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La settimana scorsa The Morning Call, un quotidiano della Pennsylvania, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta – intitolata Inside Amazon’s Warehouse – sulle terribili condizioni di lavoro nei magazzini Amazon della Lehigh Valley. Il reportage, risultato di mesi di interviste e verifiche, sta facendo il giro del mondo ed è stato ripreso dal New York Times e altri media mainstream. Il quadro è cupo:
– estrema precarietà del lavoro, clima di perenne ricatto e assenza di diritti;
– ritmi inumani, con velocità raddoppiate da un giorno all’altro (da 250 a 500 “colli” al giorno, senza preavviso), con una temperatura interna che supera i 40° e in almeno un’occasione ha toccato i 45°;
– provvedimenti disciplinari ai danni di chi rallenta il ritmo o, semplicemente, sviene (in un rapporto del 2 giugno scorso si parla di 15 lavoratori svenuti per il caldo);
– licenziamenti “esemplari” su due piedi con il reprobo scortato fuori sotto gli occhi dei colleghi.
E ce n’è ancora. Leggetela tutta, l’inchiesta. Ne vale la pena. La frase-chiave la dice un ex-magazziniere: “They’re killing people mentally and phisically.”
A giudicare dai commenti in rete, molti cadono dalle nuvole, scoprendo soltanto ora che Amazon è una mega-corporation e Jeff Bezos un padrone che – com’è consueto tra i padroni – vuole realizzare profitti a scapito di ogni altra considerazione su dignità, equità e sicurezza.
Come dovevasi sospettare, il “miracolo”-Amazon (super-sconti, spedizioni velocissime, “coda lunga”, offerta apparentemente infinita) si regge sullo sfruttamento di forza-lavoro in condizioni vessatorie, pericolose, umilianti. Proprio come il “miracolo”-Walmart, il “miracolo”-Marchionne e qualunque altro miracolo aziendale ci abbiano propinato i media nel corso degli anni.
Quanto appena scritto dovrebbe essere ovvio, eppure non lo è. Il disvelamento non riguarda un’azienda qualsiasi, ma Amazon, sorta di “gigante buono” di cui – anche in Italia – si è sempre parlato in modo acritico, quando non adorante e populista.
The Morning Call ha rotto un incantesimo. Fino a qualche giorno fa, con poche eccezioni, i mezzi di informazione (e i consumatori stessi) accettavano la propaganda di Amazon senza l’ombra di un dubbio, come fosse oro colato. D’ora in poi, forse si cercheranno più spesso i riscontri, si faranno le dovute verifiche, si andranno a vedere eventuali bluff. Con il peggiorare della crisi, sembra aumentare il numero degli scettici.
Il problema di multinazionali che vengono percepite come “meno aziendali”, più “cool” ed eticamente – quasi spiritualmente – migliori delle altre riguarda molte compagnie associate a Internet in modo tanto stretto da essere identificate con la rete stessa. Un altro caso da manuale è Apple.
iPhone, iPad, youDie
L’anno scorso ha fatto scalpore – prima di essere sepolta da cumuli di sabbia e silenzio – un’ondata di suicidi tra gli operai della Foxconn, multinazionale cinese nelle cui fabbriche si assemblano iPad, iPhone e iPod.
In realtà le morti erano iniziate prima, nel 2007, e sono proseguite in seguito (l’ultimo suicidio accertato è del maggio scorso; un altro operaio è morto a luglio in circostanze sospette). A essersi uccisa, nel complesso, è una ventina di dipendenti. Indagini di vario genere hanno indicato tra le probabili cause tempi infernali di lavoro, mancanza di relazioni umane dentro la fabbrica e pressioni psicologiche da parte del management.
A volte si è andati ben oltre le pressioni psicologiche: il 16 luglio 2009, un dipendente 25enne di nome Sun Danyong si è gettato nel vuoto dopo aver subito un pestaggio da parte di una squadraccia dell’azienda. Sun era sospettato di aver rubato e/o smarrito un prototipo di iPhone.
Che soluzioni ha adottato la Foxconn per prevenire queste tragedie? Beh, ad esempio, ha installato delle “reti anti-suicidio”.
[Per approfondire questo tema, consiglio i link raccolti nella pagina di wikipedia e la visione del video divulgativo Deconstructing Foxconn]
Questi dietro-le-quinte del mondo Apple non ricevono molta attenzione, a paragone dei bollettini medici di Steve Jobs o di pseudo-eventi come l’inaugurazione, nella centralissima via Rizzoli di Bologna, del più grande Apple Store italiano (kermesse doverosamente smitizzata dal sempre ottimo Mazzetta). In quella circostanza, diverse persone hanno trascorso la notte in strada in attesa di entrare nel tempio. Costoro non sanno niente del connubio di lavoro e morte che sta a monte del marchio che venerano. Nel capitalismo, mettere la maggiore distanza possibile tra “monte” e “valle” è l’operazione ideologica per eccellenza.
Feticismo, assoggettamento, liberazione
Quando si parla di Rete, la “macchina mitologica” dei nostri discorsi – alimentata dall’ideologia che, volenti o nolenti, respiriamo ogni giorno – ripropone un mito, una narrazione tossica: la tecnologia come forza autonoma, soggetto dotato di un suo spirito, realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologicamente. Tanto che qualcuno – non lo si ricorderà mai abbastanza – ha avuto la bella pensata di candidare Internet (che come tutte le reti e infrastrutture serve a tutto, anche a fare la guerra) al… Nobel per la Pace.
A essere occultati sono i rapporti di classe, di proprietà, di produzione: se ne vede solo il feticcio. E allora torna utile il Karl Marx delle pagine sul feticismo della merce (sottolineatura mia):
«Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi.»
“Forma fantasmagorica di un rapporto tra cose”. Come i computer interconnessi a livello mondiale. Dietro la fantasmagoria della Rete c’è un rapporto sociale determinato, e Marx intende: rapporto di produzione, rapporto di sfruttamento.
Su tali rapporti, la retorica internettiana getta un velo. Si può parlare per ore, giorni, mesi della Rete sfiorando solo occasionalmente il problema di chi ne sia proprietario, di chi detenga il controllo reale dei nodi, delle infrastrutture, dell’hardware. Ancor meno si pensa a quale piramide di lavoro – anche para-schiavistico – sia incorporata nei dispositivi che usiamo (computer, smartphone, Kindle) e di conseguenza nella rete stessa.
Ci sono multinazionali che tutti i giorni (in rete) espropriano ricchezza sociale e (dietro le quinte) vessano maestranze ai quattro angoli del mondo, eppure sono considerate… “meno multinazionali” delle altre.
Finché non ci si renderà conto che Apple è come la Monsanto, che Google è come la Novartis, che fare l’apologia di una corporation è la pratica narrativa più tossica che esista, si tratti di Google, FIAT, Facebook, Disney o Nestlé… Finché non ci si renderà conto di questo, nella rete ci staremo come pesci.
[N.B. A scanso di equivoci: io possiedo un Mac e ci lavoro bene. Ho anche un iPod, uno smartphone con Android e un Kindle. Chi fa il mio lavoro deve conoscere le modalità di fruizione della cultura e di utilizzo della rete. Ma cerco di non essere feticista, di non rimuovere lo sfruttamento che sta a monte di questi prodotti. E’ uno sforzo improbo, ma bisogna compierlo. Come spiegherò meglio sotto, la mia critica non si incentra sull’accusa di « incoerenza » del singolo e sul comportamento individuale del consumatore, su cui negli ultimi anni si è costruita una retorica sviante, ma sulla necessità di connettere l’attivismo in rete alle lotte che avvengono « a monte », nella produzione materiale.]
Per colpa del net-feticismo, ogni giorno si pone l’accento solo sulle pratiche liberanti che agiscono la rete – pratiche su cui, per essere chiari, noi WM scommettiamo tutti i giorni da vent’anni -, descrivendole come la regola, e implicitamente si derubricano come eccezioni le pratiche assoggettanti: la rete usata per sfruttare e sottopagare il lavoro intellettuale; per controllare e imprigionare le persone (si veda quanto accaduto dopo i riots londinesi); per imporre nuovi idoli e feticci alimentando nuovi conformismi; per veicolare l’ideologia dominante; per gli scambi del finanzcapitalismo che ci sta distruggendo.
In rete, le pratiche assoggettanti sono regola tanto quanto le altre. Anzi, a voler fare i precisini, andrebbero considerate regola più delle altre, se teniamo conto della genealogia di Internet, che si è evoluta da ARPAnet, rete informatica militare.
La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto.
La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe.
Se la tecnologia si imponesse prescindendo da tali rapporti semplicemente perché innovativa, la macchina a vapore sarebbe entrata in uso già nel I secolo a.C., quando Erone di Alessandria realizzò l’eolipila. Ma il modo di produzione antico non aveva bisogno delle macchine, perché tutta la forza-lavoro necessaria era assicurata dagli schiavi, e nessuno poté o volle immaginarne un’applicazione concreta.
E’ il feticismo della tecnologia come forza autonoma a farci ricadere sempre nel vecchio frame “apocalittici vs. integrati”. Al minimo accenno critico sulla rete, gli “integrati” ti scambieranno per “apocalittico” e ti accuseranno di incoerenza e/o oscurantismo. La prima accusa di solito risuona in frasi come: “Non stai usando un computer anche tu in questo momento?”; “Non li compri anche tu i libri su Amazon?”; “Ce l’hai anche tu uno smartphone!” etc. La seconda in inutili lezioncine tipo: “Pensa se oggi non ci fosse Internet…”
Nell’altro verso, ogni discorso sugli usi positivi della rete verrà accolto dagli “apocalittici” come la servile propaganda di un “integrato”.
Ricordiamoci sempre di Erone di Alessandria. La sua storia ci insegna che quando parliamo di tecnologia, e più nello specifico di Internet, in realtà stiamo parlando di altro, cioè dei rapporti sociali.
Insomma, torniamo a chiederci: chi sono i padroni della rete? E chi sono gli sfruttati nella rete e dalla rete?
Scoprirlo non è poi tanto difficile: basta leggere le “Norme di utilizzo” dei social network a cui siamo iscritti; leggere le licenze del software che utilizziamo; digitare su un motore di ricerca l’espressione “Net Neutrality”… E, dulcis in fundo, tenere in mente storie come quelle dei magazzini Amazon e della Foxconn.
Solo in questo modo, credo, eviteremo scemenze come la campagna “Internet for Peace” o, peggio, narrazioni del futuro orrende, di “totalitarismo soffice”, come quella che emerge dal famigerato video della Casaleggio & Associati intitolato Gaia: The Future of Politics.
Non illudiamoci: saranno conflitti durissimi a stabilire se all’evoluzione di Internet corrisponderà un primato delle pratiche di liberazione su quelle di assoggettamento, o viceversa.
Il lavoro (di merda) incorporato nel tablet
Ultimamente, chi ritiene che nel capitalismo odierno non valga più la teoria marxiana del valore-lavoro fa l’esempio dell’iPad, e dice: il lavoro fisico compiuto dall’operaio per assemblare un tablet è poca roba, il valore del tablet è dato dal software e dalle applicazioni che ci girano sopra, quindi dal lavoro mentale, cognitivo, di ideazione e programmazione. Lavoro che “sfugge” da ogni parte, inquantificabile in termini di ore di lavoro.
Ciò metterebbe in crisi l’idea marxiana che – taglio con l’accetta – il valore di una merce sia dato dalla quantità di lavoro che essa incorpora, o meglio: dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla. Per “tempo socialmente necessario” Marx intende il tempo medio utilizzato dai produttori di una data merce in una data fase dello sviluppo capitalistico.
Non sono un esperto di economia politica, ma mi sembrano due livelli coesistenti. Forse la teoria del valore-lavoro viene liquidata troppo in fretta. Io credo che il suo nocciolo di senso (nocciolo “filosofico” e concretissimo) permanga anche col mutare delle condizioni.
Oggi il lavoro è molto più socializzato che ai tempi di Marx e i processi produttivi ben più complessi (e il capitale più condizionato da limiti esterni, cioè ambientali), eppure chi fa quest’esempio accorcia il ciclo e isola l’atto dell’assemblaggio di un singolo iPad. Mi sembra un grosso errore metodologico.
Andrebbe presa in considerazione la mole di lavoro lungo l’intero ciclo produttivo di un’intera infornata di tablet (o di laptop, di smartphone, di e-reader, quel che vi pare). Come giustamente diceva Tuco nella discussione in cui ha iniziato a prendere forma il presente intervento:
«Uno dei punti essenziali è che tutta la baracca non si potrebbe mai mettere in movimento per produrre cento iPad. Se ne devono produrre almeno cento milioni. A prima vista potrebbe sembrare che il lavoro intellettuale necessario per sviluppare il software dell’iPad generi di per sé valore, indipendentemente dal resto del ciclo produttivo. Questo però vorrebbe dire che il valore generato da questo lavoro intellettuale è indipendente dal numero di iPad che vengono prodotti. In realtà non è così. Se non facesse parte di un ciclo che prevede la produzione con modalità fordiste di cento milioni di iPad, quel lavoro intellettuale non genererebbe praticamente nessun valore.»
Fissato questo punto, nel considerare quanto lavoro vada a incorporarsi in un tablet si può:
1) partire dal reperimento di una materia prima come il litio. Senza di esso non esisterebbero le batterie ricaricabili dei nostri gadget. In natura non esiste in forma “pura”, e il processo per ottenerlo è costoso e impattante per l’ambiente.
[Tra l’altro, il 70% dei giacimenti mondiali è in fondo ai laghi salati della Bolivia, e il governo boliviano non ha alcuna intenzione di svenderlo. Oltre a questi problemi geopolitici, ci si mettono pure i terremoti. Questa fase primaria del ciclo pare destinata a complicarsi e a richiedere più lavoro.];
2) prendere in considerazione le nocività esperite da chi lavora nell’industria petrolchimica che produce i polimeri necessari;
3) considerare il lavoro senza tutele degli operai che assemblano i dispositivi (di come si lavora alla Foxconn abbiamo già parlato sopra);
4) arrivare fino al lavoro (indegno, nocivo, ai limiti del disumano) di chi “smaltisce” la carcassa del laptop o del tablet in qualche discarica africana. Trattandosi di una merce a obsolescenza rapida e soprattutto pianificata, questo lavoro è già incorporato in essa, fin dalla fase della progettazione.
Prendendo in considerazione tutto questo, si vedrà che di lavoro fisico (lavoro di merda, sfruttato, sottopagato, nocivo etc.) un’infornata di iPad ne incorpora parecchio, e con esso incorpora una grande quantità di tempo di lavoro. E non vi è dubbio che si tratti di tempo di lavoro socialmente necessario: oggi gli iPad si producono così e in nessun altro modo.
Senza questo lavoro, il general intellect applicato che inventa e aggiorna software, semplicemente, non esisterebbe. Quindi non produrrebbe alcun valore. Se “per fare un tavolo ci vuole il legno”, per fare il tablet ci vuole l’operaio (e prima ancora il minatore etc.). Senza gli operai e il loro lavoro, niente valorizzazione della merce digitale, niente quotazione di Apple in borsa etc. Azionisti e investitori danno credito alla mela perché produce, valorizza e vende hardware e gadget, e ogni tanto fa un nuovo “colpo”, mettendo sul mercato un nuovo “gioiellino”. E chi lo fa il gioiellino?
Se sia ancora possibile una precisa contabilità in termini di ore-lavoro, non sono in grado di dirlo. Ripeto: non sono un esperto di economia politica. Ma so che quando gettiamo nell’immondizia un telefonino perfettamente funzionante perché il nuovo modello “fa più cose”, stiamo buttando via una porzione di vita e fatica di una gran massa di lavoratori, sovente pagati con due lire e – nella migliore delle ipotesi – un calcio nel culo.
Intelligenza collettiva, lavoro invisibile e social media
Quel che sto cercando di dire lo anticipava già Marx nel Capitolo VI inedito del Capitale (ed. it. Firenze, 1969, la citazione che segue è alle pagg. 57-58). Il passaggio è denso perché, appunto, è uno di quei testi che Marx non rivide per la pubblicazione:
«L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine e in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente […] questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione.
Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale.»
In sostanza, Marx dice che:
1) la natura collettiva e cooperativa del lavoro viene realmente sottomessa (a volte si traduce con “sussunta”) al capitale, cioè è una natura collettiva specifica, che prima del capitale non esisteva.
La“sottomissione reale” del lavoro al capitale è contrapposta da Marx alla “sottomissione formale“, tipica degli albori del capitalismo, quando il capitale sottometteva tipologie di lavoro pre-esistenti: la tessitura manuale, i processi del lavoro agricolo etc. “Sottomissione (o sussunzione) reale” significa che il capitale rende forza produttiva una cooperazione sociale che non pre-esisteva a esso, perché non pre-esistevano a esso gli operai, il lavoro salariato, le macchine, le nuove reti di trasporto e distribuzione.
2) Quanto più è avanzato il processo produttivo (grazie all’applicazione di scienza e tecnologia), tanto più mistificata sarà la rappresentazione (oggi qualcuno direbbe la narrazione) della cooperazione produttiva.
Ora cerchiamo nell’oggi gli esempi di questa formulazione: la produzione di senso e di relazioni in Internet non è considerata forza produttiva di lavoratori cooperanti; tantomeno l’ideologia dominante permette di riconoscere il lavoro del singolo. Questa produzione viene (truffaldinamente, mitologicamente) attribuita direttamente al capitale, allo “spirito d’impresa”, al presunto genio del capitalista etc. Per esempio, si dice che dobbiamo a una “intuizione” di Mark Zuckerberg se oggi grazie a Facebook bla bla bla.
Altrettanto spesso tale produzione di senso viene considerata, come dice Marx, “forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale”. Traduciamo: lo sfruttamento viene occultato dietro la facciata di un lavoro in rete autonomo, non subordinato, fatto tutto di autoimprenditoria e/o libera contrattazione e/o comunque molto più “cool” dei lavori “tradizionali” etc., quando invece la produzione di contenuti in rete va avanti anche grazie al lavoro subordinatissimo di masse di “negri” – nel senso di “autori-fantasma” – che lavorano a cottimo, come racconta Adrianaaaa a proposito di Odesk.com.
Esiste, per usare un’espressione marxiana, la “Gemeinwesen”, una tendenza dell’essere umano al comune, alla comunità e alla cooperazione? Sì, esiste. E’ sempre rischioso usare quest’espressione, ma se c’è un universale antropologico, beh, è questo. “Compagnevole animale”, così Dante traduce lo “zòon politikon” di Aristotele (lo ricorda Girolamo De Michele nel suo ultimo libro Filosofia) e le neuroscienze stanno dimostrando che siamo… “cablati” per la gemeinwesen (la scoperta dei neuroni specchio etc.)
Nessun modo di produzione ha sussunto e reso produttiva la tendenza umana alla cooperazione con la stessa forza del capitalismo.
Oggi l’esempio più eclatante di cooperazione sussunta – e al tempo stesso di lavoro invisibile, non percepito come tale – ce lo forniscono i social media.
Sto per fare l’esempio di Facebook. Non perché gli altri social media siano “meno malvagi”, ma perché al momento è il più grosso, è quello che fa più soldi ed è – come dimostra la recentissima ondata di nuove opzioni e implementazioni – il più avvolgente, pervasivo ed espansionista. Facebook si muove come se volesse inglobare tutta la rete, sostituirsi ad essa. E’ il social network par excellence, dunque ci fornisce l’esempio più chiaro.
Sei uno degli oltre settecento milioni di utenti che usa Facebook? Bene, vuol dire che quasi ogni giorno produci contenuti per il network: contenuti di ogni genere, non ultimo contenuti affettivi e relazionali. Sei parte del general intellect di Facebook. Insomma, Facebook esiste e funziona grazie a quelli come te. Di cos’è il nome Facebook se non di questa intelligenza collettiva, che non è prodotta da Zuckerberg e compagnia, ma dagli utenti?
Tu su Facebook di fatto lavori. Non te ne accorgi, ma lavori. Lavori senza essere pagato. Sono altri a fare soldi col tuo lavoro.
Qui il concetto marxiano che torna utile è quello di “pluslavoro”. Non è un concetto astruso: significa “la parte di lavoro che, pur producendo valore, non si traduce in salario ma in profitto del padrone, in quanto proprietario dei mezzi di produzione”.
Dove c’è profitto, vuol dire che c’è stato pluslavoro. Altrimenti, se tutta la quota di lavoro fosse remunerata in base al valore che ha creato, beh… sarebbe il comunismo, la società senza classi. E’ chiaro che il padrone deve pagare in salari meno di quel che trarrà dalla vendita delle merci. “Profitto” significa questo. Significa pagare ai lavoratori meno del valore reale del lavoro che svolgono.
