[Finalmente, dopo una lunga attesa, è uscito ed è ordinabile il secondo volume di Mesmer, la storia del mentalismo a cui il nostro compagno di strada Mariano Tomatis, scrittore e mago, lavora da molti anni.
Per chi non lo sapesse, il mentalismo è quel ramo dell’illusionismo nel quale, grazie a espedienti linguistici e retorici, si simulano “poteri della mente”: intelligenza superiore, telepatia, chiaroveggenza, capacità di ipnotizzare e/o condurre le altre persone in stati di alterazione quali la trance, il sonnambulismo ecc.
Perché una storia del mentalismo? E cosa significa «magia militante»?
Quali sono i rapporti tra l’approccio militante alla magia e il lavoro di Wu Ming?
Per quali motivi comprendere il mentalismo, e ricostruirne la genealogia, ha un’importanza politica, per i movimenti che sfidano lo status quo?
Nel testo che segue, scritto appositamente per Giap, Mariano risponde a queste domande.
A seguire, la prefazione a Mesmer 2 scritta da Filo Sottile.
Buona lettura. WM]
Uno dei primi esercizi che si imparano quando si studia il mentalismo si apre con la semplice domanda: «Preferisci le carte rosse o le carte nere?» Il verbo «preferisci» segue una precisa strategia verbale: in una busta abbiamo chiuso un tre di fiori, e vogliamo creare l’illusione che una persona sia in grado di indovinare valore e seme della carta. Se la risposta è «Preferisco le nere», elimineremo le rosse e proseguiremo chiedendo se, tra i semi neri, preferisce «fiori» o «picche»; se invece risponde «Preferisco le rosse», diremo: «Bene, ti consegno le carte che preferisci e proseguiremo con quelle che mi restano in mano»; dimenticando le prime, proporremo dunque la stessa alternativa tra «fiori» o «picche».
Il nostro obiettivo è di arrivare al tre di fiori, eliminando ogni volta metà delle carte: a seconda che la scelta del pubblico combaci o meno con la carta nella busta, elimineremo la categoria selezionata o proseguiremo con quella. Al termine, avremo eliminato tutte le carte tranne il tre di fiori; aprendo la busta, si avrà la prova che le decisioni prese dal pubblico sono state tutte (misteriosamente) coerenti con il valore della carta nascosta.
L’inganno sta nel lasciare indeterminato l’intento della domanda, e stabilirlo solo quando si ottiene la risposta. Se chiedessimo «Quali carte vuoi eliminare – le rosse o le nere?» e ci rispondessero «le nere», non avremmo via d’uscita: il verbo «eliminare» non va bene perché non è abbastanza ambiguo. Lo scenario da allestire deve concedere una libertà limitata a poche opzioni; per ciascuna, inoltre, deve prevedere una strategia che conduca a un risultato stabilito in anticipo.
Per metterci in difficoltà, il pubblico potrebbe mettere in discussione la scelta binaria: l’alternativa tra le carte rosse e nere dà per scontato l’uso delle carte francesi (cuori, quadri, fiori e picche). Chi gioca abitualmente a «Uno» potrebbe rispondere che preferisce le carte blu. A Napoli si potrebbe optare per le carte gialle, facendo riferimento ai denari che – insieme a spade, coppe e bastoni – sono ritratti sulle carte regionali più note. Risposte del genere esprimerebbero una forma di resistenza, da parte del pubblico, al potere che stiamo incarnando: quello di chi stabilisce il materiale di gioco, le sue regole, lo spazio di azione consentito, la cornice interpretativa e le conseguenze delle scelte effettuate.
Il mentalismo è la branca della prestigiazione che studia, in particolare, le modalità di esercizio di questa forma di potere: nato da una smaterializzazione dell’illusionismo classico, è una disciplina teatrale che gioca con questioni filosofiche importanti – dall’esistenza del libero arbitrio alla direzione della freccia del tempo, fino alla possibilità di comunicare attraverso facoltà extrasensoriali.
