[Celebriamo – con qualche giorno d’anticipo – un anniversario “inconsueto”. Il 17 maggio 1900 l’anarchico toscano Gaetano Bresci, emigrato negli USA due anni prima, si imbarcava a New York per tornare in Italia. Quale fosse il suo intento è cosa nota a molti.
Sono (siamo) ancora in tanti a ricordare il regicida. Se n’è avuta prova nel febbraio scorso, quando la ributtante partecipazione di un sig. Savoia al Festival di Sanremo riaccese sul web l’odio per una dinastia infame e spinse molti, su blog e social network, a rimpiazzare il proprio avatar col volto di Bresci, vindice fantasma e perenne monito. Il principino mancato salmodiava: “Io credo nella mia cultura e nella mia religione, / per questo io non ho paura di esprimere la mia opinione. / Io sento battere più forte il cuore di un’Italia sola, / che oggi più serenamente si specchia in tutta la sua storia.” Pura apologia della “smemoria condivisa”: un’Italia tarallucci-e-vino unita nell’oblio di ogni sopruso passato e nella rimozione di ogni schifezza presente. E Ghinazzi ci metteva il carico da undici cantando: “Tu non potevi ritornare pur non avendo fatto niente…” Tra i conati di vomito, decidemmo di scrivere un ritratto di Bresci per la rubrica “Wumingwood” che teniamo su GQ.
Il pezzo è uscito il mese scorso col titolo “L’amico americano”, e oggi lo riproponiamo. Magari non dirà nulla di nuovo a chi conosce la vicenda, ma nel contesto di quella rivista ammetterete che fa la sua non scontata figura. L’illustrazione, come al solito, è di David Foldvari. Cogliamo l’occasione per segnalare che su Bresci esiste un documentario, Colpo al cuore: morte non accidentale di un monarca, a cura di Teleimmagini? e XM24. Non lo abbiamo ancora visto, comunque lo proiettano pure domani sera, 14 maggio, al circolo anarchico Berneri di Bologna, Piazza di P.ta Santo Stefano 1, h.20.]
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L’AMICO AMERICANO
Durante l’ultimo Festival di Sanremo sono circolati in Rete moltissimi video taroccati con l’esibizione canora del trio Di Savoia – Ghinazzi – Canonici. In una di queste perle il testo e la musica di Italia amore mio sono sostituiti da un’altra canzone, in modo che il sedicente principe di Piemonte sembra intonare le parole “Deh non ridere sabauda marmaglia, se il fucile ha domato i ribelli”, mentre Pupo gli risponde aulico e fiero: “Se i fratelli hanno ucciso i fratelli, sul tuo capo quel sangue cadrà”. Il montaggio si conclude in dissolvenza sul primo piano di un signore coi baffi impomatati, le punte appena girate all’insù, scuro di occhi e capelli, elegante nella sua giacca nera, camicia bianca e farfallino.
Una foto che nell’estate del 1900 costò il sequestro a un giornale di provincia, colpevole di averla pubblicata, mostrando così ai suoi lettori che Gaetano Bresci, l’assassino del re Umberto I, era un uomo di bell’aspetto e non una bestia.
All’epoca dei fatti, Gaetano aveva trent’anni, essendo nato vicino a Prato l’11 novembre 1869, lo stesso giorno di Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro, futuro re d’Italia.
