di Wu Ming 1
Campi Bisenzio (Firenze), presidio degli operai GKN in lotta, sera del 31 marzo 2023, ore 22:20. Attacchiamo così: «Per gli operai la poesia…»
Sul palco del primo Festival di letteratura working class, davanti a più di cinquecento persone, il sottoscritto e Stefano D’Arcangelo eseguono per la prima volta dal vivo Volodja. E sarà la cornice suggestiva della fabbrica, sarà che nel capannone gli applausi rimbombano, sarà che il festival s’annuncia già un evento memorabile, ma fin da subito ci sembra che il melologo colpisca, emozioni, faccia pensare.
Volodja volevamo già pubblicarlo, nella versione “radiodramma” realizzata in studio, accompagnato da una breve descrizione. Giù dal palco, sentiti un po’ di commenti, decido che non basta, che ha senso dire qualche parola in più sull’esperimento e il contesto di cui è parte.
Volodja nasce nel 2011 come racconto scritto per il progetto «I muri di Mirafiori», nell’ambito del laboratorio urbano Situa.to.
2011, psicogeografie di Torino Sud
Tutto parte da stranianti dérives lungo i muri di cinta dell’immenso stabilimento Fiat, un mondo a parte grande quanto il centro storico di Torino, un’«area grigia» che divide quella parte di periferia come in sala operatoria si dividono i gemelli siamesi. In questo caso, i quartieri di Mirafiori Nord e Mirafiori Sud. Le vie che li collegano sono ossimori spaziali, tunnel a cielo aperto: da una parte e dall’altra i muri di Mirafiori, a celare più di ottant’anni di storia e storie.
Negli anni Settanta la fabbrica aveva settantamila dipendenti. Nel 2023, dopo la massiccia deindustrializzazione della città, i magheggi finanziari degli Agnelli/Elkann, i proclami a vuoto su un rilancio grazie all’auto elettrica – la «gigafactory» di batterie al litio! – e altre vicende che non starò a dire, ci lavorano undicimila persone. In qualunque altro posto sarebbero moltissime. Qui, gran parte dell’area – un milione e mezzo di metri quadrati – è abbandonata.
Già nel 2011 il processo è compiuto, la Fiat Mirafiori è al tempo stesso cattedrale e deserto.
Quell’anno, dopo aver camminato lungo i muri e riflettuto, un gruppo di giovani – Edoardo Bergamin, Francesca Infantino, Marco Magnone, Christel Martinod, Paola Monasterolo e Francesco Strocchio – decide di rovesciare il senso di quelle barriere, usandole come fonte d’ispirazione, come occasione poetica e di socialità. Lo scopo è unire i due quartieri che la fabbrica separa.
Nasce così «I muri di Mirafiori». Un laboratorio in cerca di una storia, di una narrazione transmediale il cui medium ultimo siano proprio i muri, la loro tetragona superficie.
Il ritorno di Majakovskij
Per qualche ragione, si pensa al sottoscritto.
Invitato e pungolato dalla compa torinese, leggo un po’ di testi sulle lotte operaie in Fiat durante e dopo l’Autunno Caldo (1969).
A intrigarmi è soprattutto la dinamica dei cortei interni: ondate di migliaia di operai attraversano le officine battendo su bidoni di latta trasformati in tamburi, svuotando i polmoni dentro fischietti, spesso danneggiando le macchine per impedire il lavoro ai crumiri. Capita pure che questi ultimi siano cinti da lunghe corde e trascinati nel corteo.
Una meta abituale è la grande palazzina dei quadri amministrativi e degli impiegati, alta cinque piani. Contro quel ceto medio ligio al padronato e sordo alle richieste della classe operaia, i cortei lanciano in segno di spregio monete da cinque lire. Accade pure che gli uffici vengano occupati, e gli operai immigrati usino i telefoni per chiamare i parenti in Calabria, in Puglia, in Polesine…
Mi viene l’idea di resuscitare il fantasma di Vladimir Majakovskij.
Nel racconto il poeta georgiano appare agli operai della Fiat nella primavera del ’69, immemore di tutto quanto gli accadde dopo il 1923, quando tornò in Russia dopo le vacanze trascorse con Viktor Šklovskij a Norderney, una delle isole Frisone Settentrionali, appartenenti alla Germania.