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Il 13 gennaio 2019, in risposta alle sollevazioni dei gilets jaunes, Emmanuel Macron lancia un «grande dibattito nazionale» sulle richieste avanzate dai contestatori. Il confronto proposto dall’Eliseo ha la forma di un «questionario rapido» a risposte multiple, da compilare sul web. Diviso in quattro sezioni tematiche («Ecologia», «Fiscalità», «Democrazia» e «Organizzazione dello Stato»), propone domande di questo tipo:
Per ridurre il deficit pubblico della Francia, le cui uscite sono maggiori delle entrate, pensate che bisognerebbe prima di tutto [1 sola risposta possibile]: ( ) ridurre la spesa pubblica, ( ) aumentare le imposte, ( ) fare entrambe le cose, ( ) non lo so.
Insomma, preferite le carte rosse o le carte nere?
Accorgendosi che Macron sta usando un trucco da mentalista, la magistrata francese Adeline Baldacchino fa notare che
la formulazione della maggior parte delle domande del Grand Débat ricade nella categoria della ‘falsa scelta’: limitando il campo delle possibilità ad alcune risposte, il modo in cui sono formulate impone una polarizzazione nelle reazioni di chi legge. Alla richiesta di esprimersi sull’alternativa tra abbassare la spesa pubblica o alzare le imposte, manca un’opzione che suggerisca di aumentare… alcune imposte (per esempio, alle persone più ricche), di ridurre alcune spese (per esempio, quelle più improduttive).
Qualunque risposta si scelga, la domanda successiva chiede comunque quali imposte sia necessario abbassare per prime – escludendo di nuovo l’ipotesi di impiegare un mazzo diverso o di partecipare a un gioco le cui regole prevedono un’imposta patrimoniale (come nel Monopoli) o un esproprio proletario (come nel vecchio gioco di Robin Hood della Clementoni).
Raccontando le lotte dei gilet gialli come l’espressione di un «insaziabile bisogno di magia», Baldacchino scorge nelle rivendicazioni del movimento francese la volontà di «liberarsi dai legami che vincolano l’immaginario, l’anima e la vita materiale nelle reti del disagio e della miseria» e la possibilità di ispirarsi a
una delle grandi tradizioni della magia, quella dell’escapologia, incarnata da Houdini: l’arte di chi all’ultimo minuto trova sempre una via di fuga, per quanto legato e ammanettato, da un baule che si credeva chiuso a tripla mandata […] Questi illusionisti sanno che è necessario capire la realtà per padroneggiarla, trasformarla e realizzare così l’improbabile.
Per la scrittrice, l’intero dibattito pubblico è gestito da un sistema che – come i mentalisti – limita le scelte a quelle che garantiscono il mantenimento dello status quo, senza mai minacciare i fondamenti del capitalismo neoliberista: il mazzo di carte è stabilito una volta per tutte, le regole fissate e al massimo possiamo scegliere tra il rosso e il nero.
In Notre insatiable désir de magie. Houdini contre Macron (Fayard 2019), Adeline Baldacchino propone di contrapporre alla magia nera del potere che arriva dall’alto, operata da superuomini e impostori, figure illusionistiche sovversive, in grado di «svelarci vie sconosciute dove vediamo solo percorsi predeterminati e limitati dalla nostra mancanza di immaginazione».
Portare la magia in politica si traduce nel «concedersi il diritto di mettere in discussione la famigerata espressione TINA (there is no alternative, non c’è alternativa)», e così facendo
invocare interventi da tempo accantonati, […] riportare nell’ambito istituzionale tutta una serie di riflessioni sulla democrazia diretta, sulla gratuità dei servizi pubblici e sull’economia sociale e solidale che è a poco a poco sparita, sacrificata al vitello d’oro della performance, della redditività e della concorrenza.