La sua famiglia s’era ridotta in miseria, come migliaia di altre, per via della crisi economica e delle tasse sui generi di prima necessità. Così Gaetano, a undici anni, comincia a lavorare quattordici ore al giorno, dal lunedì al sabato, e la domenica alle scuole comunali, per imparare a decorare la seta. A 23 anni finisce in galera per due settimane, con l’accusa di aver insultato una guardia. A 26 lo mandano al confino sull’isola di Lampedusa, per aver partecipato a scioperi e manifestazioni anarchiche. Tornato a casa, trova lavoro in Garfagnana, conosce una certa Maria e si ritrova con un figlio sulle ginocchia. Al che, decide di partire per gli Stati Uniti. In cerca di fortuna? Inguaiato dalla paternità? Stanco degli sbirri che lo sorvegliano? Non è dato saperlo. Fatto sta che paga una balia per il neonato e all’inizio del 1898 si trasferisce a Paterson, nel New Jersey, cuore di una fitta comunità di anarchici, soprattutto italiani. Gaetano frequenta i loro circoli, conosce il famoso Errico Malatesta, ma a differenza dei compatrioti si mette a studiare l’inglese, bazzica le osterie locali, gira con la macchina fotografica al collo, come un vero americano. Gli piace vestirsi bene e fa colpo su molto donne, finché non sposa un’operaia irlandese di nome Sophie. La loro luna di miele, però, è rovinata da una notizia terribile: almeno centoventi persone sono morte a Milano durante una grande protesta popolare contro il caro vita. Per riportare l’ordine in città, il generale Bava Beccaris ha fatto sparare sulla folla con i mortai. Un “grande servizio reso alle istituzioni e alla civiltà”, per il quale Umberto I lo ha decorato con la croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia.
L’infame gesto del re ha due conseguenze immediate: da un lato, ispira un anonimo musicista a comporre la canzone sulla sabauda marmaglia e sul feroce monarchico Bava che gli affamati col piombo sfamò. Dall’altro, convince Gaetano Bresci ad acquistare una pistola Harrington & Richardson calibro 32 e a cominciare l’allenamento da tirannicida.
Prima di lui, altri due uomini hanno tentato di far fuori Umberto I: sono Giovanni Passannante e Pietro Acciarito. Entrambi ci hanno provato con un coltello e sono finiti all’ergastolo in un manicomio criminale. Forse per questo Gaetano preferisce affidarsi alle pallottole e alla mira. O forse sa che il re, da allora, indossa una robusta corazza in tutte le sue apparizioni pubbliche, come quella prevista per la fine di luglio a Monza, in occasione di un saggio di ginnastica.
Il 17 maggio 1900, quando si imbarca per Le Havre, Gaetano ha un ottimo stipendio, un cottage a West Hoboken, una figlia di un anno e una giovane moglie che non sa di essere di nuovo incinta.
Arriva a Monza passando per Parigi, Genova, Prato, Milano. Il 29 luglio indossa il suo vestito più bello e se ne va a spasso per la città, la macchina fotografica sempre al collo, come un turista americano. Mangia cinque gelati al Caffè del Vapore, forse per raffreddarsi il sangue, o perché sa che potrebbero essere gli ultimi della sua vita. Poi si mescola alla folla che accoglie l’arrivo del sovrano e alle 22 e 25 gli spara nel petto i tre colpi fatali.
La leggenda vuole che Gaetano Bresci cercò di allontanarsi come se niente fosse, per poi lasciarsi ammanettare da un carabiniere senza opporre resistenza. A una donna del popolo che gli gridava “Hai ucciso Umberto, hai ucciso Umberto”, rispose senza scomporsi: “Non ho ucciso Umberto. Ho ucciso un re”.
L’epilogo della storia è talmente scontato che potreste anche tirare a indovinarlo: un processo irregolare, la condanna all’ergastolo, il suicidio in cella e i medici, chiamati a constatare il decesso, che annotano sul referto “lo strano odore di putrefazione emanato dal cadavere, come se fosse morto da alcuni giorni”. Proprio qualche giorno prima, in effetti, era giunto al carcere di Santo Stefano l’ispettore di polizia Alessandro Doria, lo stesso che quattro anni prima aveva svolto le indagini su Pietro Acciarito, autore del fallito attentato contro Umberto I. Anche in quel frangente c’era stato un suicidio sospetto. Romeo Frezzi, arrestato per colpa di una foto di Acciarito trovata in casa sua, si era tolto la vita sbattendo la testa contro il muro, nel carcere romano di San Michele.
