[A poche decine di chilometri dalla città in cui viviamo, attivamente sostenuta anche da compagne e compagni che conosciamo, è in corso da tempo una delle più radicali ed emblematiche lotte di questi anni: quella delle lavoratrici e dei lavoratori di Italpizza, top player nel settore delle pizze surgelate.
Per le caratteristiche della working class che ne è protagonista – in gran parte donne immigrate da varie parti del mondo – e per gli aspetti toccati dalle sue molte diramazioni – razzismo, violenza contro i migranti, violenza di genere, «decoro», consumo di suolo ecc. –, quest’intricata vertenza è una lotta più «intersezionale» che mai.
Pietro è un compagno di Modena e gestisce il blog miitantduquotidien, dove fa inchiesta e smonta i meccanismi e le retoriche del capitalismo «all’emiliana». Gli abbiamo chiesto di raccontare la storia della vertenza Italpizza dal 2018 a pochi giorni fa. Leggere l’intera sequenza è rivelatore, e permette di comprendere alcuni caratteri della lotta di classe nell’Italia del post-Covid. Buona lettura. WM]
di Pietro – militantduquotidien *
«Giungere ad un punto che è l’ABC dei diritti dei lavoratori, dopo una tale conflittualità, che è stata posta in essere fin dall’inizio dalle aziende in questa città, è un elemento che giudichiamo pericoloso.»
Eleonora Bortolato, sindacalista, 11 dicembre 2018
Se c’è stato un elemento irrinunciabile per gli affari e per gran parte del sistema produttivo del Paese a cavallo fra gli anni Dieci e gli anni Venti del nuovo secolo, è stato senza dubbio il silenzio. Dal caporalato bracciantile nei campi di mezza Italia, passando da Saluzzo a Borgo Mezzanone, dalle morti di Soumaila Sacko e Adnan Siddique, fino ai distretti industriali del Nord, la geografia economica del paese sembra aver seguito grosso modo lo stesso pattern, quello di una filiera agroalimentare di cui si conosce poco o nulla e che sguazza nell’opacità, scaricando tutto il peso della concorrenza sulle spalle dei lavoratori.
Torniamo all’alfabeto, all’ABC, a ciò che nonni e bisnonni conoscevano e ri-conoscevano in termini elementari, nella semplice formula del «No allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo». Da sempre, ovunque si sia ripresentata questa condizione, lo sfruttamento ha viaggiato, giorno e notte, in coppia col suo principale alleato: il silenzio, appunto. L’omertosa apatia del piccolo trambusto quotidiano. È esattamente questo l’ambiente ideale a far correre gli affari e nutrire l’insaziabile sete di profitto: un clima aconflittuale e sostanzialmente privo di qualsivoglia voce critica.
Così può capitare che, nell’Italia del 2020, anche la parola si faccia pericolosa, persino in territori che amano autodefinirsi e autoincensarsi come “progressisti” e “democratici”. Ne è un esempio quel che si legge in un comunicato della Casa del popolo Spartaco di Correggio:
«Ad un anno dalla partecipazione come Casa del Popolo Spartaco, insieme con altre realtà, associazioni, partiti e sindacati, alla campagna di “consumo consapevole” in solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori di Italpizza, ci è stata “recapitata” una querela per diffamazione aggravata, per un video da noi girato che documentava un volantinaggio davanti ad un supermercato.»
Non è la prima volta che Italpizza adisce le vie legali. Nel settembre del 2019, l’Amministratore Delegato dell’azienda Andrea Bondioli aveva querelato per diffamazione lo scrittore – nonché attivista sindacale e redattore di Carmilla – Giovanni Iozzoli.
In un tempo ossessionato dall’immagine può capitare che un ricchissimo player del territorio modenese, abituato a ben altro tipo di pubblicità, possa risentirsi non poco se un branco di sfigati e signori nessuno si mette insieme, armato esclusivamente della parola e della solidarietà, e comincia a far sbiadire un brand che al contrario si vorrebbe sempre lustro e scintillante.
Il rischio è alto: il silenziamento delle voci critiche attraverso l’utilizzo politico della querela. Anche solo lo spiegare o il denunciare con chiarezza ciò che avviene nei propri territori rischia di trasformarsi in una potenziale “diffamazione”, per la gioia di quelli che un tempo venivano chiamati, molto semplicemente, padroni.
Allora, siccome il rischio è alto e alla parola non vogliamo rinunciare, proviamo a ripercorrere insieme tutti i passaggi di una vertenza tra le più radicali e significative di questi anni, sebbene poco conosciuta a livello nazionale o al di fuori del ristretto circolo degli “addetti ai lavori”.
Anche perché, se il fiuto non ci difetta, è altamente probabile che nei prossimi mesi la gestione manu militari di possibili crisi aziendali o di conflitti che toccheranno il mondo del lavoro assuma caratteristiche molto simili alla repressione antioperaia posta in essere in questa vertenza. Una vertenza particolare, dalla quale, seguendo una logica induttiva, si possono ricavare indicazioni di carattere più generale. Italpizza non sarà Fca o l’ArcelorMittal Italia dell’ex Ilva di Taranto ma è comunque una grossa azienda, un’ “eccellenza” del territorio, del cosiddetto Made in Italy e dell’industria agroalimentare italiana. Un «marchio leader in Italia e famoso in tutto il mondo» per le sue pizze surgelate. Un gigante da 127 milioni di fatturato annuo in grado di esportare i propri prodotti in 55 paesi.
I numeri d’altronde parlano chiaro. Come riporta Umberto Franciosi, segretario regionale della Flai-Cgil, sul blog Nuovo Caporalato:
«Italpizza in dieci anni ha incrementato il fatturato da 33.399.415 a 126.281.184 euro, un incremento […] del + 278%; l’utile netto, nello stesso periodo temporale, da 2.218.891 a 7.256.156 euro, un incremento del 227%; mentre l’EBTA da 4.393.657 a 9.011.880 euro, un incremento del 105%. […] Una situazione economica che ha permesso di distribuire, alle società a responsabilità limitata che controllano Italpizza […] dividendi per oltre 35 milioni in cinque anni. Numeri cresciuti con un’occupazione diretta che diminuisce: nei dieci anni presi in considerazione, passa da 110 dipendenti dell’anno 2008 ai 101 del 2018.»
Insomma un’azienda tutt’altro che in crisi, «una storia da favola» come la definisce la stessa Italpizza sul proprio sito.
Proviamo a raccontarla anche noi, questa storia, suddivisa in quattro stagioni.
1. Inverno
Tutto inizia il 28 novembre del 2018 con uno sciopero indetto dal sindacato di base S.I. Cobas… No, wait. Facciamo prima un passo indietro. A fine 2015, al 29 dicembre per l’esattezza, giorno in cui Cgil-Cisl-Uil firmano un accordo con Italpizza per il passaggio del contratto a «Pulizie/Multiservizi».
In principio i lavoratori di questo colosso della pizza surgelata erano assunti direttamente da Italpizza col contratto del settore alimentare. Poi, come spesso accade nei comparti dell’industria alimentare emiliana, sono stati trasferiti, come macchinari qualsiasi, alle cooperative appaltatrici con una variazione contrattuale peggiorativa – CCNL Logistica – e infine, con l’accordo firmato dai sindacati confederali, passano tutti al contratto Pulizie/Multiservizi – che, in teoria, non dovrebbe essere applicato a chi manipola alimenti. Soltanto gli impiegati vengono mantenuti come dipendenti diretti dell’azienda.
Tre anni dopo le cose esplodono. Oltre al problema contrattuale – il contratto da alimentarista tutela molto di più il lavoratore, sia a livello di paga che a livello di orari – c’è quello della flessibilità estrema che vige all’interno dello stabilimento di San Donnino e che rende impossibile ai lavoratori organizzare la propria vita. Stando alle testimonianze delle lavoratrici, infatti, nell’azienda «marchio leader» i turni sono comunicati giorno per giorno in base alle richieste del momento e possono essere annunciati pure all’ultimo minuto, persino la notte stessa, dopo che si è staccato, per rientrare direttamente il mattino dopo con turni che possono così arrivare a un totale di 15-16 ore consecutive.