Laddove il ciarlatano Macron «si considera un dio e si relaziona al mondo facendoci credere che possiamo trovare la salvezza solo in Giove», chi gli contrappone una magia che arriva dal basso «si prende gioco degli dei, crea qualcosa di nuovo dove non c’era altro che vecchiume e gode a sovvertire la realtà attraverso le sue conoscenze e la propria destrezza». E se il presidente «si muove nel registro dell’ipnosi», con uno stile comunicativo basato sullo sguardo che soggioga e impone, la magia popolare «ci mostra che esiste una possibile fuga dall’inevitabile. Mentre il primo piega la realtà a suo favore con la menzogna, il secondo la trasforma dicendo la verità – ovvero facendo notare che c’è un trucco, una ricetta che non è irrazionale ma semplicemente impensabile o mai concepita prima. Ritengo», conclude la magistrata francese, «che la politica dovrebbe diventare un grande convegno illusionistico collettivo, basato su una gioiosa demistificazione: un luogo dove concedersi di lasciarsi stupire (ma non ingannare), dove accettare di farsi meravigliare (ma non plagiare), dove il palcoscenico è aperto a tutte le migliori illusioniste… a condizione che ci svelino i loro segreti».
Consapevole che lo stupore si basa in larga misura sull’ignoranza del trucco, Baldacchino si rende conto che il sistematico disvelamento dei segreti potrebbe privare l’esperienza della magia di tutto l’incanto: la soluzione non è alimentare la divisione tra una casta di incantatori e un’altra di individui che si lasciano incantare, ma fare appello alla creatività per
inventare sempre nuove storie e nuovi trucchi, al fine di rinnovare ogni volta la magia. Questa, come l’amore, attinge da una fonte inesauribile. E se il nostro desiderio di magia è infinito, la magia deve mostrarsi all’altezza di quella fame mostruosa. E forse è proprio quando crederemo di aver esaurito i trucchi da mettere in scena che diventerà concepibile inventarne di nuovi.
Se la magia operata dal basso
è l’arte di proporre soluzioni nuove laddove non si scorgevano che vicoli ciechi, solo chi svela le proprie tecniche è legittimato a esercitare il potere di cambiare un pezzo del nostro mondo. La rivelazione, che è la trasmissione di una conoscenza, costituisce il solo antidoto contro l’atteggiamento di orgogliosa superiorità di chi detiene il sapere. È dunque necessario che, a occuparsi di magia, siano persone propense alla condivisione.
Nella magia imposta dall’alto,
il mago appare tradizionalmente come colui che domina i nostri spiriti, le sue assistenti e il pubblico. Dietro il rapporto che di norma instaura con chi lo osserva c’è un tacito contratto di sottomissione che mette in pericolo chi si trova nel ruolo del dominato; per questo motivo dobbiamo aspirare a una “scena aperta”. La politica è uno spettacolo in cui è necessario ribaltare il palcoscenico: solo portando alla luce i suoi meccanismi segreti possiamo impadronirci dei mezzi che ci consentono di riprendere il controllo del nostro futuro.
Baldacchino auspica la caduta dei «sacerdoti il cui potere riposa sulla fede nei miracoli» e l’ascesa di figure illusionistiche che agiscano come «ingegneri del reincanto. Né divinità, né persone bugiarde ma individui in grado di sognare e agire».
Nell’Italia di fine Anni Novanta, lo stesso spirito di contrapposizione anima le strategie di lotta del collettivo Luther Blissett; per inquadrare la filosofia che ne ispira le spiazzanti incursioni nel mondo dei media e della cultura, Andrea Grilli cita Michail Bachtin:
Alla menzogna patetica di tutti i generi alti, ufficiali, canonizzati […] si contrappone non la verità patetica e diretta, ma l’allegro e intelligente inganno come giustificata menzogna ai mentitori. Alle lingue dei preti e dei monaci, dei re e dei signori, dei cavalieri e dei ricchi cittadini, dei dotti e dei giuristi, alle lingue di tutti i potenti e ben piazzati nella vita si contrappone la lingua dell’allegro furfante. (1)
Il discorso si fa via via più esplicito nella produzione editoriale di Wu Ming, il collettivo nato da una costola del Luther Blissett Project, raggiungendo il culmine ne L’armata dei sonnambuli (Einaudi 2014).