Rinvenuto in forma spettrale, Volodja – diminutivo di Vladimir, così lo chiamavano gli amici – comprende di essere in Italia, si domanda che fare… e decide di fare, cioè ποιεῖν, fare poesia, partecipando a modo suo alle lotte che stanno montando.
Intitolo il racconto Volodja e lo invio al laboratorio torinese, che lo pubblica in forma di opuscolo. Ne stampa quattromila copie e le distribuisce gratis nei due quartieri Mirafiori. Ecco l’impaginato in pdf. Tra poco, quando linkeremo il radiodramma, si potrà usare per seguirne il testo.
Il 12 novembre 2011 leggo Volodja alla “Casa nel parco” di Mirafiori Sud. Un’occasione fatidica, in cui conosco diverse persone di cui diventerò amico e che animeranno in vari modi la Wu Ming Foundation. Al termine della lettura, apposite squadre riproducono sui muri di Mirafiori, con la tecnica della pulitura ad acqua, la scritta che conclude il racconto, dando materialità a quest’ultimo e alle tracce del fantasma del poeta.
Il racconto viene letto più volte nei mesi seguenti, in tour per i due quartieri, e ha diverse voci, tra cui quella di Luigi Chiarella «Yamunin» (l’audio è qui).
Il ritorno del ritorno di Majakovskij, 1a parte
Nel dicembre 2022 mi scrive Alberto Prunetti, che insieme al collettivo della GKN e alle Edizioni Alegre sta organizzando il primo festival italiano di letteratura working class. Su cosa si intenda per letteratura working class rimando a questo post del 2017 e al libro di Alberto Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class (Minimum Fax, Roma 2022).
Alberto vorrebbe coinvolgermi in un dialogo tra scrittori di estrazione proletaria. Avrei pedigree e curriculum a posto, perché vengo da una famiglia di braccianti e operai e negli anni Novanta sono stato studente-lavoratore: facchino all’SDA di Calderara di Reno; ausiliario sociosanitario all’Ospedale Maggiore di Bologna; postino nella bassa bolognese (Baricella, San Gabriele di Baricella e San Pietro Capofiume); lettore di contatori dell’acqua nelle case popolari ecc.
Tuttavia, la proposta mi stimola poco. Dico ad Alberto che mi farò venire in mente altro. «D’accordo», risponde lui. Ed è lì che mi sovviene Volodja: un racconto di fantasmi e metalmeccanici, scritto da un figlio e fratello di metalmeccanici. Nulla di meglio che leggerlo a un presidio di metalmeccanici!
Non come l’ho letto nel 2011, però. Perché da allora, sul fronte dei reading e dell’ibridazione tra parole e musica Wu Ming ha maturato molta più esperienza e fatto parecchi esperimenti, regolarmente documentati su Giap.
Melologos, un breve excursus
Pochi mesi fa abbiamo contribuito ad avviare Melologos, «laboratorio di fonologia narrativa» che ha sede a Bologna dentro il circolo Nassau, in via de’ Griffoni 5/2A. La teoria che muove Melologos l’ha sintetizzata Luca Casarotti in questo mirabile post del gennaio 2022.
Melologos deriva da un altro progetto, Resistenze in Cirenaica, attivo a Bologna dal 2015. In quella fucina culturale si è sviluppato un rapporto intenso tra Wu Ming e il Bhutan Clan, raro caso di rock band nata principalmente per sonorizzare testi letterari.
La prima produzione targata Mελóλογος è stata il radiodramma Radio Piemonte International, tratto dal nostro ultimo romanzo Ufo 78.
Sempre da Ufo 78 è nata un’altra produzione Melologos, il Concerto non-identificato eseguito da me e da Luca Casarotti lo scorso 24 marzo al Teatro Monte Baldo di Brentonico, in provincia di Trento. Presto renderemo disponibile la registrazione.
Melologos organizza anche eventi al Nassau. Il primo si svolgerà – segnarsi la data – domenica 23 aprile 2023 alle h.19. Si tratta di un concerto-lezione del cantautore anglo-italiano Jet Set Roger, incentrato su due suoi concept album, autentici capolavori di convergenza musical-letteraria: Lovecraft nel Polesine (2016, ne ho scritto estesamente qui) e Un rifugio per la notte (2019)*. Roger aprirà l’officina e mostrerà i ferri del mestiere, dialogando col sottoscritto, raccontando la genesi dei brani ed eseguendoli in versione piano e voce, come fa qui.
Stiamo anche progettando una pagina ufficiale di Melologos su Bandcamp.