È per questi motivi che, nel novembre del 2018, un gruppo di 9 donne e 4 uomini impiegati da tempo nelle cooperative Evologica e Cofamo si iscrive al S.i. Cobas. Come spesso avviene in questi casi, la reazione dell’azienda alla semplice iscrizione al sindacato non si fa attendere. Alcune/i ricevono comunicazione di trasferimento in altri cantieri, mentre altre tre vengono lasciate direttamente a casa.
Inizia lo sciopero. È il 28 novembre del 2018 e il presidio davanti ai cancelli viene immediatamente raggiunto da Polizia e Carabinieri, con la Digos che presenzia alla prima trattativa fra iscritti al sindacato e proprietà. Tanto si tratta solo di donne, perlopiù straniere, a chi mai potrà interessare di loro e chi se ne frega se stanno solo chiedendo la corretta osservanza delle leggi e dell’adeguato CCNL!
Dopo le prime promesse di riassunzione, con lo sciopero si ottiene un tavolo di trattativa in Prefettura a Modena, previsto per il 5 dicembre. Ma il presunto tavolo scompare nell’arco di mezza mattinata. Il Prefetto, Maria Patrizia Paba, non intende nemmeno ascoltare i delegati sindacali.
Cominciano a parlare i manganelli e i lacrimogeni, per giorni e giorni gli unici interlocutori che la «Repubblica democratica, fondata sul lavoro» concederà alle lavoratrici e ai lavoratori di quest’azienda.
La sera stessa, infatti, il presidio davanti allo stabilimento di San Donnino viene sgomberato con la forza e gasato col CS – arma chimica bandita pure dalla Convenzione di Parigi. Il sindacato risponde annunciando lo sciopero generale provinciale. La mattina seguente il presidio davanti ai cancelli di Italpizza è affollatissimo. I lavoratori mostrano la quantità di lacrimogeni lanciati su di loro la sera precedente.
Più che uno shock è un copione che si ripete. Qualche anno prima, sempre nel modenese, era toccato alle industrie alimentari del distretto delle carni. Vertenze dure, riassunte anche in un libro dal titolo eloquente: Carne da macello. Storie vere, storie di lotta, di dignità, di operai senza alcuna garanzia contrattuale sulle cui spalle però ricade l’intero peso di settori strategici dell’industria alimentare italiana. È il nuovo «modello emiliano», o meglio, i suoi aspetti meno visibili, di cui non si sente parlare mai.
A onor del vero, della vertenza Italpizza si parlerà eccome, molto più che delle lotte nel distretto delle carni. Ma come se ne parlerà? Sui giornali locali, Gazzetta di Modena in primis, dalle cronache di quanto accade fuori dai cancelli dell’azienda scompare, quasi per magia, la parola «lacrimogeni», rimpiazzata da «fumogeni» – più miti e generalmente utilizzati dai manifestanti, non dalle forze dell’ordine. Le «cariche» invece si trasformano in «scontri» come se, anziché di una vertenza sindacale con motivazioni più che legittime, si stesse raccontando di «guerriglia», di «canaglie» , di «ultras», di teppa del lavoro o di autentici folk devil.
Dopotutto, si tratta perlopiù di lavoratrici e lavoratori stranieri, anche se in Italia da decenni e con i figli nati nel grigio della pianura Padana.
Lo stabilimento di Italpizza, tuttavia, non è ubicato alla periferia di un qualche distretto industriale ma è situato lungo la Vignolese, una delle principali arterie che collegano la città di Modena con la provincia. È difficile ignorare quanto sta accadendo. Così, più roteano i manganelli e i lacrimogeni, più cresce la principale “arma” a disposizione dei lavoratori, quella che si rivelerà ben presto strabiliante per la sorte degli scioperanti: la solidarietà.
«La lotta guidata da queste donne ha trasformato il picchetto in uno sciopero generale provinciale: è il primo sciopero contro il decreto sicurezza da poco convertito in legge. Le donne migranti che stanno bloccando la produzione, respirando lacrimogeni e fronteggiando le cariche della polizia, sfidano infatti apertamente e senza paura i provvedimenti che vietano i blocchi stradali e puniscono chi lotta, minacciando le e i migranti di espulsione.»
Così si apriva una nota di Non Una di Meno Bologna, il primo soggetto, insieme agli attivisti del Guernica di Modena sempre presenti e solidali durante gli scioperi, a schierarsi apertamente al fianco delle lavoratrici di Italpizza.
L’8 dicembre si tiene una «giornata a difesa del suolo», organizzata dal comitato #mobastacemento, che si batte contro le nuove cementificazioni previste in città. All’appuntamento si presentano anche alcune lavoratrici di Italpizza, che descrivono l’atmosfera respirata sia all’interno che all’esterno dello stabilimento. Un ulteriore intreccio di questa vertenza, con appalti e subappalti che toccheranno anche le tematiche ambientali come il consumo di suolo, visto l’imminente ampliamento della fabbrica.
Il movimento femminista e il comitato saranno seguiti a ruota dall’Unione Sindacale Italiana e dall’opposizione Cgil di area «Il sindacato è un’altra cosa».
Quest’ultimo denuncia apertamente il ruolo della polizia nella gestione davanti allo stabilimento spingendosi ad affermare: «cambiano i questori ma la musica è sempre la stessa, la polizia agisce come una novella “agenzia Pinkerton” al servizio dei padroni – pur essendo pagata dalle tasse dei lavoratori, anche dei manganellati…» con riferimento esplicito alle vicende di AlcarUno e all’arresto di Aldo Milani, segretario nazionale del S.i.Cobas.
Davanti ai cancelli, infatti, il margine di trattativa non esiste, non ha cittadinanza. Nella sola giornata di lunedì 10 dicembre, dopo più di una settimana di scioperi e blocchi continui, si contano almeno dieci cariche di polizia e carabinieri, con annesso pestaggio di un giovane lavoratore inerme a terra. Il bilancio della giornata conterà cinque persone soccorse dalle ambulanze per le manganellate, più altre – compresi diversi agenti di polizia sprovvisti di maschere antigas – svenute o crollate a terra per i malori provocati dal gas CS.
A lungo, a chiunque capiterà di passare su via Vignolese, all’altezza di San Donnino, apparirà lo scenario di un’azienda completamente militarizzata: blindati, jeep della municipale, auto di polizia, Digos e carabinieri. Sullo sfondo, il grande marchio Italpizza a troneggiare in prossimità dell’A1. Più avanti, durante l’estate, sarà addirittura necessario alzare il finestrino per non ritrovarsi l’auto piena di gas CS.
Intanto, però, la tenacia delle lavoratrici e dei solidali paga. Martedì 11 dicembre, dopo quasi due settimane di sciopero e sei ore di discussione, viene firmato il primo accordo in prefettura per il reintegro di tutte le tredici iscritte e iscritti al sindacato. Praticamente «l’ABC dei diritti dei lavoratori.»
Quella di Italpizza, tuttavia, è una battaglia che è già andata oltre la semplice vertenza sindacale. In gioco, sul territorio, ci sono la libertà sindacale e la giustizia sociale, tout court. Col decreto Salvini pubblicato in Gazzetta Ufficiale da appena una settimana – decreto che reintroduce il reato di blocco stradale, depenalizzato nel 1999 – lo sciopero a Italpizza si pone anche all’avanguardia delle lotte contro la deriva securitaria e il razzismo istituzionale italiano portato avanti, in questi mesi, dal governo Conte 1.
In città, la politica ha poca voglia di commentare quanto sta succedendo all’interno e all’esterno dello stabilimento. È come se l’intero comparto industriale fosse considerato un corpo separato, una «zona economica speciale», estranea alla comunità, «extracomunitaria» ed extraterritoriale. In aggiunta, il Comune di Modena, ha da poco concesso a Italpizza la possibilità di ampliare lo stabilimento (1750 metri quadrati) in deroga agli strumenti urbanistici reso possibile grazie allo «Sblocca Modena».