Il romanzo propone un’ampia riflessione sulle strategie con cui sfidare il “registro dell’ipnosi” dei reazionari à la Macron, ambientando il tutto nella Rivoluzione Francese, tra le tinozze di Franz Anton Mesmer e le esperienze di sonnambulismo del marchese di Puységur.
Il Mesmerismo è per Wu Ming un vaso di Pandora, spalancando il quale (al grido di «Vive la Trance!») ci si trova al centro di un affascinante e complesso groviglio di elementi: la suggestione e il suo uso politico, le neuroscienze, il rapporto tra incanto e disincanto, la psicologia delle folle, la propaganda mediatica, l’inconscio e le nevrosi, i demagoghi trascinatori di masse, il necessario equilibrio tra mark e smart e l’intontimento prodotto dai social media.
Completata la lettura del romanzo, capisco di aver trovato – nel collettivo bolognese e nella più ampia Wu Ming Foundation – il giardino ideale in cui coltivare i miei interessi: un luogo dove approfondire collettivamente i risvolti culturali e politici dell’arte magica, restituendo significato a una disciplina che, fuori da una prospettiva militante, mi sembra ormai irredibimile. E non scelgo l’aggettivo a caso: è la punkastorie Filo Sottile la prima a usarlo, per parlare di illusionismo, in occasione del nostro primo incontro.
Provando orrore per l’approccio mainstream all’arte dell’illusione, troviamo entrambe – nel collettivo che gravita intorno a Wu Ming – uno spazio dove usare gli strumenti del teatro e della narrazione per coltivare le potenzialità eversive della magia, l’uso militante del paranormale, l’impiego della stregoneria nella lotta politica, l’evocazione medianica come strumento di indagine dell’identità punk e il recupero in chiave transfemminista dei freak show.
Prima dell’uscita de L’armata dei sonnambuli avevo pubblicato Te lo leggo nella mente (Sperling&Kupfer 2013, poi AssoKappa 2020), un saggio introduttivo sul mentalismo che aveva in esergo l’ammonimento latino Hominem te esse memento, «ricorda che sei solo un essere umano». Sette anni dopo, anche Adeline Baldacchino avrebbe messo in discussione il superomismo del prestigiatore medio, scrivendo che l’ascesa di leader reazionari come Macron è
una sorta di inciampo della Storia, che per l’ennesima volta fa l’errore di cercare un eroe, quando in realtà avrebbe bisogno di maghi senza il costume di scena e di poeti senza fondotinta.
Data l’ampiezza del tema, il mio saggio si limita a grattare la superficie: molto resta da esplorare del mentalismo, soprattutto da una prospettiva storica; perfino Clara Gallini, autrice del fondamentale La sonnambula meravigliosa (Feltrinelli 1983), aveva notato la mancanza di studi specifici sui risvolti illusionistici del Mesmerismo – un tema fino ad allora affrontato esclusivamente da una prospettiva medica, sociologica e tutt’al più politica. Citando i primi spettacoli pubblici di magnetismo, l’antropologa aveva attribuito l’idea al
fertile ingegno dell’abate Faria, che cominciò ad esibirsi attorno al 1825. Da allora, dilagò per tutta Europa una moda, di cui varrebbe la pena di rintracciare la storia. (2)
Sentendo rivolto a me l’appello di Gallini, negli ultimi cinque anni ho lavorato a una biografia del mentalismo concepita con un approccio radicale – dove
radicale vuol dire arrivare a considerare un problema a partire dai suoi assunti di base. Solo a partire dall’analisi di questi assunti la critica può arrivare a un livello di profondità tale da poter prospettare un cambiamento. Se al contrario l’analisi resta in superficie, le soluzioni si porranno solo al livello del sintomo, non della malattia. (3)
Il primo volume, intitolato Dall’età della pietra all’età dell’anima (2016), individua le origini del mentalismo nella graduale smaterializzazione del magnetismo da forza legata alla pietra magnetica a energia sottile — il magnetismo animale di cui sarebbero dotati gli esseri umani. La tesi del libro è che il mentalismo nasca come messa in scena teatrale dei poteri erroneamente attribuiti alle pratiche mesmeriche, mimando il linguaggio scientifico ma facendo tesoro dei principi nati in ambito illusionistico. Ciò contribuirà a inquinare la ricerca scientifica sul mesmerismo e il dibattito pubblico sulla realtà di tali fenomeni.