Fine dell’excursus. Torniamo a quanto avvenuto venerdì scorso alla GKN.
Il ritorno del ritorno di Majakovskij, 2a parte
Dopo aver recuperato Volodja, lo propongo al mio sodale Stefano D’Arcangelo, co-fondatore di Nassau e di Melologos, tastierista del Bhutan Clan. Gli chiedo di sonorizzarlo, ovvero di creare intorno al testo quella che, in omaggio al pittore situazionista Giuseppe Pinot Gallizio, siamo soliti chiamare «caverna dell’antimateria».
Le caverne di Melologos non sono fatte di «pittura industriale» ma di suoni. Per Volodja, Stefano utilizza registrazioni originali della voce di Majakovskij e composizioni dell’avanguardia sovietica degli anni Venti, come la Sinfonia di sirene di Arsenij Avramov e Fonderia di Aleksandr Mosolov. Il tutto filtrato dal suo gusto per la música electrónica.
In un’unica seduta serale registriamo la lettura e Stefano monta l’intera sequenza. Nei giorni seguenti mixa e realizza il master. Il 30 marzo va in onda un’anteprima su Radio Città Fujiko e la sera dopo saliamo sul palco del Festival di letteratura working class.
L’atmosfera è carica, anche perché il padrone della fabbrica è andato su tutte le furie e minaccia di denuncia chiunque partecipi al festival. Il Prunetti ci introduce e poi…
Per [gli operai] la poesia perde fatalmente ogni significato. Non resta loro che il linguaggio. I padroni non gliel’hanno tolto, hanno troppo bisogno che lo conservino, ma l’hanno castrato per privarlo di ogni velleità d’evocazione poetica, riducendolo al linguaggio degenerato del «dare» e dell’«avere».
Benjamin Péret, «La parola a Péret», 1943
Risonatori della voce operaia
La versione dal vivo risulta leggermente diversa da quella in studio. Non nelle musiche ma nelle vociferazioni, nel senso che alla GKN tento qualche accento regionale e qualche risonatore in più. Il riferimento è, si parva licet, al lavoro vocale dell’attore Matteo Belli e alla ricerca portata avanti insieme al foniatra Franco Fussi.
Nel febbraio 2017 io e WM2 abbiamo partecipato al laboratorio «Le qualità timbriche della voce parlata», condotto da Belli presso il Centro dell’attore sinfonico di Pianoro (BO). A convincerci a frequentarlo è stato in particolare un video, «Risonatori della voce parlata».
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Da allora abbiamo tenuto presenti queste possibilità. La continua interazione con musicisti, l’assidua frequentazione di sale prove e l’intensa attività on the road ci hanno fornito molte occasioni di fare tentativi, con esiti alterni, da valutare tenendo conto che non siamo «attori sinfonici» ma scrittori.
Dopo questo lungo «making of», arriviamo finalmente all’opera.
Ascoltare Volodja
Volodja (Majakovskij a Mirafiori) – Durata: 22’04”
Volodja (Majakovskij a Mirafiori) – Durata: 18’36”
Disponibile anche su Internet Archive, su Apple Podcasts e, usando il nostro feed, potenzialmente su qualunque piattaforma e applicazione per podcast. Già che ci siamo, perché non usarne una senza traccianti né pubblicità? Per esempio AntennaPod, che è pure gratuita e a sorgente aperta.
Che altro dire? Buoni ascolti.
Note
* Sempre il 23 aprile e sempre al Nassau si inaugurerà la mostra «Squarci di copertina – ~20 anni di immagini per Wu Ming», con le cover, le locandine e in generale l’arte grafica di Chialab – Andrea Alberti, Alex Weste e Antonio D’Elisiis – applicata al nostro lavoro. Saranno esposti anche bozzetti e versioni alternative delle copertine di nostri libri come L’Armata dei Sonnambuli, Ufo 78, l’edizione speciale di Q per il ventennale ecc. Di questo scriveremo in un post ad hoc.