Così, se sindaco e assessori stanno in silenzio, è al giovane segretario locale del PD, Andrea Bortolamasi, che viene lasciato il compito di rilasciare dichiarazioni: «i problemi emersi, come quello dell’ordine pubblico, non possono essere risolti dall’ente locale ma devono essere affrontati dal legislatore e del Ministero degli interni [dunque Salvini, N.d.R.]» e che «la vicenda dell’Italpizza non va assimilata ad altre in quanto non siamo di fronte a coop spurie. Italpizza è un’impresa importante del nostro territorio che si sta espandendo e che esporta il prodotto più conosciuto del made in Italy nel mondo, la pizza, e ha scelto Modena per investire e ampliarsi».
E Bortolamasi ha ragione, con Italpizza «non siamo di fronte a coop spurie». Lo scrittore Giovanni Iozzoli è uno dei primi a prendere posizioni forti sulla vertenza. Commentandone gli sviluppi nel suo pezzo “incriminato” afferma:
«Gente organizzata […] non i pirati della logistica con le loro cooperative spurie. Dio solo sa come abbiano convinto la Questura a mettersi sostanzialmente a disposizione dell’azienda come una qualsiasi agenzia di guardie giurate […] a quei cancelli si gioca una partita importante sulla rappresentanza e sui diritti: e […] su questo crinale, è meglio che le truppe armate dello Stato diano una mano agli intrepidi esportatori di pizza e alla benemerita opera di modernizzazione che stanno promuovendo.»
La vertenza apre uno squarcio su quel che è diventata l’industria agroalimentare italiana. Il cosiddetto “Made in Italy” una filiera non più sostenibile, strozzata dai grandi marchi e dalla grande distribuzione che scarica ormai tutti i margini di guadagno sui lavoratori. Dallo sfruttamento al caporalato nei campi ai grandi insediamenti industriali padani, una filiera che spesso si autotutela schermandosi dietro «codici etici» e certificazioni tese a scaricare sul più piccolo responsabilità invece molto più ampie. Un modello produttivo che sembra replicarsi su un unico fattore: la disperata disponibilità indotta dalla precarietà e dalla miseria. Eccola qua, la tanto decantata genialità imprenditoriale italica, ecco il suo segreto.
Come riporta Umberto Franciosi sul blog Nuovo Caporalato anche Italpizza «si è fatta certificare l’appalto dalla Fondazione Biagi nell’anno 2015. Una certificazione che certifica il modello, ma non la sua esecuzione, come riportato nel contratto.» Ed è lo stesso segretario regionale della Flai-Cgil che, analizzando rapidamente il costo di produzione delle pizze surgelate, arriva a concludere: «Appare ancora evidente il ruolo della Grande Distribuzione nel determinare le marginalità all’interno della filiera agroalimentare, così come sembra evidente che Italpizza cerca di ridurre il costo del lavoro per recuperare qualche centesimo di marginalità, ma che comunque diventano milioni di euro d’incremento di fatturato e di utili, come possiamo leggere dai bilanci economici.» Sempre lo stesso Franciosi poi in un’intervista a il Manifesto dichiara: «Il salario e il costo del lavoro è inferiore del 40 per cento: il costo orario per un’azienda che rispetta il contratto dell’industria agroalimentare è di 23 euro, con il multiservizi siamo a 14-15 euro».
Intanto, mentre a Modena la politica locale resta perlopiù in silenzio, la vertenza Italpizza arriva in Parlamento tramite un’interrogazione promossa dalla parlamentare modenese del M5S Stefania Ascari. Alla sua interrogazione risponde il Sottosegretario Alessandra Pesce, che elenca le violazioni amministrative accertate dall’Ispettorato del Lavoro a carico di Evologica e Logicamente, all’epoca società appaltatrici di Italpizza: «variazione d’attività inerente all’estensione del rischio Inail su tariffe e premi; il superamento della durata massima delle 48 ore settimanali di lavoro; il superamento delle 250 ore annue dei limiti di straordinario (ipotesi aggravata)». Il quadro emerso dall’interrogazione, inoltre, include recuperi contributivi per Evologica di «oltre 525mila euro a titolo di contributi previdenziali omessi e oltre 200mila euro di sanzioni civili e interessi». Inoltre, la società «risultava avere indebitamente fruito di benefici di esoneri contributi triennali e biennali».
Passano le feste e inizia un nuovo anno, il 2019. Il 20 gennaio è la data fissata, in base all’accordo strappato in Prefettura l’11 dicembre, per il reintegro di tutte le tredici lavoratrici e lavoratori colpiti da licenziamenti, sospensioni o da quelli che hanno tutta l’aria di essere trasferimenti punitivi. Intanto in una nota il S.i.Cobas fa sapere:
«Nelle stesse ore in cui a Roma si svolgeva l’incontro e il parlamento veniva informato degli sviluppi, alla presenza, nel mero ruolo di spettatori della delegazione di lavoratori, nel paese reale, dentro ad Italpizza continuavano ad essere poste in atto condotte vessatorie e discriminatorie verso le lavoratrici iscritte al sindacato e protagoniste di questa vertenza. Rientrate finalmente in azienda sono state allontanate dagli altri lavoratori e dalle mansioni che in precedenza svolgevano. Mandate a pulire il tetto dello stabilimento a 20 metri di altezza, senza alcuna protezione, guardate a vista da un caporale della cooperativa.»
Sono passate poche settimane e l’accordo siglato in Prefettura sembra già carta straccia, dunque si torna a protestare. Della vertenza parla anche il Fatto Quotidiano, dove il coordinatore del sindacato intercategoriale Enrico Semprini dichiara:
«i patti non sono stati rispettati. Il risultato è una vendetta costante nei confronti dei lavoratori. Più che l’adeguamento del contratto alle mansioni svolte si è verificato l’opposto, con le lavoratrici che sono state riammesse ma allontanate dalle mansioni abituali, mandate a fare le pulizie e a spalare la neve nei piazzali e sul terrazzo per isolarle dai colleghi.»
Ancora una volta la tenacia paga: tutte le lavoratrici vengono riassunte o tornano alle loro mansioni, mentre il 9 febbraio un grande corteo attraversa la città. Il S.i.Cobas e tutte le realtà solidali che si sono strette attorno a questa lotta sfilano lungo la via Emilia, nel “salotto buono” di Modena, a testa alta come solo le operaie e gli operai che hanno appena vinto una battaglia durissima sanno essere.
Si tratta per la maggior parte di persone di origine straniera, pienamente consapevoli della profonda precarietà esistenziale che l’attuale organizzazione della società ha loro riservato. Il perenne ricatto del permesso di soggiorno le condanna ad un girone burocratico che gli italiani «di sangue» non conoscono e spesso non immaginano. L’unione tra l’orgoglio e la volontà di lottare fa il miracolo ed è come se una vertenza sindacale, ad un tratto, espandesse il proprio respiro e si trasformasse armoniosamente in una vertenza sociale.
«Ormai i lacrimogeni sono come Chanel». «Sì, siamo abituate». «Profumo di lotta»
2. Primavera
La vertenza in verità è in stallo perché l’accordo vero, quello siglato in Prefettura l’11 dicembre, non riguardava solamente il reintegro delle tredici lavoratrici ma interessava anche festività, riposi compensativi e la cessazione immediata dell’odiosa e illegale pratica del lavoro a chiamata. Da ultimo – ed era questa la vera posta in palio – l’accordo prevedeva l’istituzione di un tavolo sindacale in cui valutare le condizioni contrattuali, retributive e contributive di ciascun lavoratore. Tavolo che non si aprirà mai per via del rifiuto categorico, da parte dell’azienda, di trattare col S.I. Cobas. Rifiuto che nega alla base ogni possibilità di soluzione della vertenza.