In quella foto, Acciarito mostrava tutti i tratti fisici dell’anarchico pazzo e delinquente, catalogati proprio in quegli anni da Cesare Lombroso. Il celebre criminologo, però, dovendo esprimersi sul gesto di Gaetano Bresci, dichiarò che i caratteri atavici e la follia non c’entravano nulla: “La causa impellente – scrisse – sta nelle gravissime condizioni politiche del nostro paese”. Secondo i fan club di Emanuele Filiberto e di Casa Savoia, quelle condizioni non sarebbero affatto migliorate grazie alla Repubblica. Un giudizio frettoloso, che non tiene conto di un dettaglio importante: cent’anni fa per sbarazzarsi di un despota bisognava sparare. Oggi, fino a prova contraria, sarebbe sufficiente non votarlo.
A proposito di conati di vomito: il 13 maggio è l’anniversario dell’infame cambiamento di nome del paese natale di Passannante, Salvia di Lucania, in Savoia di Lucania, offerto dagli amministratori dell’epoca in segno di omaggio al “Re buono” per placare la sua ira, che con modalità perfettamente medievali si abbattè sui familiari e addirittura sui compaesani di Passannante. E’ davvero paradossale che l’unica toponimo che richiami esattamente il nome della dinastia si trovi nella regione che, oltre a Pssannante, ha dato il maggior numero di rogne e grattacapi ai suoi regnanti.
Eh, magari fosse l’unico toponimo che richiama il cognome degli ex-regnanti. Ce ne sono svariati in tutta Italia, e i nostalgici se ne beano. I nostalgici fanno il loro mestiere, più grave è che alcuni comuni, es. quello di Chivasso, aggiungano ai toponimi sabaudi delle vie lo stemma di casa Savoia. Comunque, per restare dalle mie parti, c’è Jolanda di Savoia. Nel foggiano c’è Margherita di Savoia etc.
E’ vero, ci sono diversi richiami ad appartenenti alla dinastia o alla dinastia stessa (nel Lazio c’è ad es. Sabaudia), ma credo che nessun luogo in Italia si chiami direttamente “Savoia”, come la loro regione d’origine.
Qualcuno sa dove si può vedere il video taroccato in cui emanuele filiberto canta “il feroce monarchico Bava”? Sono troppo curioso, ho cercato con Google e su Youtube ma non l’ho trovato.
@salvatore: mi sa che il video si trova solo con un motore di ricerca molto, molto speciale…
@Michele: sempre a maggio, ma di tre anni fa, il cranio e il cervello di Passannante sono stati seppelliti a Savoia, dopo quasi cent’anni che stavano in mostra al museo criminologico di Roma. Anche in quel caso ci furono polemiche e il sindaco di Savoia dichiarò che nel suo paese nessuno vorrebbe tornare al nome “Salvia”. Da quel che mi risulta, invece, esiste anche su Facebook un comitato pro-Salvia…
io mi dichiaro spesso orgoglioso di vivere in una città (Bologna) dove NULLA ricorda i Savoia. In realtà, la statua equestre di Vittorio Emanuele III l’hanno solo spostata: da piazza Maggiore ai Giardini Margherita (subito fuori le mura, e chiamati così non per via del fiore, ma in onore della regina che diede pure il suo nome alla pizza…). Dunque vi chiedo: esiste in Italia una città con almeno centomila abitanti completamente de-savoizzata? Qualcuno di voi ci vive?
@Wu Ming 2: Già, il corpo invece venne giudicato indegno di sepoltura all’epoca della morte e dato in pasto ai cani…
Le crudeltà inflitte a Passannante sono talmente efferate che ho spesso avuto difficoltà a crederci.
Il comitato pro-Salvia non solo esiste da quasi trent’anni, ma, a conferma della sua esistenza è stato costituito anche un comitato anti-Salvia.
PS
Io sono nato in un paese de-savoizzato ma fa solo 5000 abitanti. E neanche ci vivo più.
Avrei detto Bolzano, ma mi sa che Viale Duca d’Aosta ci impedisce di fregiarci del titolo di “città desavoizzata”…fuck!!!