Per vari motivi, il padrone può anche non riuscire a venderle, quelle merci. E quindi non realizzare profitti. Ma questo non significa che i lavoratori non abbiano erogato pluslavoro. L’intera società capitalistica è basata su plusvalore e pluslavoro.
Su Facebook il tuo lavoro è tutto pluslavoro, perché non vieni pagato. Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no.
L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce delle merci. E’ forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere.
Inoltre, lo stesso Facebook, in quanto rappresentazione della più estesa rete di relazioni sul pianeta, è una merce. L’azienza Facebook può vendere informazione solo se, al contempo e senza sosta, vende quella rappresentazione di se stessa. Anche tale rappresentazione è dovuta agli utenti, ma a riempirsi il conto in banca è Zuckerberg.
Ovviamente, il genere di « lavoro » appena descritto non è comparabile, per fatica e sfruttamento, al lavoro materiale descritto nei primi paragrafi di questo testo. Inoltre, gli utenti di Facebook non costituiscono una « classe ». Il punto è che dobbiamo in ogni momento tenere in considerazione sia la fatica che sta alla base della produzione dell’hardware, sia la continua privatizzazione predatoria di intelligenza collettiva che avviene in rete. Come scrivevo sopra: « I due livelli coesistono ». La valorizzazione dipende da entrambe le attività, vanno visualizzate e analizzate insieme.
Non c’è dentro e fuori
Se dopo questo discorso qualcuno mi chiedesse: “Allora la soluzione è stare fuori dai social media?”, oppure: « La soluzione è usare soltanto il software libero? », o ancora: « La soluzione è non comprare certe macchine? », risponderei che la questione è mal posta.
Certamente, costruire dal basso social media diversi, funzionanti con software libero e non basati sul commercio di dati sensibili e relazioni, è cosa buona e giusta. Ma lo è anche mantenere una presenza critica e informativa nei luoghi dove vive e comunica la maggioranza delle persone, magari sperimentando modi conflittuali di usare i network esistenti.
Dura da troppo tempo l’egemonia di un dispositivo che « individualizza » la rivolta e la lotta, ponendo l’accento prevalentemente su quel che può fare il consumatore (questo soggetto continuamente riprodotto da precise tecnologie sociali): boicottaggio, consumo critico, scelte personali più radicali etc. Le scelte personali sono importanti, ma
1) troppo spesso questo modo di ragionare innesca una gara a chi è più « coerente » e più « puro », e ci sarà sempre qualcuno che metterà in mostra scelte più radicali delle mie: il vegano attacca il vegetariano, il frugivoro crudista attacca il vegano etc. Ciascuno rivendica di essere più « fuori », più « esterno » alla valorizzazione, immagine del tutto illusoria;
2) Il consumatore è l’ultimo anello della catena distributiva, le sue scelte avvengono alla foce, non alla sorgente. E forse andrebbe consigliata più spesso la lettura di un testo « minore » di Marx, la Critica del programma di Gotha, dove si critica il « socialismo volgare » che parte dalla critica della distribuzione anziché da quella della produzione.
Sto provando a spiegare, da un po’ di tempo a questa parte, che secondo me le metafore spaziali (come il “dentro” e il “fuori”) sono inadeguate, perchè è chiaro che se la domanda è: “dov’è il fuori?”, la risposta – o l’assenza di risposta – può solo essere paralizzante. Perchè è già paralizzante la domanda.
Forse è più utile ragionare ed esprimersi in termini temporali.
Si tratta di capire quanto tempo di vita (quanti tempi e quante vite) il capitale stia rubando anche e soprattutto di nascosto (perché tale furto è presentato come “natura delle cose”), diventare consapevoli delle varie forme di sfruttamento, e quindi lottare nel rapporto di produzione, nelle relazioni di potere, contestando gli assetti proprietari e la “naturalizzazione” dell’espropriazione, per rallentare i ritmi, interrompere lo sfruttamento, riconquistare pezzi di vita.
Non è certo nuovo, quel che sto dicendo: un tempo si era soliti chiamarla “lotta di classe”. In parole povere: gli interessi del lavoratore e del padrone sono diversi e inconciliabili. Qualunque ideologia che mascheri questa differenza (ideologia aziendalistica, nazionalistica, razziale etc.) è da combattere.
Pensiamo agli albori del movimento operaio. Un proletario lavora dodici-quattordici ore al giorno, in condizioni bestiali, e la sua sorte è condivisa anche da bambini che non vedono mai la luce del sole. Cosa fa? Lotta. Lotta finché non strappa le otto ore, la remunerazione degli straordinari, le tutele sanitarie, il diritto di organizzazione e di sciopero, la legislazione contro il lavoro minorile… E si riappropria di una parte del suo tempo, e afferma la sua dignità, finché queste conquiste non saranno di nuovo messe in discussione e toccherà lottare di nuovo.
Già renderci conto che il nostro rapporto con le cose non è neutro né innocente, trovarci l’ideologia, scoprire il feticismo della merce, è una conquista: forse cornuti e mazziati lo siamo comunque, ma almeno non “cornuti, mazziati e contenti”. Il danno resta, ma almeno non la beffa di crederci liberi in ambiti dove siamo sfruttati.
Trovare sempre i dispositivi che ci assoggettano, e descriverli cercando il modo di metterli in crisi.
La merce digitale che usiamo incorpora sfruttamento, diventiamone consapevoli. La rete si erge su gigantesche colonne di lavoro invisibile, rendiamolo visibile. E rendiamo visibili le lotte, gli scioperi. In occidente se ne parla ancora poco, ma in Cina gli scioperi si fanno e si faranno sempre di più.
Quando uno sfigato diventa un tycoon, andiamo a vedere su quali teste ha camminato per arrivare dov’è, quale lavoro ha messo a profitto, quale pluslavoro non ha ricompensato.
Quando parlo di “defeticizzare la rete”, intendo l’acquisizione di questa consapevolezza. Che è la precondizione per stare “dentro e contro”, dentro in modo conflittuale.
E se stiamo “dentro e contro” la rete, forse possiamo trovare il modo di allearci con coloro che sono sfruttati a monte.
Un’alleanza mondiale tra “attivisti digitali”, lavoratori cognitivi e operai dell’industria elettronica sarebbe, per i padroni della rete, la cosa più spaventosa.
Le forme di quest’alleanza, ovviamente, sono tutte da scoprire.
Wu Ming 1
N.B. I brani in rosso sono aggiunte al testo scritte il 3 ottobre 2011, per le traduzioni in francese, inglese e spagnolo, in seguito integrate nella versione originale.
Forse dico l’ovvio a proposito di Cina, scioperi e internet…
Come si sa internet in Cina è controllato, Facebook, blogspot, twitter e similari sono bloccati e al posto loro sono sponsorizzati dalle autorità dei cloni come RenRen o Weibo. Quindi, la rete come mezzo di controllo politico sociale (e di protezionismo economico, ma è quasi un altro discorso). D’altra parte, la sponsorizzazione da parte delle stesse autorità dell’uso di internet in generale e di questi cloni in particolare ha prodotto milioni di utilizzatori che sanno utilizzare la loro lingua per aggirare i blocchi sulle parole chiare in modo di poter parlare, per esempio, del recente disastro ferroviario di Wenzhou o dell’ondata di scioperi in questo mese a Guangzhou… Ecco, se l’obiettivo è costruire un nesso tra “noi” e “loro” la prima cosa è togliersi dalla testa un bel po’ di pregiudizi, che la Cina sia un paese senza conflitto sociale o il suo luogo comune uguale e contrario, che il conflitto sociale in Cina sia mirato e immediatamente prossimo a rovesciare il governo, che la rete cinese non ha potenziale liberatorio, che l’unico potenziale liberatorio consista nel contatto salvifico con i nostri social network, che il controllo politico sia sempre più stretto sulla rete…
Spero di non esser stato troppo banale!
[…] un articolo della Wu-Ming foundation, che affronta di petto un dibattito che mi è caro e di cui si legge poco. […]
(grazie per la citazione!)
segnalo questo articolo di monbiot sul guardian, a proposito dello sfruttamento del lavoro intellettuale da parte delle multinazionali dell’ editoria scientifica.
(dimenticate per un momento le incredibili stronzate che monbiot ha scritto sul nucleare nei giorni di fukushima. quel che scrive in questo articolo e’ tutto vero)
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/aug/29/academic-publishers-murdoch-socialist
[…] Segnalo, a proposito e non a proposito, un gran pezzo di Wu Ming 1 sul Feticismo della merce digitale. […]
Capolavoro.
Anche perché questo scritto ha un pregio che ho trovato in pochissimi saggi di questo tipo: parla con competenza di queste contraddizioni dal punto di vista del consumatore di merci informatiche-elettroniche-telematiche, ma non si illude che si possano risolvere queste contraddizioni soltanto dal punto di vista del consumatore. Invece del paternalismo del consumatore “sensibile” verso l’operaio che produce la merce, propone una *alleanza*, dove quelli che hanno da imparare sono semmai soprattutto i consumatori.
Chapeau.
Sono feticista solo di un tipo di merce: è fatta di legno e ha sei piccole listelle di metallo che la percorrono.
[…] Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple Did you like this? Share […]
[…] Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple […]
-Tra i tanti meriti di questo post c’è anche quello di conservare grande importanza, pure strappando crudelmente via da esso l’interpretazione marxista. E’, inteso in quest’ottica miope, un ottimo resconto e punto di ritrovo di cose raramente raccontate e subito dimenticate. Anche se questo complimento non è gradito, mi pare doveroso farlo, perché troppo spesso leggo saggi dove l’ideologia e l’interpretazione filosofica del reale mettono la quinta mentre documentazione, case studies, e insomma fatti e realtà, dietro stentano.
-Mi pare sia anche un altro frutto del lungo ripensamento delle posizioni sul “capitalismo cognitivo” di Negri e Hardt. Con altro chiodo sulla bara del loro ottimismo, insomma e purtroppo.
-Un tema che è solo implicito è invece quel capriccio teologico della merce che possiamo chiamare, con Benjamin, la produzione del sempre nuovo come sempre uguale. Resta infatti vero che le merci sono sempre più cariche di tecnologia, ma la tecnologia più raffinata è quella dell’obsolescenza programmata. Il gettare via lontano dagli occhi (vd., oltre al filmato della BBC, anche Andrew McConnell – Rubbish Dump 2.0 http://bit.ly/rcoXn5) fa cioè parte di un sistema integrato per la produzione e riattivazione continua dello stesso “sempre nuovo” desiderio (uh, l’Ipad 2…). E le discariche africane di smaltimento merce sono tanto tenute nascoste quanto le varie forme di lavoro per produzione merce, perché il sempre nuovo deve oggi apparire sempre più immateriale, di modo che la nostra coscienza ecologista non si turbi nel consumo (anzi siamo tutti lì a deliziarci del comunicato stampa con l’impatto zero di Google e compagnia bella).
– Segnalo solo su Fb che il nuovo sistema di “frictionless sharing” (lanciato al f8, vd. ottimo resoconto http://bit.ly/pFWe7L ) è appunto un altro tassello in questa strategia di “occultamento del lavoro”, ovvero dello UGC (il contenuto generato dagli utenti, che poi è la grande trovata del 2.0 come sistema economico). Perché adesso non hai neanche bisogno più di cliccare lo share, fa già tutto da solo “magicamente” e “senza fatica”, senza frizione e senza scontro…
Illuminanti le riflessioni di WM1 sulla necessità di defeticizzazione della rete. Disvelare le pratiche di sfruttamento e la longa manus dell’ideologia dominante nella produzione di contenuti digitali è necessariamente il primo passo per immaginare un uso conflittuale degli strumenti esistenti.
Detto ciò, intervengo per integrare da “dentro” la segnalazione di Tuco.
Oltre allo sfruttamento dei contenuti intellettuali della comunità accademica e scientifica da parte dei grandi publisher attraverso una forma di appropriazione per fini commerciali, credo sia anche importante notare
che la produzione tecnica stessa di tali contenuti editoriali e lo sviluppo/mantenimento delle infrastrutture per la loro fruizione richiedono molto di quel lavoro mentale che genera esso stesso valore, e quindi profitto.
Buona parte di quel lavoro è ormai da una decina di anni esternalizzato in paesi asiatici e africani secondo la consueta prassi della globalizzazione consentendo così ai publisher profitti enormi (costi di produzione abbattuti anche dell’80%) nonché ritmi produttivi spaventosi che garantiscono archivi online con ormai milioni di pubblicazioni (coperte da copyright, ovviamente).
L’alleanza auspicata sopra è sempre più urgente.
Fare una ricerca su Google e muovere i server di Mountain View comporta l’emissione di 7 grammi di anidride carbonica.
Per ritrovare questo dato (che avevo letto da qualche parte un paio di anni fa e che farebbe impallidire quelli che comprano prodotti a chilometro zero ma magari smanettano tutto il giorno online) ho fatto due ricerche su Google. Il che equivale a emettere la stessa quantità di Co2 che serve per far bollire una teiera. Non abbiamo nessuna intenzione di smettere di usare la rete (siamo “dentro e contro”, scrive WuMing1), ma questo dato smentisce la vulgata della rete e dell’informatica come tecnologie “lisce” e “pulite”.
Tuttavia, rimane il fatto che – come ha argomentato ad esempio Christian Marazzi – quando parliamo di computer ci troviamo di fronte a “macchine linguistiche”. Perché se è vero che bisogna evitare il rischio di considerare la rete come forma “buona” di produzione e consumo, è vero anche che si deve sfuggire alla tentazione di descrivere il lavoro come pura alienazione, come prestazione meccanica e schiavistica, che non contiene e sussume nessuna delle qualità “propriamente umane” come la parola, la tendenza ad agire insieme, persino la speranza di faticare di meno (che spesso è foriera di innovazioni).
Aggiungo che il discorso di WuMing1 diventa fondamentale adesso. E non solo perché siamo nell’occhio del ciclone della crisi. Anche perché negli anni passati il nemico numero uno era un altro. Abbiamo assistito allo scontro tra due modelli di capitalismo digitale: quello, ottuso e poco elastico, del copyright e di Microsoft e quello “comunitario” di Google prima e di Facebook e dei social network poi. Mentre Bill Gates pensava di far soldi ancora “solo” vendendo una merce bella e pronta, Page&Brin hanno arguito di giocare sulla capacità dei propri algoritmi di impossessarsi della cooperazione in rete.
Proprio oggi, Carlo Formenti racconta sul Corriere della sera di come Google sia finito sotto inchiesta per razzismo: un avvocato ha scoperto che basta registrarsi ai servizi Gmail con nomi afroamericani o ispanici per vedere comparire sul proprio monitor inserzioni pubblicitarie di prodotti “di serie B”: lavori dequalificati, mutui più gravosi e scuole di qualità scadente.
Ciò è odioso, ma non toglie il fatto che per fare soldi a Mountain View debbano costruire una strana forma di capitalismo. Questo modello, furbo e duttile, ha imposto la sua logica a quello di Microsoft: devono aumentare la socializzazione e i beni comuni (i libri disponibili online su GoogleBooks, i video consultabili su YouTube ecc ecc), i servizi disponibili, l’accesso a beni, devono invitare la gente a comunicare e mettersi in relazione.
Il 9 per cento di berlinesi che ha votato a favore del “partito dei pirati” contiene questa contraddizione: chiede massima libertà, rivendica la tutela della privacy (contro le intercettazioni, andatelo a dire a Travaglio) perché ha “imparato” queste cose in rete. Il passaggio successivo consiste nel fargli capire che bisogna rivendicare anche diritti e garanzie dai padroni, quelli materiali e quelli immateriali.
[…] Non riporto per intero il lungo articolo: mi limito ad una breve quanto significativa citazione invitandovi caldamente a proseguire la lettura direttamente su GIAP. […]
Non posso che aggiungermi ai complimenti che fioccano per questo post, che andrà discusso a lungo, e aggiornato mi sento di suggerire. Giacchè individua “nodi” fondamentali, tendenze che già sono realtà cruciali, e inaugura un lavoro capillare di descrizione che non può, non deve fermarsi. Per intervenire in maniera decisiva sulla percezione degli strumenti che usiamo ogni giorno, senza inficiarne potenzialità e pratiche liberatorie, tutt’altro. Ma che renda noto, a ciascuno di noi, che tutto ciò avviene in un “campo di forze” di enorme strategicità. Questo E’ il Capitale oggi, e molto di più domani.
Nulla, in questo campo, ci verrà dato gratis.
Inoltre, mi sento di aggiungere, la sensibilittà e la capacità di confrontarsi con le tematiche qui sollevate, sarà il banco primario di valutazione per le soggettività e gli aggregati politici che stanno nascendo, e continueranno a strutturarsi, dentro e intorno alla ‘rete’. Svelandone ambiguità, connivenze e consistenza reale.
Grande intervento, davvero.
L.
Molto bello tutto il post, importante e urgente. Durante la sua lettura, in diversi passaggi, mi è venuto spontaneo collegare quest’analisi sul feticismo della merce digitale e lo sfruttamento a quella sulla composizione del lavoro in Italia, ma non solo, operata dal mai citato a sufficienza Sergio Bologna. Oramai già cinque anni fa Bologna – che non dimentica Marx e non dimentica nemmeno di fustigare i marxisti, tanto da dichiarare in un’intervista del 2010 che “Marx è uno straordinario pensatore, a saperlo leggere, peccato che sia stato rovinato dai marxisti” – partendo dalla demistificazione del lavoro, riportandolo alle sue condizioni materiali, alla sua condizione materiale di sfruttamento, proponeva in un articolo intitolato Uscire dal vicolo cieco una coalizione tra lavoro autonomo, lavoro precario e lavoro “di conoscenza”, cosa che ricorda molto l’alleanza che WM1 propone in conclusione del post…
Si trova ancora, qui: http://bit.ly/nI4O5i
Non è andata molto bene in questo senso, in questi anni… ma mi pare ancora la strada giusta.
Grazie per la chiarezza. Veramente .
Un po’ ot : da donna, sottoscrivo largamente – cioè proprio in maniera allargata, questa frase:
“Il danno resta, ma almeno non la beffa di crederci liberi in ambiti dove siamo sfruttati. Trovare sempre i dispositivi che ci assoggettano, e descriverli cercando il modo di metterli in crisi” ? :-)
Davvero un bellissimo pezzo. E’ ben vero che non ci sono un fuori e un dentro. Ci sono però diversi modi differenti possibili o già realizzati, che s’intersecano e interagiscono positivamente o nocivamente, e anche (forse più spesso) che si ignorano, proprio assumendo la dimensione erronea del fuori/dentro. Non esiste secondo me una consapevolezza di questi meccanismi senza la pratica che cerca di scardinarli. I due poli nella dicotomia apocalittici/integrati, per quanto apparentemente opposti, producono lo stesso risultato: l’inazione. Bisognerebbe rifiutare ogni rappresentazione di questo tipo e cominciare a diffondere altre dicotomie, come quella tra fare qualcosa per aumentare la consapevolezza di queste contraddizioni e non farlo.
E proprio per lo stesso motivo per cui non c’è un fuori/dentro, le pratiche possibili non funzioneranno se si limiteranno ad agire “dentro” la rete.
@mr mills
Forse io non ho capito niente, ma mi pare che la lettura di WM1 vada proprio nella direzione opposta a certe suggestioni di cui cade vittima anche Bologna. Il tablet è un prodotto industriale fatto da operai “fordisti”, i lavoratori cognitivi (come il sottoscritto, che però è inquadrato in modo molto “tradizionale” con un bel contratto metalmeccanico a tempo indeterminato) certamente c’entrano, ma il loro ruolo è subordinato alla produzione materiale in fabbrica, al reperimento delle materie prime nelle miniere, alla distribuzione via nave, treno, aeroplano e camion dei prodotti, al flusso dei dati attraverso server caldi e rumorosi, mediante giganteschi cavi che attraversano gli oceani, tramite satelliti metallici spediti fisicamente in orbita ecc. Insomma, tutta roba per niente immateriale che continua a dettare i ritmi del capitalismo e dei suoi schiavi e mantiene in vita la legge del valore come “tempo di lavoro socialmente necessario” in una forma non così diversa da quella ottocentesca.