Uscito lo scorso 1° luglio, il secondo volume, intitolato La zona del crepuscolo (2020), prende in esame la regione liminale da cui, tra il 1784 e il 1819, si sprigionarono visioni e potenzialità che sembravano paranormali: il tema non si limitò a stimolare l’indagine scientifica ma finì sui palcoscenici, influenzando il mentalismo di tutto l’Ottocento. Il libro esplora cinque soglie cruciali tra il sonno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile, tra realtà e simulazione e tra lucidità e follia – il tutto da un punto di vista periferico; la scelta di tale prospettiva è stata determinante.
Nato negli ambienti dell’aristocrazia francese, il mentalismo coltiva intorno a sé una nicchia elitaria che nutre un certo disprezzo verso i classici illusionisti: da sempre la disciplina solletica nei propri affiliati l’idea di trovarsi più in alto rispetto ai semplici «prestidigitatori», colleghi più adatti alle piazze dei mercati che ai salotti buoni. Sfidando tale disposizione d’animo, la mia analisi prova a invertire il punto di vista, esplorando le diverse regioni liminali non tanto dal basso – perché la preposizione sembra alludere a un luogo da abbandonare verso un altrove più in alto – ma con la prospettiva di restarci, in basso; perché è dalle periferie che si vede meglio il centro. Per farlo è fondamentale impedire, a chi è sotto i riflettori, di mettere in ombra le figure ai margini: per ricostruire alcuni nodi chiave nella storia del mentalismo è necessario scavare tra le pieghe della Storia, ritrovare personaggi dimenticati e riconoscere il ruolo fondamentale che hanno giocato – quasi sempre restando nell’ombra. Tra i motivi di tale oblio ci sono praticamente sempre questioni di classe o di genere: non a caso le vere protagoniste de La zona del crepuscolo sono donne o persone non binarie.
Scostando il velo che le nasconde, si scoprono la sonnambula Magdaleine di Dormans, la cartomante di Parigi Henri[ette], la ricca veggente Madame de Saint Paul, l’illusionista Sophie Lloyd (che, come Lady Oscar, si fingeva maschio per essere ammessa a un club magico riservato agli uomini), Eulalie Caron la fantasmagoreuta, Françoise Laurent la ragazza invisibile, Marianne Pambour la sensitiva maestra nel marketing, Ersilia Rouy la pianista escapologa, fino alla madre della bella addormentata, le cui imprese chiudono il percorso storico nella Londra contemporanea. In alcuni casi, la rimozione è stata profonda e se ne recupera solo l’iniziale del nome – come per Mademoiselle N***, la sonnambula che “leggeva” le carte da gioco con una benda sugli occhi.
Quando si distoglie l’attenzione dal centro della scena per concentrarsi sui margini, qui emergono – lontane da ogni cliché – figure insieme epiche e patetiche, eroiche e gaglioffe; una dualità che non deve stupire, visto che il mentalismo nasce proprio sul conflittuale incrocio tra la cultura d’élite e la cultura popolare. Sono personaggi che scintillano di una bellezza poetica e tremenda, incarnando il meglio e il peggio di ciascuna epoca: non recuperiamo le loro vicende dalla spazzatura della Storia per celebrarne la grandezza, ma perché i loro protagonisti sono uno specchio fedele del proprio tempo e perché – in quanto tali – entrano in risonanza con l’epoca contemporanea, svelando chi siamo in modo obliquo e illuminante. Da questo punto di vista, quello che è successo tra il 1784 e il 1819 – il periodo che prendo in esame – è ancora vivo nei tic, negli automatismi e nei modi in cui discutiamo di mentalismo, mettiamo in scena la magia e ne cerchiamo una definizione (chiedendoci se sia arte, teatro o solo showbiz…).
