[Quasi due anni fa, nel dicembre 2019, l’Università di Macerata ha organizzato il convegno “Il traduttore nel testo”, durante il quale Andrea Bresadola ha intervistato Wu Ming 2 a proposito delle “lingue” utilizzate per scrivere L’Armata dei sonnambuli, proponendo poi un’analisi minuziosa delle soluzioni adottate dal traduttore del romanzo in castigliano, Juan Manuel Salmerón Arjona. Con i soliti ritardi dovuti alla pandemia, gli atti del convegno sono stati pubblicati quest’estate, in un libro omonimo. La terza e ultima parte del volume (“In dialogo con l’autore”) è tutta dedicata alla suddetta intervista (“Dal foborgo al palco di Madama Ghigliottina:la lingua della Rivoluzione nell’Armata dei sonnambuli”) e all’articolo di Bresadola: “La traduzione della Rivoluzione: appunti su El Ejército de los Sonámbulos”. Quest’ultimo, in particolare, ci sembra interessante anche per chi non legge lo spagnolo e non si occupa di traduzioni letterarie, perché attraverso il confronto tra le due versioni del testo, mette sotto la lente d’ingrandimento l’impasto linguistico presente nel romanzo. Da un totale di oltre 75 pagine, vi proponiamo qui due estratti: dall’intervista a Wu Ming 2, abbiamo tolto la parte che riguarda la lingua dell’Armata, in parte perché ritorna poi nell’articolo e in parte perché si tratta di considerazioni che qui su Giap abbiamo già proposto a suo tempo; dall’articolo di Andrea Bresadola, prendiamo invece la terza parte (“La voce del popolo”) che riguarda il gergo popolare dei parigini, e in particolare del foborgo di Sant’Antonio, tralasciando quelle sulle altre varietà linguistiche individuate nel romanzo (il bolognese di Léo Modonesi, l’alverniate inventato, la pa’lata del Muschiatini e quella RivoluzionaRia di ScaRamouche). In appendice al post, sempre a proposito di lingua castigliana, il grande scrittore messicano Paco Ignacio Taibo II recensisce Stella del mattino di Wu Ming 4, che presto uscirà in Messico con il titolo Estrella del alba. WM]
A.B.: […] passiamo alla questione delle traduzioni dell’Armata dei Sonnambuli e, più in generale, della vostra opera.
WM2: Sul rapporto coi traduttori, direi che io sono abbastanza stupito del fatto che, soprattutto in tempi più recenti (all’inizio accadeva un po’ di più), difficilmente i traduttori si mettono in contatto con noi. Io non sono un traduttore, quindi non so proprio come si faccia, ma può darsi che ci sia un aspetto del lavoro di traduzione che si è affermato: non farsi influenzare dall’autore. L’unico con cui abbiamo avuto degli scambi regolari anche durante la traduzione è Serge Quadruppani, che ha tradotto diversi nostri romanzi in francese. Ma lui perché è un amico: lo conosciamo da prima che diventasse il nostro traduttore. Anzi, è diventato il nostro traduttore perché ci siamo conosciuti e si è interessato ai nostri lavori. Con gli altri non succede. Mi dico che io, se fossi un traduttore, e mi trovassi davanti all’Armata dei Sonnambuli, due o tre cose all’autore, potendo, le chiederei. E, invece, non è successo con le traduzioni tedesche, che ci dicono essere molto buone, e non è successo, se non all’inizio, con le traduzioni in inglese, che hanno anche vinto dei premi. Quando Q venne tradotto in francese ci mandarono la traduzione in lettura, cosa che peraltro adesso accade sempre meno. Io ho come l’impressione che i tempi di traduzione si siano contratti e, quindi, venga concesso meno tempo per la traduzione, meno tempo magari per contattare l’autore, verificare ecc… Mi puzza di questo. Però, insomma, vent’anni fa, con la traduzione in francese, dopo che la traduttrice – molto nota e vincitrice di premi – non ci aveva mai contattati lungo tutto il lavoro di traduzione, la casa editrice ci mandò le bozze per avere un parere. E io mi lessi questa traduzione in francese, trovando svariate cose che non mi sembravano rese nella maniera corretta, soprattutto perché molto turpiloquio era stato normalizzato e molte espressioni che in italiano erano grevi, o erano volutamente sgrammaticate perché, appunto, erano in bocca a personaggi che non potevano parlare in punta di forchetta, erano state rese in bon français, cioè in buon francese dell’Accademia. E, quindi, segnai tutte queste cose. Finii per fare sei cartelle di osservazioni, ma proponendole come pure osservazioni, dicendo: «benissimo, la traduzione la fate voi, non c’è problema, pubblicate quel che vi pare, ma io ho notato queste cose e se volete darci un’occhiata…». La traduttrice non rispose e il libro venne pubblicato senza che nessuna di quelle osservazioni fosse presa in considerazione. E l’editore, diversi anni dopo, ci disse che la traduttrice se n’era avuta a male del fatto che una traduzione fatta da lei – che, appunto, era una nota e brava traduttrice – avesse ricevuto delle critiche.
A.B: L’Armata dei Sonnambuli è stata tradotta in greco (Στρατιά των υπνοβατών, dall’ateniese Εξάρχεια nel 2016), in spagnolo (El Ejército de los Sonámbulos, Anagrama, Barcelona, 2017) e quindi in tedesco (Die Armee der Schlafwandler, Assoziation A, Berlin, 2020). Come ti spieghi che sia stato tradotto in queste lingue e non per altri mercati editoriali più importanti?
WM2: La mia impressione è che adesso le lingue più forti – diciamo francese e inglese – con la crisi del mercato editoriale abbiano diminuito di molto il volume delle traduzioni. In fondo, di romanzi scritti in francese ce ne sono già molti, per non parlare di quelli scritti in inglese. Hanno un bacino vasto e, quindi, possono permettersi di tradurre di meno. Io ho avuto la sensazione che adesso, soprattutto un “tomazzo” di 800 pagine in Francia e in Inghilterra ci pensino molto bene, prima di pubblicarlo.
A.B.: E in Germania?