Non si tratta di accademia, perché capire questo significa capire chi sono i soggetti dell’alleanza che viene proposta. Tu dici “lavoratori autonomi, precari e cognitivi”, che a me sembra una descrizione ancora una volta ideologica del mondo reale della produzione in aziende come Amazon o Apple, dove una parte decisiva del lavoro e dello sfruttamento (e quindi dell’estrazione di profitto) cade sulle spalle di operai salariati manuali. Sono questi gli “intrusi” di cui ci fa dimenticare l’ideologia di Internet come regno del “giovane, immateriale e libero” – ideologia che io vedo riflessa nella sua superficiale critica “precario-cognitiva-postfordista”. Sono questi intrusi invece che possono costituire le “truppe pesanti” dell’alleanza che ha immaginato WM1 e rompere, insieme al giocattolo ideologico, anche il micidiale meccanismo reale.
@Mauro Vanetti & mr mills
L’ultima parte del pezzo invita a un’alleanza più larga di quella tra lavoratori autonomi, precari e cognitivi. Quest’ultima rischia di essere il vero vicolo cieco, se non tiene conto di tutto il lavoro tradizionale, operaio e di sfruttamento od-style, che ancora sta incorporato in oggetti il cui valore sarebbe solo immateriale, secondo una certa analisi.
Il primo passo di tale alleanza allargata è senz’altro la consapevolezza.
E il secondo?
Complimenti per l’articolo, acuto e chiarissimo come sempre.
Un piccolo contributo, giusto per ricordare che la mistificazione sulla presunta “proprietà collettiva realizzata” dei mezzi di produzione data a ben prima dell’ottimismo su internet come mezzo “aperto”, gratuito e libero.
Nel 1922 l’economista austriaco Ludwig von Mises scrisse un’opera, “Socialismo”, che rappresenta forse una delle offensive più radicali e coerenti contro il pensiero socialista, condotta da un punto di vista liberale in estrema difesa del libero mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Ora, nel primo capitolo dell’opera, dedicato all’analisi della proprietà, Mises distinuge fra “possesso fisico” e “possesso sociale” dei mezzi di produzione. Le conseguenze che ricava da questa distinzione sono incredibili…
Uno dei tratti caratterizzanti del pensiero dei liberali austriaci è l’universalizzazione della figura del “consumatore”, che sta alla sfera economica come quella del “cittadino” sta alla sfera politica: in entrambi i casi, il riconoscimento dell’universalità di queste figure, viene utilizzato come base del concetto di “democrazia”, intesa in senso economico (dove essa si realizzerebbe attraverso le libere scelte nel mercato) o in senso politico (dove invece si realizza attraverso il voto).
Il ragionamento di Mises è il seguente: siccome sono i consumatori, con le loro scelte, ad indirizzare l’impiego dei mezzi di produzione (che i “proprietari fisici” si limitano pertanto ad “amministrare”), ne conseguirebbe che i mezzi di produzione, dal punto di vista generalmente sociale, non sono sottoposti ad alcuna “proprietà esclusiva”. Tutti i consumatori (che sono poi gli stessi fornitori dei fattori della produzione – terra, capitale e lavoro – astratti dal loro ruolo nella produzione, e proiettati “dall’altro lato della barricata”) sono, pertanto, “proprietari” dei mezzi di produzione.
Poi ovviamente Mises si riserva di ricorrere al concetto di “proprietario” solo per quanto concerne la “proprietà fisica” effettiva, allo scopo di non creare “confusione”… ma, sotto tantissimi punti di vista, il ragionamento che fa è un esempio cristallino di feticizzazione e di falsa coscienza. Un po’ l’archetipo, mi sembra, di tutte le attuali esaltazioni della rete (che, stringi stringi, è alla fin fine un mezzo di produzione) come qualcosa di “collettivo” e democratico.
@Mauro Vanetti
Può essere che sia io a non aver capito nulla, figurati… però dei tanti che si pongono in termini di “accademia” non mi pare Bologna ci stia comodo nella definizione. Il senso del mio commento in verità mi sembra venire incontro a quanto tu scrivi, così come mi pare d’aver inteso dall’analisi di Bologna sulla trasformazione della composizione del lavoro che la precarietà poco ha a che fare con la forma contrattuale in senso stretto, quanto al livello di sfruttamento del proprio lavoro: tot ore di lavoro, tot euri, capisci subito in che scalino dello sfruttamento sei messo. Io anche ho un contratto a tempo indeterminato, sulla carta per la retorica attuale sarei quindi un “garantito”, ma se pigli 1000 euro al mese, lavori 40 ore alla settimana, hai un contratto in un’azienda che ti pone fuori dalle garanzie sociali del lavoro fordista, con l’insucurezza devi farci i conti.
Comunque, non volevo riaccendere in commento a questo post questa “polemica” tra nuovo e vecchio. Così come non volevo “proporre” la coalizione fra lavoratori autonomi, precari e cognitivi come soluzione e uscita sola e semplice dalle condizioni di sfruttamento attuali. Mi sembra però, o meglio mi è sembrato nel leggere il post, che anche qui si ponesse la questione di costruire alleanze che tengano insieme figure che generalmente si ritiene essere lontane o contrapposte, come conseguenza di una lettura ideologizzata delle stesse.
Ha ragione @WM2, il punto è individuare il passo successivo alla raggiunta consapevolezza… oltre alla questione problematica di raggiungere e allargare questa consapevolezza.
Bravo, davvero. e grazie. gridare che il re è nudo è sempre il primo passo.
però manca la condanna in latino sotto Jobs ;-)
@mr mills
Figurati, non si tratta di una disputa ma solo di un ragionamento collettivo, né volevo brandire Wu Ming 1 come una clava da dare in testa a Sergio Bologna. Devo dire però che, al di là ovviamente di diverse consonanze su altri argomenti, vedo una contraddizione radicale tra questo post e quello che hai citato; pesco appositamente una delle parti che reputo meno condivisibili di quanto scrive Bologna:
“Assumiamo che la tecnologia-simbolo del fordismo sia la catena di montaggio e la tecnologia-simbolo del postfordismo il computer. Richiedono due razze diverse di forza lavoro. […] Nel fordismo abbiamo una potenza tecnologica che soggioga e disciplina la forza lavoro, nel postfordismo uno strumento tecnologico che dialoga con la forza lavoro […] La liberazione nel primo caso passava per il rovesciamento dei rapporti con la macchina […] Non è lo stesso percorso che si presenta nel postfordismo, il computer è – può essere – liberazione. I percorsi sono molto più complessi e per individuarli dobbiamo abbandonare l’operaismo.”
Mi sembra che questi passaggi rappresentino in forma quasi pura l’equivoco ideologico in cui non bisognerebbe cadere quando si parla di lotta di classe nel contesto di aziende hi-tech.
Il computer è liberazione (in potenza) ed è assoggettamento (in atto) tanto quanto lo era il telaio a vapore, sebbene in forme diverse. L’apologia della Rete è miope ed unilaterale quanto poteva esserlo l’apologia della lavastoviglie negli anni Quaranta (o Cinquanta da noi in Italia) o, prima, l’apologia futurista del motore a scoppio o, prima ancora, l’apologia positivista dell’elettricità.
Il comunismo è soviet + elettrificazione, oggi diremmo soviet + Web. Ma l’elettrificazione senza soviet c’era anche nei fili spinati dei lager.
E qui torniamo al secondo passo che invocava WM2…
Intervengo solo per notare che parte delle contraddizioni delineate in questo *illuminante* post e nei commenti che lo accompagnano vengono già usate per sminuire, mettere in ridicolo e togliere credibilità ai movimenti globali di questi giorni. Questa per esempio è la conclusione di un articolo destrorso e tendenzioso del NYT su #OccupyWallStreet:
“One day, a trader on the floor of the New York Stock Exchange, Adam Sarzen, a decade or so older than many of the protesters, came to Zuccotti Park seemingly just to shake his head. “Look at these kids, sitting here with their Apple computers,” he said. “Apple, one of the biggest monopolies in the world. It trades at $400 a share. Do they even know that?””
(La fonte è “Gunning for Wall Street, With Faulty Aim”, di Ginia Bellafante, NYT del 23/09/2011. ).
A mio modesto parere, non è una questione di superficie, ma c’è una contraddizione strutturale. Non lasciamo che il discorso egemone si impossessi anche di questo “frame”.
Molto interessante, sopratutto la parte sui social network e il pluslavoro… infatti l’ho condiviso sul mio profilo di FB!! ^__^
Wow!
In prima battuta, questo passaggio: «il lavoro fisico compiuto dall’operaio per assemblare un tablet è poca roba, il valore del tablet è dato dal software e dalle applicazioni che ci girano sopra, quindi dal lavoro mentale, cognitivo, di ideazione e programmazione. Lavoro che “sfugge” da ogni parte, inquantificabile in termini di ore di lavoro» mi porta ad aggiungere, alla critica di WM1, la considerazione che:
questa parte inquantificabile non resta tale, ma viene comunque misurata, cioè messa a valore. La misura è data dalle fluttuazioni borsistiche: ossia dai processi del capitale finanziario. Che (a meno di non confondere il “comunismo del capitale” col “capitale del comunismo”) è sempre capitale.
Per non farla troppo pesante la seconda considerazione è nel prossimo post.
http://youtu.be/5cKs9COWSC4
Rieccomi. Quanto Marx scriveva sulla merce sia nel famoso capitolo sulla merce nel Capitale che nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 mi sembra assolutamente pertinente, perché, accanto allo sfruttamento economico, mette in luce quell’aspetto dello sfruttamento che è per me centrale, ossia l’alienazione, la riduzione a cosa astratta del lavoratore (e – ma questi sono fatti miei – consente di tenere il giovane Marx all’interno del fascio di luce del Marx di Capitale e Grundrisse: forse che Althusser ha gettato via anche il bambino, con l’acqua sporca?).
Cedo la parola al barbuto di Treviri.
1. «Lo scambio di equivalenti che sembra essere l’operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l’apparenza, in quanto, in primo luogo, la parte di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente e, in secondo luogo, essa non solo deve essere reintegrata dal suo produttore, l’operaio, ma deve essere reintegrata con un nuovo sovrappiù. Dunque il rapporto dello scambio fra capitalista ed operaio diventa soltanto una parvenza pertinente al processo di circolazione, pura forma, estranea al contenuto vero e proprio, semplice mistificazione di esso. La compra-vendita costante della forza-lavoro è la forma. Il contenuto è che il capitalista torna sempre a permutare contro sempre maggiore quantità di lavoro altrui vivente una parte del lavoro altrui già oggettivato che gli si appropria continuamente senza equivalente» [Il Capitale, I, 3].
2. «II rapporto della proprietà privata contiene in sé latente il rapporto della proprietà privata come lavoro, cosi come il rapporto della stessa come capitale e la relazione reciproca di entrambe queste espressioni. La produzione dell’attività umana in quanto lavoro, e quindi come attività completamente estranea a se stessa, all’uomo e alla natura, e perciò alla coscienza ed alle manifestazioni vitali, l’esistenza astratta dell’uomo in quanto semplice uomo da lavoro, che può quindi quotidianamente precipitare la sua non-esistenza sociale e perciò reale dal niente adempiuto nel niente assoluto, cosi come d’altra parte la produzione dell’oggetto dell’attività umana in quanto capitale, dove si estingue ogni determinatezza naturale e sociale dell’oggetto, e dove la proprietà privata ha perduto la propria qualità naturale e sociale (e di conseguenza ha perduto tutte le illusioni politiche e sociali e non è più congiunta con nessun rapporto apparentemente umano) – questo contrasto, portato al suo vertice, è necessariamente il vertice, la somma e la rovina dell’intero rapporto» [Manoscritti economico-filosofici].
@girolamo
Ho dei dubbi sul tuo primo commento. “Misurare” il tempo di lavoro è da sempre il problema dei problemi per i padroni, anche in fabbrica.
Farlo nel caso del lavoro mentale (che poi non è solo mentale, come quello degli operai non è solo manuale… anche alla FIAT gli operai pensano, e anche a Google i programmatori battono le dita sulla tastiera) è più difficile, ma non è impossibile. L’uso proprio dei computer per pianificare i “task” dei lavoratori permette di avere un controllo dettagliato su cosa fanno. Per misurare l'”effort” legato ad un “task” si sono studiati molti metodi, che non sono altro che la riduzione delle ore effettive impiegate in “ore normali”, un procedimento di cui parla anche Marx nelle primissime pagine del Capitale a proposito del lavoro più o meno qualificato.
Interessante notare che alcuni di questi metodi si avvalgono della collaborazione degli stessi lavoratori, che sono chiamati come parte del loro lavoro a condurre “stime” dei loro “effort” (nella mia settimana lavorativa tipo, per esempio, circa il 20% del tempo è dedicato a “stimare” il restante 80%). Questi metodi sono interessanti anche in un’ottica di liberazione del lavoro perché, se oggi sono uno strumento di controllo, domani possono diventare strumento di autogestione (a cosa servono i capi se le stime le fa il “team”?).
Il ruolo della Borsa e della finanziarizzazione del capitale è necessariamente diverso. In Borsa non si vendono merci, in Borsa si vendono mezzi di produzione (quote di aziende). Quello che viene valutato in Borsa è la capacità che una certa azienda, cioè un certo insieme organizzato di mezzi di produzione, cioè una certa porzione di capitale, ha di valorizzarsi. Per valorizzarsi deve essere capace di “cristallizzare” lavoro in valore. La trasformazione del lavoro in valore è non solo dal punto di vista contabile ma anche dal punto di vista sostanziale precedente ai giochi d’azzardo in Borsa, di cui costituisce il “piatto”. Se il piatto piange c’è poco da giocare; se per ipotesi le Borse chiudessero, non vedo perché non potrebbero comunque esistere Google, Apple, Microsoft e compagnia bella. Semplicemente i capitalisti troverebbero modi più intricati (e terribilmente meno efficienti dal loro punto di vista) per raccogliere capitale da valorizzare, ma l’esigenza di valorizzarlo producendo merci resterebbe, e tra queste merci continuerebbero ad esserci tanto le motociclette quanto i tablet.
E è terribile notare come sia vero che molte persone non riescano nemmeno ad avere il minimo sospetto sulla bontà della gratuità di FB. Non tutto ciò che è gratis è un regalo. In questo caso è il contrario, come si fa ben notare in questo articolo. Gli utenti regalano pluslavoro, contenti di farlo, coccolati da questo carezzevole e grazioso capitalismo dell’inculata (non volevo scadere, ma la tentazione era irrefrenavile, me ne scuso…). L’unico punto possibile di partenza è giustamente la coscienza del meccanismo costrittore, rimanere dentro ma contro, essere “dentro e contro”…
http://laborsadegliattrezzi.blogspot.com/
@ Mauro Vanetti
Guarda che io non dubito che il lavoro intellettuale sia in qualche modo misurabile. Anzi: le tecniche del controllo analitico rendono misurabile anche gli apprendimenti cognitivi (al prezzo di una violenta riduzione della qualità in quantità, e della negazione di ciò che non è convertibile in quantitativo: io ci combatto quotidianamente, contro i test Invalsi a scuola, figurati). Dico invece che il processo di valorizzazione dell’immateriale passa attraverso la valorizzazione finanziaria: non solo la quotazione in borsa di Facebook, ma la quotazione virtuale di ciò che ancora non è nel listino della borsa, ma che lo sarà in futuro… In borsa non si valorizzano solo quote di ricchezza, ma anche aspettative, passioni, timori e speranze: il che produce una ricchezza “virtuale” che non corrisponde ad una merce “materiale”. Un po’ come anime prive di corpo, o fantasmi di defunti. Nondimeno, questa ricchezza deve circolare e valorizzarsi, salvo creare le premesse per il crollo del processo di valorizzazione: dentro le cui conseguenze ci stiamo tutti fino (per ora) al collo.
Approfitto per dire che condivido le cautele su Bologna: premesso il suo spessore analitico di prim’ordine, ogni tanto mi sembra che anche lui cada nella tentazione di definire un nuovo soggetto che magicamente sembra autonomizzarsi dai processi del capitale pur restandone all’interno, in una sorta di epifania ipersoggettivistica.
@girolamo
“In borsa non si valorizzano solo quote di ricchezza, ma anche aspettative, passioni, timori e speranze: il che produce una ricchezza “virtuale” che non corrisponde ad una merce “materiale”.”
si puo’ dire che in borsa si valorizzano (espropriano) pezzi di futuro?
Complimenti per il post…
E’ stupefacente come esprimere certi concetti, oggi, appaia davvero rivoluzionario.
Dopo decenni in cui ci spacciavano per proto-comunismo il lavoro socializzato nell’e-economy, la fine del lavoro dipendente salariato, il lavoro cognitivo come estrema evoluzione di un capitalismo che poneva le basi per la sua prossima fine, che si costruiva le armi con cui sarebbe crollato.
Oltretutto, per produrre gli I-pod o i computer che andranno a produrre quel general-intellect su cui tanto si è narrato, il capitale non ha fatto altro che espandere la manifattura e le catene di montaggio in giro per il mondo. Insomma, stiamo ancora al punto di partenza, non si è inventato niente di nuovo, neanche la più piccola innovazione in questo senso. Stiamo ancora al fordismo industriale, ai dipenti salariati, alle catene di montaggio…che palle
“Ero su una collina, e di là vidi avvicinarsi il vecchio, ma veniva come se fosse il nuovo”
Santo Brecht…
I casi Amazon e WalMart si aggiungono a molti altri, qua negli States (e nonostante questo Marchionne è già riuscito a litigare anche con i sindacalisti americani: shocker). Tra le peggiori catastrofi accadute di recente c’è il disastro in una delle miniere della West Virginia (per esempio http://www.huffingtonpost.com/2010/04/06/west-virginia-mine-explos_n_526810.html), dove la sicurezza dell’impianto (or lack thereof) è stata denunciata e sanzionata decine di volte, senza alcun sensibile risultato. Poi capita di vedere un film come “Unstoppable,” in cui un ferroviere già licenziato (Denzel Washington) e alla fine del suo mandato mette la sua vita a rischio in compagnia di un pivello raccomandato per l’azienda che gli ha già fornito il benservito. Entrambi ovviamente diventano eroi, e il “vecchio arnese” ritrova il suo posto mentre il cinico dirigente viene cacciato. Chissà cosa vorrà dire.
Grazie Roberto per il post, anche io che faccio un lavoro immateriale dovrei ricordarmi di staccare più spesso e “uscire a riveder le stelle.”
[…] Ming 1 ha pubblicato un pezzo molto lungo dal titolo abbastanza […]
Questo post andrebbe stampato sulle confezioni di computer, ipod e simili.
Proprio ieri, su Uninomade, è uscito un contributo di Michael Blecher sul (post)operaismo, dove l’autore, purtroppo in modo assai contorto, solleva temi in parte simili a quelli presentati qui. Non ho potuto fare a meno di collegare mentalmente le due cose.
Questo è un passaggio sulla necessità/contraddizione del “dentro e contro”:
“Essendo capitale e lavoro componenti della stessa società capitalistica, il conflitto lanciato dalla classe operaia contro questa ‘entità’ sembra contrastare la sua propria immanenza o, inversamente, l’immanenza tende a neutralizzare quel conflitto vitale. “Ma come tener insieme ‘dentro’ e ‘contro’?” Per risolvere questo paradosso si può, tra l’altro, ricorrere ad una separazione di ruoli: La classe operaia deve riconoscersi, oltre il classico limite socialdemocratico-riformista, come potenza politica, ma boicottarsi come forza produttiva capitalista.”
C’è dentro la “sussunzione del reale” cui accennava Wu Ming 1 e un potenziale sbocco Autonomista (liberazione *dal* lavoro etc.)
Questo il link: http://bit.ly/pCI9Gh
Mi permetto di lasciare un commento: vi seguo sempre ma vedo che il livello dei commenti è sempre molto alto e spero di essere all’altezza della discussione! :)
Complimenti per la riflessione che è davvero acuta: rivoluzionaria riesce a mostrare quello che molte persone, come incantate dalle “meraviglie 2.0” non vedono. Come i prestigiatori che ti fanno spostare l’attenzione per illuderti meglio.
La prima idea che mi è venuta è quella su Beppe Grillo: passato da compulsivo sfasciatore di computer a sublime cantore del potere taumaturgico della rete. Entrambe queste visioni sembrano essere agli antipodi (infatti i tromboni di destra non fanno che rinfacciarglielo, sottolineando come, a parere loro, sia una palese contraddizione) eppure hanno il territorio simile, quello evidenziato da WM1: IL FETICISMO. In questo caso il feticismo consiste nell’assenza totale di pensiero critico sull’oggetto stesso e sulle relazioni che tale oggetto sostiene o su cui tale oggetto regge. Il Grillo “spaccatore-di-computer” in questo senso è perfettamente coerente col Grillo “cantore-della-rete”: allo stesso modo si attacca feticisticamente a un oggetto additandolo come male assoluto o come panacea di tutti i mali. Scordandosi di due piccoli dettagli: gli sfruttatori e gli sfruttati.