L’elemento comune tra i due libri è il conflitto: a conferma che
la storia [del mentalismo] è funestata da diverbi privati e sfide pubbliche, colpi bassi e inganni, ricatti e tradimenti, a suggerire che lo scontro ne sia un elemento imprescindibile. (4)
anche la zona del crepuscolo si rivela un terreno di dibattiti tanto aspri quanto fertili – né si tratta di una notizia sorprendente: anche tra gli Stati-nazione, i confini sono sempre stati motivo di tensioni e guerre e mai come oggi è importante metterli in discussione. Rifuggendo ogni (cerchiobottista) equidistanza, il mio approccio alla magia mira a far saltare le frontiere di ogni tipo, individuandovi il non-luogo in cui è possibile giocare con i simboli e le appartenenze culturali cristallizzate, dando vita a combinazioni inusuali e minando alle fondamenta il dogma del there is no alternative.
Entrambi i libri presentano, nella seconda parte, un poderoso apparato di lezioni pratiche di mentalismo: si tratta di tutto il materiale didattico utilizzato in occasione dei corsi che ho tenuto a Torino e dei laboratori organizzati in giro per l’Italia – uno dei quali, insieme a Wu Ming 1, in occasione della presentazione del romanzo La macchina del vento (Einaudi 2019). L’ampia raccolta di effetti di mentalismo fa tesoro di un lavoro collettivo sul tema che comprende i contributi di numerose colleghe mentaliste e colleghi illusionisti
Se da un lato la disomogeneità tra le due sezioni può spiazzare, un approccio alla materia a tutto tondo non può prescindere né da una riflessione teorica sulle sue origini, né dagli elementi pratici che rendono tanto persuasivi gli inganni su cui si fonda il mentalismo. Il pragmatismo che domina le sezioni dedicate agli aspetti tecnici dell’arte magica resta un ingrediente fondamentale per la sua pratica concreta. Spiegandone il ruolo, in apparenza paradossale, Adeline Baldacchino scrive che
se abbiamo bisogno che la poesia e la magia ci ricordino l’essenziale è perché, in verità, nessun essere umano è più realista di chi si occupa di poesia e nessuno più pragmatico dell’illusionista. Entrambe le figure hanno la mente rivolta alla morte e si occupano di incantare la vita per renderla sopportabile. Entrambe lavorano sulla lingua e con i gesti per rendere visibile l’invisibile – che è ciò che fino a quel momento si riteneva impossibile.
Dopo Luca Casarotti, che aveva firmato la prefazione del primo volume (qui su Giap), non poteva essere che Filo Sottile a introdurre La zona del Crepuscolo: come la magistrata francese, l’attivista e punkastorie individua nella magia un’efficace via di fuga e una concreta possibilità di contrasto alle imposizioni del reale. Per sconfiggere il fantasma thatcheriano che annienta ogni idea di futuro possibile – e che Baldacchino chiama «Le spectre de TINA» – non basterà la neutralità scientista di chi non crede agli ectoplasmi: occorrerà concertare un attacco collettivo, facendo appello ai poteri magici dei fucili protonici.
Prefazione di Filo Sottile
«Chi rompe un oggetto per scoprire che cos’è ha lasciato la via della saggezza» (Gandalf a Saruman in J.R.R.Tolkien, Il signore degli anelli, 1954).
«Poi usciamo nella notte a tirar sassi alle stelle che a colpirle sembra che splendon di più.» (Bobo Rondelli, I vitelloni, 2008).
Avete fra le mani il secondo capitolo di una biografia del mentalismo. Nel primo volume Mariano Tomatis si è spinto fino alle soglie della Rivoluzione Francese; da qui La zona del crepuscolo riprende le fila.
Le rivoluzioni non sono eventi puntuali, riassumibili in una sola circostanza. Si tratta di processi molteplici e contraddittori. Periodi di incertezza, di slanci, di cadute, di trionfi, di miserie, di tradimenti e conversioni, di errori di valutazione e coincidenze insperate. Una fetta spessa di territorio fra un prima che si vuole trasformare e un poi che si immagina via via. In questo senso, La zona del crepuscolo è un libro di rivoluzioni. Esplora terre di confine, in cui i cippi sono erratici e in cui è difficile risalire alla provenienza delle figure che le percorrono.