Dopo il primo ciclo di scioperi, cooperative e Italpizza cercano così di mettersi al riparo proponendo un nuovo accordo firmato questa volta solo dalla UIL Trasporti. Il gioco però non funziona e l’accordo, che deve ancora essere votato, riceve una sonora bocciatura nelle votazioni fra i lavoratori.
Dal 4 marzo inizia un nuovo ciclo di scioperi al quale si risponde alla solita maniera: coi manganelli e i lacrimogeni. Secondo alcuni osservatori, il ricorso a questi ultimi davanti ai cancelli di Italpizza batterà ogni record italiano, Val Susa esclusa.
Si va avanti così fino all’8 marzo, quando una grande partecipazione e un’ampia solidarietà investiranno nuovamente le lavoratrici e i lavoratori in lotta.
Il 14 marzo un nuovo incontro in Prefettura con i rappresentanti di Cofamo e Evologica (Italpizza è assente nonostante la convocazione formale da parte del Prefetto) produce l’ennesimo nulla di fatto. Sui contratti la piattaforma del S.I. Cobas in questo periodo coincide con quella della CGIL ma Italpizza sostiene invece di avere già raggiunto un accordo coi sindacati confederali. In realtà si tratta dell’accordo con la sola UIL Trasporti, accordo già bocciato dalla maggioranza dei lavoratori.
Lo stesso copione del nuovo incontro in Prefettura si ripete un paio di mesi dopo, il 15 maggio, a Roma. Questa volta, infatti, il tavolo si svolge presso il Ministero del Lavoro, convocato dal Sottosegretario Claudio Cominardi, ma l’azienda non si presenta, e come lei la Confindustria e la Uil. Come nota Iozzoli:
«Italpizza sta diventando metafora del modello emiliano 4.0: uffici stampa, presenza social, adesione a tutti i blandi protocolli che rimandano a una qualche memoria concertativa nella ex Emilia rossa. E operai sfruttati, precarizzati, mortificati e gestiti manu militari. In sovrappiù l’azienda si permette anche di disertare una convocazione presso il Ministero del Lavoro, perché non gradisce al tavolo la delegazione Cobas: una specie di dichiarazione d’indipendenza dalle vecchie pastoie sottogovernative, una rivendicazione dell’autonomia del comando d’Impresa. Abbiamo il grano, i programmi di investimento, gli accordi sul piano regolatore: non rompete i maroni sulla forza lavoro – quella è roba nostra. Per un sottosegretario Cinquestelle che convoca tavoli, c’è un sottosegretario leghista che manda la polizia. È il governo dei tempi moderni.»
Nel frattempo, si è andati avanti con la repressione e l’intimidazione. Come riportato in questa sintesi della vertenza:
«Nella notte del 9 maggio 2019 (anniversario dell’omicidio di Peppino Impastato) viene incendiata l’automobile di uno dei delegati sindacali S.I. Cobas in azienda: l’atto è ancora più spregevole per il fatto che, a pochi metri, riposa la moglie del delegato, incinta al nono mese, che partorirà pochi giorni più tardi. L’azienda offre in prestito un’automobile “per recarsi al lavoro” al delegato, che la rifiuta. Il sindacato gliene offre un’altra e, grazie alla solidarietà e all’autotassazione degli iscritti, gli viene consegnata la somma necessaria a comprarne un’altra. Lo stesso giorno la Procura di Modena emette 35 denunce, con accuse confezionate in maniera più grave ai danni proprio dei delegati sindacali. Ne seguiranno altre decine, che al momento sono difficilmente quantificabili perché vengono notificate in maniera scaglionata ogni settimana.»
A maggio 2019, sette mesi dopo l’inizio della lotta, ricominciano gli scioperi e ricomincia anche la sagra del manganello e del candelotto. A fine mese, in città ci saranno le comunali e anche Carolina Coriani, giovane candidata sindaca della lista Modena Volta Pagina, si presenta davanti ai cancelli dell’azienda con uno striscione in solidarietà alle lavoratrici in lotta. Nemmeno questo è consentito nella democraticissima Modena: il pericoloso striscione viene prontamente sequestrato dalla Digos.
Alle proteste, a questo giro, si unisce anche una Cgil consapevole dell’importanza della vertenza e, per una volta, anche il sindacato che un tempo fu di gente come Di Vittorio, dichiara una settimana di sciopero contemporaneo a quello del S.I. Cobas.
Gli scioperi però a Italpizza sono duri e i picchetti si concentrano sul blocco dei camion che entrano ed escono dallo stabilimento. Se non entrano le materie prime si blocca la produzione, mentre se non escono le pizze si interrompe il fatturato. In ogni caso il danno economico per l’azienda è elevato. Ma non è una passeggiata nemmeno per gli scioperanti, si rischia molto e, oltre alle botte della celere e ai gas lacrimogeni, il pericolo è anche quello legato ai mezzi pesanti. A poco più di 100 km dal piazzale di Italpizza, a Montale di Piacenza, nel 2016, il sindacalista dell’Usb Abd Elsalam Ahmed Eldanf veniva travolto e ucciso da un camion durante un picchetto.
Ma torniamo a noi. Lo sciopero del S.i. Cobas prevede un picchetto permanente giorno e notte, per l’intera settimana che va dal 20 al 26 maggio. Al terzo giorno consecutivo di sciopero la repressione è feroce e nonostante l’indicazione dei delegati sindacali CGIL di non partecipare ai blocchi, la maggior parte dei lavoratori iscritti alla Camera del lavoro solidarizzano coi colleghi opponendosi alle cariche e ai lacrimogeni. Come riportato sempre nel riassunto della vertenza: «Il 22 maggio il coordinatore regionale e membro del direttivo nazionale del S.I. Cobas, Simone Carpeggiani, viene preso da 6 agenti che lo picchiano e, immobilizzato a terra, gli sferrano una ginocchiata al petto che gli procurerà la frattura di 4 costole.» Lo stesso giorno viene inoltre fermato e portato in Questura Assouli Abdesamad, storico delegato del S.I. Cobas di Modena che verrà poi rilasciato in serata. Di quella giornata il S.I. Cobas scrive:
«Oggi è il terzo giorno di sciopero congiunto S.I. Cobas – CGIL davanti ai cancelli di Italpizza, con presidio permanente giorno e notte: delle 5 linee di produzione dell’azienda soltanto una sta funzionando, mentre il reparto di confezionamento è ridotto al 20% della capacità. Oltre alle lavoratrici e lavoratori davanti ai cancelli altre centinaia si sono astenute dal lavoro. […] Per aggirare lo sciopero Italpizza tenta poi di far entrare dei lavoratori esterni in sostituzione di quelli davanti ai cancelli, pratica proibita dalla legge italiana come pratica antisindacale: alcuni addetti aprono un cancello provvisorio sul retro dello stabilimento, mentre in uno stradello adiacente i lavoratori esterni aspettano che il padrone della cooperativa li venga a prendere (foto sotto). Ma anche qui il l’esempio della lotta si estende: dopo aver parlato con gli altri operai i lavoratori esterni decidono di unirsi allo sciopero e di non entrare ad Italpizza!»
La vertenza finisce anche su Jacobin, dove si elogia un’unità sindacale che sul campo, purtroppo, è già acqua passata. La segreteria della Cgil, infatti ,come si può leggere in questa ricostruzione, nella mattinata del quarto giorno di sciopero decide di sospendere unilateralmente la mobilitazione,
«aprendo un tavolo di trattativa con azienda, Confindustria e centrali cooperative, con la esclusione esplicita del S.I. Cobas – in aperta contraddizione con il primo punto rivendicato: la “libertà sindacale all’interno del sito”. All’interno della Cgil modenese circola un appello firmato da decine di rappresentanti aziendali che chiede di non fare passi indietro e, anzi, di rilanciare la lotta al fianco del S.I. Cobas, proclamando lo sciopero generale. Lo scopo della trattativa separata con la parte padronale è quello di “normalizzare” la situazione: ovvero di estromettere il S.I. Cobas dalla vita sindacale e politica della città, e far passare il pericoloso precedente che sia possibile negare ogni agibilità ad un sindacato scomodo.»