La tendenza a mitizzare la rete (e soprattuto di mitizzare questi “giganti buoni”) purtroppo è molto presente soprattutto nei miei amici di sinistra, affascinati dal “migliore dei mondi possibili” che questi colossi ci illudono di dare.
La lezione marxiana e marxista è sempre la stessa e sempre più attuale: Quando le corporation vi dipingono una realtà zuccherosa, dubitate, scovate le contraddizioni, indicatele affinchè la maggior parte delle persone le riconosca e infine acuitele. In due parole: pensiero critico.
Mi associo alla lista infinita dei complimenti…
la lettura del post mi ha fatto tornare in mente Saskia Sassen e il suo lavoro sulle citta` globali. In particolare credo di aver letto nel suo “Sociologia della globalizzazione” un discorso critico sulla smaterializzazione del lavoro: le citta` globali, in cui le attivita` finanziarie e quelle della net economy sembrano predominare, necessitano di una grande quantita` di lavoratori invisibili, sottopagati e sfruttati. Basti pensare a tutti coloro che fanno le pulizie negli uffici, per dirne una. Insomma, la promessa della fine del lavoro manuale era una balla e questo e` sotto gli occhi di tutti, di tutti quelli che vogliono vedere.
@ Tuco
La risposta è no: in borsa non si valorizzano pezzi di futuro.
La spiegazione è un po’ brigosa, spero di rendertela semplice.
La dinamica della Borsa è più o meno questa: nel giorno A io ti vendo al prezzo α un titolo che oggi [presente] non ho, promettendoti un guadagno atteso all’indomani [futuro]. Nel giorno A+1 (successivo ad A) opero affinché il titolo che ancora non ho oggi [presente] perda valore fino a raggiungere α-ν (<α): a quel punto lo compro [presente], sapendo che tu me lo hai già pagato α e ti aspetti una rendita α+ν [futuro]. Il rendimento atteso [futuro] non si realizzerà, perché nel migliore dei casi il giorno A+2 il titolo recupererà il gap ν sino a raggiungere α: in un tempo presente, tu ti ritrovi in tasca α, o α-μ (μ<ν), mentre io ho guadagnato ν. E, come direbbe il mio broker di fiducia Billy Ray Valentine, il Natale si avvicina e sono tutti un po’ tesi, e tu cominci a pensare: hei, qui perdo tutti i soldi e non potrò comprare la tuta spaziale a mio figlio e la mia donna non vorrà fare l’amore con me perché sono diventato povero. E quindi nel giorno A+3 vendi [presente] il titolo al prezzo α-μ (sempre meglio rimetterci μ che ν) per pagarti il Natale. E indovina chi te lo compra? Giusto io, che nel frattempo sto operando perché il titolo salga a un valore ξ<μ, in modo da guadagnare anche su questa transazione.
Come vedi, i segmenti di futuro sono sempre promessi, ma ogni passaggio si svolge in un tempo presente che non si evolve mai nel futuro atteso.
La borsa è quindi una eterna valorizzazione del tempo presente che fa da ostacolo al divenire: cioè ti tiene inchiodato al presente. Ma tiene inchiodato anche me: e infatti mentre tu hai paura di non comprare la tuta spaziale, io ho paura di un evento inatteso che mi porti in una condizione di vita – un autobus, diciamo – nella quale le mie capacità non hanno alcun valore di mercato.
Il futuro dobbiamo prendercelo, e per farlo dobbiamo strapparlo al presente.
Gran bel pezzo.
Qualcuno ha citato Formenti, forse ne avete già parlato, ma il suo ultimo libro “Felici e sfruttati” fa un disorso molto simile. Ad esempio sulla dinamica “liberazione- assoggettamento” intrinseca al capitalismo scrive:
“il cyberspazio è stato una sorta di ‘nuova frontiera’ virtuale che ha consentito agli artigiani hacker di sottrarsi in parte al destino del lavoro dipendente salariato. Questi spazi di autonomia si sono tuttavia ridotti a mano a mano che il capitalismo delle reti è venuto riassumendo il controllo sul mercato, anche grazie alla colonizzazione/subordinazione delle comunità del software libero […]”
e ancora sulla relazione tra “lavoro morto” e “lavoro vivo” e il rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro oggi:
“le tecnologie digitali non sono neutre ma incorporano linguaggi, visioni del mondo e potenti codici di controllo dei comportamenti umani. Sui lavoratori salariati che operano nelle imprese le nuove tecnologie esercitano un dominio ancora più schiacciante di quello esercitato dal macchinario fordista, visto che a essere oggetto di coercizione, controllo e disciplinamento è ora la mente più del corpo. Ma anche la massa dei lavoratori autonomi che vengono in varia misura e con diverse modalità integrati nei dispositivi dell’impresa a rete – al pari della ancor più vasta massa dei prosumers volontariamente o involontariamente arruolati nel processo di creazione del valore – subisce le conseguenze di questo inedito “taylorismo mentale”.
Sarei curioso di sapere l’opinione di Wu Ming 1 sul libro, se ci sono punti di convergenza o no. Grazie e ciao
[…] Ming 1 ha scritto un pezzo su “feticismo della merce digitale” e non so decidere quale sia la parte più […]
Al massimo in borsa si vende il futuro, anzi si svende. Come succede con molti beni alimentari che sono l’unica fonte di sostentamento in molti paesi “pauperizzati” (poveri? Terzo Mondo? no grazie, siamo stati noi a ridurli cosi`). Nel senso che ci sono dei prodotti finanziari che letteralmente scommettono sul prezzo futuro (dell’anno successivo) di beni alimentari (caffe`, banane, per esempio) e cosi` facendo influenzano il vero prezzo. E ogni annomandano al lastrico intere economie. Ma siccome al tg1 non ne parlano (e neanche a voyager) non dev’essere vero.
@girolamo
Ah si’, certo, i segmenti di futuro per “me” sono solo promessi, e il presente non evolvera’ mai nel futuro atteso. in compenso “tu”, sempre nel presente, hai gia’ ottenuto valore dal “mio” futuro, nel senso che “io” nel futuro dovro’ lavorare di piu’ per recuperare le “mie” perdite di oggi. era questo che intendevo: la borsa risucchia il futuro nel presente, e come dici tu e’ uno dei dispositivi che ostacolano il divenire.
se ho detto una cazzata, abbi pieta’ di me (sono reduce da una defatigante discussione in rete sul perche’ il sesso a pagamento non possa essere considerato una pratica liberante. giuro che ci sono dei compagni secondo i quali comunismo=soviet+elettrificazione+bungabunga)
Splendido. Punto.
Provo a dire la mia, da totale ignorante (mi perdonerete o meglio spero mi spiegherete), sul “passo successivo” evocato da Wu Ming 2. Innanzitutto premetto che secondo me è importante parlare già del “passo successivo”, non solo riguardo a questo tema ma in generale dove si voglia giungere a una consapevolezza più diffusa. Temo che il grosso ostacolo alla diffusione di consapevolezza non sia l’astrusità intrinseca (credo di aver afferrato il discorso anch’io, quindi…) ma la prospettiva di doversela caricare sulle spalle senza avere idea di come poterla scaricare in una pratica. Ciò limita molto secondo me l’estensione di questi punti di vista e favorisce alquanto posizioni di comodo, e il fraintendimento di questi stessi punti di vista come altre posizioni di comodo (immagino lo sappiate bene…).
Penso però che prima di pensare una possibile prassi come risultato di questa consapevolezza ci sia bisogno di affrontare il nodo della proprietà dei mezzi di produzione-comunicazione (btw non penso che la produzione di computer e di reti sia del tutto equivalente a quella di lavastoviglie: con la lavastoviglie non leggo i Wu Ming e soprattutto non ci parlo). Ma questo non si può affrontare restando “dentro” alla rete: è una questione che riguarda l’intera società, ha a che fare con il concetto di proprietà privata in generale. Stamattina Paolo R ha citato i surrogati governativi cinesi di FB e Google e ha criticato (imho giustamente) il pregiudizio/semplificazione vulgata che vuole il loro “totalitarismo” come opposto alla presunta libertà degli “originali” occidentali. Quella è un’altra falsa dicotomia da sfatare. Innanitutto anche FB, Google e Yahoo si prestano spesso e volentieri a pratiche oppressive dei governi. E, soprattutto, se non è il governo a opprimere qui ci pensa direttamente il padrone. Secondo me sta svanendo sempre più il confine tra il modello di proprietà privata occidentale e il modello di proprietà pubblica del cosiddetto (ex?)socialismo reale, che ormai di socialista ha ben poco. Si potrebbe forse parlare di “capitalismo reale” come destino comune globale? Avrebbe senso chiedere la nazionalizzazione di aziende come FB o Google, al giorno d’oggi? Chi è giusto che possieda e quindi controlli questo tipo di aziende, che producono (anche) (mezzi di) comunicazione e informazione? Se non è giusto che siano in mano a privati, è forse giusto che siano in mano a governi? Esiste una differenza sostanziale?
Potrebbe essere questo il primo terreno in cui verrà reclamata una proprietà *comune*, né pubblica, né privata? O forse questo è solo un errore di prospettiva, e bisogna invece strappare i governi dal controllo del capitale privato e porli al servizio dell’interesse comune?
In ogni caso, il capitale è lo stesso nemico di sempre, e non penso ci siano pratiche possibili che evitino la necessità di abbatterlo.
Ottimo post. Che trovo molto profondo e soprattutto equilibrato.
Vorrei aggiungere una cosa che ha a che fare un po’ con la fase successiva di cui parlava wu ming 2 e altri. Una difficolta` che c’e` oggi a fare coesione tra soggetti sfruttati secondo l’analisi marxsista dipende parecchio dalla percezione di sfruttamento degli individui singolarmente. Nell’economia ottocentesca cui si riferisce direttamente marx o anche in quella fordista c’era una correlazione molto forte tra il plusvalore estratto e durezza delle condizioni di vita. Nella societa` industriale in genere piu` pluslavoro veniva estratto da qualcuno piu` questo qualcuno se la passava male (piu` ore da lavorare, salario piu` basso, ecc.).
Nel capitalismo cognitivo questa cosa non e` piu` cosi` collegata. L’esempio di facebook e` non l’unico ma il piu` eclatante da questo punto di vista. Tutto quello che li` facciamo come utenti produce soldi (a montagne) per qualcuno che non ci paga, per cui lo sfruttamento del pluslavoro e` probabilmente altissimo e piu` alto che in un sacco di altre attivita`. Pero` le condizioni degli utenti che fanno questo lavoro sono ottime, nel senso che chi lo usa lo fa per proprio divertimento ed e` contento di farlo. Ci sono poi tante attivita` in cui il pluslavoro estratto e` magari pochissimo perche` chi possiede l’attivita` ci fa pochi soldi ma le condizioni di lavoro sono durissime.
Ora e` vero che non sempre tutto il pluslavoro estratto viene monetizzato, ma alla fine l’unico modo di “misurarlo” molto a spanne credo che sia in base in base alla richezza che produce per il capitale.
Secondo me una difficolta` nel fare marxisticamente classe dipende molto da questa separazione tra sfruttamento in termini di pluslavoro e condizioni di lavoro.
[…] per eventuali proiezioni e per la sua diffusione. Mi è tornato in mente leggendo oggi un articolo di Wu Ming 1 che cita il documentario Deconstructing Foxconn. I tre di Dreamwork China sono […]
[…] chi interessa una rilettura del culto degli oggetti tecnologici in chiave marxista, consiglio questo post, che ha dato spunto a quanto scritto sopra. Penso che se non tutti, molti possano interrogarsi […]
[…] denunciare le multinazionali e il sistema tayloristico con ammantata finale teorica di Karl Marx. Si passa in rassegna Amazon e Apple con valide critiche. Peccato che con mal celata noncuranza finisca per ammettere di possedere un […]
Grazie a tutt* per i com(pli)menti. Scusate se non sono molto presente nella discussione: da un lato, questo post l’ho scritto e impaginato mentre preparavo una partenza, ed è andato on line mentre ero all’estero, troppo incasinato per poter seguire i commenti; dall’altro, al momento non riesco a essere più chiaro di quanto sia stato qui sopra. Se delle parti non si capiscono o danno luogo a equivoci teorici, per ora non sono in grado di dissiparli.
Ho appena dato una rapida occhiata in giro per la rete, e come ampiamente preventivato, quelli a cui stiamo sulle palle a prescindere (o che, a livello più generale, ce l’hanno coi “rossi”) stanno già deponendo sul selciato commentini sarcastici e snob. Di base, “sono cose che si sapevano già, non c’era mica bisogno di Wu Ming” etc.
Ciò non sarebbe di particolare interesse, salvo il fatto che – come previsto nell’articolo stesso – l’accusa ricorrente è quella di “incoerenza” perché possiedo un Mac, e gli “apocalittici” mi danno dell’integrato, e gli “integrati” mi danno dell’apocalittico. Come da copione. Repetita iuvant:
«E’ il feticismo della tecnologia come forza autonoma a farci ricadere sempre nel vecchio frame “apocalittici vs. integrati”. Al minimo accenno critico sulla rete, gli “integrati” ti scambieranno per “apocalittico” e ti accuseranno di incoerenza e/o oscurantismo. La prima accusa di solito risuona in frasi come: “Non stai usando un computer anche tu in questo momento?”; “Non li compri anche tu i libri su Amazon?”; “Ce l’hai anche tu uno smartphone!” etc. La seconda in inutili lezioncine tipo: “Pensa se oggi non ci fosse Internet…”
Nell’altro verso, ogni discorso sugli usi positivi della rete verrà accolto dagli “apocalittici” come la servile propaganda di un “integrato”.»
Tutto ciò, sempre stando nell’ingannevole frame del “dentro vs. fuori”, sempre in cerca di un qualche “fuori” da dove si possa criticare chi è dentro (es. io uso il software libero e quindi sono più puro di chi usa software proprietario etc. etc.)… o stando immersi acriticamente nel dentro, pronti a sparare alle presenze che sembrano muoversi “là fuori”. Anche questo era stato anticipato.
Viene da sospettare che chi argomenta *esattamente* così non abbia letto quelle parti del testo, altrimenti si sforzerebbe almeno di cambiare qualche parola, ci metterebbe un qualche caveat… Ma credo che sia una risposta troppo facile.
Io penso che le abbiano lette, ma un frame concettuale forte come quello costruito dall’ideologia della rete non smette di operare solo perché qualcuno te lo descrive. Come diceva Mauro Vanetti, anni e anni di posa dell’accento unicamente su quel che può fare il consumatore hanno fatto diversi danni. Il consumatore è l’ultimo anello della catena distributiva, non il primo della catena produttiva. Se non si agisce anche e soprattutto al livello della produzione (cioè dell’estorsione di plusvalore), si combinerà poco.
Quest’ultima non è certo un’osservazione nuova, la faceva già Marx nella sua Critica del programma di Gotha (1875):
«La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico, per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi […] l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione. Dopo che il rapporto reale è stato da molto tempo messo in chiaro, perchè tornare nuovamente indietro?»
Alcuni commentatori, poi, presentano la parte in cui dico di avere un Mac, un Kindle etc. come se fosse la conclusione della mia analisi (mentre era un “Nota Bene” alla premessa, al fine di precisare che non parlavo da “apocalittico”/”purista”, e infatti nell’articolo appare molto presto), per accusarmi di non proporre niente a parte una generica “postura” blandamente critica e quindi di volermela cavare con poco. Come se avessi chiacchierato a vanvera anziché fatto controinformazione con link, dati e riferimenti precisi, e come se l’articolo non invitasse a un agire politico, proponendo agli “attivisti digitali” e a chi vive ogni giorno la rete di sostenere le (in primis informandosi e informando sulle) lotte degli operai e di chi viene sfruttato a monte del ciclo produttivo della merce digitale.
Questo genere di reazioni rafforza la mia convinzione che si debba defeticizzare la rete. E’ una delle grandi urgenze di questa fase.
Scusate se intervengo di nuovo. Riflettevo appunto sul mito del consumatore che è tanto caro a certa sinistra. Il principio secondo cui ogni acquisto è un voto suona figo e mette a tacere i sensi di colpa di un modo di produzione che comunque è oppressivo. Attenzione, il consumo critico è una cosa importante, vorrei farne di più anche io. Ma non è la soluzione a tutti i mali, perché non cambia nulla nella struttura. Anzi alimenta il circolo vizioso, e infatti fa paura l’enorme sforzo di tanti brand di dimostrare la loro “fairness”. Insomma è completamente insufficiente. L’equosolidale e il biologico sono importanti perché dimostrano che un’altra economia è possibile, ma finché restano nicchie dove scaricare le frustrazioni dei benpensanti meglio degli altri il sistema se la gode, e si ricicla anche. (Forse dico solo ovvietà…)
A proposito di FB e alleanze di classe, dal blog di Carlo Formenti: http://tinyurl.com/6b4kfgv
Fantastico articolo. Sai quelle cose a cui pensi sempre, magari di sfuggita … e poi un WuMing qualsiasi te le sbatte lì! E’ una soddisfazione! Ottimo. Mi sono permesso di postare sul mio account FB la parte riguardante il social network invitando i miei amici a frequentare Diaspora che, per ora, sembra crescere dal basso. Ancora un grazie per gli stimoli che sapete sempre dare alle menti a volte un pochino intorpidite come la mia.
Saluti
Mauro Piacentini
Sono andato a dare un’occhiata da quello lì del pippone.
Ammetto, ero un po’ infastidito, e pure prevenuto.
E quindi leggo, arricciando un po’ il naso, e poi….BAAAM!
Minchia!
Cacchio!
Accipicchia!
Lui usa il sistema operativo Ubuntu!!
Lui sì che è “fuori”.
Caspiterina, roba che il Che, Cienfuegos, Malcolm gli fanno una pippa.
E così mi sono dovuto ricredere, e faccio ammenda, e mi cospargo il capo di merda, e la faccia mia sotto i piedi suoi.
Ubuntu.
Ubuntu.
UBUNTU.
L.
Secondo me l’origine dello pseudodibattito integrati vs apocalittici va ricercata semplicemente nella non conoscenza dello sviluppo del mezzo. Per chi ha cominciato a calcare la rete usando interfacce esclusivamente testuali la cui massima espressione di socialità erano le chat e le mail, è facile averne una percezione priva di sovrastrutture e tenere bene a mente che questo strumento è sempre e comunque al servizio dell’uomo, in maniera neutrale rispetto agli usi che se ne possano fare. Noi (mi ci metto anch’io) siamo giunti alla rete in ambito accademico, di lavoro, di mero cazzeggio paraletterario o ludico/fancazzista ma di stampo anarcoide e freak. Le nuove generazioni di utenti (nuove non in senso anagrafico), hanno “ricevuto” la rete come massimo amplificatore di memi, imbellettato, confezionato e consegnato a domicilio dalle agenzie di marketing. In questo contesto è ovvio lo scontro sanguinario tra memi alleli o percepiti come tali. Si è apocalittici o integrati acriticamente, aprioristicamente, senza reale comprensione del perché della propria posizione o dell’altrui. Ecco perché certe lotte oggi vengono percepite più di ieri come “integralismi” o “fanatismi”. Vedi Stallman e la FSF, vedi l’EFF e così via. E, giusto per fugare il dubbio che l’adozione – seppur critica e sofferta – di certe tecnologie renda più complessa la comprensione delle proprie posizioni, basta ricordare che Stallman ha del tutto escluso dalla sua esperienza tutte le tecnologie (e non solo) che siano fonte di privazione di libertà secondo le definizioni della FSF. E non per questo viene attaccato di meno (anzi!). Come uscire da questo… ehm… tunnel (ho ancora la Gelmini in testa, scusate)? Non vedo altra via se non quella della divulgazione, ma è dura, eh! E bisognerebbe partire dai bambini educando a un corretto approccio alla tecnologia già in età prescolare. Ma chi se ne potrebbe occupare? Con quali mezzi?
Sul commento di WM1:
Secondo me, quanto scritto nell’articolo di WM1 sono cose che già si sapevano prima. Io ad esempio le ho trovate leggendo, dentro a libri e dentro ad articoli sul web, Harvey, Zizek, Pasquinelli, etc. . Non le stesse identiche cose, ma concetti legati, simili. Quindi quando ho letto WM1 non sono venuto giù dal pero, e credo che ciò valga non solo per me.
Ciononostante, imho l’importanza di articoli come questo è altissima. E’ fantastico aver la possibilità di leggere: 1) un articolo chiaro, scritto da una persona che di lavoro fa lo scrittore e quindi ha esperienza nel narrare, nel raccontare storie, 2) un articolo che fa una summa di quanto presente in letteratura, partendo da fatti di cronaca di *oggi* (eg, amazon e apple store bologna) e aggiungendoci considerazioni personale (io ho un mac).