WM2: Il mercato editoriale tedesco è molto, molto particolare perché è il mercato editoriale più importante d’Europa, e la percentuale di lettori in Germania è incomparabile con quella italiana. È anche un sistema editoriale, in generale, nel quale una casa editrice come quella che pubblica i nostri libri, che è una casa editrice anarchica di Berlino e Amburgo, Assoziation A (che ha una collana di narrativa anche piuttosto striminzita, e che pubblica prevalentemente saggistica) riesce ad avere l’attenzione dei grandi giornali. Quindi, viene pubblicata l’Armata dei Sonnambuli in tedesco (con una copertina degna della DDR!) e le recensioni che la casa editrice ci manda sono del Frankfurter Allgemeine Zeitung e simili; insomma, dei principali giornali tedeschi [cfr. in proposito “Speciale L’Armata dei Sonnambuli in Germania” pubblicato nel blog Giap]. In Italia se Eleuthera o Nautilus – che sono l’equivalente di questa casa editrice – pubblicano, non so, un romanzo di uno scrittore inglese con un nome greco collettivo sulla Rivoluzione francese, probabilmente non lo caga nessuno, per dirlo con un francesismo. Invece Assoziation A ha cominciato a tradurre tutti i nostri romanzi: hanno iniziato pubblicando 54, che era stato tradotto per i cacchi suoi da Klaus-Peter Arnold. Cioè, lui aveva preso 54, lo divertiva tradurlo e l’ha tradotto, e poi l’ha mandato in giro per case editrici. Questi di Assoziation A l’hanno pubblicato [2017] e hanno avuto attenzione dai giornali, hanno venduto un numero di copie che per loro è interessante e quindi hanno cominciato a fare tutta la back list. Ma la cosa particolare è che hanno pubblicato Asce di guerra che, voglio dire, è la storia di un ragazzino di Imola che va a combattere in Laos durante la Guerra sporca della CIA alla metà degli anni Cinquanta, e poi è infarcita di racconti della Resistenza italiana. Una roba che un tedesco, insomma, può capire il giusto. E invece loro dritti come dei tedeschi, come dei fusi, hanno pubblicato Asce di guerra, hanno pubblicato L’Armata dei Sonnambuli, Manituana e devono pubblicare Proletkult. Attualmente è il paese dove ci sono più traduzioni di nostri libri, mentre fino a quattro anni fa, quando hanno pubblicato 54, era stato tradotto solo Q, e basta.
A.B.: E L’Armata dei Sonnambuli in francese? Sarebbe interessante vedere come nella traduzione si tornerebbe al francese.
WM2: Eh sì, era un po’ il mio sogno, per certi versi, però purtroppo niente. La mia sensazione è che, da un lato, un buon traduttore per tradurre un romanzo di 800 pagine, giustamente, vuole che gli venga pagato forse un anno di lavoro o quasi, almeno diversi mesi; e a un non esperto traduttore un libro così è difficile che lo riesci a far tradurre, e quindi è un investimento. Dall’altro, c’è forse un po’ di sciovinismo, come se dicessero: «questi italiani che vengono a raccontarci la nostra Rivoluzione, noi abbiamo avuto Victor Hugo che l’ha raccontata… cazzo vogliono questi?», giustamente anche.
A.B.: Vediamo, infine, le traduzioni spagnole: dei vostri romanzi collettivi è stato tradotto Q poi, come dicevi, 54, Manituana, L’Armata dei Sonnambuli e Proletkult. Mentre altri romanzi sono tradotti in catalano e non in castigliano, come Altai, Cantalamappa e L’Invisibile ovunque. Hai un’idea del motivo di questa disparità? Come è stato il processo?
WM2: Io ho capito questo: ci sono alcune case editrici di sinistra, anarchiche, con sede a Barcellona. Forse più di quante non ce ne siano con sedi a Madrid. Questo non lo so. Forse da Barcellona, e da chi conosce il catalano, c’è una maggiore attenzione a quello che viene pubblicato in italiano perché in fondo è quasi comprensibile, l’italiano, per uno che conosce il catalano? Non lo so, fatto sta che queste che traducono in catalano i nostri libri sono tutte case editrici di sinistra, di movimento … Nel caso di Proletkult, invece, si tratta di una doppia edizione. Forse è il primo romanzo nostro, a parte Q con il basco, che quasi in contemporanea viene pubblicato in due lingue in Spagna: in castigliano da Anagrama [settembre 2020] e da Tigre de Paper in catalano [agosto 2020].
A.B.: Anche in spagnolo non sono mancati alcuni problemi sulle traduzioni, no?
WM2: Alcuni nostri libri per case editrici minori, in particolare New Thing [di Wu Ming 1, del 2008] sono stati tradotti e firmati da Nadie Enparticular [Nessuno Inparticolare], una traduttrice di origine argentina. I nostri primi due romanzi, invece, stono stati tradotti, per Grijalbo-Mondadori, da José Ramón Monreal – che poi non era più disponibile, per il terzo, perché aveva altri lavori per le mani – e quindi Manituana venne affidato a questa traduttrice. Eravamo entrati in contatto e avevamo lavorato bene con lei perché ci aveva posto tutta una serie di domande e di questioni. Anche in Manituana c’è una lingua del popolo, in quel caso il popolo di Londra che parla con uno strano calco che richiama Arancia Meccanica di Anthony Burgess. Insomma, avevamo fatto un buon lavoro, e quando da Mondadori siamo passati a Anagrama ci sembrava che potesse essere una traduttrice indicata per fare il lavoro sull’Armata dei Sonnambuli. L’abbiamo proposta a Anagrama ma loro ci hanno detto che preferivano utilizzare un loro traduttore, anche perché avevano letto le sue traduzioni ed erano sembrate troppo “argentine”, suonavano troppo sudamericane, e questo in Spagna poteva essere un problema. Per loro non erano buone traduzioni per questo motivo. Questa è una cosa che non siamo in grado di apprezzare, e avevamo apprezzato la traduttrice più che altro per il rapporto che aveva instaurato, e per tutti i dubbi che aveva espresso per fare una traduzione migliore possibile.