Mariano ci conduce lungo un trentennio, a cavallo fra XVIII e XIX secolo, luogo di scontro e di incontro fra scienza e teatro, incubi e premonizioni, poteri ESP e giochi di prestigio. Correnti così diverse non possono che produrre marosi – e infatti La zona del crepuscolo è anche un decameron di avventure che si intrecciano.
Ne Le novelle marinaresche di Mastro Catrame (1894) di Emilio Salgàri, il marinaio del titolo è condannato dal suo capitano a raccontare per dodici sere le sue peripezie fra gli oceani. Catrame narra, senza un briciolo di ironia e con perfetta adesione, dodici fra le più terribili leggende di mare. Al termine di ogni storia, quando il resto della ciurma è avvinta e atterrita, il capitano della nave smonta le fandonie del mastro con il piglio irridente del positivista. Salgàri prova a camminare su un asse sottilissimo. Sa che per raccontare storie di mare nella sua epoca non può rinunciare all’azione di debunking del capitano, ma fa in modo che questa riverberi del fascino tenebroso del leggendario marinaresco. Polarizza le due pulsioni in una coppia di personaggi contrapposti e le sintetizza in un racconto che inquadra entrambi.
Della stessa ampiezza e ambivalenza gode la cornice montata da Mariano: fra i documenti di quei tre decenni, traccia itinerari poco battuti, ma panoramici e rivelatori. Cammina in bilico fra l’investigazione e la narrazione, senza farsi abbagliare dalle luci, né spaventare dalle ombre. Si offre di farci da guida in questa zona. Il crepuscolo – come la rivoluzione – non è un luogo circoscritto, puntiforme, ma quel lasso di tempo in cui il giorno trascolora nella notte, per sua stessa definizione sfumato, compresenza ibrida, terra di nessuno, landa bizzarramente abitata. In questa zona, che è in effetti un’ampia soglia, Mariano ci propone cinque percorsi liminali, in cui i nostri passi abitano il confine più che oltrepassarlo, i nostri sensi sono messi all’erta e il muscolo dello stupore continuamente sollecitato.
Nel primo percorso vediamo il marchese di Puységur intento alle sue sperimentazioni magnetiche. È un momento nevralgico: il suo lavoro ispirerà tanto l’ipnosi medica che il mentalismo a venire. L’apparente quiete che accompagna le induzioni è carica di tensione e apre conflitti: ciò a cui assistiamo è terra vergine per il sapere scientifico o un fenomeno truffaldino da smascherare? Mariano ci propone una terza via: abitare la frattura e immedesimarci nelle anonime sonnambule che si prestano agli esperimenti.
Il secondo itinerario ci porta nella terra d’incubo della fantasmagoria. Philidor e i suoi epigoni, con le loro lanterne magiche, si muovono laddove scienza e tecnica, occulto e storia si incontrano. Travestendole da esperienze didattiche, allestiscono un teatro degli orrori in cui vengono materializzati fantasmi inconsci. Queste apparizioni, come il padre di Amleto, pongono dilemmi e invitano a prendere posizioni. Non si tratta solo di discutere di massimi sistemi, di vita e di morte, ma anche – più prosaicamente – di capire il significato politico di un’apparizione del re da poco decapitato e di interrogarsi sull’evocazione dello spirito di un congiunto: vampirismo della nostalgia o rituale psicomagico?
La terza esplorazione ci porta nel territorio delle donne invisibili. Una sedicente scoperta scientifica diviene paradossale attrazione spettacolare. La voce disincarnata di queste donne apre a idealizzazioni e fantasie erotiche. Mariano qui ci porta dietro le quinte e rende ancora più esplicita un’attenzione per le questioni di genere che pervade tutto il suo lavoro.