L’aiuto che la comunità riceve nel leggere un articolo così è impagabile, e l’aiuto a cui mi riferisco è quello per demistificare l’ideologia. E l’aiuto lo ha sia chi ha un’infarinatura o una conoscenza approfondita di queste tematiche: si rinfrescano le idee e si avvia, forse, un confronto; sia chi è all’oscuro di tutto e che magari verrà stimolato a prendere in mano Marx.
Fermarsi quindi a dire che “si sapeva già” senza riconoscere la bontà di un’iniziativa, è imho snob ed elitario.
Infine, chi dice “ma anche tu hai un mac”, non ha colto la questione del tempo, che è centrale (e che personalmente ho “scoperto” grazie a qualche post qui su Giap).
Detto ciò, grazie.
Invito a mettersi questo sito nei segnalibri:
China Strikes
Mapping labor unrest across China
http://chinastrikes.crowdmap.com/main
Gran bel post, dove si riesce a far emergere tante delle contraddizioni che ci troviamo a vivere ogni giorno.
Dico qualcosa che mi frulla in testa. Intanto la “buona stampa” di cui godono queste aziende. Quello di cui ci parla WuMing1 non è il primo scoop sulle condizioni di lavoro nei magazzini amazon, cercando amazon e sfruttamento su google si troveranno altre 2 inchieste molto simili, una del 2010 e una del 2008 dal contenuto molto simile (tra l’altro la stessa ricerca porta anche una decina di link a questo post…) ed è innegabile che i morti della Foxconn fanno molta, ma molta meno notizia di un qualunque rumor circa l’ultimo prodotto della mela. “E’ ovvio” si dirà, mica tanto, rispondo io, visto che altri colossi finanziari, per molti versi anche più importanti ed influenti, non hanno lo stesso benevolo trattamento (si pensi alle banche, alle compagnie petrolifere, alle società di telecomunicazioni…). Il rapporto media/rete, secondo me, andrebbe approfondito, anche in quanto tassello del discorso di WuMing1.
Il discorso sul pluslavoro e Facebook, secondo me, ha qualche punto oscuro. Applicato a quel social network funziona, ma in altri ambiti non ne sarei così sicuro. Google, per esempio, ha cominciato a funzionare (come motore di ricerca) con qualche server e poco altro e senza, sicuramente, pluslavoro collettivo. D’altra parte è vero che ha cominciato a guadagnare vendendo pubblicità basata sulla profilazione degli utenti che facevano ricerche. Ma fare ricerche è pluslavoro?
Ultima cosa. Spostare l’accento dal comportamento del consumatore a quello del produttore. Giusto, ma l’accento sul comportamento del consumatore è stato posto proprio per questo, per condizionare il capitale nelle proprie politiche. E in qualche caso ha funzionato pure. Quindi cosa si intende per agire “anche e soprattutto al livello della produzione (cioè dell’estorsione di plusvalore)”? Perché se si sta pensando alla lotta operaia, beh io direi che questa non è mai venuta meno (con i suoi tempi, ovviamente). Se, invece, si fa riferimento a qualcosa di diverso, forse mi sfugge.
In ogni caso, mi preme ringraziare WuMing1 per questa discussione.
Tempo fa lessi che il plusvalore prodotto da un utente FB si aggira mediamente intorno ai 50 dollari (in tutto). Se così è c’è da dire che lo sfruttamento avviene a livelli molto diversi, e non è soltanto questione di condizioni di lavoro. Anche tralasciando le condizioni, immagino che il plusvalore prodotto da un operaio Foxconn sia molto più alto. Mi chiedo se ciò non sia forse uno degli ostacoli forti all’ “alleanza” che auspica Wu Ming 1. Forse lo sfruttamento degli utenti è difficile da percepire anche perché è “a bassa intensità”? O bisogna calcolarlo diversamente, non limitarsi “alla ricchezza che produce per il capitale” di cui parla Pedrilla? Per i lavoratori cognitivi la questione è già diversa (immagino che il plusvalore prodotto sia ben più alto).
Se però facciamo il totale di “utenti-lavoratori-inconsapevoli”+”lavoratori cognitivi”+”operai elettronici” immagino la somma di lavoratori sia altissima. Il plusvalore estratto da ciascuno non è mediamente alto: è il loro numero che crea il guadagno enorme per l’azienda. Tanto che una collettivizzazione di FB non porterebbe a un guadagno sostanziale per l’utente singolo.
La cosa è ben diversa se consideriamo nel computo solo i lavoratori cognitivi e gli operai elettronici. A ben guardare secondo me è da questa alleanza che ci si può aspettare qualcosa: l’utente-consumatore-lavoratore-inconsapevole è in gran numero ma ha un bassissimo peso specifico. Però quello stesso utente nelle altre parti della sua giornata sarà un lavoratore, ed è a quel titolo che assume forza rivoluzionaria.
In ogni caso la questione è diversa da colosso a colosso. Lo sfruttamento della Apple è diverso dallo sfruttamento di FB che è diverso dallo sfruttamento di Amazon: di comune c’è il feticismo della merce.
@thiswas
Su google leggiti questo:
http://pankov.wordpress.com/2010/03/16/google%E2%80%99s-pagerank-algorithm-a-diagram-of-the-cognitive-capitalism-and-the-rentier-of-the-common-intellect/
:)
Mi unisco ai complimenti di tutti per il bellissimo post; aggiungo solo una cosa a quanto giustamente detto qui sopra @ pedrilla a proposito dello sfruttamento tramite Facebook: un altro aspetto paradossale del medesimo è che molti usano Facebook sul posto di lavoro come momento di pausa. Io stesso mi sono accorto di fare così, in modo anche compulsivo: quando la noia e/o la stanchezza superano il livello di guardia, automaticamente mi viene l’impulso di entrare in FB per vedere le notifiche, oppure mi cerco su YouTube un brano musicale che mi piace e lo posto su FB, ecc.
Insomma, non vorrei dire una sciocchezza, ma mi sembra che questo modo di usare FB abbia a che fare con l’atteggiamento che gli operaisti chiamavano “rifiuto del lavoro”, e che secondo loro agisce anche durante la prestazione lavorativa nei mille espedienti che si usano per sottrarsi ai ritmi della produzione. Il paradosso, appunto, è che in questo modo finisci per produrre plusvalore anche durante le pause: solo che lo fai a beneficio di un altro padrone (Zuckerberg).
Il video che avete postato sull’inaugurazione a Bologna dell’Apple store è agghiacciante. Sembra un incubo.
Un paio di cose a margine:
1) Sì la teoria del valore-lavoro vale ancora. Altrimenti si fa prima a non dirsi marxiani e passare oltre.
Vent’anni di cazzate post-operaiste hanno scambiato i cambiamenti della dimensione qualitativa del lavoro per la validità del suo nocciolo formale (accecate dal godimento per il continuo “cambio di paradigma epocale” per cui ogni 6 mesi “niente è più come prima”). Il plus-valore è indifferente nella sua forma al contenuto qualitativo del lavoro che usa. Per questo coesistono modalità e qualità del lavoro anche molto diverse tra di loro integrate in un’unico processo di valorizzazione. Ma basterebbe guardare l’orizzontalità dei cicli di prodotto invece che “il nuovo proletariato digitale” e minchiate del genere. Basta prendere una merce prodotta qualunque – tipo Ipad o una qualunque automobile – per vedere come sono integrate modalità di lavoro, di diritti sindacali, qualità della vita/sfruttamento etc. E quasi sempre si passa per vari continenti. E’ quello che fa Beverly Silver in un libro di importanza capitale chiamato “Forces of Labour”, che è stato tradotto qualche tempo fa anche in Italia da Bruno Mondadori (credo).
2) Sono meno persuaso dall’esempio facebook, dalla possibilità di tracciare con l’accetta lavoro e pluslavoro etc. Innanzitutto perchè c’è un intreccio di dimensione qualitativa e quantitativa difficile da districare (e lungo da spiegare in un post). E poi dire che “anche gli utenti lavorano” perchè sono integrati nel ciclo è fuorviante (o pleonastico… il capitale non lo fa sempre anche integrando consumo, riproduzione etc.?) perchè rischia di non mettere in luce i vari livelli di inclusione/sfruttamento che comunque sono diversi ed è bene che vengano analizzati separatamente. In breve: Facebook fa soldi (pochi) tramite pubblicità oppure tramite bolla speculativa: ovvero, tramite il valore azionario della previsione di possibili guadagni futuri dell’azienda (stiamo parlando di un software che prende ore di attenzione a quasi 700milioni di utenti che quasi tutti i giorni passano un po’ di tempo lì. E’ come avere uno spazio pubblicitario in una strada dove ogni mattina passano 700milioni di persone… non male come rendimento possibile! – e con in più la possibilità di fare pubblicità selettiva tramite i date degli utenti venduti agli inserzionisti). Questo vuol dire che facebook fa profitti con un valore prodotto da altri: surplus di altre aziende reinvestiti nel mercato azionario o pubblicità. Quando si dice che le aziende manifatturiere investono sempre meno in innovazione (magari tagliando pure il costo del lavoro o delocalizzando verso manodopera cheap) per spostare crescenti quote di profitti nel mercato azionario stiamo parlando esattamente del rovescio del fenomeno facebook. Prima di dire che gli utenti lavorano, è meglio sottolineare che lavorano (ipersfruttati) milioni di proletari in tutto il mondo lungo varie linee di prodotto… e che è da lì che nasce li segreto della grande capitalizzazione di facebook (la legge valore-lavoro ci dice in buona sostanza questo).
3) Sull’innata propensione umana alla comunità/comune/cooperazione… mah, non mi hai mica convinto :) Innanzitutto le costanti antropologiche fuori dalla dimensione storica le lascerei da parte perchè mi sanno di cattiva filosofia (metafisica). La cooperazione non c’è fuori dal capitalismo, è stata resa possibile dal capitalismo e non ha alcuna “autonomia immediata” all’interno del modo di produzione capitalistico. L’unico spazio di “possibile” è il conflitto all’interno del processo di valorizzazione. Come diceva qualcuno il capitalismo è la cosa migliore che sia accaduta all’umanità e la cosa peggiore. Nello stesso tempo e nello stesso concetto. Lottare dentro e contro vuol dire anche capire i nessi che ad esempio fanno sì che una merce come Ipad abbia quel valore o che la capitalizzazione di facebook abbia quei processi di sfruttamento alle spalle. Così magari invece che prendere coscienza del fatto che quando stiamo su facebook stiamo lavorando (anche se non lo sappiamo), cominceremmo a sapere che quando stiamo sul luogo di lavoro, stiamo in realtà arricchendo Zuckenberg (e non soltanto il padroncino stronzo che abbiamo di fronte).
In ogni caso grazie per il post, davvero molto interessante. Erano secoli che non venivo su Giap…
Be’, WM1, che dire… mi tolgo il cappello. Vero, molte cose si sapevano già, ma una cosa sono le tessere, un’altra il mosaico.
@gianni biondillo
In fondo, se il mosaico e le tessere fossero la stessa cosa, il tangram e il romanzo non sarebbero mai nati.
Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple…
La settimana scorsa The Morning Call, un quotidiano della Pennsylvania, ha pubblicato una lunga e dettagliata inchiesta – intitolata Inside Amazon’s Warehouse – sulle terribili condizioni di lavoro nei magazzini Amazon della Lehigh Valley. Il rep…
Innanzitutto grazie per la citazione e complimenti per il post. Si tratta di un tema veramente importante, come dimostra la quantità di commenti.
Il pippone del tizio che sbandiera il fatto di usare Ubuntu è ridicolo per vari motivi: primo, perché é come dire che se mangi un’insalatina biologica mentre viaggi in jet il tuo impatto sull’ambiente è zero. E’ un calcolo sbagliato dato dall’incapacità di capire quanto complesso e quanto forte sia il lavoro del capitale. Ben venga il software libero, e ci mancherebbe, però tenendo i piedi per terra.
Il secondo motivo è il solito, il mantra secondo cui la soluzione sarebbero i singoli comportamenti individuali. Il fatto di navigare individualmente, noi e il nostro pc, porta moltissimi a pensare che la rete sia qualcosa su cui possono incidere considerevolmente, su cui hanno la possibilità di agire. Il fatto di avere tutto il mondo a portata di click (e anche questa, ovviamente, è un’illusione) ci fa sentire onnipotenti, dei giganti che possono raddrizzare i mali del mondo installando un nuovo sistema operativo. La rete è anche questo, uno specchio che ci riflette distorti, alimentando il nostro narcisismo. E non si tratta di un semplice effetto collaterale: macchine da soldi come facebook ci vivono su questo, traggono tutto il loro profitto dai nostri momenti di solitudine, ed è per questo che cercano di renderceli quanto più piacevoli e appaganti possibile.
Adrià,
mannaggia quanto sei brava.
Ma…un’insalatina bio a lume di candela e impatto 0.0, no?
Scherzo eh, che non voglio urtare sensibilità e far inarcare sopraccigli.
L.
Perdonatemi ma svilire un sistema operativo libero paragonandolo ad un’insalata bio su di un jet mi pare alquanto fuori luogo. A me pare corrispondere pienamente a quanto affermato da Wu Ming 1 nel post: “far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti”. Cos’è il software libero se non proprio una pratica liberante di risposta al tentativo dal capitale di rinchiudere ogni “prodotto” all’interno di meccanismi imposti, preordinati e con accesso limitato ? E ancora: “Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe”. Ancora una volta, cos’è Linux se non la presa di coscienza di come la macchina funziona, e di quanto vi sta a monte? Chi usa Linux nella maggior parte dei casi non lo fa perchè è più semplice, non lo fa perchè è cool, non lo fa per il marchio in sè ma lo fà in quanto “forza liberante”. Ora capisco che questa non sia la risposta a tutti i nostri problemi. Ma piuttosto che considerarlo un’insalata bio ricorderei che “il benvenuto software libero” dovrebbe essere considerato come ciò che è: il meccanismo che ti permette di utilizzare la macchina in sè. Altro che insalata! E non vorrei far passare in secondo piano il fatto che la maggior parte delle azioni “di disturbo” perpetrate via web sono basate proprio su sistemi Unix. (P.S. io usavo Ubuntu, poi ho preso il pc nuovo ed Ubuntu va di cacca. porc!)
Io sull’argomento non ho ancora letto bene da poterne parlare, ma sarebbe interessante se qualcuno potesse elencare le posizioni di chi non ritiene il software libero una buona cosa, a prescindere dall’instalata bio mangiata su un jet. Magari i WM ne sanno qualcosa dato che Matteo Pasquinelli credo sia uno di questi, o magari no. :/
@Logical Warfare
Davvero un peccato che, come dici in fondo, tu non sia spesso su Giap, spero cambierai le tue abitudini perché ho apprezzato moltissimo questo tuo intervento. :-)
Volevo aggiungere qualcosa sul punto 2. Condivido l’idea che la pervasività del capitale nel “valorizzare” l’attività umana (ovvero, nel trasformarla da un semplice comportamento in “lavoro produttivo” nel senso capitalista) non sia una novità dell’era informatica, bensì una tradizionale caratteristica del modo di produzione capitalistico. Uno dei tipici impieghi del capitale nella prima rivoluzione industriale era trasformare il lavoro domestico di cucitura, che facevano le sarte artigianalmente e tutte le donne per uso personale o familiare, in un’attività industriale. Pagare un salario agli operai dell’industria tessile dal punto di vista dei padroni era una semplice scocciatura, un modo più pratico della frusta e delle catene per ottenere che questi esseri umani smettessero di cucire in casa e lo facessero rinchiusi in fabbrica. Dal punto di vista capitalista, la cosa importante è il pluslavoro non pagato, il lavoro pagato è solo la chiave per aprire il forziere. Si apre quindi la gara a trovare il modo di trasformare ogni attività umana in occasione di profitto.
Esistono anche esempi pre-informatici di imprese che fanno profitto grazie all’attività gratuita dei suoi “utenti”. Nel formalismo economico neoclassico, abbiamo per esempio i “two-sided market” (http://en.wikipedia.org/wiki/Two-sided_market). Se ho una discoteca, buona parte del suo valore non è dato dalle luci stroboscopiche, dagli amplificatori, dal bar e dai cessi; il motivo principale per cui la gente va in discoteca è perché c’è lì altra gente che balla. In effetti, alcune di queste persone che ballano sono cubiste, ovvero mie operaie che ho ingaggiato per attirare i clienti; da questo fatto risulta chiaro che dal mio punto di vista tutte le ragazze che non pago sono cubiste gratuite – meglio ancora, cubiste paganti! Saranno meno brave e meno carine, ma sono un sacco ed è anche più facile che diano il numero di telefono.
Su Facebook siamo tutti cubisti gratuiti, ma anche su Twitter, su Google+ o su qualsiasi altra piattaforma sociale. A dire il vero, l’intero World Wide Web ha senso quasi solo perché un sacco di gente ci butta continuamente dentro del contenuto di sua spontanea volontà. Facebook e Twitter sono riusciti a tirare un muro attorno ad una porzione del Web, a riempirlo di cocktail e luci stroboscopiche, privé e palchetti, cessi e zone fumatori, e a ottenere un profitto – che spesso assomiglia di più a una rendita – grazie al fatto che molti preferiscono ballare lì piuttosto che per strada (tra questi molti, ci sono io, a scanso di equivoci). Peraltro, a differenza delle strobo, la tecnologia usata per rendere quelle discoteche migliori della strada ha comunque dei costi enormi, simili a quelli di un complesso di grandi fabbriche; il contributo dato da 800 milioni di utenti di Facebook è gigantesco soprattutto perché sono tanti, ma quello dato dai suoi 2000 dipendenti che si fanno un culo quadro non va sottovalutato, così come quello di tutti quei lavoratori che ne tengono in piedi la colossale infrastruttura (10 data centre, ciascuno dei quali è grande come un capannone industriale; eccone uno: http://www.datacenterknowledge.com/wp-content/uploads/2010/09/prineville-aerial.jpg).
Un discorso simile vale per l’open source commerciale o le API pubbliche (un’interfaccia software che chiunque può usare per “attaccare” la sua applicazione al mio servizio, ecco quelle di Twitter: https://dev.twitter.com/). Se trovo il modo di far lavorare gratuitamente qualcuno per una merce che alla fine della fiera è in parte consistente “mia”, ho fatto un affare. Non credo che lo schema del valore-lavoro sia sbagliato in questo caso perché quello è lavoro produttivo che avrei potuto comprare sul mercato del lavoro salariato. Se ho un progetto open source commerciale ma nessuno nella mia community sviluppa quello che mi serve, pago uno dei miei sviluppatori per farlo. Se il mio servizio ha delle API pubbliche ma nessuno le usa, pago i miei sviluppare per fare delle applicazioni che si attaccano al mio stesso servizio (Twitter fornisce i suoi widget prodotti internamente che usano le API pubbliche: http://twitter.com/about/resources/widgets). Esistono persone pagate per creare finti contenuti “social”, che possiamo usare concettualmente per dare un valore alla creazione di contenuti genuini. E via dicendo.
Non darei un’importanza centrale al discorso della pubblicità. Quello è il modello attuale usato in molti di questi casi per monetizzare il valore prodotto, ma altri modelli sono possibili. Credo si tratti di un aspetto contingente e non essenziale. Se Facebook domani diventasse a pagamento ma senza pubblicità, continuerebbe a funzionare, come funzionano alla grande i siti di appuntamento a pagamento; il valore prodotto è reale e non è solo un gioco a rubamazzetto di spartizione di plusvalore tra Zuckerberg e i suoi inserzionisti. Lo stesso vale per Google, che infatti sta esplorando altri modi per monetizzare la propria posizione monopolistica, spostandosi sempre più verso la produzione di beni materiali attraverso la creazione di Android (che è open source e ricalcato su Linux…), che ha preparato l’acquisizione di Motorola, e tra poco vedremo le GoogleTV e tante altre cosette che renderanno Google sempre meno immateriale e cognitiva e sempre più “fordista”. Per fare Google Street View non hanno usato un algoritmo furbo, hanno mandato in giro per tutto il pianeta delle automobili con una telecamera: il capitale “ditigale” non ha paura di sporcarsi le mani col mondo fisico; non abbiamone neanche noi nell’analisi, nella critica e soprattutto nella lotta.
@ Telesio
tutto vero e condivisibile, e io del software libero ho sempre solo scritto bene, però Adriana non se la prendeva col software libero ma con un’argomentazione speciosa, semplicistica e benaltrista, riconoscendovi un equivoco di fondo che altri in questo thread hanno descritto e criticato.