A.B.: Invece non siete stati contattati da Anagrama o da Juan Manuel Salmerón Arjona, traduttore dell’Ejército de los Sonámbulos?
WM2: No. Non ci hanno fatto nessun tipo di domanda, non ci hanno mandato questioni. Noi come politica siamo dell’idea di essere disponibili se uno ci chiede, ma se uno ha trovato la sua chiave, ha il suo percorso, o forse non vuole lasciarsi influenzare da un autore che poi conosce l’altra lingua il giusto (perché di noi conosce un po’ lo spagnolo soltanto uno), noi lo lasciamo lavorare. Quindi no, non abbiamo avuto confronti.
⁂
Gli “appunti” che seguono si concentrano sulla titanica impresa affrontata dal traduttore spagnolo e sulle strategie utilizzate per riprodurre un romanzo linguisticamente, ma anche culturalmente e politicamente, tanto sfaccettato e denso come L’Armata dei Sonnambuli.
[…]
3. La voce del popolo
L’idioletto più tipizzato del romanzo è senza dubbio quello che abbiamo denominato la lingua del popolo, del foborgo o della Rivoluzione. Come indica Wu Ming 2, vari elementi concorrono a formarlo. In primo luogo è la parlata di un determinato distretto parigino (Saint-Antoine), colta in un preciso contesto storico, la Rivoluzione francese. Tuttavia, sarebbe fuorviante considerare questo ibrido un tentativo di ricreare in italiano una varietà diatopica del francese o, addirittura, della lingua di fine Settecento. Anche l’etichetta di socioletto può considerarsi adeguata solo in una certa misura: da un lato, effettivamente, vuole essere il codice espressivo delle classi marginali (la variegata moltitudine delle tricoteuses, le carbonaie, le prostitute, i borseggiatori, i panettieri ecc…); dall’altro, si oltrepassa volutamente il mimetismo della parlata bassa. Gli autori, infatti, hanno creato una sorta di pastiche che rifugge ogni precisa identificazione “realistica” o “verosimile” di un parlato esistente.
Allora, una definizione che probabilmente più si avvicina alle intenzioni di Wu Ming potrebbe essere quella di gergo. Secondo Beccaria si intende «una lingua convenzionale, ristretta a un gruppo sociale ben preciso che la usa in modo consapevolmente e deliberatamente criptico». L’impenetrabilità all’esterno sembra essere, in effetti, uno dei parametri con cui è stata costruita la voce del foborgo, in contrapposizione agli intellettuali e ai nobilardi che si avventuravano negli stretti vicoli di Saint-Antoine. Si ritrovano anche altri elementi ricorrenti di quella che può essere definita una “controlingua”: la forte espressività, il lessico ripetitivo, l’uso di parole polisemiche e di prestiti dialettali, la formazione di neologismi tramite suffissi, aferesi, metatesi e troncamenti, la tendenza all’irradiazione sinonimica, l’abbondante fraseologia, l’alterità e l’oscenità. Va ricordato, di nuovo, che non si tratta dell’imitazione di un gergo attestato, ma di una lingua “artificiale”, risultato di un centrifugato di fonti, stimoli e provenienze diverse. Proprio questa sua “irriconoscibilità” ambisce a raccontare le pieghe nascoste della Rivoluzione, e costringe il lettore a distorcere la sua prospettiva per interpretare con uno sguardo nuovo fatti storici che in parte già conosce. In questo risiede probabilmente la sua essenza più profonda: è un “gioco” letterario, una ricercata deformazione in cui si uniscono e sovrappongono calchi del francese settecentesco basso, popolarismi, traduzioni innaturali, italianizzazioni del dialetto, arcaismi, neologismi, false derivazioni, onomatopee, dislocazioni atipiche, forme sgrammaticate o gergali e un esteso campionario di alterazioni lessicali, morfologiche e sintattiche.
La sua riproduzione rappresenta, inevitabilmente, la sfida più ardua per il traduttore.
La lingua straniante
Il primo fenomeno che produce alterità nella lingua creata da Wu Ming si avverte già a livello tipografico, con l’univerbazione. In questo modo si trasmette immediatamente la sensazione di colloquialità orale, di sgrammaticatura, e talvolta, della concitazione del momento. Anagrama ha invece optato per una grafia spagnola standard:
invetta a una torre > en lo alto de la torre
quelgiorno > aquel día
però a quelmodo > el caso es que no
Gli esempi di separazione delle parole sono generalizzati in traduzione, come dimostrano altri casi:
dieciventi (p. 13) > quince o veinte (p. 17)
come Gesucristincroce (p. 25) > como hizo Jesucristo en la cruz (p. 25)
burubumburubum (p. 59) > pumba, pumba, pumba (p. 52)
forseforse (p. 61) > a lo mejor (p. 53)
dadentro anziché dafuori (p. 114) > desde dentro, no desde fuera (p. 89)
Annagioseffa (p. 130) > Ana Josefa (p. 101)
dopo che magnacumgaudio (p. 131) > desde que se aprobó (p. 101)
Si noti che ciò riguarda anche i nomi propri e le onomatopee (con relativa aggiunta della punteggiatura). Gli esempi, inoltre, mostrano che per trasmettere maggiore linearità si arriva a scempiare la geminatio colloquiale dell’avverbio (“a lo mejor”) o a integrare parti del discorso assenti nel testo fonte (“como hizo…”).
