatto uno sforzo per renderla. Nella precedente traduzione non si avverte la stessa attenzione, perché, come si è visto, l’effetto arcaico è ricercato attraverso altri mezzi: l’innalzamento del registro e l’allungamento del testo.

4. Una nuova era

È evidente che esistono traduzioni d’autore anche più libere di quella del Signore degli Anelli che abbiamo letto per mezzo secolo, proprio perché il traduttore finisce sempre per riscrivere l’opera – e giustamente adesso è dovere dell’editore mettere il nome del traduttore in copertina. Se dunque è chiaro che il traduttore è condizionato da molti fattori, la versione Alliata-Principe è coerente con l’idea che direttore editoriale (Cattabiani), curatore (Principe) e prefatore (Zolla) di un tempo si erano fatti del testo quando decisero di pubblicarlo. Senza dimenticare l’autore delle copertine, Piero Crida, il quale ancora qualche anno fa dichiarava che Principe e Cattabiani «considerarono l’opera ‘eccelsa densa di significati esoterci, pienamente in linea con la Tradizione e perciò da pubblicare senza esitazione’» (in O. Cilli, Tolkien e l’Italia, Il Cerchio, 2016). Un’idea che trapela anche nella collocazione editoriale e nel paratesto.

Elemire Zolla

Catà dice anche questo, infatti: avere eliminato, nella nuova edizione, l’introduzione di Elemire Zolla, ha un significato importante. Peraltro, in quel famoso testo, Zolla violava la regola basilare di ogni autore di prefazioni: non fare spoiler. Trama e perfino finale venivano rivelati allo sventurato lettore che avesse letto quell’introduzione prima di affrontare il romanzo.

Questo snobismo verso il semplice piacere della lettura evidentemente confliggeva con il movente della stesura del romanzo, dichiarato da Tolkien stesso nella sua prefazione: «Il motivo principale era il desiderio di un narratore di cimentarsi con una storia davvero lunga capace di catturare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a momenti magari stimolarli o commuoverli profondamente». È giusto che nel 2019, tra l’esigenza di spiegare e raccontare il romanzo ai lettori, da un lato, e quella di salvaguardarli da queste buone intenzioni, dall’altro, prevalga la seconda. Il lettore sia libero di godersi la storia e di trarne la propria morale, senza “cappelli” esegetici.

Laddove quindi Catà centra il punto è quando afferma che la vera differenza tra le due operazioni editoriali a distanza di mezzo secolo è ideale non materiale, cioè ha a che fare con «la nostra concezione del testo tolkieniano» e non con che cosa esso sia.

Per mezzo secolo il “nostro” (di noi italiani) Signore degli Anelli è stato il risultato di un’operazione editoriale che andò dalla traduzione fino alla pubblicazione, passando attraverso l’editing e il paratesto, realizzata da un team di intellettuali che perseguiva con coerenza la propria chiave di lettura, in ordine alla propria weltanschauung. Ebbene oggi Bompiani, legittimamente, apre una nuova prospettiva. Per altro, l’esistenza di una nuova traduzione non impedisce il mantenimento della precedente; casomai offre una maggiore scelta, e magari perfino uno stimolo a leggere l’opera in originale.

Quella avviata con la pubblicazione de La Compagnia dell’Anello nella traduzione di un grande traduttore letterario, e che proseguirà con gli altri due volumi del Signore degli Anelli e infine con il volume unico, è un’operazione editoriale di non minore respiro rispetto a quella di mezzo secolo fa. Dunque verrà giudicata su un arco di tempo medio-lungo. Questo è un viaggio che non promettiamo breve… e che ha le sue premesse in un lavoro cominciato da almeno un decennio, ad opera di molte persone. Va affrontato a passi lunghi e ben distesi.