@Telesio
Anch’io per tanti anni ho avuto un portatile con Ubuntu come sistema operativo. Però non lo definirei, di per sé, una “presa di coscienza di come la macchina funziona e di quanto vi sta a monte”. Ubuntu – a seconda poi di come lo usi – può essere trasparente rispetto al software che fa girare la macchina (ma volendo lo puoi usare in maniera molto opaca, molto “cattolica”, con l’interfaccia/prete che ti guida nell’interpretazione della Bibbia/computer, non molto diversamente da quel che succede su Mac). In ogni caso, non è per nulla trasparente rispetto a quanto sta a monte dell’hardware: ovvero assemblaggi, materie prime, sfruttamento di una forza lavoro “tradizionale”, distribuzione, eccetera.
@Wu Ming 2: verissimo. Va da sè che parlando di “macchina” e di software libero mi riferivo sempre e comunque alla “macchina-Sistema Operativo”. Per quanto riguarda l’hardware i passi da fare sono, giustamente, ben altri.
@Wu Ming 1: purtroppo le comunità linuxiane sono pieni di individui convinti di “aver visto la luce” e impossibilitati a condividerla con gli altri.
[ chiedo scusa in anticipo se sbaglierò maneggiando categorie marxiane – ma non sono mai riuscito a frequentare nessun catechismo… e ogni riga che posto qua sopra provoca sudori e ansie più dei compiti in classe al liceo :) ]
Confusamente mi sembra di intuire un legame tra la produzione di plusvalore nell’uso dei social network (seppur poca, a bassa intensità ecc. – mi interessa molto quel che dice uomoinpolvere su questo), e la percezione della stessa in termini di rifiuto del lavoro, come nota salvatore_talia, ad esempio.
Intanto mi sembra che qui l’utente/cliente/acquirente sia condannato ad essere sempre un passo indietro (o un gradino più “dentro”, se vogliamo) rispetto a ciò che cerca: compra apple per sentirsi figo e elitario, nonostante ormai non ci sia prodotto più di massa dell’iphone; nutre di contenuti il social network per sfuggire dalla noia del lavoro, nonostante questo alimenti di fatto la stessa catena della produzione, ecc. : questa spirale di desiderio in/sodisfatto può ben generare il feticismo nei confronti dei pochi feticci su cui si è riusciti a metter le mani, credo – oltre a generare un tasso di frustrazione che è tangibile tutto intorno.
E – ripeto, confusamente – ci vedo lo stesso giochino già analizzato tempo fa, del porno che mantiene la sua facciata trasgressiva ma di fatto diventa la morale del potere – o è la stessa mossa di ju-jitsu del capitale, come poi commentava WM1, che ci rovescia addosso oggetti o concetti marchiati “rivolta” trasformandoli in cagnolini addomesticati.
Se anche sfuggire dalle solitudini, relazionarsi con gli altri, costruire reti-sociali è ormai oggetto di sussunzione (e in effetti lo è da tempo, oggi sulla rete ma da decenni nello spazio liscio del mondo reale), il tempo di vita che va liberato/riconquistato è una quantità spaventevole, ma prima di tutto allora, prima ancora di costuire le necessarie alleanze – o quantomeno nello stesso momento, c’è bisogno di rendere evidenti a noi stessi queste catene, altrimenti non si va da nessuna parte (emancipate yourselves from mental slavery – none but ourselves can free our minds…) e questa mi sembra davvero la sfida più difficile…
@Telesio: però, vedi, il tuo piccolo lapsus (macchina = Linguaggio macchina = Sistema Operativo) mi pare indicativo di quanto sia forte la tentazione di considerare il PC come tutto-software, dimenticando che ci troviamo sempre di fronte a una macchina-macchina (che va costruita, alimentata, smaltita…). Si prende insomma la parte per il tutto: quello che nelle narrazioni tossiche abbiamo chiamato “effetto sineddoche”.
Come giudicate il fatto che certi produttori di computer, come HP credo, vendano i loro prodotti con sistemi operativi GNU Linux tipo Ubuntu?
Dato per scontato che un sistema operativo serva all’hardware per essere di una qualche utilità, loro utilizzano lavoro totalmente gratuito fatto da una comunità di persone che, presumibilmente, scrivono codice nel loro tempo libero. Lo stesso OS X, credo, abbia parti del kernel basato su parti di software libero.
Visto da questo punto di vista, il software libero non perde qualsiasi “vantaggio” rispetto al software non-libero? Non è una domanda retorica la mia, non so niente sull’argomento.
Salve a tutti, innanzitutto complimenti per il post, è esauriente e pieno di ricchi spunti, concordo su quasi tutta la linea, sopratutto sul fatto che scordiamo spesso – mi ci metto anch’io – i «costi della rete» quando ci cimentiamo in discussioni su Google, Facebook, Apple, Linux, ecc.
Credo che il mezzo/luogo che internet rappresenta non aiuti a tenercelo in mente, perché rendendo le cose virtuali fa sparire il “monte” dalla “vale” come dicevate prima.
Intervengo per accodarmi al commento di Adrianaaaa chiedendovi, per favore, di non confondere il software libero con Ubuntu :) e mi piacerebbe fare un’ulteriore riflessione riguardo al calcolo che non potremo mai fare sulle ore-lavoro dietro a tutti questi prodotti.
Tra tutte le distribuzioni Gnu/Linux esistenti, Ubuntu è quella meno indicata per riceve il titolo di Software Libero. Anzi ne tradisce il significato in pieno. Innanzitutto perché è finanziata da un’azienda chiamata Canonical, proprietà del multimiliardario Mark Shuttleworth che fece la sua fortuna in Sudafrica entro il 1995, vendendo una compagnia che aveva fondato mentre era all’università – di bianchi, non so se mi spiego – chiamata Thawte, venduta alla Verising (la stessa che si occupa dei certificati digitali che utilizziamo oggigiorno, con sede a Mountain View, come Google) alla modica somma di 575 milioni di dollari. Soldi che in precedenza Shuttleworth utilizzò per fondare Canonical e dare il via a Ubuntu.
Come ben fa notare Andrianaaaaa – dal nick immagino che abbia qualche parentela con Rocky Balboa – queste aziende «traggono tutto il loro profitto dai nostri momenti di solitudine, ed è per questo che cercano di renderceli quanto più piacevoli e appaganti possibile.» ed è il caso di Canonical, che facendo onore al suo nome, si propone come una sorta di “chiesa”, facendo leva sui sentimenti, sull’armonia, sulla luce di Ubuntu (non sto scherzando basta leggere alcuni post di Shuttleworth), acchiappando così tanti ma tanti sviluppatori giovani che, per una questione di, forse, istinto gregario, vogliono vedere Linux installato anche nella lavastoviglie.
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Non nego, tuttavia, che mentre leggevo questo post mi è venuto in mente più di una volta il concetto di software libero, ma il concetto di cui parlo è quello che porta avanti Richard Stallman, lo stesso personaggio che – come ho linkato poco fa e voi avete retwittato, a proposito, grazie :) – era da tempo che denunciava gli abusi di Facebook e il fatto che l’azienda di Zuckerberg spiasse i suoi utenti grazie al bottone “Like”. Questo personaggio diffonde le idee del software libero perché con esse viene promossa la diffusione della conoscenza. Tutto qui. Ovviamente, il FreeSoftware è una sorta di DIY se comparato a Microsoft, Apple e Google. Ed è per questo che non è sbagliato dire che i costi di produzioni verrebbero “ridotti” o acquisiscono un altro valore, non più economico.
Ho tutta una teoria in merito. Voi avete fatto l’esempio con Facebook ma avete tralasciato un colloso di lavoro collettivo come Google. Ad sempio, io credo che le aziende oramai si avvalgano del potere di produzione dell’open source. Ci sono degli sviluppatori di software che a me piace chiamare “Operai Open“, oggigiorno lavorano per il padrone virtuale Google e il suo famigerato “Android”:
Funziona così: Google rilascia i sorgenti del suo sistema, così facendo ottiene developers e persone esterne, miliaia che svilluperanno applicazioni perché possano girare dentro il suo sistema, e così alimentare il ciclo di guadagno reciproco. Un po’ come se l’ape Regina, Google, chiamasse le api operaie attirandole col miele. Come fa ad attirarle, proprio grazie al fatto che Android porta dentro di sé il kernel linux. Cosa che, in apparenza potrebbe rendere tutto software libero, ma in realtà è sofware semi-chiuso, perché a decidere quando rilasciare i sorgenti è la stessa Google, che poi non si sa se compie le promesse.
L’azienda di Mountain View quindi rende il progetto “aperto” finché basta perché chiunque possa collaborare e in questo modo poter sfruttare la manodopera di Operai Open, forza lavoro gratis, da cui loro – i padroni – ne trarranno vantaggi.
Come vedete i calcoli che si possono fare vanno al di là dei materiali, c’è anche tutta questa manodopera open, inquantificabile, che lavora a distanza per internet. Se interessa ho scritto questo post al riguardo Il “Capitalismo 2.0”, Un Buco nel Modello Open?
Quello che affermate è verissimo, ancora siamo legati, e saremo sempre legati ai costi materiali, ma oltre a questi bisognerebbe calcolare pure tutta la manodopera (anche questa materiale) nascosta degli svillupatori che lavorano per questi sistemi. Google oggigiorno vende servizi, ma al contempo si è comprata Motorola, quindi ora ha pure una base hardware per il suo sistema “open” Android
Tuttavia, io credo che il capitalismo si stia evolvendo ancora un’altra volta, l’open source sarà il nuovo modo di produzione, perché più conveniente per le aziende, che all’ora di vendere si baseranno su “servizi” online, per creare sempre più un divario tra valle e monte.
Mi pare che ci sia una certa illusione sul software libero, e mi perdonerete se il mio primo post qua parte con una divagazione sulla divagazione.
Di fatto il software libero “vero”, cioè quello ampio, funzionante, usabile e usato non esiste fuori da un sistema pienamente “denarocentrico”.
Ubuntu è figlia di una società d’affari (Canonical).
Molti grossi progetti open source vivono del sostegno di IBM.
Dove non sono esplicitamente i privati, vi sono investimenti di fondazioni ed enti di ricerca.
Non uso “capitalista” perché capita che il modello di business sia leggermente diverso, magari, per produrre ricchezza tramite il software open source.
Ma la pretesa che sia frutto del tempo libero, della gratuità, della benevolenza non fa altro che nascondere il fatto che, brutalmente, senza un cospicuo sostegno alle spalle un software muore nella stagnazione della comunità di riferimento.
È una nuova “maschera” davanti alla realtà produttiva, stavolta di un bene immateriale.
Per quanto riguarda il discorso su FB penso di non aver trovato mai una miglior spiegazione di come il produttore di plusvalore sia spesso inconsapevole del proprio sfruttamento economico.
Mi chiedo tuttavia se il fatto che questo sfruttamento, come già fatto notare da altri, non passi dalla prevaricazione (nessuno mi obbliga a usare facebook, né preme per farmelo usare o si lamenta se lo uso poco, insomma a differenza del lavoro “standard” produco plusvalore ma non sono “vessato” per farlo) possa inserirsi nella visione tradizionale dello sfruttamento capitalistico.
Insomma, io produco plusvalore per Zuckerberg, ma tra me e un suo dipendente passa una differenza ben forte nel rapporto di “oppressione capitalista”.
Luca,
ma proprio l’insalatina?
la parmigiana piuttosto, oppure due tortelli, una carbonara.
io a sta cosa del biologico mica ci credo tanto.
(scherzo anch’io eh, che non voglio urtare la sensibilità di nessun consumatore di ortaggi bio)
Riflessioni interessanti. Ma mi sconvolge il paradosso per cui solo grazie alle nuove forme di sfruttamento scopriamo lo sfruttamento tout-court. In paesi lontani, luoghi esotici, non abbastanza vicini da non consentirci di guardarli con il piacere sadico con cui si ammira un incendio lontano.
Giornalisti ed intellettuali italiani (ma direi del mondo occidentale) non hanno una gran pratica della fabbrica. Altrimenti, avrebbero avuto da anni materiale a comoda portata di mano per scoprire soprusi quotidiani – luoghi di lavoro insalubri, capofabbrica irascibili e insultanti, turni di lavoro massacranti, contributi non versati, licenziamente per ingiusta causa.
Parlare dei grossi nomi dell’industria, quelli che ci regalano le novità che ci incuriosiscono, è gradevole: è come occuparsi della squadra del cuore (o di quella avversa, con il necessario fiele). Io sto con Apple e tu con Google. Che sono tutte e due cattive, ma producono i nostri giocattoli preferiti. E siccome possederli ci dà un impudico piacere, vogliamo stemperarlo pensando (con sadico e più eccitante piacere) a quanta gente ha sofferto per produrli.
Dimenticando, per più di un attimo, i muratori fuori sede che hanno attaccato a lavorare alle sei e mezza, e salgono sul tetto senza sicura.
@rockit
Lo stesso Marx dice che una condizione necessaria per il capitalismo è che l’operaio deve essere libero sul mercato e liberamente decide di vendere la sua forza lavoro; però, tanto libero non è in realtà: infatti, non avendo i mezzi di produzione se non vendesse la sua forza lavoro, non avrebbe di che vivere. Su FB, in modo simile, nessuno mi obbliga a starci, io sono libero di andare via, però se vado via mi perdo un sacco di cose che succedono. Ok, non ti perdi un salario come se non vai a lavorare vendendo la tua forza lavoro, ma perdi una serie di relazioni (infatti è per questo che io non mi cancello da FB: vivo lontano da tutti i miei amici/conoscenti e con FB mantengo alcune relazioni “vive”). Infatti, spesso si parla di biocapitalismo per mettere un’etichetta a realtà come FB: cioè, il plusvalore è estratto non solo dalla tua forza lavoro – ben poca quella dell’utente FB – ma dalle relazioni, dagli affetti, dalla vita dell’utente FB.
Inoltre, per capire meglio la differenza tra utente FB e dipendente normale, si può anche riferirsi allo stesso Marx e alla sua distinzione tra sussunzione reale e sussunzione formale del capitale.
Concordo con la valutazione che giudica insufficiente l’esclusiva diffusione di “pratiche di liberazione” come strumento di “lotta” al paradigma di una società capitalistica.
La chiave per modificare lo status quo credo risieda nella possibilità di riappropriarsi della politica.
Organizzare la comunità rendendo tali “pratiche di liberazione” più volte citate, un passaggio per stabilire una nuova socialità; offrono la possibilità di diffondere la cultura del diritto alla “dignità”, all’eguaglianza dei diritti e dei doveri che valesse realmente e non solo sulla carta; oggi è possibile riscontrare al massimo il diritto a reclamare un’elemosina: si implora un lavoro, una casa; si accetta l’idea di rimanere legati a vita ad un debito, o di sottostare a leggi e regole assurde, per poter esercitare un diritto che è già proprio: quello di abitare una casa, di nutrirsi (che a quanto pare è inviolabile solo per le persone in stato vegetativo irreversibile…), di non morire avvelenati, di potersi esprimere liberamente.
Dunque “pratiche di liberazione” come incubatrici di una iniziativa più generale (e non solo nazionale ma con un orizzonte più ampio) per arrivare a imporre tramite l’azione politica, la costituzione di una legge nuova, che sia espressione di una nuova egemonia culturale.
@ Tutti
Mi sembra che si stia sottilmente ri-insinuando nella discussione la logica iper-“spazializzata” del Dentro vs. Fuori, con una implicita gara a chi e cosa è più “esterno” al capitale.
Anche per questo non funziona fondare un discorso critico principalmente sulla scelta del singolo (utente, consumatore etc.).
E’ giustissimo – e anche necessario – cercare di esprimere nelle proprie scelte quotidiane la propria critica della società. Tuttavia, non si può partire da queste scelte per indicare un percorso di liberazione condiviso, perché fin dall’inizio ci sarà qualcuno pronto a sbandierare una scelta più radicale della mia, secondo la logica per cui il nemico immediato del vegano è… il vegetariano :-)
Credo sia necessario procedere nell’altro verso, partendo dalla critica della produzione. Su questo, anche alcuni degli ultimi commenti contengono intuizioni molto interessanti.
@ rockit (e altri, non ricordo chi)
tranquillo/i, nessuno ha messo sullo stesso piano utenti e dipendenti di Facebook, men che meno si è messo sullo stesso piano il lavoro dell’operaio e l’attività di chi sta tutto il giorno su Facebook, come commentato da un idiota su un altro blog. Il discorso che ho fatto su FB illustrava la mia affermazione sui social media come esempio più calzante di espropriazione, messa in produzione e mistificazione della cooperazione sociale produttiva, processo già descritto da Marx nelle sue linee fondamentali.
@ Paolo Tramannoni
beh, noi WM di certo non facciamo parte della schiera che descrivi, quella degli intellettuali che scoprono lavoro e sfruttamento solo in paesi lontani e passando attraverso la rete. Io, se voglio incontrare un operaio metalmeccanico, non devo fare altro che andare a trovare mio fratello :-) E se volessi parlare coi braccianti che si sveglia(va)no alle sei di mattina, mi basta parlare con mia madre.
@ Di nuovo tutti
scusate, gli spunti sono innumerevoli e per ora mi è impossibile riprenderli tutti. Ma saranno ripresi, non dubitate, perché il discorso non solo non è nato oggi, ma prosegue anche domani.
@ Redview
scusaci, abbiamo dovuto “editare” il tuo commento perché su Giap non accettiamo link a siti rossobruni, e purtroppo l’intervento che citavi era su un sito di quel tipo.
@wm1
Ok, non ne avevo idea. Il sito mi era sconosciuto.
@wm1
Forse, per convincere gli scettici, tutte queste cose bisognerebbe farle raccontare da un iPad McGuffin Electric.
PICCOLO SPAZIO PUBBLICITÀ
Ci aiutate a tradurre questo post? Siamo circa a metà. Qua: http://wiki.maurovanetti.info/index.php?title=Fetishism_of_Digital_Commodities_and_Hidden_Exploitation
:-)
Ho già detto che ho molto apprezzato il post e che in buon sostanza condivido la tesi di WM1, ma rimango dell’idea che i social media *non siano* l’esempio più calzante di “espropriazione, messa in produzione e mistificazione della cooperazione sociale produttiva”. E che per avere un’alleanza allargata di attivisti, lavoratori etc. serva una rappresentazione un po’ diversa della situazione.
Facebook ha un fatturato nel 2011 di 4 miliardi e rotti con 2mila impiegati (fonte wiki). Google evidentemente è molto più grossa ma neanche troppo (fatturato 29 miliardi di cui 8 miliardi di profitti) e 28mila lavoratori. La totalità del fatturato di Facebook viene fatta con le inserzioni pubblicitarie o con quelle tesserine blu tipo le nostre dei cellulari che si comprano nei supermercati americani che servono per comprare cose su Farmville etc. Google idem, il grosso del suo fatturato è relativo alle inserzioni pubblicitarie (28milardi su 29). Ora, se voi andate a vedere che numeri girano nell’industria automobilistica o ancora di più nei colossi delle materie prime (gas, petrolio etc.) capite che si tratta di aziende tutto sommato piccole.
Questo perchè il grosso del loro appeal sta tutto sulla potenziale influenza che hanno verso i propri utenti (e sui dati personali venduti agli inserzionisti). Il fatto che tutti (o la maggior parte di noi) quando si alza la mattina va a controllare la posta, o va a vedere il proprio profilo di facebook ha un enorme potenziale commerciale perchè vuol dire che milioni di occhi e frammenti di attenzione si vanno a posare lì su quel sito. Questa ricchezza tuttavia rimane *potenziale* proprio perchè facebook e google non guadagnano niente direttamente dai propri utenti. Il problema è capire come questa ricchezza da potenziale diventi attuale?
Leggevo un articolo in cui ci si chiedeva cosa sarebbe successo se facebook avesse dirottato il 10% dei propri utenti con un minimo risparmio su una propria nuova banca (una facebook bank). Questa diverrebbe improvvisamente dall’oggi al domani una banca di medie dimensioni. E se facebook appoggiasse un candidato alla casa bianca? Che influenza potrebbe avere? Le inserzioni pubblicitarie su facebook poi hanno un potere enorme perchè possono essere selettive (pubblicizzo un tale prodotto solo per quelli che hanno alcuni “like” specifici o tiro fuori un ad solo a seguito di una certa chiave di ricerca e così via).