Il prurito di regolarizzazione grafica porta a sopprimere anche i trattini, che svolgevano una funzione analoga all’unione delle parole, estendendosi però a segmenti più ampli di discorso per conferire una punta di comicità:
Faccia-di-teschio (p. 188) > el de la cara de calavera (p. 141)
Prima volano i complimenti, i chi-siete-voi e chi-sono-le-vostre-madri, poi dove-cazzo-sono-le-vostre-coccarde (p. 395) > Empiezan a decirse piropos, que quiénes sois vosotras y quiénes son vuestras madres, que dónde están vuestras escarapelas (p. 292)
ti-spiego-come-va-il-mondo (p. 499) > del que sabe lo que es el mundo (p. 364)
Nelle scelte lessicali la traduzione vira in modo ancora più evidente verso la normalizzazione, escludendo talvolta i neologismi e le grottesche derivazioni:
dopo aver occhiato > después de ver [dopo aver visto]
si snocciano > viendo desgranarse [vedendo sgranarsi]
bertocche > cogotes [nuche]
Vediamo altri casi, estratti non solo dai segmenti attribuiti propriamente al personaggio collettivo del foborgo, ma anche da altri dialoghi o dalla voce del narratore extradiegetico quando calca la lingua dei popolani:
si grappavano ai panni (p. 11) > se agarraban a uno (p. 15) [si aggrappavano a uno]
giraffi (p. 13) > jirafas (p. 16) [giraffe]
salta su a dire che col zullo che sarebbe un affare! (p. 61) > dice que menudo negocio (p. 53) [dice che razza di affare]
non ci capisco un zullo (p. 666) > no entiendo ni jota (p. 483) [non ci capisco un’acca]
saloppa (p. 128) > fulana (p. 100) [sgualdrina]
piangevano anche con le urecchie (p. 129) > se echaban a llorar (p. 100) [si mettevano a piangere]
s’aggiungeva una mano rattosa (p. 131) > intentaban meterles mano (p. 101) [cercavano di mettergli le mani addosso]
un cipollo (p. 132) > una cebolla (p. 102) [una cipolla]
festare e inciuccarsi (p. 205) > celebrarlo y emborracharse (p. 153) [festeggiare e ubriacarsi]
indonnito (p. 206) > vestido de mujer (p. 153) [vestito da donna]
gente che si stirpa i capelli (p. 321) > otros se tiran de los pelos (p. 239) [altri si tirano per i capelli]
gli aristocchi (p. 407) > los aristócratas (p. 300) [gli aristocratici]
Come si può vedere, la maggior parte delle volte si traduce con uno spagnolo standard (facendo cadere anche le irregolari morfologie di “cipollo” o “giraffi”), o si ha una traduzione zero (“urecchie”). Ma non mancano casi in cui si abbassa il registro ricorrendo a espressioni fraseologiche (“no entiendo ni jota”) per conservare il registro basso. Il traduttore si avvale di questa tecnica anche quando l’originale presenta onomatopee o altre figure fonosimboliche, sostituite da un lessico più colloquiale o da esclamazioni consuete del parlato:
Ancertopunto sale tutto un brubru (p. 13) > En esto se oye un follón (p. 17) [allora si sente un casino]
Erano garzi della bottega di papà che aspettavano di ereditare l’accaparro, sgraffign! (p. 605) > Eran mozos de la tienda de papá que esperaban heredar lo acaparao, ¡toma ya! (p. 440) [beccati questa!]
si permettevano il lusso di annoiarsi, sbadigl! (p. 605) > se permitían el lujo de aburrirse, ¡pobres! (p. 440) [poverini!]
Come dimostrano alcuni degli esempi trascritti, il fenomeno di naturalizzazione concerne anche la sintassi, e porta a rendere più perspicuo il discorso ellittico e spezzato del testo di partenza. Di nuovo, ciò porta ad aggiunte: “colli si slungano come polli o giraffi” (p. 13) > “La gente alarga el cuello como si fueran pollos o jirafas” (p. 16, introducendo un nuovo soggetto, “gente”, e un verbo al congiuntivo, “fueran”, [fossero] poco adatto al parlato); o, invece, alla riduzione, come nel caso di giri colloquiali: “com’è come non è, quel mattino, in fila […] c’erano” (p. 131) che si rende con la congiunzione standard “conque” [quindi]: “conque aquella mañana hacían cola” (p. 101).
“Francesismi”
Come spiega Wu Ming 2, oltre alle deformazioni linguistiche appena segnalate, tre fenomeni si sommano per forgiare la parlata del popolo: traduzioni alla lettera di nomi, fraseologia, lessico e morfosintassi francesi; calchi della lingua popolare dell’età rivoluzionaria e, infine, italianizzazioni di dialetti emiliani.
Del primo va sottolineato, innanzitutto, che il traduttore ha colto l’intenzione di creare una Parigi alternativa attraverso la toponomastica e gli odonimi “arcaizzanti”. Così, sono tradotti alla lettera tutti i riferimenti, sia quelli acclimatati in francese nella cultura spagnola odierna (es. “Nuestra Dama” per Notre-Dame o “Bulevar de la Buena Nueva” per Boulevard de Bonne-Nouvelle), sia altri più difficilmente riconoscibili, come “Calle de los Astilleros” (“Via dei Cantieri”, vale a dire Passage du Chantier) o “Picadero de las Tullerías” (“Maneggio delle Tegolerie” per il Manège des Tuileries). Si riscontra, invece, un’oscillazione nel nome della rivista diretta da Jaques-René Hébert, nell’originale sempre individuata (se non due volte nel Quinto Atto, quello fintamente “storiografico”) come “Papà Duchesne”. In spagnolo in 7 occorrenze è tradotto (“Padre Duchesne”), mentre in 10 si torna alla forma francese (es. “Estratto da IL PAPÀ DUCHESNE”, p. 319 > “Extracto de LE PÈRE DUCHESNE”, p. 237). Allo stesso modo, si restituisce il nome autentico di altre pubblicazioni dell’epoca:
L’Auditore nazionale (p. 502) > L’Auditeur national (p. 366)
Il Vecchio Cordigliere (p. 546) > Le Vieux Cordelier (p. 395)
Il Corriere Repubblicano (p. 602) > Le Courrier Républicain (p. 437).
Sembra che il timore di ambiguità e di interpretazioni fuorvianti (soprattutto quando si citano estratti) abbia spinto a diluire la strategia al contempo familiarizzante e straniante che invece Wu Ming applicava in modo sistematico proprio per enfatizzare la spiazzante sovrapposizione tra reale e fittizio.