La giornata a Mirafiori, quando sentii per la prima volta la lettura di Volodja, la ricordo ancora. Rivedo i volti di persone che da allora sono diventate compagne e compagni. Una giornata fondativa. Pochi mesi dopo ricevetti la proposta di leggere in pubblico a mia volta il testo di Wu Ming 1 e anche quella fu una serata importante. Ma fondamentale è il testo, con i suoi passaggi dalla narrazione alla poesia e ritorno, le conseguenti stratificazioni di senso; e ancora la voce del poeta che riposa fra le pieghe delle frasi e le voci e i suoni che gli hanno ridato vita ogni volta che le parole sono state intonate. Tutt’altro che semplice da dire Volodja. Stamattina ho ascoltato la nuova versione in cuffia mentre passeggiavo con Gea e Sirius – i miei amici a quattro zampe – lungo la strada che porta al parco. Percorrevo le strade di Vienna e allo stesso tempo stavo a Mirafiori circondato dai suoni delle presse, dalla voce di Majakovskij che riappariva nella voce di Wu Ming 1, dalle voci degli operai in corteo. In questa nuova versione della lettura le voci arrivano forse con più consapevolezza della versioni precedenti in cui si tentava una imitazione, un richiamo, ora invece emerge la diversità della grana delle voci. È il risultato di un lavoro fatto in profondità, portato avanti in questi anni di reading e sperimentazione coi suoni, tutt’altro che scontato per una band di scrittori. (Non so quanto si ha presente che voce di solito ha chi scrive soltanto e mai legge ad alta voce ciò che scrive) L’impasto sonoro in questa nuova versione ha più gusto, più profondità. E questo non è solo un parere di chi sa quanto può essere difficile dare voce alle parole in pubblico ma, ancora di più, di chi ascolta e sa – capisce – se sta ascoltando parole vive oppure soltanto lette. Anni di teatro portano a questa consapevolezza: capire se c’è verità – e quanta ce n’è – in ciò che si ascoltà. Quante parole nei film o in televisione sembrano dette e invece sono lette! Questa ulteriore versione di Volodja ha un ulteriore livello che è magistralmente creato dalle elaborazioni sonore, sono poco più di venti minuti di suono in cui si ha a che fare con una stratificazione di emozioni e di senso. Sopratutto se chi ascolta ha coscienza della classe di appartenenza, può fare questa esperienza di immersione nelle frasi che rimandano alla concretezza della vita, del lavoro, della lotta. Dire che questa versione mi sia piaciuta è poco, dico che mi ha – nell’etimo – commosso. Quindi avanti, compagn*, la poesia è nelle strade.
È vero, la poesia sta nelle strade e quando si riesce a captarla e amplificarla diviene un momento fondativo. Volodja funziona,vorresti continuasse ancora a parlare, batte il passo su un sentiero fecondo. Majakovskij viene evocato e al suo fianco vedi subito la Feroce, gli umori e le lotte.
Mi viene in mente una foto del ’51 dove Gabriele Mucchi legge Majakovskij ai contadini di un’aia di Budrione di Carpi in provincia di Modena. Grazie al nome del poeta e al minuscolo anfiteatro raccolto attorno a quella bocca parlante si riescono a evocare le voci delle lotte bracciantili. Una foto che mi commuove sempre.
Qui il processo è inverso, si parte dalle voci, e in tempi di quotidiane sbornie visive mi pare l’esercizio più sano. Ridà ossigeno all’immaginazione asfissiata dal guardare troppe immagini. I soli suoni evocano i fantasmi nel modo più onesto e in fondo più efficace perché portano i fantasmi nel nostro mondo fisico, quello che abbiamo lì attorno mentre ascoltiamo. L’attuale successo dei podcast s’appoggia alla loro fruibilità sempre e dovunque, ma non è tutto qua: piacciono perché promettono verità. Radiodrammi e melologhi sono uno dei fronti caldi. Perciò le domande poste da Yamunin sono più che calde, sono scottanti. Quando le voci mantengono le promesse, e diventano vere? Ci vuole un testo saldo, certo, ma la ricerca deve andare in più direzioni. Anche sulla grana delle voci, appunto.
Per il mio lavoro di attore ho seguito anch’io il seminario di Belli e lo iniziai con qualche timore di perdermi nella ricerca del virtuosismo. Sezionare ogni micro-tratto dell’apparato fonatorio e capire cosa ne esce usandolo come cassa armonica della nostra voce, mi pareva fin troppo metodico. Invece ho capito durante il seminario – o qualche mese più tardi – che la ricerca “ipertecnica” di Belli riporta la voce ad una sua fisicità. Evento corporeo più che mentale, amplificazione dei nostri umori nella misura in cui questi modificano lo stato del nostro corpo. Pare banale, ma dopo anni di teorie da actor’s studio d’accatto, ci si accorge che la sola imitazione tonale dei sentimenti è mortalmente ripetitiva. Collocare la voce è invece passo fondamentale. Non è ricetta facile e di sicuro successo, non si decide a tavolino “che voce fare”, ma avere coscienza che c’è poco di intellettuale, che ogni voce si posiziona in un luogo fisico (anche del tuo corpo), è un esplorare le possibilità di dare spazio e materia a ciò che dici.