La Strada se n’va ininterrotta
A partire dall’uscio onde mosse.
Or la Strada ha preso una rotta,
Che io devo seguir, come posso,
Perseguirla con passo solerte,
Fino a che perverrà a un gran snodo
Ove affluiscono piste e trasferte.
E di poi? Io non so a quale approdo.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

6 commenti su “Sul senso di un’operazione editoriale: la nuova traduzione del Signore degli Anelli

  1. Grazie per il contributo. Aspetterò quindi l’edizione dei tre volumi in un unico, come era volere di Tolkien. Penso che tante polemiche nascano, banalmente, per partito preso (ed il gioco di parole mia fa dire… partito anche politico) e/o da persone che non hanno letto tutto il testo ma si sono fermati alla lettura di “Forestali” (peraltro pessima eh…). Nuovamente grazie a te a tutta l’AIST per il tentativo di diffondere la poetica tolkieniana in Italia in modo corretto ed onesto.

  2. Ottavio Fatica risponde punto per punto ai “rilievi” (se così vogliamo, generosamente, chiamarli) sulla sua traduzione de La compagnia dell’anello di J.R.R. Tolkien. Un vero e proprio verbale della conferenza tenuta a Parma il 12 dicembre scorso.

  3. Aragorn il forestale: uno studio filologico

    Sul sito dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, Wu Ming 4 analizza una delle scelte lessicali più attaccate nella nuova traduzione de La compagnia dell’anello.

  4. È straordinario che la traduzione di “Ranger” con “Forestale” da parte di Ottavio Fatica ne La Compagnia dell’Anello abbia prodotto un dibattito tanto acceso. Dunque ecco Luca De Angelis sulla pagina FaceBook dei Tolkieniani Italiani, ribattere al mio “articoletto” (definizione sua, alla quale senz’altro mi adeguo), che consiste in una disamina filologica della parola Ranger attraverso la semplice consultazione dell’Oxford English Dictionary e con la consulenza di Tom Shippey. Questa mia controreplica sarà dunque l’occasione buona per sintetizzare quanto il sottoscritto ha espresso nel dibattito in calce all’articoletto in questione.

    De Angelis fa notare che «quando si traduce dovrebbe essere presa attentamente in considerazione nella sua complessità non solo la lingua di origine, ma anche la lingua di destinazione». Cosa che secondo lui né il sottoscritto né tantomeno il traduttore Ottavio Fatica avrebbe fatto. Questo perché non avremmo considerato che «i più importanti dizionari/vocabolari della lingua italiana alla voce ‘Forestale’ non attribuiscono alcuna sfumatura negativa», quella che invece il sottoscritto le attribuisce risalendo all’etimologia latina della parola. I suddetti vocabolari riportano come significato «sempre e soltanto la seconda accezione dell’originario termine inglese», cioè «ufficiale forestale, guardacaccia, ossia quella più remota (per non dire esclusa) dal significato che con ogni evidenza Tolkien attribuiva ai suoi ‘Rangers’ dell’Eriador e dell’Ithilien (prima accezione dell’OED combinata in parte con la terza)».

    A questo si aggiungerebbe un’aggravante, anzi due: «mentre in inglese (britannico) ‘ranger’ inteso come ‘forest officer’ e ‘gamekeeper’ è oggigiorno un appellativo desueto e limitato ai soli guardiani dei parchi reali, l’italiano ‘Forestale’ invece non ha nulla di arcaico ma anzi, come sostantivo, è impiegato correntemente (e unicamente) per designare un membro della moderna forza di polizia italiana, il Corpo forestale dello Stato».
    Ne consegue, secondo De Angelis, «che nella lingua di destinazione ‘Forestale’ rappresenta un traducente assolutamente inadatto a rendere l’originale ‘ranger’ nel contesto in cui è inserito nell’opera, nonché stilisticamente straniante e potenzialmente fuorviante per un nuovo lettore che nulla sa della storia narrata e che potrebbe pensare, leggendo il prologo e i primi capitoli de ‘La Compagnia dell’Anello’, che Aragorn e gli altri Dúnedain dell’Eriador siano dei guardaboschi o i membri di una forza di polizia ‘statale’ affine a quella dei Guardacontea/Sceriffi (‘Shirriffs’)».