Si perdono del tutto, invece, i calchi morfosintattici del francese. Già l’iniziale «Te lo si conta noi…» è reso con una sintassi abituale nello spagnolo («Nosotros, nosotros te contamos», [Noi, noi ti raccontiamo]) anche se è vero che difficilmente si poteva tradurre in modo diverso, se non a costo di forzare in modo molto evidente la lingua. E, allo stesso modo, non resta traccia delle storpiature del lessico “francesizzato”, a partire da una parola tanto emblematica come “foborgo” (che figura ben 69 volte nel volume), sempre trasposta con il comune “barrio” [quartiere]. Ci limitiamo a suggerire una possibile, e intuitiva, alternativa: foburgo. La facile coniazione avrebbe potuto garantire prossimità con il francese e, allo stesso tempo, mantenere un’aurea di “singolarità” con una voce poco usata ma non indecifrabile e semanticamente adeguata, essendo costruita su burgo, che il dizionario della Real Academia Española (RAE) definisce «aldea o población muy pe- queña, dependiente de otra principal» [«villaggio o borgo molto piccolo, dipendente da un altro principale»]. Non diversa è stata la scelta per altri espliciti “francesismi”: “risguardare la protagonista” (p. 12) > “viendo a la protagonista” (p. 16) [vedendo la protagonista] o “travagli onesti” (p. 129) > “curros honestos” (p. 100, anche se, come compensazione, troviamo il colloquiale curro invece dello standard trabajo, [lavoro]). Esemplare in tal senso è la resa di termini molto frequenti nel romanzo, come “garzo”. Le soluzioni proposte sono sempre riconducibili allo spagnolo standard e, quindi, private della manifesta derivazione del francese: “crío” (p. 25); “chiquillo” (p. 26); “chaval” (p. 91); “joven” (p. 203); “mozo” (p. 363); “amigo” (p. 440); “zagal” (p. 513). Nonostante le soluzioni diverse, tutti i traducenti hanno un significato affine: “ragazzo”, “ragazzino”, “giovane” o “amico”. Questo avviene anche per i derivati burleschi di garçon: “garzolo” (p. 186) > “crío” (p. 140); “garzotto” (p. 659) > “mozalbete” (p. 479) e “chico” (p. 520).
Per la fraseologia calcata dal francese fine-settecentesco si alternano, invece, scelte traduttive contrarie. Solo molto raramente si mantiene:
Stavo già per dirgli di andarsene in Guyana (p. 289) > Iba a decirle que se fuera a la Guyana (p. 216) [Stavo per dirgli che se ne andasse alla Guyana]
che l’asino se lo fotta in Guyana… (p. 607) > que le den en Guyana… (p. 441) [che se lo prenda in Guyana]
Altrove la locuzione non si traduce: “contro i moderati che ci mettono del verde e del secco per opporsi all’esecuzione” (p. 519) > “contra los moderados que se oponen” (p. 377) [contro i moderati che si oppongono];
“ma ce n’è voluto, del verde e del secco, cioè delle gran legnate” (p. 395) > “repartiendo leña también” (p. 291) [dando anche delle legnate].
Oppure l’immagine può essere esplicitata con una traduzione generalizzante: “abbiamo mandato il Capeto a chieder l’ora al vasistas” (p. 492) > “enviamos al Capeto a la guillotina” (p. 359) [abbiamo mandato il Capeto alla ghigliottina]. O è sostituita da espressioni ugualmente chiarificatrici ed esistenti in spagnolo, ma che tentano di recuperare il residuo traduttivo incrementando l’osceno o la colloquialità secondo una tecnica più volte utilizzata da Salmerón Arjona:
pagarci con moneta di scimmia (p. 207) > a vendernos la burra (p. 154) [lett. “a venderci l’asina”, fig. “darcela a bere”]
dopo aver mandato tutti in Guyana (p. 208) > mandar a todos a tomar por culo (p. 155) [mandare tutti affanculo]
li hanno mandati a chiedere l’ora al vasistas (p. 546) > lo han mandao a la guillotina (p. 396) [“l’hanno mandato alla ghigliottina”, con caduta della -d- intervocalica di mandado, cfr. infra il § 3.5]
Infine, i nomi plasmati sul Père Duchesne perdono ogni rapporto con la lingua rivoluzionaria e le sue umoristiche derivazioni. In spagnolo sono tradotti differentemente e interpretati a seconda del contesto con una tendenza alla generalizzazione esplicativa, alla semplificazione o, talvolta, all’eufemismo. È il caso di “gianfotti”, per cui si alternano “señoritos” [signorini], “sinvergüenzas” [sfacciati, canaglie] o anche il più generico “gente”, svuotato di ogni connotazione dispregiativa. Lo stesso avviene con “pierculi”, tradotto di nuovo con “sinvergüenza” o con “chulos” [sfrontati, arroganti], o con i neutri “jóvenes” [giovani], “amigos” [ami- ci], “tipos” [tipi] e “aristócratas” [aristocratici]. Il caso di “gecco” offre lo stesso ventaglio di soluzioni (es. “un hombre”, p. 20 [un uomo]; “los revolucionarios”, p. 130 [i rivoluzionari]), includendo la traduzione zero: “Piergecco Brissot in persona” (p. 131) > “el mismísimo Brissot” (p. 102) [proprio Brissot in persona].