Leggendo i commenti mi è sorta un’improvvisa curiosità in merito alla toponomastica stradale italiana e ho fatto un ricerchina veloce veloce su Google. Sembra che la disciplina in vigore risalga (guarda caso) al 1927:
http://www.usplavis.it/download/L1188-1927.pdf
e che a tutt’oggi siano essenzialmente i comuni a provvedere alla (ri)denominazione di vecchie e nuove strade.
http://www.messinaitalia.it/2010/01/il-caso-craxi-come-si-scelgono-i-nomi-delle-vie/
La legge lascia comunque ampio margine affinchè le mutevoli maggioranze comunali possano decidere su dei nomi non necessariamente condivisibili o rappresentativi. Dando un’occhiata a diverse delibere comunali in rete, sembra che ciascun comune si doti poi di ulteriori criteri (tipologici, per esempio: artisti, santi, scienziati etc.).
Ma il punto importante secondo me è il valore simbolico di una denominazione rispetto a un’altra; e le polemiche sorte anche di recente su Craxi stanno lì a dimostrare che le memorie collettive sono sempre meno condivise e la storia è sempre più un arsenale di argomentazioni politiche contingenti e sempre meno un luogo e un’occasione di confronto con la differenza.
@ Wu Ming 2: ho capito, chiederò al mio pusher :-))
Intanto, mentre mi procuro l’occorrente per “vedere” il video, vorrei far menzione del fatto che la musica de “Il feroce monarchico Bava” fu poi riutilizzata per comporre un’altra, importante canzone politica:
http://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=2300&lang=it
@salvatore: Qui le due canzoni (Bava e Pinelli), sono eseguite una di seguito all’altra, con la stessa musica. Io però La Ballata del Pinelli non la conoscevo in questa versione, ma in quest’altra. Credo che le strofe siano state improvvisate la prima volta sulla musica de Il feroce monarchico Bava e poi modificate e reinterpretate in vario modo.
Guardate che nella toponomastica italiana esiste anche di molto peggio. A Rieti c’è una via intitolata al gerarca Pavolini, con un demenziale escamotage “alpinistico”. Nel 1995 Rutelli, allora sindaco, propose di intitolare una via di Roma al gerarca Bottai, promotore delle leggi razziali del ’38. Alemanno ne vorrebbe intitolare una ad Almirante. Quest’ultimo, che a sentire i suoi figliocci pare sia stato un padre della patria, fu segretario di redazione della rivista “La difesa della razza” e capo gabinetto del MinCulPop di Salò, con delega alle questioni razziali. Nel 1944-45 sappiamo bene cosa significasse, in Alta Italia, “questioni razziali”. Significava l’anticamera di Auschwitz.
Ah beh.. Messina essendo una grande città, nonostante sia ‘babba’ ha 4 vie dedicate a principi, 2 dedicate a regine, e l’immancabile duca d’Aosta -_- il problema è che tendono a cambiare i nomi moltiplicando gli orrori, invece di ripararli!
‘Colpo al cuore’ sara’ proiettato anche al Festival sociale delle culture antifasciste, lunedi 31 maggio alle 18:00, @bologna
http://2010.fest-antifa.net/colpo-al-cuore
Nel mio paese, Mentana, appena fuori Roma, non credo vi siano riferimenti ai savoia o a gerarchi vari… spero di non essere smentita, ma soprattutto non lo dite ad Alemanno che manda subito qualche amico picchiatore a parlare con il sindaco!
Fa onore a Mentana (città-simbolo della lotta contro il Papa!) non avere esempi di toponomastica horror, pur essendo in Lazio dove tali schifezze sono invece frequenti. Quello che mi chiedo, con WM2, è se vi sia almeno una città grande, capoluogo di provincia, senza vie intitolate a regnanti collusi o caporioni fascisti.
Io farei una distinzione tra Nord e Sud nella valutazione dell’eventuale assenza di toponomastica savoiarda: al Sud tale assenza testimonierebbe una genuina “pulizia democratica” dei nomi delle vie. Al Nord potrebbe anche riflettere interventi effettuati durante la RSI (i repubblichini mi pare ritenessero i Savoia dei traditori e molti di loro erano ferocemente, almeno a parole, anti-monarchici). Non dico che sia successo, nè che sia successo ovunque, ma non la vedo del tutto improbabile come spiegazione.