    Ora, il ragionamento suddetto contiene una premessa falsa, una premessa arbitraria, e un’inferenza errata.

    La premessa falsa è che nell’inglese moderno la parola “ranger” sia un «appellativo desueto e limitato ai soli guardiani dei parchi reali». In Gran Bretagna e nei paesi anglofoni dell’ex-impero britannico la parola “ranger” designa la guardia forestale proprio nell’uso corrente, tant’è che i vocabolari moderni inglese/italiano riportano “guardaboschi” come prima definizione.
    Infatti ecco i rangers britannici:
    https://nationalparks.uk/ranger-room/meet-the-rangers
    quelli statunitensi:
    https://en.wikipedia.org/wiki/National_Park_Service_ranger
    quelli australiani:
    https://www.nationalparks.nsw.gov.au/about-npws/careers/rangers
    quelli neozelandesi:
    https://www.careers.govt.nz/jobs-database/animal-care-and-conservation/conservation/ranger/
    quelli canadesi:
    https://engage.gov.bc.ca/bcparksblog/2016/02/10/how-to-become-a-bc-parks-ranger/
    Dunque se un anglofono legge “Rangers” compie probabilmente un’associazione mentale simile a quella che compie un italiano quando legge “Forestali”. Ed è precisamente l’effetto che la traduzione di Fatica vuole ricreare, benché ovviamente il significato sia diverso, dato che nella Terra di Mezzo i Rangers non svolgono specificamente mansioni di guardaboschi.
    Il secondo significato riportato dai vocabolari inglese/italiano per “ranger” è invece riferito a certi corpi speciali di vari eserciti, discendenti probabilmente da quelle prime milizie coloniali che vennero così definite (su questo vedi oltre).

    La premessa arbitraria è che l’unica maniera di intendere l’aggettivo sostantivato “il Forestale” sia quella che definisce un agente della Forestale. Non ambientandosi in Italia Il Signore degli Anelli, bensì in uno spazio-tempo immaginario, è ovvio e scontato che “Forestale” non può in alcun modo designare un agente del Corpo Forestale dello Stato, proprio come “Ranger” nel testo originale non designa un UK National Park Ranger.

    Per inciso: capita una cosa simile al “farthing”, che per un cittadino britannico degli anni Cinquanta era una monetina, e che nel romanzo definisce un quarto di Contea anziché un quarto di penny. Chissà se qualcuno fece notare a Tolkien che usare quella parola era una forzatura e un errore, dato che nella lingua inglese corrente il riferimento alla divisione amministrativa dell’Islanda medievale non poteva essere colto quasi da nessuno, e tutti invece avrebbero pensato agli spiccioli che avevano in tasca. Ridicolo, no? Probabilmente Tolkien avrebbe risposto che il contesto narrativo solitamente funziona benone per definire il senso inusuale di un termine usuale. E se funziona in inglese, magari funziona anche in italiano.

    Nessun lettore italiano infatti può pensare che Aragorn e Faramir siano agenti della Forestale. Si potrà trovare stridente l’accostamento mentale, o anche ridicolo, ma poi si entrerà in quel mondo e si dedurrà dal contesto narrativo che quel “Forestale” significa “delle foreste”, il primo significato riportato da qualunque dizionario della lingua italiana. Quello è in effetti l’unico significato letterale (ed è soltanto l’uso che ha determinato la forma “il Forestale” per riferirsi a una guardia forestale, cioè una guardia “delle foreste”, appunto). Leggendo si capirà quindi facilmente che Forestale non è riferito a un qualche corpo di polizia, bensì a colui che viene da, attraversa, combatte nelle foreste, cioè nelle terre selvagge/selvatiche < selva, foresta. Ed è questo che fanno i Rangers nella Terra di Mezzo. Proprio come Natty Bumppo, il protagonista del ciclo di romanzi di Fenimore Cooper. L'accostamento di Shippey tra Aragorn e la Longue Carabine ci azzecca eccome. Proprio come ci azzecca il suo accostamento con i Rangers militari. E qui si può concordare con De Angelis e Shippey quando dicono che questo - cioè il terzo significato dell'OED - è il più adatto ai Rangers della Terra di Mezzo. Ma proprio da questo punto di vista espressioni come "i Forestali del Nord" e "i Forestali dell'Ithilien" evocano più facilmente un corpo di guerrieri forestali, combattenti delle terre selvagge, di quanto non facciano "Raminghi del Nord" e "Raminghi dell'Ithilien", che invece fanno pensare a dei vagabondi o a degli esuli, non certo ai ranghi di un reggimento. Inoltre resta il fatto inoppugnabile che a Bree usano questo termine in senso dispregiativo, con un riferimento esplicito non già all'arruolamento, ma alla selvatichezza, al parlare con gli animali, all'inciviltà, all'essere forestieri. Non c'è niente da fare: la coperta è corta.