Lo stesso avviene per altre creazioni sarcastiche e denigranti:
monopolatori (p. 50) > acaparadores (p. 46) [accaparratori]
Gianmerdone di Girard (p. 121) > el asqueroso de Girard (p. 95) [lo schifoso di Girard]
un nobilardo (p. 469) > un noble (p. 343) [un nobile]
giancaccole (p. 605) > maricas (p. 440) [finocchi]
Dialettalismi e oralità
L’italianizzazione dei dialetti emiliani serve a infondere al parlato del popolo un’autenticità che definiremmo paradossale, essendo queste espressioni messe in bocca a personaggi francesi. Dal punto di vista semantico il traduttore dimostra di comprendere senza difficoltà il testo di partenza (un’eccezione pare essere “finché non han tirato gli ultimi”, p. 13 > “los han metido en el trullo a todos”, p. 17 [li han messi tutti in gattabuia]). Nonostante ciò, le manifestazioni dialettali o regionali sono di norma tradotte in spagnolo standard, quando non scompaiono del tutto. Già nel brano inziale, allora, “fantolino” (italianizzazione del bolognese) è reso con “pequeños” [piccoli], e il ferraresismo “puttini” con l’ugualmente neutro “niños” [bambini]. Questa tendenza è confermata da numerosi altri casi, come i seguenti:
Ehi, guardate la mano di lui li! (p. 13) > ¡Eh, miradle la mano! (p. 16) [Eh, guardategli la mano!]
ballerine sdozze (p. 13) > malas bailarinas (p. 16) [pessime ballerine]
sorbe (p. 58) > ¡anda! (p. 51) [toh!]
zullate come sassi (p. 62) > como si le tiraran piedras (p. 54) [come se gli tirassero sassi]
vé che qua butta male (p. 114) > esto se pone feo (p. 90) [qui si fa brutta]
soquante magliare (p. 131) > muchas costureras [molte sarte]
un manrovescio che il ciocco lo sentono anche in fondo alla fila (p. 132) > una bofetada que se oyó en toda la cola (p. 102) [uno schiaffo che si sentì in tutta la fila]
l’ha brancata (p. 132) > la agarró (p. 102) [la prese]
cavatevi da mezzo (p. 186) > quitaos de en medio (p. 140) [toglietevi di mezzo]
mettiamo ancora scago (p. 604) > aún metemos miedo (p. 439) [facciamo ancora paura]
In altri passaggi il traduttore, ancora una volta, recupera la perdita della varietà diatopica con espressioni popolari (es. “giazzo”, p. 14 > “un frío del copón”, p. 17, [un gran freddo]: la RAE definisce infatti del copón una «locución malsonante» per «muy grande, tremendo»), o interiezioni, come per il frequente “sbrisga”, tradotto più volte con “¡quia!” (esclamazione di incredulità o negazione) o la più comune “¡venga!” [forza!, su!].
Questa tecnica si riscontra anche quando non sono propriamente dialettalismi, ma tratti che riflettono quello che il sociolinguista Gaetano Berruto ha definito “italiano neostandard”, quella modalità espressiva di uso medio che include forme colloquiali ormai accettate nella lingua nazionale. Così il ci attualizzante: “Ci ha pure ragione” (p. 62) trasposto con una frase fatta dal sapore popolareggiante come “tiene más razón que un santo” (p. 54) [ha più ragione di un santo].
Non sempre, però, si conservano le movenze spontanee dell’oralità con le sue sgrammaticature. Paradigmatico è il finale del primo brano riportato (“ma dadietro sgolano che lo deve metter giù” > “y los de atrás les gritaban que se bajaran”) in cui l’imperfetto congiuntivo (“bajaran”, [abbassassero]) manifesta il rispetto accademico delle regole della consecutio. Sono anche altri i fenomeni di oralità riversati nello scritto da Wu Ming che non hanno corrispondenza in spagnolo. Per esempio, l’uso del che polivalente (es. “ché alle nostre brave donne”, p. 131), sempre esplicitato con la regolare congiunzione causale porque (“porque a nuestras bravas mujeres”, p. 101); o la mancata concordanza tra soggetto e verbo (“c’è dei momenti”, p. 545) > “hay momentos”, p. 395 [ci sono momenti]); o l’aferesi dei dimostrativi (es. “ ‘sta fumana”, p. 206 > “este ruido”, p. 153 [questo rumore]; “’sto fatto” (p. 206) > “esto”, p. 153 [questo]). In quest’ultimo esempio, di fronte all’oggettiva impossibilità di conservare la deviazione dallo spagnolo standard, si sarebbe forse potuto optare per una violazione della norma e approdare a un’aspirazione (e’te; e’to) non estranea – come vedremo – alla traduzione, e che avrebbe mantenuto un riflesso da parlato conversazionale senza indirizzarlo troppo verso una realtà regionale poco pertinente.
L’osceno
Nella versione spagnola si attenua un altro tratto consueto della lingua del popolo: il lessico e la fraseologia triviale e scurrile. Il fenomeno è già stato riscontrato in alcuni esempi precedenti, e in particolare nei buffoneschi composti come “gianfotti” o “pierculo” ecc… Non si tratta, comunque, di un processo sistematico, e non mancano casi di espressioni equivalenti che mantengono lo stesso grado di oscenità:
troia (p. 321) > zorra (p. 239)
col cazzo! (p. 414) > ¡Y un cojón! (p. 306)
ci aveva un po’ rotto il cazzo (p. 546) > ya empezaba a tocarnos las pelotas (p. 395)
che cazzo avevano in mente? (p. 637) > ¿Qué coño era aquello? (p. 462)
Tuttavia, molto spesso si epurano i riferimenti scatologici o legati alla sfera sessuale e divina, così come le imprecazioni, le esclamazioni o le interiezioni “impudiche”. Si può avere una traduzione zero:
quel figlio di un cane (p. 11) > Ø (p. 15)
delle smerde famiglie senatorie (p. 617) > los miembros de las familias senatoriales (p. 448) [i membri delle famiglie senatoriali]
Alla fine giù ci andavano, dio prete, ma dovevi proprio tritargli le ossa (p. 660) > Al final caían, pero para eso había que molerlos a palos (p. 479) [alla fine cadevano, ma bisognava farli a pezzi a forza di legnate]
Più spesso assistiamo a una versione eufemistica:
con tanto di pezze al culo (p. 12) > llena de remiendos (p. 16) [piena di rammendi]
una filza di richieste lunga un cazzo di somaro (p. 205) > una ristra de peticiones más larga que un día sin pan (p. 153) [una sfilza di richieste più lunga di un giorno senza pane]
che l’asino se li fottesse (p. 274) > ¡que el diablo se los llevara! (p. 204) [che se li portasse via il diavolo!]