Michele, la tua ipotesi è non soltanto plausibile, ma in alcune città storicamente esatta. Ho trovato subito l’esempio di Siena:
“Il furore antimonarchico e repubblichino cancellò dai nomi delle vie ogni traccia dei regnanti di allora e di prima. Viale Vittorio Emanuele III diventò via Risorgimento; tolta l’intitolazione alla regina Elena, il piazzale della stazione divenne piazza della Repubblica (di Salò, ovviamente); piazza d’Armi, che già si era vista affibbiare l’intitolazione a Vittorio Emanuele II, diventò ora piazza Ettore Muti, e piazza della Posta, ormai piazza Umberto I, dopo l’uccisione del sovrano avvenuta a inizio secolo, venne ribattezzata piazza dell’Unità Italiana.” (tratto da quest’articolo)
E ho trovato anche il caso di Trino Vercellese (PDF).
Però quando la RSI cadde, la Repubblica Italiana accomunò nella condanna fascismo e monarchia, tanto da esiliare i Savoia. Risale a quel periodo la “de-savoizzazione” di molte vie e piazze (o almeno il tentativo, spesso ostacolato dagli apparati di stato). Interessanti gli esempi nel PDF su Trino: sotto la RSI le scuole elementari “Principessa di Piemonte” diventano scuole “Ettore Muti”, ma dopo la Liberazione non tornano alla denominazione precedente, bensì diventano scuole “Edmondo De Amicis”, una scelta moderata. Invece il tentativo di intitolare vie “savoiarde” a caduti partigiani non andò a buon fine.
Sarebbe allora interessante vedere quanta toponomastica “monarchica” nel territorio dell’ex-RSI sia lì perché rimasta intonsa (cioè i repubblichini non fecero in tempo a cambiarla, in fondo Salò durò poco più di un anno e mezzo, vissuto in costante affanno ed emergenza) o perché ri-imposta dopo la parentesi repubblichina, contro chi proponeva altri nomi.
Ho trovato un’illuminante – e divertente – discussione sulla toponomastica triestina, condotta in triestino com’è normale in quella città, che un po’ conosco e la cui storia mi affascina sempre. Ho pensato a Trieste perché è una città dalle vicende travagliatissime, e figurarsi se queste non hanno avuto conseguenze sui nomi di vie e piazze. Infatti. Cito dal forum:
Fino al 1918 el corso se ciamava “CORSO”
Dal 1918 al 1943 “CORSO VITTORIO EMANUELE III”
Dal 1943 al 1944(caduta del fascismo)denominazione non ufficiale “CORSO ETTORE MUTI”
Dalla caduta del fascismo al maggio 1945 con Del.Pod.del 10.6.1944:CONTRADA DEL CORSO”
Nel maggio 1945 denominazione non ufficiale “CORSO TITO”
Dopo i 40 giorni denovo ufficialmente “CONTRADA DEL CORSO”
El 21.4.1955 con delibera dela giunta el se ga ciama’ definitivamente “CORSO ITALIA”.
Saria curioso de saver se ogni volta i ghe cambiava le targhete sui portoni e che santi tirava zo i postini per trovar l’indirizi.
Scusate se vado leggermente fuori tema ma a proposito di Trieste e di “toponomastica horror” vi segnalo un caso che ha tenuto banco per parecchio tempo nella mia città qualche tempo fa.
Dopo quasi un anno di polemiche il 13 maggio del 2009 la scala tra piazzale Rosmini e via Revere a Trieste è stata dedicata alla memoria del giornalista e scrittore Mario Granbassi.
Chi era Mario Granbassi, a parte essere il nonno di Margherita, nota schermitrice e a sua volta al centro di una polemica con l’arma dei carabinieri per le sue apparizioni televisive ?
Sul sito della nipote il nonno viene descritto come un eroico caduto in Spagna nel 1939 e medaglia d’oro al valor militare, come un grande giornalista degli anni ’30 e pioniere della radio, per la quale, con lo pseudonimo di Mastro Remo, aveva inventato il primo gioco radiofonico interattivo rivolto ai ragazzi.