    L’inferenza errata è questa: «Appare chiaro dunque che, tenendo ben presenti sia la lingua di origine, sia la lingua di destinazione, la traduzione ‘Ramingo’/’Raminghi’ adottata dall’Alliata, per quanto non copra anche il terzo significato, sia però il compromesso migliore in italiano (ed è adatta anche a descrivere l’aspetto ‘logoro’ degli abiti di chi vaga da lungo tempo senza una dimora stabile per grandi distese). Tra l’altro, nella poesia italiana, spesso ‘ramingo’, ‘andar ramingo’ e ‘ramingare’ sono associati proprio ai boschi e ai luoghi selvaggi».

    Non appare chiaro affatto, invece. A parte che “Ramingo” non contiene alcuna sfumatura di senso che riguardi l’abbigliamento o l’aspetto esteriore, se è vero che il suo significato si adatta ad Aragorn, non così per i Rangers dell’Ithilien. Questi non vanno in giro raminghi (e nemmeno logori), bensì svolgono un ruolo di sorveglianza militare, pattugliamento e guerra boschiva, ben integrati nell’esercito di Gondor, al punto da essere capitanati dal figlio del Lord Steward (che non è quello della Casa Reale britannica… lo si evince dal contesto ;-).
    Ma il problema evidente è soprattutto che Ramingo è una parola che appartiene al linguaggio alto e poetico ed è una scelta totalmente fuori registro sia rispetto all’originale “Ranger” sia rispetto al contesto narrativo. Hammond e Scull hanno ragione nel dire che riferito ad Aragorn e ai Dunedain del Nord «here has the sense ‘wanderer’», e proprio per questo suona ridicolo che l’oste della locanda di Bree definisca quelli che ai suoi occhi sono rozzi e loschi vagabondi come “Raminghi”, manco stesse prendendo un prestito da Foscolo o da Giovanni Berchet.

    La verità è che Ramingo non è meno straniante di Forestale, ma sono entrambi relativi allo stile delle rispettive traduzioni. Chi preferisce Ramingo lo fa – per usare le rivelatrici parole di De Angelis – perché è «uno stile più elevato che si confà al contesto». Quale contesto? Non certo quello narrativo, dove dovrebbe indicare viaggiatori selvatici o coriacei guerriglieri forestali, bensì quello stilistico della vecchia traduzione, appunto. De Angelis, come molti ferventi critici del lavoro realizzato da Fatica, confonde Alliata con Tolkien. E così dalla filologia si scivola di nuovo nell’affetto tradito.

    Infine conclude:
    «Tirando perciò le somme, se si ha un minimo di onestà intellettuale penso che, alla luce di tutte queste informazioni, si debba riconoscere che la traduzione ‘Forestale’/’Forestali’ per ‘Ranger’/’Rangers’ è semplicemente indifendibile».