Perché cazzo (p. 519) > Por qué diablos (p. 377) [Perché diavolo]
eppure, cazzo, non c’era in tutta la Repubblica (p. 520) > cuando, en realidad, no había en toda la República (p. 377) [quando, in realtà, non c’era in tutta la Repubblica]
Vaffanculo (p. 541) > Al diablo (p. 392) [Al diavolo]
ti ha dato del coglione (p. 623) > te llamó tonto (p. 451) [ti ha dato dello scemo]
’Sti qui però non eran pomponnati da teste di cazzo (p. 664) > Aunque éstos no iban tan peripuestos (p. 482) [Anche se questi non erano molto agghindati]
La traduzione sembra essere mossa non solo dal desiderio di annacquare il turpiloquio ma, ancora una volta, dalla volontà di accrescere l’intelligibilità del testo. Ciò è ancora più visibile altrove, quando si edulcora, e allo stesso tempo si esplicita, il volgarismo o il riferimento figurato:
percula uno (p. 12) > dicen unos (p. 16) [dicono alcuni]
che doveva incularsi l’Olanda (p. 114) > que debía conquistar Holanda (p. 90) [che doveva conquistare l’Olanda]
cagnaccia (p. 129) > la poli (p. 100) [apocope col. per policía, “polizia”].
La traduzione: verso l’español coloquial hablado
Si è visto che nella traduzione si smarriscono alcune delle anomalie della lingua del popolo. Tuttavia non si può parlare di un vero processo di neutralizzazione perché anche in spagnolo si apprezza un idioletto immediatamente riconoscibile rispetto a quello del narratore o degli altri personaggi. La lingua del foborgo ricreata da Salmerón Arjona sembra indirizzarsi verso due modelli ben definiti: da un lato, si configura come socioletto, in quanto espressione del popolo basso; e, dall’altro, come mimesi dell’oralità colloquiale. Il traduttore propone così una varietà stilistica ben identificabile, che possiamo indicare in modo generico come español coloquial hablado o come una sua riduzione scritta.
[…] Una scelta che si allontana dall’operazione che era alla base dell’originale. Nel testo di arrivo, infatti, non si concepisce un artificio letterario, ma si cerca di assimilare l’idioletto a un prototipo più o meno “verosimile”: la lingua parlata dagli strati inferiori. Questa divergenza dipende anche da una asimmetria tra le due lingue, attinente alla loro genesi e al loro diverso rapporto con i regionalismi. In italiano – lingua che nasce come letteraria, alta e illustre – lo sforzo di ritrarre nello scritto la realtà orale sfocia necessariamente nell’utilizzo del dialetto o di un idioma infarcito di regionalismi. Lo dimostra anche nell’Armata dei Sonnambuli il fatto che Wu Ming abbia voluto rendere meno artefatto il parlato del popolo aggiungendo tocchi emiliani. In spagnolo, al contrario, si può dire che esiste un re- gistro colloquiale tutto sommato uniforme a livello nazionale, che non rende parimenti ineludibile il ricorso ai dialetti. È proprio a questo che pare ispirarsi il traduttore.
Uno dei primi strumenti che utilizza per ricreare questo español coloquial hablado è l’abbondante uso di espressioni colloquiali, fraseologiche, modismos, locuzioni avverbiali e interiettive. Una tecnica già incontrata, e di cui offriamo altre testimonianze:
col salinzucca di poi (p. 11) > a toro pasao (p. 15) [lett. “a toro passato”, fig. “a cose fatte”, con caduta della -d- in pasado, cfr. infra]
come le setole di un pennello (p. 11) > como sardinas en lata (p. 15) [come sardine in scatola]
Un bel discorso liscio e tondo (p. 54) > Más claro, agua (p. 62) [lett. “più chiaro, l’acqua”, fig. “chiaro come il sole”]
per ribadire il concetto (p. 115) > a decirles lo que vale un peine (p. 90) [lett. “a dirgli quanto vale un pettine”, fig. “a dirgli che se ne sarebbero accorti”]
Madama Ghigliottina macinava che macinava (p. 632) > Doña Giullotina estaba dale que te pego (p. 459) [ci dava dentro]
vede ghignare la morte, rognaccia! (p. 635) > está muy confuso, porque, ¡zape!, ve que la palma (p. 461) [“vede che ci lascia le penne”, con aggiunta anche dell’onomatopea “zape”]
Salmerón Arjona ha cercato di uniformare il testo d’arrivo a questo registro (attraverso volgarismi, frasi fatte e onomatopee) anche quando l’originale è poco caratterizzato in tal senso. Il rifiuto del lessema standard in favore di uno più colloquiale permette allora di recuperare le inevitabili perdite a livello frastico, anche se, come detto, ciò non sfocia propriamente né nel gergo né nel neologismo:
roba (p. 114) > manduca (p. 90) [col. per comida, “alimento”]
al fresco (p. 128) > en el trullo (p. 100) [col. per cárcel, “carcere”]
uno sciroccato (p. 172) > algún pirado (p. 130) [col. per alocado, “fuori di testa”]
gonzo (p. 632) > zopenco (p. 459) [col. per tonto, “scemo”]
Come si è accennato, il traduttore si spinge anche oltre e, sempre secondo il criterio della compensazione, introduce arcaismi formati dalla sostituzione del suono muto /h/ con la consonante velare /g/: gueso (due occorrenze) [osso], güevos (dieci) [uova], e agora (quattrordici) [ora]. Sono forme attestate dalle origini della lingua e che sopravvivono fino ai Siglos de Oro, quando iniziano a decadere per venire gradualmente sostituite da quelle attuali. Ma non è solo per questa patina vetusta che sembra utilizzarle Salmerón Arjona. Le prime due sono, infatti, comuni nel registro basso e nella parlata rurale o, meglio, è come un parlante poco istruito non solo pronuncia, ma soprattutto trascrive, hueso o huevo.24 A queste parole ne va aggiunta un’altra, guierro, neologismo non attestato, ma creato dal sostantivo hierro [ferro] su analogia delle altre. È uno dei rari casi in cui ci si avvicina all’oscurità semantica e all’effetto straniante voluto dagli autori e che, quindi, ci pare un’ottima soluzione traduttiva.