In realtà Mario Granbassi come giornalista del Piccolo non fu altro che il megafono fascista razzista e antisloveno del regime. Nel comunicato stampa diffuso dal comune il giorno dell’intitolazione si leggeva “il 3 gennaio 1939, a neanche 32 anni, scompare prematuramente combattendo sul fronte spagnolo” non avendo il pudore di scrivere per chi stava combattendo. Mario Granbassi fu un fascista convinto che morì perla causa fascista in Spagna. Ecco un passo dal suo diario spagnolo
– La sento tanto profondamente come una guerra fascista questa che sono venuto a combattere, sacrificando i miei affetti più cari e abbandonando il mio posto di lavoro! Gridare il nome del Duce, in faccia a questa trincea comunista, in questa notte di guerra, tanto lontano dalla Patria, è per me una soddisfazione che mi dà un’emozione profonda. Con quanto maggior diritto, con quanto orgoglio e fierezza, potrò gridarlo ora il nome del Duce, nelle piazze d’Italia se il destino mi farà tornare ai miei dopo aver compiuto anche con le armi il mio dovere di fascista. –
L’ipocrisia del centrodestra, che in questi casi si dimostra poco centro e molto destra, ha voluto celebrare il Granbassi giornalista che però non esiste in quanto fu solo come detto prima un propagandista fascista anche presso i bambini grazie al suo gioco radiofonico. Ed infatti alla cerimonia ad onorarlo non c’erano giornalisti ma solo politici di centro destra ex missini e ex Fronte della Gioventù mescolati a commercianti che si sono dati alla politica, cioè fascisti vecchi e nuovi.
Pubblico praticamente inesistente con i contestatori che se ne sono stati appartati e con un cartello in mano che recitava «A quando una targa per Hitler pittore?»
Non è per niente fuori tema, Beppe, anzi: è IL tema.
Ad ogni modo, è acclarato che questi amministratori revisionisti toponomastici sono degli ipocriti e dei codardi. Non hanno le palle di dire quello che pensano davvero e proporre quello che desiderano senza infingimenti. Intitolano una via a Pavolini perché sono fascisti, ma gliela intitolano in quanto “pioniere del Terminillo”. Intitolano una via a Granbassi perché sono fascisti, ma gliela intitolano in quanto “giornalista”. Inaugurano un “parco Mussolini”, ma non lo intitolano a Benito bensì a suo fratello Arnaldo (che era un fascistone tanto quanto ma più defilato) e via così, in tutta Italia…
Ahimè, gli amministratori revisionisti sono stati a volte fin troppo spavaldi. Mi pare che il caso più famoso di strada intitolata a un ex-gerarca fascista sia il Lungomare Araldo di Crollalanza a Bari, inaugurato in pompa magna nel 1989 (Crollalanza è stato podestà di Bari e ministro dei lavori pubblici di Mussolini oltre che senatore MSI). La targa scoperta all’inaugurazione diceva “Senatore e benemerito amministratore”. Qui un PDF con panegirico di Crollalanza ma con alcuni estratti di documenti e articoli di giornale che documentano la vicenda della sua beatificazione.
Le proteste all’epoca della delibera (1987) furono pressochè nulle: perfino il PCI si astenne, con la motivazione, quella sì pavida e ipocrita, di non avere nulla in contrario a intitolare una via a Crollalanza, purchè fosse una via periferica della città e non importante come il Lungomare.
Tra l’altro Crollalanza si traduce “Shakespeare”… Per intitolare intitolano, certo. Quello che intendo è che, spesso, propongono definizioni e qualifiche “neutre”, dissimulate o addirittura fuorvianti, riferite ad aspetti secondari o irrilevanti (es. Pavolini trekker!)
Da un lato, la Costituzione fissa paletti ben evidenti, dall’altro si fingono altro da quel che sono (la svolta di Fiuggi etc.) Sono costretti al sotterfugio. E spesso la “sinistra” sta al gioco o chiude un occhio.