Facebook – la cui coolness viene certamente veicolata dai suoi 800 milioni di utenti – non produce però valore *direttamente* tramite i suoi utenti ma re-investe e fa profitti con il valore delle imprese che comprano i suoi spazi pubblicitari o che partecipano al suo capitale azionario. Il fatto che una quota sempre maggiore dei surplus delle industrie manufatturiere venga traghettato sui mercati azionari è parte dei problemi che stiamo vedendo negli ultimi vent’anni (da Greenspan in poi). Se poi diciamo che gli utenti di FB partecipino alla creazione di valore perchè passano il tempo su quel sito o perchè strutturano le loro relazioni in base a facebook è quanto meno scorretto. A meno che non vogliamo considerare ogni forma di consumo come uguale al lavoro produttivo. Ma a questo punto allora possiamo dire che tutto è uguale a tutto il resto solo perchè ci sono dei legami (*sempre* il consumo è stato funzionale alla realizzazione di plus-valore… e questo non lo rendo di certo uguale al lavoro produttivo).
Insomma se mettiamo insieme lavoro e consumo finiamo per non capire più come le relazione economiche e di sfruttamento si legano (ma anche si differenziano) tra di loro.
@ Frasel
Felici e sfruttati non è più l’ultimo, ma il penultimo libro di Formenti, che ha pubblicato il dialogo con Bifo L’eclissi [qui la scheda editoriale]. Citazione comunque opportuna come il cacioricotta sui maccheroni al ragù (napoletano, non bolognese): molto di quello che Formenti pensa negli ultimi anni è in relazione con i temi del post che stiamo discutendo, e il suo pessimismo di fondo sui destini della rete è un toccasana verso chi crede che la rete sia il giovedì grasso degli internauti liberi e creativi, dimenticando le pratiche di chiusura di cui la rete è oggetto.
@ Logical Warfare
sì, grazie e scusa se non ho ripreso le tue osservazioni! Nel proseguire la riflessione, terrò conto di tutti gli spunti e delle pulci nelle orecchie (oddìo, pulci… Son grosse come calabroni). Del resto, anche questo post è una prima sintesi di discussioni avvenute nei mesi scorsi su Giap.
Vorrei aggiungere una considerazione sul software libero. Come già illustrato nel post e da successivi commenti le scelte individuali del consumatore finale hanno poco impatto su tutto l’ambaradan a monte della produzione di componenti hardware e, dunque, dell’enorme Rete di Reti che è Internet.
Ubuntu è, come ha scritto santiago, il peggior esempio da portare quando si parla di software libero. C’è un enorme galassia di distribuzioni ‘leggere’ che riescono letteralmente a resuscitare vecchi pc ormai obsoleti. Di fatto la maggior parte dei compiti che si svolgono sui pc non sono cambiati da anni a questa parte e hardware di 5-6 anni fa è sufficiente per navigare, scrivere, stampare, ascoltare musica, vedere film eccetera. Con software libero e gratuito, non proprietario di nessuna corporation ma disponibile per chiunque voglia e facile da condividere nelle personalizzazioni, si può incidere di molto sull’obsolescenza programmata dei vari Apple, Sony e compagnia. I terminali Android sono un caso da manuale: dopo qualche mese dalla commercializzazione la casa produttrice (nel mio caso la sony ericsson) smette di supportare e aggiornare il dispositivo (nel mio caso un xperia x8) spingendomi, se sono un sano e inquadrato consumatore occidentale 2.0, a rivendermelo su ebay per poi pagare meno un dispositivo più recente. Grazie ad un gruppo di hacker posso invece installare delle versioni personalizzate di android aggiornate quasi ogni settimana e curiosare con tutte le novità del caso. Questo è antieconomico per qualunque azienda software o hardware che deve fare profitto. Questo non accadrà MAI col software proprietario.
Quando chi, come me, fa il duro e puro e si mette ad evangelizzare il prossimo verso l’opensource fino allo sfinimento non lo fa certamente perché così migliora lo sfruttamento dei ‘negri’ nella catena produttiva dell’hardware. Solo un ignorante lo penserebbe. Tutto ciò che è in magazzino o sotto le nostre mani è già stato prodotto, con il suo impatto. Aspetta solo di essere smantellato per far posto al nuovo. Se oggi un consumatore, dopo tremila pippe mentali radical-chic, sceglie apple piuttosto che hp o acer non cambia una mazza. Cambia solo per il suo portafogli. Ma educare fin dai “primi passi informatici” all’uso di software opensource può aiutare a vedere lo sviluppo incessante della tecnologia con occhio critico e porre l’accento sul problema dello smaltimento, spesso ingiustificato, dei dispositivi obsoleti.
Chi come me fa il saputello non ti dice di comprare hardware che ha già dentro il software libero. Ti dice di installare il software libero su *quello che hai già* così anziché buttarlo tra 1 mese “perché è pieno di virus” impari a tenere pulito un sistema Gnu/Linux e ti dura altri 5 anni. Questo almeno è uno tra i primissimi motivi per cui si usa Linux, ma ce ne sono altri. Non vorrei andare OT.
Credo che vada posto un accento sulla capacità dell’opensource di contrastare, almeno in piccola parte, l’obsolescenza programmata.
PS articolo e discussione fantastici! Grazie!
@girolamo
grazie per la precisazione e per la segnalazione dell’ultimo libro di Formenti che spero a questo punto di leggere al più presto
@ost
quando si dice “mi hai tolto le parole di bocca”… io uso ubuntu (su di un portatile del 2006) ma non mi sognerei mai di presentarlo come atto rivoluzionario né tantomeno la panacea di tutti i mali..
ho utilizzato versione più light per desktop vecchi e come è noto ci sono realtà associative che grazie a software libero riescono a garantire l’accesso a internet a chi non lo ha..
non so se si può parlare di pratica liberatoria, di certo è un atteggiamento che esprime, secondo me, quella consapevolezza necessaria di cui sopra
Provo a spiegarmi meglio, che prima sono andato un po’ di fretta, tuttavia abbiate pazienza, è parecchio ormai che non discuto di filosofia (senso nobile della parola), soprattutto scrivendo.
Diciamo che, nel leggere la descrizione del modo in cui il capitale costringe l’operaio alla sottomissione, trovo sempre pesante, forte, schiacciante l’_impossibilità_ per l’operaio di sottrarsi al lavoro salariato, pena, semplicemente, la morte per fame.
Per cui l’appropriazione del suo lavoro tramite l’accentramento dei mezzi di produzione è possibile, verrebbe da dire, _solo_ per la violenta imposizione che la mancanza di lavoro comporterebbe. O lavori, o non mangi, in sintesi.
Condizioni che, se confrontiamo con la realtà odierna, permangono.
Ecco, nell’esempio dell’utente facebook questa costrizione, è ovvio, non è né urgente né violenta.
Nei confronti del dipendente la proprietà del mezzo di produzione è decisiva: se vuoi lo stipendio e il prestigio di un dipendente facebook o lavori a facebook o l’alternativa è il lavoro sottoqualificato (o un’altra grande compagnia). Edulcorata, ben pagata, ma sempre appropriazione resta.
Nel caso dell’utente, invece, il legame con il mezzo è, detto banalmente, questione di moda. Non a caso lo spauracchio di qualcosa di “cool” come Google+ è bastato a far mettere il turbo allo sviluppo di facebook.
Insomma, c’è plusvalore, ma la costrizione manca.
Che i due aspetti non fossero stati messi minimamente sullo stesso piano qui è ovvio, basta leggere :)
Tuttavia il mio dubbio più grande è che la differenza sia talmente macroscopica da oscurare il resto del ragionamento.
E ancora: se ne ricaviamo il fatto che esista plusvalore senza sfruttamento secondo me ci porta in una zona di confine, che può essere interessante, e parecchio, anche per rimuovere la mistificazione della produzione che si cerca di combattere. Vado per punti, che mi son già espresso in modo abbastanza contorto
*Questa “appropriazione senza sfruttamento” è un segno della pervasività del capitale, espanso ormai fino a sfruttare la voglia di divertimento per produrre e accentrare ricchezza, oppure potrebbe essere un punto di confine, di cedimento, un punto da far esplodere per sottrarre, detto banalmente, l’utile al padrone?
*Se facebook non fosse un’azienda, ma una cooperativa, diciamo se la proprietà dei mezzi di produzione e gli utili conseguenti fossero equamente ripartiti tra i suoi dipendenti, quelli più chiaramente e direttamente espropriati del proprio lavoro, che accadrebbe? L’appropriazione del plusvalore generato dall’utente resterebbe, ma cadrebbe o meno la natura capitalista della società?
*Facebook, e ancor più Google e Linkedin restituiscono alla collettività *tonnellate* di software libero, abbondante e di primissima classe. Liberano parte dei propri mezzi di produzione, per quanto magari minoritaria spesso fondamentale. Potrebbe essere un “buco” da sfruttare, ingigantire, far passare come modello generale? (visto il modello di vita adottato qui con la publicazione in copyleft credo ne abbiate da dire)
Rimane il fatto che comunque si concluda (cioè, pure se dicessimo che no, tutto sommato l’appropriazione del plusvalore generato dagli utenti è legittima e pure buona) il post conserva un potenziale evocativo devastante.
Cioè ricordare che comunque, anche senza forme di sfruttamento evidente, *esiste* plusvalore che genera guadagno deve dare forza e vigore nei momenti di dubbio.
Di fronte a un accordo stile Mirafiori, con l’appropriazione evidente e qui violenta del plusvalore, con certe parti del sindacato che operano per nascondere questa appropriazione e sollevare al massimo la mistificazione di cui qui si discute, insinuare anche solo il *dubbio* che pure nella gratuità si nasconda lo sfruttamento è un’operazione meritoria e rivelatrice, comunque.
Spero di essermi espresso un po’ più decorosamente
Lorenzo
D’accordissimo anch’io con Ost. Io credo che tutto questo discorso non sia così off topic, perché lo collego alla “forza produttiva del capitale” di cui parlava Marx. E dato che il software libero, Gnu/Linux, ha la peculiarità di formare le cosiddette community sia di sviluppatori che di utenti, il discorso si ricollega alle stesse argomentazioni legate a Facebook che sono state fate finora. Trovo che le tematiche che si possano portare avanti con il software libero siano due. Cercherò di essere chiaro per chi non se ne intenda sull’argomento (intendo software libero) e mi lascerò andare a teorie personali e rischiose (riguardo Marx), vi prego si segnalarmi se sarò fuori rotta, sbagliatissimo o perfino delirante :)
– Da una parte c’è il discorso Trashware, di cui parlava Ost. Ovvero il “software libero” ti permette di rimandare lo smaltimento di materiali grazie alle sue innumerevoli versioni – che l’essere “free” permette di sviluppare – create ad computer :D con tutte le conseguenze benefiche che comporta. (qualcuno potrebbe ribadire che si può ancora installare windows 98, ma non è praticabile perché i programmi nuovi, per decisione di Microsoft, non ci girano più)
– D’altra parte c’è il discorso che riguarda quello che io chiamo “l’anarchia” del software libero. Ed è a questo a cui mi riferivo quando prima scrivevo sui nuovi “metodi di produzione“:
Se ci concentriamo sul mercato software, notiamo che oggi siamo in un periodo di transizione. Da una parte c’è ancora Microsoft e Apple (in parte), legata alla vecchia maniera capitalista di produzione di software closed. D’altra parte ci sono aziende che fanno loro il movimento “open source”, che attinge alle basi del “software libero” finché gli conviene, per poter acchiappare sviluppatori aggratis, formare “comunità” di operai open che facciano software per le loro piattaforme e così rendere “perfetti” i loro aggeggi. Sebbene questo comporti il fatto che l’hardware sarà supportato più a lungo, c’è un “però” grosso come una casa, perché queste “comunità” – spinte probabilmente da quel che avete chiamato la “Gemeinwesen”, ma io chiamo “spirito gregario dell’uomo” – fanno quello che Marx chiamava lavoro socializzato (reso collettivo) e non rappresentano la forza produttiva del lavoro, per i lavoratori, ma bensì, io lo chiamerei, forza produttiva del open source:
Mettetevi nei panni di Google. Siete un’azienda potente e in pieno auge, decidete di fare un sistema operativo per smartphone e tablet – scommettete sul futuro, sopratutto di occidente dove i suoi cittadini hanno il potere acquisitivo, nonché la nullafacenza adeguata per aspirare a certi aggeggi – un sistema operativo che si metta in netta competizione con quello di Apple. La genialata di Google, però, è stata quella di rilasciare questo sistema “open source”. Mentre Apple ti fa pagare sia per l’hardware che per il software, Google ti offre un servizio apparentemente gratis, come FB. Tuttavia, si scontra con una delle migliori clausure di “libertà” che possano aver mai fatto: la GPL.
La General Public License, scritta da Stallman, è una licenza fatta per salvaguardare la “libertà” della conoscenza. È alla base del concetto di copyleft (di cui Stallman fu il pioniere) e diede luogo a tante altre licenze che oggigiorno fanno possibile, tanto per fare un’idea, Wikipedia.
(dentro al post che ho linkato nel commento scorso, affermo che Stallman è il Marx dell’informatica, lo dico sapendo che è esagerato, ma non è un caso se il tizio sia convinto che la vera “libertà” per chi lavora con il software e lo usa, sia rappresentata dall’eliminare il software proprietario. Così come per Marx la vera libertà si sarebbe verificata quando non ci sarebbero stati più padroni.)
Succede allora che Google deve scontrarsi con questa licenza che le impone di dover rilasciare i sorgenti del suo sistema, ma così facendo capita quel che illustrava Ost prima, ovvero: si aumenta la durata di vita utile del dispositivo hardware. A Google questo non interessava, perché non vendeva il hardware. Finché non comprò Motorola. Anzi, ancor prima di dire “hello Moto” mise in atto la sua trappola: Android è software libero solo fino alla versione 2.2, da quella versione in poi Google si è compromessa a rilasciare il codice sorgente (a liberare il software) solo quando uscirà la versione successiva. Ovvero, ora siamo alla 3, quando esca la 4 rilasceranno i sorgenti della 3.
Per chi non l’avesse colto, vogliono combattere proprio questa licenza che salvaguarda i diritti di chi lavora per loro. Ad essere sinceri, Android non contiene niente di GPL. E i produttori Hardware fanno sì che tu non possa avere il pieno controllo del tuo Smartphone. Infatti chi installa una versione libera deve sfruttare un bacco di sicurezza, per installare una versione sempre basata sulla 2.2 e non più oltre. Non so quanto la cosa sia legale, forse si perde pure la garanzia, e sopratutto non so quanta gente normale farebbe una procedura del genere. Come volevasi dimostrare Google accontenta gli utenti esperti, alcuni suoi “operai open”, e mantiene invece il ritmo frenetico della tecnologia, quella che si aggiorna ogni 6 mesi, per la massa.
Anche Ubuntu, purtroppo, non è esenta da questo meccanismo. È una distribuzione, versione di gnu/linux, che attinge al 93% di pacchetti di Debian (ovvero al 93% di lavoro fatto da sviluppatori in modo gratuito, e anche se questo è stato fatto nel loro tempo libero, parliamo di migliaia di persone, torniamo all’incalcolabililità delle ore-lavoro). Canonical, l’azienda che lo produce, apporta soltanto 7% di codice proprio. E quando dico “proprio” intendo dire che elabora del codice, grazie anche alla sua comunità, per la “sua” distro e basta. Mentre tutte le altre distribuzioni sviluppano software che poi mandano in “mainstream” e quindi così gioisca l’intero panorama Gnu/linux, Canonical si tiene tutto per se. Anzi, in realtà propone i suoi prodotti in mainstream, ma siccome non rispetta gli standard prestabiliti – cosa fatta apposta – questi non vengono accettati.
Perché? perché in questo modo possono vendere i loro prodotti sui market – anche Google ha un market – che hanno creato appositamente. Ubuntu Music Store, Ubuntu One (programma chiuso a livello server) e la presa in giro chiamata Ubuntu Software Center, che include senza distinzione programmi proprietari.
Tutto ciò significa che le suddette aziende hanno capito alla perfezione l’andazzo, ovvero: in futuro, grazie ad internet, potranno avere una manodopera fuori dal comune, potranno fare prodotti che, con il vantaggio di essere “Open Source”, daranno spazio a innumerevoli beta tester e riusciranno a fare prodotti più testati, mentre si concentreranno di guadagnare con i servizi offerti. Ma in tutto questo guadagno, dovranno ancora far conto con l’hardware (mi sembra di prevedere pure una bella guerra per il litio, spero tanto che Evo Morales resti sul suo posto un bel po’ di tempo ancora) e in questo rapporto con l’hardware c’è il mondo dei produttori (Nokia che ha appena fatto un accordo con la Microsoft; Motorola assieme a Samsung alleate con Google, e infine Apple), produttori hardware che di certo non vorranno adottare licenze come la GPL.
E così il capitalismo avrà trovato un modo di produzione più favorevole ai tempi che corrono, continuando però a guadagnare a spesse dell’altro.
Uno spettro si aggira nella shell :D (scusate, non ho resistito)
Grande articolo, grande tessitura. E’ il tornare e ritornare sui concetti, aggiungendo ogni volta un filo nuovo (narrazioni tossiche, mito tecnicizzato) che fa la differenza. L’alleanza finale è notevole. Occorre far emergere il sotterraneo, dare voce alle ossa. Manca anche solo una rappresentazione cognitiva dell’ “a monte”.
Il barbuto di Terviri ha molto ancora da dirci. I guardiani dell’ortodossia marxiana non me ne vogliano, ma sogno un libro analogo all’anti-Edipo, capace di rendere fluido Das Kapital e di suggerirci nuove strade. Intanto, anche “solo” il disinnescare certe narrazioni si fa pressante. Guardate cosa è successo in Europa, con una crescita costante del partito pirata. Ho il sospetto (purtroppo non supportato da dati) che l’errore di fondo di una Rete Buona sostenga questa visione politica, della quale quella di Grillo e Casaleggio Associati è solo la -peculiare – declinazione italiana.
Molte cose da ruminare. Ci ritorneremo a lungo, mi sa. Vi lascio con un link collaterale, un esempio di quello che dovremmo fare: uscire fuori da questo dentro virtuale, stare dentro e fuori contemporaneamente, senza inscatolarci o evaporarci nei social network. Rimane una questione di spazio.
http://crisis.blogosfere.it/2011/09/occupate-wall-street-e-anche-gli-altri-posti.html
[…] parlando del post a cura di Wu Ming 1 uscito due giorni fa su Giap e intitolato Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple. Leggetelo, davvero, fate uno sforzo. Se proprio non avete il tempo, ve lo riassumo […]
Un paio di appunti sparsi:
C’è anche un altro fenomeno strettamente collegato alle questioni elaborate fin qui, quello del neocolonialismo, laddove al posto delle nazioni ci sono le multinazionali.
Lavorando sulla Nigeria ci siamo imbattuti in una costellazione di informazioni e resoconti dettagliati sulle forme di sfruttamento, abusi e schiavismo che da anni si vanno sempre più inasprendo. Una volta erano i diamanti e il petrolio (un bene di lusso e un bene di largo consumo) ora sono i metalli che servono ai nostri telefoni, alle batterie, ai computer, alle consolle e che si trovano solo in determinate aree del pianeta… Pensate solo allo sfruttamento in Congo Brazzaville di terreni strappati dal governo (sul conto paga della sony) a popolazioni locali perché ricchi di materia prima per la playstation. Popolazioni che poi vengono costrette a lavorare all’estrazione del materiale… Un paio di anni fa c’è stato un tentativo di resistenza, sfociato in un momentaneo calo di distribuzione della consolle, e in una successiva repressione del Lumpenproletariat tribale.
La domanda è possiamo fare a meno di questi strumenti, possiamo rinunciare al petrolio, alla plastica, alle batterie al litio, ai computer, ai telefoni, alla playstation (be’ almeno a questa forse sì) ecc. ecc. La risposta è ovviamente no. E allora? La narrazione può svolgere un ruolo omeopatico nei confronti delle narrazioni tossiche e alimentare la consapevolezza delle catene di causa ed effetto, di consumo e produzione. Non cambierà nulla ma per lo meno forse qualcuno non starà in coda di notte per entrare all’Apple Store o smetterà di essere triste per la salute di Jobbs…
Appunti sparsi e confusi…
Ottimo post, lo linkerò il + possibile.
Interessante il riferimento (nn nuovo) al video sul NWO della società che gestisce il blog di Grillo (la Casalecchio). Sguardo originale sul rapporto:
popolo della rete (Grillo, Zeitgeist, FB)
=
popolo della piazza (V day, No B day)
siano due fenomeni collegati prevalentemente dall’investimento libidico che i soggetti partecipanti mettono per scoprire e diffondere le “verità nascoste”. Versione digitale della “negazione feticista” di cui parla Zizek.