Un altro vistoso caso di compensazione per aderire all’español hablado è la riproduzione grafica della fonetica del parlato informale. Il segnale più frequente è la già evidenziata caduta della -d- intervocalica. Si trova spesso nei participi passati in –ado della prima coniugazione: “gustao” (gustado), “apretujaos” (apretujados); ma anche altrove: “joer” (joder), “diputao” (diputado), “tejaos” (tejados), “mercao” (mercado) ecc…. O, ugualmente, si produce l’elisione della -d finale, con relativa accentazione grafica della vocale: “verdá” (verdad), “oscuridá” (oscuridad), “Palacio de la Igualdá” (Igualdad) ecc… Sono usuali anche altri casi di apocope: “pa” (para), “rapá” (rapado), “pa na” (para nada), fino a “pal”, contrazione di “para el”. Fenomeni che, ovviamente, non hanno corrispettivo nell’originale ma che ci sembrano ottime soluzioni, in quanto danno al lettore spagnolo l’impressione di assistere a una vivace e spontanea manifestazione orale.
Un ultimo esempio condensa alcuni dei tratti analizzati, e può essere let- to come sintesi della strategia del traduttore: “era la fotta di dire” (p. 20) > “es pa farolear diciendo” (p. 21). Ci imbattiamo, da un lato, nell’eufemismo e nella contestuale soppressione del neologismo (“fotta”), ma dall’altro, la perdita è compensata dalla ricerca della varietà bassa: attraverso il lessico (farolear è colloquiale per “spararla grossa”) e l’apocope (“pa” per “para”). È in questo modo, in conclusione, che il traduttore riesce a deviare dalla norma linguistica e trasmettere, anche se in modo diverso e con un effetto non del tutto equivalente all’originale, l’idioletto estremamente marcato del popolo di Wu Ming.
⁂
Grazie per questi interessantissimi documenti. La traduzione letteraria è il mio campo e leggere una trattazione così estesa e puntuale è stato un grande piacere. A mio avviso la possibilità di interloquire con l’autore è molto importante, soprattutto quando c’è da (re)inventare un linguaggio. In questo caso specifico ho ammirato molto l’opera del traduttore spagnolo, che ha sicuramente adottato una strategia valida, ma resta aperto l’interrogativo se da uno scambio con voi non sarebbero scaturite soluzioni migliori o più in sintonia con il testo originale. Ci sono traduttori e traduttrici che preferiscono non avere alcun contatto con l’autore, mentre per altri è fondamentale. Penso che non esista un’unica regola e che l’atteggiamento possa variare anche a seconda del libro e dell’argomento, ma nella narrativa la possibilità di chiedere conferme e delucidazioni, nonché di avanzare proposte, mi sembra un grosso aiuto alla realizzazione di un’opera il più possibile fedele allo spirito dell’originale. E complimenti a voi per questo lavoro enorme, mi è venuta una gran voglia di leggere il libro.
Ci ha scritto Nadie Enparticular, la traduttrice di New Thing, Manituana e Stella del mattino di cui parla WM2 nell’intervista:
«Ho letto l’intervista a WM2 e vi ringrazio di cuore per le bellissime parole che ha detto su di me e il mio lavoro.
Però, a questo punto, vi voglio spiegare perché io penso che le mie traduzioni sembrano loro molto “argentine”.
Premessa: Il mio nonno paterno era nato ad Avila, vicino a Madrid (e gli altri tre erano italiani, come mia madre).
Io in Argentina ho fatto le medie e superiori in una scuola spagnola: Instituto Hispano-Argentino Pedro Poveda. Le segretarie, le bidelle, la stragrande maggioranza delle professoresse e persino la preside erano in trasferta dalla Spagna. Molte delle mie compagne erano spagnole.
Per alcuni anni sono stata traduttrice/interprete giurata in un tribunale di una città del Nord Italia. Ho tradotto molti fascicoli di processi che si svolgevano in contemporanea in Spagna e in Italia, e che avevano più pagine di vostri libri. Questi fascicoli contenevano testi legali ma anche testimonianze di persone “di strada”. In quei cinque anni, se la memoria non mi tradisce, soltanto una volta mi hanno chiesto di cambiare due parole.
Dunque, io penso che a loro viene in mente la mia origine argentina perché le mie traduzioni sono la più fedele possibile trasposizione della vostra lingua italiana con le parole del castigliano. Vedono una traduzione che si capisce benissimo, ma leggermente “strana” e “diversa” rispetto ai canoni della Real Academia Española.
Sono sicura che queste persone non capiscono in maniera approfondita l’italiano. Non riescono a capire che voi non scrivete in un italiano “corrente”. E così, non avendo gli strumenti che permettano loro di giudicare la traduzione nel modo giusto, credono che la lingua straniante che voi usate di solito (che io adoro) è una traduzione “argentina” o “sudamericana”.
Nonostante tutto ciò, in certi casi forse l’associazione può essere anche giusta, perché per via dell’immigrazione la lingua castigliana in Argentina è stata assai fortemente influenzata dall’italiano. Questo è un fatto.
L’altro fatto è che, almeno qui in Spagna, la “normalizzazione” (o sarebbe meglio chiamarla “appiattimento”) in tutto l’ambito della cultura ormai è imbarazzante. Tradurre un libro per una casa editrice è un’operazione commerciale, dunque se vogliono massimizzare le vendite, il livellamento verso il basso del vostro modo di scrivere s’impone. E poi, un traduttore non avrà mai la forza che avete voi tutti insieme come autori nella vostra madrelingua per poter chiedere di essere rispettato.
E adesso vi voglio raccontare un’ultima cosa, per tradurre i vostri libri io ho usato quello che si chiama “memoria di traduzione”. In poche parole: un software tecnico nel quale ho caricato le versioni in italiano e in spagnolo di vostri libri tradotti precedentemente. Quel software mi proponeva com’era stata realizzata la traduzione quando capitava la stessa combinazione di due o più parole. Difficilmente mi potevo discostare.
Detto ciò, sono comunque molto contenta che adesso siete con Anagrama. È l’unica casa editrice che tiene ancora una certa reputazione in Spagna.»