Esistono anche casi di toponomastica horror “al contrario”. A Bolzano, nel 2002, il sindaco cambiò il nome di una delle piazze principali della città da Piazza della Vittoria a Piazza della Pace. La “vittoria” in questione era quella dell’Italia durante la prima guerra mondiale. Piazza della vittoria è stata nominata così durante il fascismo, che vi ha costruito un memoriale (http://bit.ly/bcxgsY) la cui iconologia ha forti elementi di opposizione alle popolazioni locali (il saggittario sul frontone punta il suo dardo verso nord, verso la Germania. E la scritta in latino recita: “Qui abbiamo colonizzato gli altri (ceteros) con la LINGUA, le arti, le leggi e la cultura”). Infatti, il fascismo ha tentato di italianizzare l’Alto Adige attraverso una politica toponomastica radicale. Nomi di luoghi e persino i cognomi delle famiglie sono stati tradotti, a volte con esiti comico-grotteschi. Ad esempio il cognome Rabenstein è diventato un improbabile Pietracorvo. A tutt’oggi la toponomastica altoatesina è ancora oggetto di scontro memoriale e politico. Nel 2002, in seguito al cambio di nome della Piazza, è stato indetto un referendume che ha ripristinato il nome originale della piazza.
Testimonianza dalla Sardegna.
1)
Massiccia presenza di toponomastica sabauda, in virtù del tragico (per noi sardi) fatto di aver “messo la corona in testa” a quella gentaglia lì, nel 1720: i Savoia sono diventati re in quanto si son dovuti ciucciare, molto malvolentieri, il Regno di Sardegna, dopo la Guerra di Successione spagnola.
Pochi anni or sono, dopo l’ennesima boiata di Vittorio Emanuele (virtualmente) IV (il padre del cantante, insomma), il quale aveva candidamente sentenziato che i sardi puzzano (il che magari è vero, ma perché dirlo così, ingrato bastardo?), c’era stata una sollevazione popolare con tanto di delibere comunali relative alla desabaudizzazione della toponomastica. La pavidità e il “tengo famiglia”dei nostri ammirevoli amministratori locali ha fatto cadere tutto nel dimenticatoio.
2)
Capitolo sulla toponomastica violentata.
Esattamente come in Alto Adige (e per ragioni analoghe), abbiamo subito anche noi una italianizzazione dei toponimi. Con esiti a dir poco ridicoli, quasi sempre (tipo: Maluentu = “vento cattivo”, è diventato Maldiventre; Golfo di li ranchi = “dei granchi” in gallurese, diventa Golfo Aranci; Aidumajore = “valico principale” è diventato un improbabile Aidomaggiore = un bel nulla, in italiano; ecc. ecc.).
A fatica e a rilento (sempre per le cause sopra esposte) si sta procedendo a un ripristino.
Ma la storia dell’Italia, da che esiste come stato unitario, è costellata di schifezze simili, e non solo riconducibili all’epoca fascista.
È proprio l’intrinseca debolezza nella coesione collettiva, nel senso di appartenenza diffuso, a costringere la classe dominante di questo stato fantoccio a forme di violenza continue, pur di costruire una narrazione che stia su da sola. Narrazione che poi viene imposta senza remore e con ogni strumento necessario come unico, legittimo orizzonte di senso collettivo.
Il fascismo antropologico si manifesta in tante forme. La toponomastica non è la sola e nemmeno la principale vittima di questa tara congenita. Però forse ne è un sintomo evidente.
Fu proprio un sardo, Antonio Gramsci, a dire cose molto importanti sulla debolezza, dispersione e anche ridicolaggine della borghesia italiana, sempre costretta (non usò esattamente queste parole ma il succo era lo stesso) “a violenze continue pur di costruire una narrazione che stesse in piedi da sola”. E’ anche il motivo per cui da un lato la chiesa si è ripresa in poco tempo gli spazi che il Risorgimento laico le aveva sottratto, e dall’altro la massoneria è stata così presente nelle vicende della classe al potere. La massoneria è un club che vende ai borghesi appartenenza, coesione, simboli, rituali, vestimenti… Una narrazione, insomma. Uno psicodramma rassicurante che ripristina e cementa l’identità. Con il vantaggio non certo secondario di essere anche un comitato d’affari. Comitato che in Sardegna è molto forte, tra l’altro.