Il 31 maggio, giorno in cui si svolge il primo tavolo separato tra sindacati confederali, aziende, Legacoop, Confcooperative e Confindustria, è giorno di sciopero e campeggio davanti ai cancelli. Alla sera, dopo un’intensa giornata di lotta, il piazzale nel campo di strada Gherbella ospita una splendida cena di solidarietà e raccolta fondi, a cui partecipano in tante cittadine e cittadini modenesi.
Si attiva una rete di solidarietà che farà del volantinaggio nei supermercati la sua arma principale, nel tentativo e denunciare quale conflitto ci sia dietro quelle pizze inscatolate in vendita nei frigoriferi della grande distribuzione. Ci saranno volantinaggi nei supermercati di Modena, Parma, Bologna, Padova, Correggio, Carpi, Napoli, Milano, Piacenza, mentre cene di raccolta fondi per sostenere le famiglie degli scioperanti verranno organizzate dal Centro Documentazione Iskra di Carpi, Stella Nera di Modena, Casa del Popolo Spartaco di Correggio, Collettivo Il Picchetto di Padova, e da Non Una Di Meno Modena. Ed è proprio a causa di uno di questi volantinaggi nei supermercati che a Casa Spartaco viene “recapitata” la famosa querela per diffamazione aggravata da parte di Italpizza con la quale abbiamo aperto questa ricostruzione.
Se da un lato, la solidarietà e la campagna di pressione sull’azienda, portata avanti anche attraverso iniziative di sensibilizzazione al consumo consapevole, comincia a prendere piede, dall’altro la repressione non conosce sosta. A inizio maggio il Questore di Modena firma un foglio di via dalla città, della durata di due anni, nei confronti di una sindacalista del Si Cobas. Le motivazioni sono significative: la sindacalista avrebbe indetto manifestazioni non autorizzate (scioperi) «nel corso delle quali i partecipanti avrebbero attuato un blocco merci». A fine giugno il Tar di Bologna annulla il foglio di via con motivazioni estremamente chiare, condannando anche il Ministero dell’Interno a pagare 2 mila euro di spese processuali.
Ma non è certo finita qua. Le prime quattro denunce a livello nazionale per il reato di “blocco stradale” appena reintrodotto del Decreto Salvini (con pene fino a sei anni di carcere) vengono distribuite proprio durante la vertenza Italpizza. Il 19 giugno davanti ai cancelli dell’azienda, in una situazione del tutto tranquilla, un sindacalista, Marcello Pini, viene preso, tenuto per il collo dai carabinieri e minacciato. La giornata seguente, il 20 giugno, è ancora più dura. Citiamo dalla sintesi della vertenza:
«le cariche si rivolgono per la prima volta in maniera decisa contro le donne – operaie e migranti – che da mesi animano lo sciopero. Una lavoratrice viene isolata e colpita ripetutamente, fino a cadere a terra. Verrà portata in ospedale ancora in stato di incoscienza. Nel frattempo nel parcheggio poco distante qualcuno sfonda il finestrino dell’auto di un iscritto Cobas. Poco dopo un dirigente della FIOM che passa di lì in macchina salutando con il segno della vittoria, viene inseguito in moto e multato. Una delegazione di lavoratrici e lavoratori si sposta a quel punto alla sala consiliare del Consiglio Comunale, riunito per la prima volta dopo lo elezioni che hanno riconfermato il mandato al sindaco PD Muzzarelli. Quest’ultimo durante il lancio della sua campagna elettorale, alla domanda su quale posizione avesse rispetto alla vicenda Italpizza, aveva dichiarato: “Io sono con i lavoratori, ma contro i Cobas”.» (Qui le videointerviste di quella giornata.)
In Consiglio Comunale una delegazione di lavoratrici e solidali espone uno striscione: «La polizia picchia i lavoratori! Solo omertà dalle istituzioni.». A rompere l’indifferenza surreale del Consiglio ci pensa il sindacalista Simone Carpeggiani che a un certo punto sbotta e si mette a battibeccare col presidente Fabio Poggi interrompendo la seduta: «Un Consiglio di sinistra questo dovrebbe essere? Ma quale consiglio di sinistra! Allora cosa diciamo a questi lavoratori, non sono invisibili. Sono invisibili secondo voi? Mi dia una risposta.». Forse l’istante più alto e genuino dell’intera consiliatura da poco trascorsa. Lavoratrici e solidali verranno poi allontanati dagli agenti della municipale su esplicita richiesta del presidente Poggi.
3. Estate
Il 27 giugno, a una settimana esatta dalla protesta dei lavoratori in consiglio comunale e, quasi in contemporanea, da un altro intervento in Parlamento dell’onorevole Stefania Ascari, la situazione repressiva si aggrava ulteriormente (qui un video). Da una settimana Italpizza è di nuovo un’azienda militarizzata, con la celere che staziona fissa davanti ai cancelli e la Digos che presidia la situazione dal tetto dello stabilimento.
L’aria è tesa. Si legge di granate al gas Cs già terminate alle dieci di mattina con gli agenti “costretti” a utilizzare i lacrimogeni che si lanciano con i fucili. Si legge di due delegati del SiCobas che vengono presi, ammanettati e portati in Questura senza che nessun giornale cittadino ne dia notizia mentre la pagina Facebook del S.i.Cobas posta le foto di carabinieri in fila al Pronto Soccorso pronti a farsi refertare.
Nel mentre l’azienda dai «Valori genuini» (come riportato sul loro sito) si dà allo shopping: acquisisce un altro stabilimento produttore di pizze surgelate, l’Antico Forno a Legna di Mortara (PV) e comincia a spendere in sponsorizzazioni per migliorare un’immagine logorata dalle proteste. In questo periodo, sul sito d’informazione locale online La Pressa comincia a campeggiare costantemente la pubblicità di Italpizza e nasce l’improbabile pagina Facebook «No Cobas», che secondo alcuni “addetti ai lavori” sarebbe collegata all’ex consigliere comunale Antonio Montanini. Su Linkedin, mesi dopo, alla voce Impiego Montanini scriverà «Communication and Public Relations Manager presso ITALPIZZA SPA».
Italpizza prova anche a sponsorizzare il Festival per i diritti umani «Voci dalla città», sostenuto da Amnesty International e da altre sigle sindacali, una sorta di brandwashing estivo, ma una lettera di denuncia agli organizzatori dell’evento fa annullare la sponsorizzazione. L’azienda si inserisce come main sponsor delle piazze di Radio Bruno Estate nelle città di Modena, Prato, Cesenatico e Mantova, e qui non ci sono lettere che tengano, contano i denari, contano eccome, nonostante verrebbe quasi da chiedersi come possano essere considerati esempi di pubblicità positiva certi spettacoli.
Il 5 luglio, nella sede di Confcooperative, Cofamo e Evologica (le due coop appaltatrici dei servizi di pulizie, logistica e farcitura) trattano coi sindacati confederali escludendo l’unico sindacato che non aveva firmato il famigerato accordo del dicembre 2015 e per primo si era battuto per un ritorno al contratto alimentare. In realtà questo era già successo il mese precedente, quando la triade Cgil, Cisl e Uil si era accordata con Italpizza per l’avvio di una contrattazione di sito che escludesse di fatto il sindacato intercategoriale Cobas.
Un voltafaccia, quello della Cgil, maldigerito dal S.i.Cobas il quale affermerà:
«Ricordiamo che i primi due punti della piattaforma di rivendicazioni della CGIL, per i quali è stato proclamato lo sciopero di maggio, erano la “libertà di parola” e la “libertà di associazione sindacale”. Chiediamo quindi: è giusto che venga firmato un accordo in cui è prevista la libertà sindacale solo per alcuni, ma con l’esclusione dei lavoratori del S.I. Cobas? […] Il modello Italpizza rischia di essere il precedente per l’abbassamento generalizzato dei diritti e dei salari, a Modena e non solo. Per quale motivo industrie come Barilla, Buitoni, Pavesi, Antico Forno, Valpizza, Cameo e Nestlè dovrebbero continuare ad applicare il contratto alimentare, quando Italpizza dimostra che è possibile applicare il contratto di pulizie ed avere persino l’appoggio dei sindacati?»