    Suggerirei a De Angelis, invece di chiamare in causa l’onestà intellettuale – terreno sempre scivoloso -, di provare ad accogliere una semplice constatazione. E cioè che non esiste una parola italiana in grado di rendere il groviglio di accezioni che Tolkien realizza con l’uso della parola Ranger nel suo romanzo, sfruttando tutte e tre le definizioni dell’OED, e che potremmo sintetizzare con “guerriero di frontiera girovago dall’aspetto di guardaboschi”. Dunque è scontato che ogni scelta finisca per sacrificare qualcosa.
    Nella discussione in calce al mio articoletto c’è chi ha detto che la scelta migliore sarebbe stata quella di non tradurre, di lasciare Ranger, dato che ormai è entrato anche nell’uso italiano. Sarebbe stata una scelta facile, ma sarebbe stata anche una rinuncia alla sfida che la traduzione rappresenta. Alla luce di questa considerazione, dunque, forse si potrebbe apprezzare chi ha coraggio e ci prova, invece di arroccarsi in difesa delle buone vecchie abitudini con argomenti che finiscono per rivelare la propria matrice psicologica più che filologica.

  5. Come la maggior parte dei lettori italiani ho incontrato il Signore degli Anelli per la prima volta nella traduzione Alliata/Principe, ma poi avendo fatto della letteratura inglese la mia professione sono ormai decenni che mi accosto solo all’originale di Tolkien. Questo per dire che non sono interessato ne’ a fare l’avvocato d’ufficio di Alliata e Principe (“Rifugi Oscuri”), ne’ ad attaccare Fatica (il cui lavoro non credo che leggero’ per intero).

    Questo vuol dire anche che le mie impressioni sono di seconda mano, basate sugli estratti dati qui e altrove (ho visto un articolo intelligente di Adriano Bernasconi su endore.it che fa una disamina piu’ puntuale delle due traduzioni italiane). Pero’ vorrei comunque esternare che alcune delle scelte di Fatica mi lasciano molto perplesso. Per esempio nella canzone sulla strada, “Fino a che perverrà a un gran snodo” ha una dizione assai peculiare ed e’ difficile da pronunciare; non ha un’aria “cantabile”, come si addice a una canzone. Piu’ “grave” e’ il fatto che in un altro passaggio riportato qui Fatica distorce l’originale:

    “They would soon now be going forward into lands wholly strange to them, and beyond all but the most vague and distant legends of the Shire”. In questa frase il “but” ha valore di “eccetto”: ossia, “terre [la cui esistenza viene riportata] SOLO nelle leggende piu’ vaghe e distanti, ecc.”. Fatica traduce “ben oltre le più vaghe e remote leggende della Contea”, che significa l’opposto. In questo caso la traduzione Alliata/Principe “nominati soltanto dalle più vaghe, lontane e misteriose leggende della Contea”, nonostante l’aggiunta arbitraria di “misteriose”, e’ piu’ fedele all’originale rispetto a quella di Fatica.

    Ci sono altri esempi di scelte discutibili che ho visto altrove, spesso dovute a quello che mi sembra un desiderio del traduttore di cercare “le mot eblouissant”, piuttosto che “juste”. Nel complesso, mi pare che questa nuova edizione italiana sia un’operazione editoriale difendibile, ma che e’ stata in parte sciupata da una certa tendenza di Fatica ad essere troppo “poeta” e non abbastanza “praticante”.

    • È un endecasillabo a minore di settima, cioè con accento sulla quarta, settima e decima sillaba. «Fi / no / a / CHE / per / ver / RA / a / un / gran / SNO / do». Può non piacere, ma è cantabile, una metrica così l’hanno cantata in tanti. Nell’originale di Tolkien, la Walking Song è scritta in «tetrametri giambici»: ta TUM ta TUM ta TUM ta TUM. L’italiano ha parole più lunghe e quindi un tentativo di tradurre mantenendo il settenario – il verso dispari che ha la pulsazione più simile – sarebbe certamente fallito, l’ottonario avrebbe prodotto l’effetto «Corriere dei Piccoli» e in generale i versi pari fanno troppo filastrocca… L’endecasillabo è un’ottima scelta perché è un altro verso classico, ed è quello su cui è incardinata la nostra tradizione.