Io vivo nella città che dei Savoia è stata capitale, e che dunque pullula di corsi, ospedali, vie e piazze intitolati anche al più secondario dei regnanti sabaudi. In compenso uno dei corsi principali si chiama ancora Unione Sovietica, nonostante i tentativi missini di intitolarlo alle vittime del comunismo…
*
A proposito di toponomastica, mi viene in mente un bel libro di La Cecla di qualche anno fa (non mi ricordo se fosse “Perdersi” o “Mente locale”). Si raccontava una storia molto bella, ovvero della “guerra” per dare nomi nuovi alle vie di Palermo da parte dei nuovi padroni piemontesi. Di giorno i soldati mettevano le targhe, la sera i palermitani le toglievano, e così andarono avanti per lungo tempo. In effetti, uno degli più interessanti della toponomastica è la sua relazione con il potere: non soltanto il nome delle vie rispecchia l’ideologia dominante, ma è la stessa idea di dare un nome alle vie a essere operazione di controllo. Fino a un certo punto (credo fino a Napoleone, ma non vorrei dire stronzate) le strade avevano nomi non ufficiali, instabili nel tempo e dati “dal basso”, legati a attività o persone che si trovavano lì (un po’ come è ancora a Venezia, per esempio). L’imposizione dall’alto di nomi alle strade è un pezzo di quel processo di normalizzazione e controllo della vita urbana che ha avuto il suo apice simbolico nella trasformazione di Parigi progettata dal barone Hausmann (per l’Italia la legge sul risanamento di Napoli del 1885 ha un valore simile), e il suo supporto teorico nella coniugazione di urbanistica, igiene e scienze sociali . Insomma, dare nomi alle vie è stato uno degli strumenti con il quale il potere ha cercato di regolare la vita di città che stavano crescendo a dismisura, e che altrimenti potevano risultare incontrollabili (basta pensare a quante barricate avevano tagliato le strade di Parigi negli ottanta anni che vanno dalla rivoluzione alla comune). Il nome imposto dall’alto, oltre all’utilità pratica per il potere (avere indirizzi precisi serve eccome quando si debba per esempio arrestare qualcuno, o quando si debbano mandare celermente le truppe a sedare una rivolta), è una sorta di espropriazione simbolica: non è importante cosa succede in quel pezzo di città, chi ci vive o quali attività si esercitano; dare a quel pezzo di città il nome di un principe o di un qualche altro figuro inserito in pantheon ufficiali serve a sottolinearne il rapporto funzionale rispetto al potere costituito, il suo essere parte di un puzzle (la città) che nel suo insieme è la rappresentazione fisica del potere stesso.
A proposito di toponomastica repubblichina o repubblicana, il caso di Bologna è piuttosto interessante.
Piazza Maggiore si è chiamata Piazza Vittorio Emanuele II, dall’Unità fino al 1944, e ospitava, come detto, una statua equestre del re (datata 1884).
I repubblichini tolsero la statua e ribattezzarono la piazza “della Repubblica”. Infine, dopo la Liberazione, si ritornò al nome originario. Non ho ancora capito bene, però, chi fu a piazzare la statua equestre all’ingresso dei giardini Margherita: se direttamente i repubblichini, o se invece fu dopo la guerra che qualcuno andò a recuperare la statua e decise di sistemarla nella collocazione attuale. Farò studi ulteriori.
Riemergo da una lunga apnea per segnalarvi questo bel testo di Luigi Veronelli:
http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/308/22.htm
I 120 morti di Milano (cifra presunta, potrebbero essere stati molti di più) erano in realtà dei poveri cristi che non stavano manifestando in corteo (le proteste erano nelle vie milanesi, ma non lì), erano in attesa che il convento dei Cappuccini aprisse il portone per la distribuzione gratuita della minestra per i mendicanti. Bava Beccaris fece prima tuonare i mortai, e poi caricare la cavalleria a sciabola sguainata.