Il 17 luglio, dopo più di nove mesi passati davanti ai cancelli di Italpizza, a seguito di un tavolo lunghissimo (15 ore di trattativa), dal quale tuttavia era escluso il sindacato che quella vertenza l’aveva cominciata e portata avanti con determinazione, viene sottoscritto un accordo fra l’azienda e i confederali che prevede anche la rinegoziazione del contratto.
Nove mesi di lotta durissima per fare il giro dell’oca, in pratica, e tornare (forse) alle condizioni di partenza di sette anni prima.
A spiegarlo, ancora una volta, è una breve nota di commento il S.i.Cobas:
«il Sistema-Modena, quel sistema in cui politica, istituzioni, caporalato industriale e malavita si intrecciano fino a diventare indistinguibili, è stato piegato dalla forza e dalla determinazione della lotta. Senza scioperi, senza blocchi delle merci e senza la vasta campagna di solidarietà, Italpizza e Confindustria mai avrebbero concesso alcun diritto ai lavoratori. Ancora una volta viene dimostrato come “solo la lotta paga”. Si tratta invece di una vittoria sprecata dal punto di vista sostanziale: in pratica nel 2022 una parte dei lavoratori tornerà alle stesse condizioni contrattuali sottopagate del 2015 (il livello minimo Alimentare), prima dell’accordo truffa firmato sempre da Cgil-Cisl-Uil che aveva fatto passare tutti al contratto Pulizie/Multiservizi. La restante parte dei lavoratori manterrà il contratto di Pulizie o avrà il livello minimo della Logistica. In termini retributivi significa che invece dei 450 euro lordi mensili che dovevano essere riconosciuti subito, si arriverà in 3 anni ad averne appena 100, e solo per una parte degli addetti. Il nostro sindacato rigetta infine ogni accordo nel quale vengano divisi i lavoratori, come in questo caso: chi lavora nell’industria alimentare deve avere il contratto dell’industria alimentare, senza ulteriori distinzioni, così come ottenuto grazie alle lotte nel distretto carni.»
Insomma, una battaglia “vinta” ma chi per primo si è battuto davanti ai cancelli di quell’azienda non vota l’accordo. Il 30 e 31 luglio, dentro lo stabilimento di San Donnino si vota, come riporta Massimo Franchi su il Manifesto:
«954 aventi diritto, 610 votanti, 535 favorevoli, 66 contrari, 4 schede bianche, 5 schede nulle. I favorevoli sono quindi l’88% circa dei votanti. Si Cobas – ora con 50 iscritti, scesi per il clima di terrore instaurato dall’azienda, ha chiesto di non votare ma non ha fatto campagna contro. La vertenza si è quindi chiusa con un paradosso: chi ha portato avanti la protesta non ha partecipato alla trattativa e non ha firmato l’accordo. “Per noi è un accordo al ribasso – spiega Eleonora Bortolato del Si Cobas – . Siamo contro lo spezzettamento tra lavoratori di serie A con il contratto alimentaristi ma nel 2022 e lavoratori di serie B. Furono Cgil, Cisl e Uil dei trasporti nel 2015 a far passare i lavoratori delle coop al multiservizi. Ora invece noi abbiamo dei fogli di via per 9 dei nostri delegati, ma il 27 luglio abbiamo vinto il primo ricorso”, spiega.»
Il primo agosto la conclusione della vertenza sbarca su Internazionale che con un bellissimo pezzo della giornalista Annalisa Camilli, riassume la vertenza facendola conoscere a una fetta di opinione pubblica leggermente più ampia.
Che l’accordo firmato con la triade confederale sia estremamente fragile e una sorta di “tregua armata” lo sanno tutti. In una bella intervista di Massimo Franchi su il Manifesto Ruslana Stepaniuk ripercorre la vertenza con queste parole:
«Hanno iniziato a parlare male di noi: che eravamo “vandali”, “cattivi”, che avremmo fatto “chiudere la ditta». «Lo scorso inverno abbiamo iniziato i blocchi. È stata dura. Peggio che lavorare. Ma quando capisci che ti fregano, che ti trattano come una schiava, la forza la trovi per stare al picchetto notte e giorno.
[…] Sono stata picchiata dalla polizia: manganellate, strattoni quando non facevamo passare i camion. Denunciata per resistenza e portata in Questura perché non avevo i documenti. Anche mio marito che è venuto ad aiutarci è stato picchiato.
[…] Io sinceramente non posso dire che abbiamo vinto. Sì, le cose miglioreranno. Ma finché non vedrò il nuovo contratto e i soldi – che poi sono 580 euro lordi, solo la metà netti – non dirò che va meglio. Avremo vinto veramente quando tutti avranno il contratto degli alimentaristi. Quel giorno sì che festeggeremo».
Nel frattempo cade il governo gialloverde. È settembre e Matteo Salvini si schioda finalmente dalla poltrona del Ministero degli Interni e anche nella piccola città dei giusti e dei moderati sono in tanti a festeggiare. Sono veramente pochi però a rendersi conto che, sul territorio, una buona fetta della battaglia contro il fascioleghismo, contro un discorso pubblico sempre più feroce verso gli immigrati e un razzismo istituzionale di Stato sempre più pervasivo, si è giocata proprio lì a pochi chilometri, davanti ai cancelli di un’azienda alimentare, non solo sulla Sea Watch della comandante Carola Rackete.
Il 9 febbraio a Modena, dopo la prima vittoria per il reintegro delle lavoratrici, durante il corteo per la libertà delle lotte e contro la repressione, lungo la via Emilia veniva srotolato un lungo striscione «Mai più lager. Né in Emilia Romagna né altrove», contro l’apertura del Cpr in città. Antirazzismo reale e non di facciata. Dal furgone in testa al corteo interveniva Madalina, compagna romana e attivista rumena dei Blocchi Precari Metropolitani che lo Stato italiano avrebbe voluto deportare in Romania (paese dell’area Schengen) perché ritenuta «socialmente pericolosa» dato (come scritto testuale dalla Questura di Roma) «il suo coinvolgimento nelle lotte sociali, sintomo di non integrazione nella società civile». Si sente sempre dire che occorre «riunificare le lotte»? Ecco, nel suo piccolo, questa vertenza l’ha fatto senza tanti discorsi, quasi come un legame chimico covalente, come tante piccole molecole che non possono fare altro se non unirsi.
Piccole comunità resistenti, legate fra loro da un filo sottile ma sempre pronto a essere teso, comunità solidali che per l’Italia svolgono lo stesso lavoro essenziale e imprescindibile dell’acqua, erodendo lentamente e levigando le sofferenze e l’orizzonte di un possibile avvenire. Piccole infrastrutture solidali che ricreano il territorio, che si fanno e diventano territorio.
È per questi motivi che spesso la repressione punta gli occhi su di loro, come capitato recentemente anche ai compagni di Casa Spartaco.
4. Autunno
L’autunno del 2019 si apre con la repressione. Cambiano i governi ma la mano dello Stato sembra essere sempre la stessa. Il Tar regionale questa volta conferma gli otto fogli di via emanati a maggio dal Questore di Modena Maurizio Agricola nei confronti di altrettanti attivisti sindacali di Bologna per le proteste davanti a Italpizza.
Tracciare un bilancio complessivo della repressione dispiegata durante la vertenza Italpizza è faccenda alquanto complicata. Nove fogli di via, tre arresti, centinaia e centinaia di lacrimogeni più un numero imprecisato di denunce sono solo lo sfondo dell’ennesimo conflitto sociale affrontato esclusivamente come un problema di ordine pubblico.