Il quarto e il quinto percorso sembrano specchiarsi l’uno nell’altro. Nel primo incontriamo l’abate Faria. Il magnetizzatore di origine indiana, il primo a spettacolarizzare in modo esplicito il sonnambulismo, ci costringe a interrogarci: realtà o simulazione? Si può prestare credito a fenomeni fuori dal nostro controllo, che avvengono nella coscienza altrui? La sua contrastata parabola, costellata di critiche e sabotaggi, sembra cercare via di fuga al dilemma. E di evasioni inverosimili, ancora più di quella tentata dal Faria de Il Conte di Montecristo (1844), narra l’ultimo itinerario, sul confine fra lucidità e follia. Protagonista è Ersilia Rouy. Rinchiusa in manicomio per questioni di eredità, sembra pescare dai saperi dell’illusionismo e dall’armamentario dell’occulto per piegare le sbarre che la rinchiudono.
La prospettiva de La zona del crepuscolo non è dal basso, ma è in basso. Se la tecnica principe dell’illusionista è la misdirection – guarda lì, c’è un asino che vola! – qui invece ci viene chiesto di porre attenzione ai margini, fuori dal centro, in basso, a lato dei riflettori e delle roboanti dichiarazioni di principio, dove accade la storia spiccia: le transazioni, i contratti, le relazioni, i tradimenti, le alleanze. Così scopriamo che – visto da qui sotto, restituitagli l’umanità e le sue miserie e privato del lezzo d’acqua di colonia – il mentalismo non perde un grammo del suo fascino.
Una lunga trattazione meriterebbe il capitolo che chiude il libro, quello sulla “bella addormentata” che si trova al Museo Tussauds di Londra, ma non è questa la sede per farlo. Lascio che sia Mariano a rivelarvi il segreto che muove l’incanto. Io vi propongo una suggestione di tutt’altro genere, che mi pare che con quella riflessione faccia rima. Si tratta di una scena secondaria di Nirvana (1997), film di fantascienza di Gabriele Salvatores. I protagonisti si trovano a Bombay City, un sobborgo sotterraneo di una città distopica, in un ashram in cui la puja incontra le più avanzate tecnologie informatiche.
C’è un uomo appeso, cavi ed elettrodi lungo tutto il corpo. Gli occhi sono chiusi, ogni tanto ha degli spasmi. La guida dell’ashram spiega:
– È ricercato da tutte le polizie del pianeta. Gli hanno inserito in testa un trasmettitore e se il suo cervello entra in fase di pensiero attivo può essere immediatamente rintracciato. Quello che ci hai portato è un software rubato direttamente alla Sushom Psycho Lab. Ci aiuterà a mantenerlo in fase REM fino a quando non riusciremo a togliere il trasmettitore.
– Vuoi dire che continuate a farlo sognare?
– Esatto. Se sogna, non pensa. Se non pensa, il trasmettitore non entra in funzione. Se continua a sognare, non può essere individuato.
La pratica del sogno come via di fuga e possibilità di contrasto alle imposizioni del reale, ai there is no alternative, alla “legge dell’ormai” è una strada fatta di macchine, immaginario, furti, hackeraggi, trucchi da illusioniste e, soprattutto, azioni collettive. In questo finale, Mariano ce lo conferma.
* Filomena “Filo” Sottile batte palchi e piazze da oltre due decenni nei panni della punkastorie. Ha pubblicato un romanzo, racconti, articoli su viandanze, piante, transfemminismo, questioni No TAV. Il suo ultimo pamphlet si intitola La mostruositrans (Eris 2020). Ha scritto per Giap!, Carmilla, Alpinismo Molotov. Cura il blog filosottile.noblogs.org
Note
1. Michail Bachtin, “La parola nel romanzo” in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979 cit. in Andrea Grilli, Luther Blissett. Il burattinaio della notizia, PuntoZero, Bologna 2000, p. 22.
2. Clara Gallini, La sonnambula meravigliosa, Feltrinelli, Milano 1983, p. 109.
3. MIR Rivista di ufologia radicale, n. 2, 1998, p. 47.
4. Mariano Tomatis, Mesmer. Dall’età della pietra all’età dell’anima, Vol. 1, Torino 2016, p. 17.