Allora può essere vera, sa di quotidianità ma ha una comunicatività eccezionale, e allora mi commuove perché ne senti l’eco allargarsi, senti il lavoro che si può ancora fare…prendere spazio, prendere voce!
Mi ritrovo in quanto hai scritto…
La mia formazione teatrale è stata innanzitutto fisica. Tantissimo training fisico e vocale. Sembrava che stessimo tutto il tempo a faticare ma la verità era che stavamo, ognuna e ognuno, lavorando a perfezionare il proprio strumento, da usare poi sul palcoscenico. Non solo sul palcoscenico in verità… La voce è corpo, ci ripetevamo in sala prove con i libri di Mejerchol’d, Barba e Grotowskij appresso. (Per non parlare del lavoro di Bene, ma lì siamo nell’oltre)
Il nostro era un gruppo di ricerca teatrale e studiavamo e mettevamo in pratica quei principi quotidianamente e l’obiettivo era assimilare le tecniche per poi lasciarle lavorare nel momento dello spettacolo. Mese dopo mese notavamo i miglioramenti di ognuna e ognuno e vedevamo se e quanti pezzi di impalcatura culturale e sociale si riuscivano a smantellare nel corpo per poter far emergere un po’ di verità da una frase (di testo, di movimento…).
Certo ci sono altri “metodi” o sistemi di studio per la voce, ad esempio quelli usati per il canto lirico, ma – ecco – la partecipazione del corpo credo sia essenziale e spesso è ciò che fa la differenza fra una voce che può essere bella e un’altra che dice qualcosa.
Non conosco il lavoro di Belli, né il metodo, ho guardato il video nel post e i risultati sono notevolissimi
Anche quest’anno al presidio dei lavoratori GKN di Campi Bisenzio si terrà il Festival di Letteratura Working Class.
Anche quest’anno la proprietà fuma di rabbia dalle orecchie e si prepara a sporgere denuncia.
Nell’ultimo comunicato sostiene che lo stato di Assemblea permanente non consente le azioni industriali e che tutte le iniziative ludico-ricreative organizzate dai lavoratori sono «illegali e oggetto di denuncia alla Procura della Repubblica».
Come scrive il collettivo di fabbrica (il comunicato completo è qui), costoro sono estranei alla storia di quel territorio:
«Sono venuti a dichiarare illegali le migliaia di persone solidali che hanno abbracciato la fabbrica. Sono venuti a dichiarare illegale una Società Operaia di Mutuo Soccorso, nel territorio che è culla delle Sms e del mutualismo. Dichiarano illegale le attività “ludico-ricreative” dei lavoratori nel territorio dove gli operai della Galileo fondarono la Flog (circolo ricreativo operaio) nel settembre del 1945. Dichiarano illegale la Cooperativa nel territorio dove nel 1955 la Fonderia delle Cure – sgombrata dal liquidatore – fu requisita dal Comune e data alla Cooperativa dei lavoratori. Dichiarano illegale il Festival della Letteratura Working class che è stato un evento vanto di questo territorio e della nostra classe.»
Il festival si terrà, col sostegno di tutti e tutte le solidali. Ci sono ancora quattro giorni di tempo per partecipare alla raccolta fondi.
Su carmillaonline di oggi è apparsa una recensione del libro di Valentina Baronti, che ha proprio la GKN sullo sfondo.
“Organizzarsi contro lo sfruttamento e la negazione. Anche con l’illusione, anche col disincanto”, scrive ad un certo punto l’autore. E, aggiungo io, anche con la consapevolezza che si potrebbe non arrivare a nulla, e tuttavia l’organizzazione non solo vale la pena, ma è doverosa. Moralmente doverosa.
E la GKN diventa, nel romanzo, il teatro di una storia di presa di coscienza, di trasformazione e maturazione, un’opportunità che, comunque vada, è stata colta e ha prodotto frutti.
Per quanto mi riguarda, un’occasione per unire l’utile (dare un piccolo contributo alla causa acquistando il libro) al dilettevole (leggere una storia che promette di valerne la pena).