Dopo l’accordo di fine luglio e la “copertura” da parte dei sindacati confederali al sostanziale status quo, in azienda la situazione sembra reggere. Il 25 ottobre però, nella giornata di sciopero generale nazionale indetta dal S.i.Cobas, il piazzale davanti ai cancelli dell’azienda torna a riempirsi. Due striscioni vengono appesi lungo la rotonda fra strada Gherbella e via Vignolese: «Un’azienda, un contratto» e «Muzzarella (Muzzarelli è il sindaco di Modena) complice dello sfruttamento dei lavoratori a Modena».
Intanto, da circa un mese, si vocifera dell’intenzione di Italpizza di cambiare appalto e di trasferire, dall’1 dicembre, circa 250 lavoratori addetti alla logistica interna, più altri 40 addetti alle pulizie e al deboxing, rispettivamente di Cofamo ed Evologica a una nuova società appaltatrice, l’Aviva Spa di Andrea Fiorini. La cosa preoccupa anche i sindacati confederali sia per quanto riguarda il Tfr dei lavoratori generati dal cambio d’appalto sia per il famoso il cambio di contratto CCNL da Pulizie-Multiservizi a Logistica. Invece il presidente di Confindustria Emilia Valter Caiumi si esprime così: «Il cambio di appalto nel sito di Italpizza era già stato deciso e previsto, forse non c’era neanche bisogno di andare sui giornali. Se guardo tutto quello che ha costruito Italpizza in questi anni, basta considerare i numeri, dico che è veramente un’impresa da tenere stretta nel territorio. Non dico da proteggere, perché le regole vanno rispettate, ma sicuramente da accompagnare verso la crescita.»
Il 30 ottobre Cgil, Cisl e Uil annunciano lo stato d’agitazione: sciopero di un’ora con assemblea! «Ma l’assemblea non è retribuita al lavoratore?! Allora perché farla con un’ora di sciopero facendola pagare ai lavoratori e non all’azienda?!» obietterà Simone Carpeggiani del S.i.Cobas in una nota su Facebook. L’assemblea, composta da circa un centinaio di lavoratori riuniti davanti ai cancelli dell’azienda decide per un ulteriore sciopero (8 ore questa volta) previsto per lunedì 4 novembre.
Due giorni dopo si tiene il primo tavolo fra confederali e Italpizza. Il timore è che, con il cambio d’appalto, venga superato l’accordo siglato per l’applicazione del contratto degli alimentaristi entro l’1 gennaio 2022. Cgil, Cisl e Uil inoltre chiedono la garanzia, nero su bianco, del pagamento del Tfr durante il cambio d’appalto.
Il 10 novembre il “problema” Italpizza sbarca su Rai3, nella trasmissione condotta da Lucia Annunziata, Mezz’ora in Più, il S.i.Cobas non lo si nomina nemmeno, ma Eliana D’Addato della Cgil spiega che «Il problema è che 900 lavoratori su 1000 di Italpizza sono in appalto».
A metà novembre viene siglata un’«ipotesi di accordo»: continuità occupazionale per il cambio d’appalto, spettanze arretrate, ferie e permessi non goduti verranno liquidati entro il gennaio 2020, mentre il Tfr entro il marzo 2020. L’accordo va a completare quello già siglato in luglio. Obiettivo 2022, quando, in teoria, si dovrà passare da 900 lavoratori in appalto a soli 300 addetti alle attività logistiche (CCNL logistica), mentre i rimanenti 600 addetti alla produzione saranno assunti da Italpizza con il contratto nazionale dell’industria alimentare. Il S.i.Cobas non festeggia e si smarca dall’accordo inviando anche una diffida all’azienda contro possibili ripercussioni sui suoi iscritti.
L’11 dicembre il collettivo artistico Nomissis installa, nella rotonda davanti all’azienda, un’opera dal titolo eloquente – «Ci sono pizze indigeribili» –, pubblicando poi le foto sul proprio sito. L’opera, evidentemente troppo scomoda, viene prontamente rimossa da Digos, Polizia Municipale e tecnici del Comune già dalla prima mattina per poi essere posta sotto sequestro all’interno degli Uffici di Polizia Giudiziaria.
5. Oggi
Torna l’inverno poi arriva il Covid-19. La situazione è ovunque assai complicata. A Modena, il regime imposto dallo stato d’emergenza assume immediatamente le forme della repressione antioperaia e antisindacale. Del resto, pure col nuovo governo, i «decreti sicurezza» di marca Salvini non sono stati di certo abrogati, vista la loro utilità nel colpire le lotte nella logistica e nei settori più conflittuali del mondo del lavoro.
Il 10 marzo, all’Opas di Carpi (ex Italcarni) muore stritolato da un nastro trasportatore un lavoratore iscritto al S.i.Cobas. Il giorno seguente i suoi colleghi scioperano davanti all’azienda. Vengono subito identificati e fatti sgomberare dalla Digos. Saranno denunciati in otto, per assembramento, in base a quelle stesse norme anti-Covid che valgono per gli operai che protestano per una morte sul lavoro ma che sembrano bloccarsi irrimediabilmente davanti alle porte delle aziende. Ricordiamo che il protocollo d’intesa per la sicurezza negli ambienti di lavoro, il quale non farà riferimento ad alcuna sanzione per le aziende, verrà firmato da governo e sindacati confederali solo il 14 marzo.
Tre giorni dopo, il 13 marzo, davanti all’Emiliana Serbatoi di Campogalliano vengono arrestati e condotti in Questura 8 lavoratori più il coordinatore del S.i.Cobas “colpevoli” di scioperare. Come se l’articolo 40 della Costituzione fosse stato sospeso all’improvviso. Col carcere di Modena inagibile per via della recente rivolta, costata la vita a 9 detenuti, saranno tutti rilasciati e denunciati per violazione dei dpcm, violenza privata e manifestazione non autorizzata.
Oltre alla repressione, però, c’è anche il virus. Un po’ come capiterà in seguito a Bologna, col focolaio nel magazzino Bartolini, è il S.i.Cobas a denunciare pubblicamente casi di Covid-19 all’interno dello stabilimento. Come riportato in un comunicato del sindacato datato 20 marzo, infatti:
«In queste ore sono state confermati casi di lavoratori positivi al CoVid19 ad Italpizza, AlcarUno ed altre aziende in cui è presente il nostro sindacato.In queste aziende si ammassano trecento persone a turno, gomito a gomito, che lavorano e confezionano prodotti alimentari da inviare direttamente sui banchi dei supermercati. Si segnalano sanificazioni insufficienti, protocolli di sicurezza approssimativi ed arbitrari, minacce per chi chiede maggiori tutele. In base ai decreti del governo non è previsto alcun controllo sulle industrie, anche dopo che siano stati confermati casi positivi al tampone.»
L’azienda replica mettendo in funzione il suo ufficio Relazioni esterne, quello che vede come responsabile il già citato ex-consigliere comunale Montanini. Italpizza dona un ecografo per la terapia intensiva del Policlinico di Modena, offre (a mezzo stampa) venti posti di lavoro a chi ha dovuto chiudere causa lockdown, consegna carichi di pizze alla Croce Rossa Italia, alla Caritas di Bergamo e a vari ospedali italiani. Il 31 marzo negli stabilimenti di Modena e Pavia – segnale che l’acquisizione dell‘Antico Forno a Legna di Mortara è già realtà consolidata – si annuncia, a mezzo stampa, che gli operai si fermeranno per un minuto in commemorazione delle vittime del coronavirus.
Il 28 maggio a Modena, a margine di un’operazione antidroga, viene arrestato solo perché stava filmando la scena col cellulare il sindacalista Marcello Pini, uno dei protagonisti della vertenza Italpizza. Lo stesso che l’anno prima era stato preso dai carabinieri, afferrato per il collo e minacciato davanti ai cancelli dello stabilimento di San Donnino. Oltre all’arresto di Marcello, la polizia fa irruzione nella sede del sindacato identificando in maniera intimidatoria tutti i presenti.
Nei giorni successivi, all’episodio viene (stranamente) concesso ampio spazio sulla stampa locale. Il fatto è grave ma per la credibilità della stampa della città, dopo la vicenda dell’arresto di Aldo Milani, chiudere ancora entrambi gli occhi o voltarsi da un’altra parte risulterebbe estremamente sconveniente, squalificante. Il coordinatore del sindacato della città Enrico Semprini, sulla Gazzetta di Modena definirà così la vicenda: «è inaudita: mai è accaduto, se non nel Ventennio, che venissero fatte irruzioni all’interno di una sede sindacale», mentre l’avvocato del S.i.Cobas Marina Prosperi denuncerà la Questura di Modena per arresto arbitrario, invasione illegittima di un ufficio privato e per 613bis (reato di tortura), dato che Marcello afferma di essere stato denudato e umiliato durante il trattenimento in Questura.
Il fatto è grave, l’irruzione della polizia all’interno di una sede sindacale è un’azione che attiene direttamente alla sfera della democrazia. Nonostante ciò, la Cisl non commenta l’accaduto, la Uil parlerà di «un fatto un po’ anomalo» e la Cgil si limiterà a dichiarare, per bocca del suo segretario cittadino Morena Gozzi che «una sede sindacale, da sempre, [è] un presidio di democrazia e libertà e come tale [va] preservato».
A questi fatti si aggiunge la querela «per diffamazione aggravata» denunciata da Casa Spartaco nel suo comunicato. Ma sia la politica ufficiale, sia la triade confederale sembrano totalmente indifferenti, sordi verso ogni discorso riguardante la repressione.
Intanto, all’interno di Italpizza le acque ricominciano a muoversi.
All’inizio di giugno il S.i.Cobas denuncia che sono state recapitate 20 lettere di licenziamento ad altrettanti lavoratori della cooperativa Evologica iscritti al sindacato. Ma non erano stati sospesi tutti i licenziamenti per via del decreto Cura Italia?
Si tratta di «persone con 19, 13, 3, 2 anni di anzianità lavorativa, non di persone per le quali le aziende non avessero ampiamente verificato la competenza e l’affidabilità» dichiara il sindacato, aggiungendo poi:
«Il 25 marzo sulla stampa locale e nazionale Italpizza offriva 20 posti di lavoro per le persone che si erano trovate in difficoltà, e pareva rivolta in particolare a piccoli imprenditori. A maggio, ad una ventina di lavoratrici e lavoratori di Italpizza che si era astenuta dal lavoro proprio a marzo e aprile, nel momento più duro del contagio, sono state recapitate altrettante lettere di licenziamento. Esiste una connessione tra i due fatti?»
Insomma, se a Modena lo spettro dickensiano del «Natale passato» sembra essere già arrivato, la vicenda Italpizza potrebbe presto trasformarsi nello spettro delle relazioni sindacali e dell’eterno conflitto capitale-lavoro nell’Italia post Covid.
In questa lotta, infatti, si possono ritrovare tutti i tasselli di un puzzle a tinte fosche che ci parla di feroce repressione poliziesco-militare, del ruolo non proprio dignitoso dei sindacati confederali, della vacuità di una politica locale trasformata in mera passacarte di affaristi e capitali, di un’informazione troppo spesso reticente quando non proprio apertamente meschina e di una ferrea volontà, da parte dei padroni, di scaricare ulteriormente gli effetti della crisi sulle classi sociali subalterne, le stesse che si sono sobbarcate l’intero peso della società durante l’emergenza Covid-19.
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* Pietro è un attivista, mediatore culturale e curatore del blog militantduquotidien.
“È come se l’intero comparto industriale fosse considerato un corpo separato, una «zona economica speciale», estranea alla comunità, «extracomunitaria» ed extraterritoriale”.
Questo è un passaggio a mio modo di vedere, fondamentale. Nel momento in cui il lavoro meno qualificato, quello per il quale non vale la famigerata meritocrazia, quello che non richiede master bocconiani, viene affidato in buona parte a lavoratori extracomunitari, si opera una (momentanea) frattura tra il lavoro e la società che gli sta intorno. Non sono solo prefetti e questori a pensare che tanto sono solo extracomunitari, ma anche “la gente”, anche la società, e la solidarietà viene meno. Si deve ricominciare daccapo, creando da zero una nuova base. È su questo tempo necessario alla “ricostruzione” che conta il padronato, nella convinzione che i nuovi “dannati” non abbiano la forza, la volontà, la cultura solidaristica, la coscienza dei propri diritti che sono alla base di ogni rivendicazione, e che la prassi della progressiva riduzione dei diritti diventi consuetudine prima e accordo formale dopo.
La strada maestra sarebbe quella di accorciare al massimo questi tempi, cosa che solo una compattazione tra base e sindacati potrebbe operare, ma di Di Vittorio, oggi, non se ne vedono. La firma dell’accordo del 17 luglio è eloquente.
Su tutto rimane sospesa la buona, vecchia minaccia della delocalizzazione.
Alla fine, tirando le somme, anche se la vicenda non pare conclusa, mi sembra di capire che Italpizza ne esca vittoriosa, come le tante “Italpizze” dell’”eccellenza agroalimentare”.
Nel frattempo a Ferrara, a Palazzo Diamanti, Italpizza sostiene niente meno che la mostra di Banksy!
A #palazzodiamanti arriva Football Terrorist!
Pare che il misterioso #Banksy abbia anche giocato a calcio: nel 1999 si è recato in Chiapas come portiere della squadra di calcio amatoriale degli Easton Cowboys di Bristol. In questa occasione dipinge su un muro di un villaggio questa immagine, Football Terrorist, sormontata dalla scritta “a la libertad por el futbol”.
Grazie al sostegno di Gruppo Hera e ITALPIZZA, l’esposizione dedicata a Banksy si arricchisce di una nuova opera.
Questo il testo di lancio della mostra sulla pagina Facebook di Palazzo Diamanti.
Giusto due giorni fa.
http://www.palazzodiamanti.it/1737
Pare abbastanza evidente il modus operandi che ricorda “Banksy e Co. Arte allo stato urbano”: si prendono dei grandi nomi, con o senza il loro coinvolgimento e consenso, per attirare pubblico, staccare biglietti, far parlare i media, aumentare le quotazioni delle opere in prestito. Spiace vedere ancora una volta coinvolte delle istituzioni in operazioni che a mio parere di culturale hanno nulla, è marketing territoriale o qualcosa di simile a uno spot per attirare turisti; il fatto poi che la mostra sia sponsorizzata da aziende che sono l’antitesi esatta di quanto l’artista esprime con le sue opere, è la ciliegina sulla torta. Ricordo che a milano, nella milano della efficentissima Vandal Squad messa in piedi per difendere il decoro di Expo, la mostra di Banksy era sponsorizzata niente meno che da ATM e Trenitalia, i due più acerrimi nemici dell’arte urbana spontanea in assoluto. Non male come contraddizione. Comunqe ho visto una intervista al curatore che paragona queste operazioni alle “biografie non autorizzate” che a suo dire, sarebbero più interessanti di quelle ufficiali. Non mi stupisco comunque tanto del privato, ma dell’istituzione che si adegua all’andazzo, un po’ ancora mi dispiaccio.
https://www.banksy.co.uk/shows.asp riporta il “fake”, non sarebbe insomma approvata dall’ artista stesso.. “please treat them accordingly”.
Sulle questure: nessuna novità di rilievo , semmai rispetto a qualche decennio fà ,si utilizzano ancora i dispositivi normalmente deputati a reprimere i conflitti, senza delegare agli istituti privati. Peraltro, scusate in anticipo la chiosa, l’ autorità di P.s. durante il governo giallo-verde, che io sappia, è un ottimo dirigente, che di recente è stato promosso e incaricato della pubblica sicurezza di una questura di primo livello.
Sul decreto Sicurezza, aspettiamo con ansia che le revisioni operate dall’ autorità in carica possano essere oggetto di tutte le discussioni necessarie per attenuarne la gravità.
Ringrazio gli autori per l’ interessante quadro del sistema produttivo del paese.