A quando un approfondimento su web-populismo e teorie del complotto?
Ripeto che la mia intenzione non era assolutamente quella di prendermela con il software libero, ma con l’idea secondo cui questo sarebbe la soluzione o quanto meno un compromesso ragionevole.
Io faccio consumo critico – mi faccio in casa persino il balsamo per capelli! – ma non mi sognerei mai di dire che nel sistema in cui viviamo è un sano compromesso, perché, appunto, non c’è un fuori. Il discorso è complesso e questo tipo di risposte, che hanno al centro il consumatore – l’individuo del sistema capitalistico – sono troppo facilmente manipolabili e alimentano troppe illusioni. Sovrastimano sempre la portata delle loro azioni, perché l’individuo-consumatore è una figura ingigantita, è una persona che si guarda in uno specchio che ingrandisce
@Nexus
“A quando un approfondimento su web-populismo e teorie del complotto?”
ti segnalo questa chicca:
http://www.meetup.com/beppegrillo-69/messages/boards/thread/3647074?thread=3647074
(una conferenza di david icke, quello dei rettiliani, organizzata a parma da M5S)
Sono lettrice da un po’ delle discussioni, non ho mai osato commentare perché consapevole che la mia preparazione nel campo filosofico/politico è piuttosto tutto inadeguata e a volte ho difficoltà a seguire i rimandi, i commenti e le citazioni di WuMing e dei vari commentatori!! Detto questo, ho trovato molto interessante il post e poiché mi occupo di ambiente e di rifiuti, il discorso della scarsa consapevolezza di quello che sta “prima” e “dopo” il nostro tablet, cellulare, i-pad, ecc mi ha subito richiamato alla mente le metodologie della “Life cycle analisys” e dell”impronta ecologica”, che servono a rendere esplicite le “passività” ambientali insite nei processi di produzione e nelle merci. Bisognerebbe estenderle (ma forse si fa già?) alle “passività sociali”.
“Il consumatore è l’ultimo anello della catena distributiva, non il primo della catena produttiva.” (cit. Wu Ming 1)
Queste parole andrebbero scolpite nel marmo. Secondo me questo è uno dei nodi centrali nella formazione di una consapevolezza su come funziona il sistema capitalistico che ci sta trascinando nel baratro. Ragionare su come si forma il *valore* è essenziale, perché il valore è la base della ricchezza, dell’economia, di tutto. Marx lo aveva capito benissimo, e infatti l’analisi del valore basato sulla produzione è la spina dorsale del suo pensiero – più fondamentale ancora, secondo me, dell’impostazione dialettica.
Ma lo hanno capito benissimo anche gli apologeti del capitalismo che sono venuti dopo di lui (Jevons, Menger, Walras, Marshall, von Mises… vale a dire i primi marginalisti, i neoclassici e gli austriaci); i quali, infatti, anziché prendersela direttamente con Marx, hanno preferito attaccare i fondamenti della teoria “classica” del valore (quella di Ricardo), dalla cui analisi Marx aveva ricavato, con una logica ferrea, la sua critica radicale al sistema capitalistico.
Oggi, la retorica del consumatore “ombelico del mondo economico e sociale” è uno degli ostacoli più forti alla formazione di una coscienza radicalmente anticapitalista.
Un’ultima nota sul dentro/fuori. Se non sbaglio, i Wobblies adottavano uno slogan del tipo “building the structure of the new society *within the shell* of the old”. L’idea di un “dentro” inevitabile è sempre stata, in fondo, una componente essenziale, imprescindibile delle aree più avanzate dei movimenti di lotta. Penso basterebbe questo per liquidare quanti ancora si illudono di potersi collocare “fuori” da questo sistema…
Vi seguo da sempre e vi ringrazio per la (contro)educazione -letteraria, filosofica, cognitiva, semio-semantica e, perchè no, anche sentimentale – che mi avete dato negli anni ;-).
E’ la prima volta che lascio traccia sul vostro Giap e lo faccio segnalando l’articolo “Facebook entra in politica. Creato un fondo per finanziare le presidenziali” (http://corrierecomunicazioni.it/news/84618/newsletter/747/facebook_entra_in_politica_creato_un_fondo_per_finanziare_le_presidenziali ilCorrieredelleComunicazioni.it è un giornalaccio on line scarno e tendenzialmente markettaro sul mondo IT e ICT. Lo frequento per lavoro e ogni tanto qualche ultim’ora utile/euristica la sforna…).
Probabilmente qualcuno prima di me ha già raccolto e sviscerato questa notizia, nel caso chiedo venia per la ridondanza, ma credo sarebbe interessante approfondire l’argomento anche in questa direzione.
Un caro saluto
@ Don Cave
Lo slogan dei Wobblies è un remake della definizione di comunismo di Marx-Engels dell’Ideologia tedesca, l’unica pagina di quel libro che avrebbe meritato di sopravvivere alla critica roditrice dei topi. Scritta così, rende evidente il debito di questa definizione con la metafora hegeliana (Fenomenologia) delle doglie come del nuovo che nasce all’interno del vecchio. Nel frattempo, il mio gatto Wobbly è evaso all’alba da casa perdendosi nel quartiere, e costringendo l’insulso post-operaista qui scrivente a fiondarsi *fuori* in pigiama finché non il micio non è stato ritrovato.
I *gatti* hanno la testa più dura delle teorie? :-)
[…] circolazione e scambio di contenuti, e ne ho evocato i presupposti ideologici. La lettura di “Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple” di Wu Ming 1 mi ha perciò fatto l’effetto di uno specchio deformante, nel quale ho visto apparire un ometto […]
È vero che l’importanza dell’individuo/consumatore è spesso ingigantita, spesso proprio da chi vuole scaricare le colpe sull’individuo e sminuire le responsabilità della collettività e di chi la guida, ma l’atteggiamento e la lotta individuale contro il meccanismo di cui si sta parlando è fondamentale. Deve essere chiaro però che non c’è modo di “mettersi a posto la coscienza”, men che meno con l’azione individuale. Usare software libero, mangiare roba a Km 0, non ci rende “migliori” di altri. Non deve prodursi l’effetto “per cui il nemico immediato del vegano è… il vegetariano”, come nota WM1, se no si perde la strategia, si perde la vista del bersaglio che deve essere diretta sempre dal basso verso l’alto, non in orizzontale (come il bersaglio vorrebbe…). È utile apprezzare la diversità anche nelle forme di lotta, diversità non dialettica ma divergente, insomma: “La logica della strategia è la logica della connessione dell’eterogeneo, non quella dell’omogeneizzazione del contraddittorio” per citare il Foucault già citato in un post precedente di Wu Ming.
Pare proprio, leggendo i vari pingback, che la maggior parte delle critiche al post si basino su un’ interpretazione pretestuosa della parte riguardante facebook, che viene letta come un’ equiparazione tra l’ operaio che assembla tablets e l’ utente di facebook che riempie di contenuti la piattaforma. A me sembra chiarissimo che nel post non ci sia traccia di questa equiparazione. Il problema che viene posto invece e’ questo: Zuckerberg trae profitto da cio’ che milioni di persone fanno per “divertimento”. Ma il profitto non proviene da un “biglietto” che si deve pagare per entrare, come in una discoteca, bensi’ dalla vendita di dati sensibili, e soprattutto dall’ aspettativa che si e’ creata riguardo ai possibili inquietanti utilizzi di tutti questi dati (v. la notizia sulla “discesa in campo” di zuckerberg nel marketing politico).
Tempo fa avevo fatto il paragone con la storia di Tom Sawyer che deve dipingere la palizzata.
Zia Polly ha deciso che, per punizione, Tom Sawyer deve dipingere la palizzata. Mentre dipinge svogliatamente, tutti i ragazzini del paese passano di la’ e lo deridono. Allora gli viene un’ idea. Comincia a fingere di divertirsi un mondo, e dopo un po’ i ragazzini cominciano a pregarlo di lasciar fare un po’ anche a loro. All’ inizio rifiuta, ma poi accetta di farli “giocare” in cambio di una fionda, una pelle di gatto, un ferro di cavallo… A sera la palizzata e’ rivestita da tre mani di vernice, e Tom Sawyer e’ diventato ricco.
Cambiamo un po’ la storia. Zia Polly ha promesso a Tom Sawyer che gli dara’ 20$ se dipinge la palizzata. Allora Tom comincia a dipingere, fingendo di divertirsi un mondo. Dopo un po’ i ragazzi del paese cominciano a chiedergli di lasciarli “giocare” un po’, e lui glielo concede, e non si fa nemmeno pagare. A sera la palizzata e’ rivestita da tre mani di vernice, Tom Sawyer e’ diventato ricco, e per di piu’ si e’ fatto la fama di ragazzo generoso.
Difficile aggiungere qualcosa al già detto. Questo non tanto per il modo in cui Wu Ming 1 riporta all’interno del suo stesso articolo anche le critiche che presume gli verrano mosse e le smonta mentre prosegue nella sua analisi (e nonostante tutto gli vengono mosse…). Ma perché alla fine “starci dentro in modo critico” è davvero l’unico orizzonte verso il quale muoversi nell’immediato, nel senso che starne fuori non è fisicamente possibile e non assumere un atteggiamento critico non è eticamente accettabile. Quindi che aggiungere? Il problema è questo. Ed è un problema enorme perché nell’abissale presa di coscienza che aggiungere qualcosa non è così difficile rischia di precipitare anche il “prossimo passo”. Quello cioè che dovrebbe trovarsi tra l’analisi compiuta e l’auspicio della grande alleanza. L’anello di congiunzione che in una parola definiamo “strategia”. Ammesso che questa non debba essere individuale ma estesa ed estendibile, ammesso che questa debba passare attraverso la rete, connettere i movimenti e dare struttura all’eresia. Al momento, non resta che avanzare. Con il coltello tra i denti e l’ebook reader carico in mano, ma avanzare.
@tuco
“FB trae profitto da ciò che milioni di persone fanno per divertimento”. Secondo me detta così è ambigua, perchè sembra che il *divertimento* di milioni di persone diventi *direttamente* fonte di valore. Tesi da cui discende la balzana idea post-operaista per cui il tempo di vita e il tempo di lavoro si mischiano fino a confondersi, “tutti siamo produttivi anche quando ci divertiamo anche quando consumiamo”, la figura del pro-sumer etc. etc. No, non è così. Bisogna provare a ricostruire i nessi. Facebook funziona come servizio di divertimento gratuito per gli utenti e pagato dagli spazi pubblicitari. Non diverso da un’ipotetico cinema in cui si entra gratis in cambio di spazi pubblicitari (tv?). La specificità, parzialmente nuova, è quella dell’estorsione dei dati personali, che fa molto gola ai pubblicitari dal momento che devono razionalizzare i loro target e sfruttare le nicchie di mercato. Il resto è politica di logo e bolla speculativa azionaria (da parte di un’azienda che in definitiva profitta poco o nulla).
Il valore non si crea *in facebook*, ma viene traghettato lì dagli inserzionisti pubblicitari che in definitiva si rifanno a monte alla produzione industriale (manufatturiera). Ora, qui vediamo in atto quel processo che dalla svolta monetarista degli anni 80 è arrivato fino alla crisi attuale e che ha legato esternalizzazione della produzione (sia interna tramite subforniture sia esterna tramite outsourcing), attacco al mondo del lavoro, calo degli investimenti produttivi ed enorme traghettamento di ricchezza nei mercati azionari. Il cuore della tesi di WM1 è che dobbiamo tenere insieme tutti i pezzi che dalle industrie manufatturiere ci porta all’Ipad o ai servizi digitali. E’ una tesi che condivido in pieno. Dico solo che bisogna aggiungere qualche passaggio.
@precaria guerrilla
A me l’individuo sta sui coglioni già così, in quanto concetto, figuriamoci le lotte individuali :) Secondo me la dimensione della lotta individuale porta *in sè* una dimensione di orizzontalità (modello vegano/vegetariano etc.) invece che di verticalità delle lotte. Nella sua *forma*, indipendentemente da cosa dice. Un individuo ha una percezione necessariamente parziale delle tessere che fanno il mosaico, ed è per questo che è importante avere una dimensione politico-soggettiva collettiva che mette insieme le prospettive. Dico politico-soggettiva perchè non è – come si pensava a Genova – sufficiente mettere insieme le lotte/esperienze locali (particolari) per costruire una prospettiva generale. A volte gli interessi in campo sono confliggenti (tipo operai italiani vs. operai serbi o le tante altre esperienze del genere che sono capitate in passato). La Lega vince perchè mette interessi confliggenti l’uno contro l’altro (e gli interessi dei migranti sono confliggenti con quelli dei padroncini, anche se alla fine se la pigliano in culo entrambi). Si supera la prospettiva particolare non sedendosi intorno a una tavolo a capire ragioni e torti (a la Habermas) o spiegando perchè gli interessi confliggenti possono invece accordarsi con la discussione. Col cazzo, nelle lotte tra poveri gli interessi sono confliggenti per davvero! Si supera la prospettiva individuale/parziale solo puntando sul nemico più in alto. E’ chiaro che deve diventare *vantaggioso* per tutti sparare al nemico più in alto, perchè se ci limitamo ai valori non si fai mai un cazzo. Al massimo mangiamo l’insalata del km 0. Che a me fa pure schifo.
(side note) @ Don Cave
Il valore si basa sulla produzione? Io non ci credo. Il marxismo si è sempre diviso tra centralità della produzione (modello sovietico, proprietà dei mezzi di produzione) o centralità della circolazione (modello social-democratico redistributivo). Entrambi sono sbagliati. Io credo che una delle questioni marxiane più cruciali è il problema della *localizzazione* dello sfruttamento (Badiou direbbe del suo modo d’apparire o della sua logica d’esistenza). Marx non dice propriamente che il valore si crea nella produzione. Tuttavia non ci crea nemmeno nella circolazione. Ma d’altra parte c’è pure il capitale creditizio, le politiche d’accesso al credito, quelle monetarie etc. Lo sfruttamento nel capitalismo non è una semplice forma d’abbruttimento e violenza fisica nei confronti dell’operaio (ovviamente c’è anche quella), ma è innanzi tutto una logica. Prima ci togliamo di dosso l’umanesimo vittimizzante dell’operaio martoriato meglio è. Lo sfruttamento è una logica e va colpito a livello della sua logica. E’ per quello che dobbiamo mettere insieme i tasselli del mosaico per sapere dove andare a colpire. E per una volta invece che colpire individualmente, colpire per fare male.
[…] per la prima volta nella mia vita ho visto alcuni fantasmi del passato farsi più incosistenti. Non sono ancora spariti, e probabilmente non spriranno mai del tutto, ma si stanno allontanando. Oggi sono anche stati presentati i nuovi modelli Kindle, non ne parlerò, in compenso vi linko un post: questo. […]
@Logical Warfare
Secondo me il paragone col cinema gratuito grazie alla pubblicita’ non e’ calzante, perche’ al cinema lo spettatore non fa niente. io ho fatto il paragone con la storiella di tom sawyer, che mi sembra piu’ appropriato. chi sta su facebook costruisce dei contenuti e soprattutto una rete di relazioni. se ho capito bene, e’ proprio questa rete di relazioni (o meglio: la mappatura di questa rete) che puo’ essere venduta a chi si occupa di marketing (ma anche a chi fa politica).
mettiamola cosi’: e’ come se il padrone di un magazzino mi desse il permesso di dipingere sui muri esterni, e poi fotografasse i miei graffiti, ne facesse un libro e lo mettesse in vendita ricavandone un bel po’ di soldi.
detto questo, io per primo non mi sognerei mai di paragonare questo “lavoro” al lavoro di un salariato (o di un autonomo). pero’ e’ importante svelare questo meccanismo.
in un commento precedente ho parlato di un meccanismo in parte simile, in cui invece il “lavoro” e’ veramente lavoro, e l’ espropriazione e’ palese e grida vendetta al cielo. si tratta dell’ editoria scientifica. i ricercatori vengono pagati dallo stato. i loro risultati devono essere pubblicati sulle riviste specialistiche. il ricercatore non riceve niente dall’ editore (in certi settori deve addirittura pagare per essere pubblicato). poi l’ editore vende le riviste (elettroniche o cartacee) alle stesse universita’ in cui quei saperi sono stati prodotti. cosi’ la comunita’ deve ricomprare da un privato cio’ che gia’ le apparteneva. domanda: perche’ i ricercatori non autogestiscono la pubblicazione dei loro risultati? risposta: perche’ per far carriera bisogna pubblicare per forza su quelle riviste.
p.s. non ho mai frequentato il post-operaismo. a dire il vero non ho mai frequentato un granche’, in vita mia :-)
@Logical Warfare & Precaria Guerrilla
La scorsa settimana, in Francia, migliaia di giovani & anziani hanno marciato in diverse città contro la riforma pensionistica al grido di “Io lotto di classe”, che forse, tra i suoi vari doppi sensi, è anche un tentativo di tenere insieme la dimensione individuale – o meglio molecolare – del conflitto con quella molare e collettiva.
Ciononostante, io credo che quello di “lotta individuale” sia un frame sbagliato – a meno che non si parli di alcune discipline olimpiche. Individuali sono le scelte – e credo sia sacrosanto e strategico farle, a patto di non scambiarle, appunto, per lotte (e in particolare: per lotte che redimono, che lavano la coscienza).
@ Tuco @Logical Warfare
la cosa più buffa è che venga – esplicitamente o implicitamente – definito negriano un post come questo, che avrà certamente inorridito tutti i negriani DOP che lo hanno letto! :-D
Tuttavia, questo “granchio”, questo madornale fraintendimento, fornisce l’opportunità per un piccolo compendio, che può tornare utile ad alcuni lettori.
Dire che alla base della piramide c’è ancora e sempre lo sfruttamento del lavoro operaio di fabbrica con relativa estorsione di plusvalore ha, ehm, ben poco di negriano, dal momento che la premessa di tutto il post-operaismo è la crisi della legge del valore-lavoro (cfr. Antonio Negri, Marx oltre Marx, 1978), legge il cui nocciolo qui viene riaffermato.
Dopodiché – dovrebbe essere evidente – io non sono affatto “negazionista” per quanto riguarda il lavoro cognitivo, ma dico che tale lavoro è reso possibile dal lavoro operaio “sottostante”/antecedente. Lavoro operaio che negli ultimi decenni, a livello mondiale, è aumentato, non certo diminuito.
Su Giap le mie prese di distanza critiche e i miei “serissimi dubbi” sulla retorica dell’immateriale, sull’impostazione filosofica post-operaista e su certe “sbandate” di Negri sono tutto fuorché una novità.
Per quanto riguarda l’impostazione filosofica, rimando, per esempio, a questo commento del giugno scorso.
Per quanto riguarda le “sbandate”, rimando a uno scambio estivo con Erota (lui sì un negriano) che parte da qui.
Niente di sistematico, sono appunti presi nel vivo di discussioni, dove cerco di spiegare come meglio posso le mie perplessità su un pensiero che ha rimosso il “negativo”, e che sembra sempre a cazzo duro e in overdose di empatogeni (“Il Comune in rivolta!”).
Già nel 2003 la mia “fuoriuscita” da un certo frame era evidente ed esplicitata, come in questo articolo sulle scorie nucleari. Avevo ancora il dente avvelenato, ero molto tranchant, oggi sono più sereno.
Quella espressa finora è una critica in fieri al post-operaismo da parte di uno che a suo tempo lo ha attraversato (anche se in un modo, ehm, tutto suo), e che comunque 1) non lo demonizza; 2) continua a ritrovarvi diverse intuizioni. Poiché aborro il settarismo, ritengo comunque che in quel milieu ci siano tanti bravi compagni, e cervelli il cui pensiero mi co-implica e mi sfida.
Proprio come neuroscienze e psicanalisi, il… marxismo-marxismo e il post-operaismo si sono reciprocamente sbattuti le porte in faccia. Io invece le lascio aperte, perché voglio “fare corrente”.
Una cosa è sicura: chi definisce questo post “negriano” non conosce né Marx né Negri, e non ha la minima idea di cosa scrivano – e di come scrivano – i “negriani”. I negriani, per dire, scrivono così:
http://uninomade.org/manifesto-uninomade-global-rivoluzione-2-0/
:-)
[…] I kindle da 6″ Il kindle Fire Un articolo su chi potrebbe soffrire la concorrenza del Fire Un articolo di Wu Ming su ciò che sta dietro questi prezzi bassi, e sulla vita dei lavoratori di ba… Condividi:FacebookTwitterEmailLike this:LikeBe the first to like this […]
Ecco, *questo* è il negrismo (cito dal manifesto linkato sopra):
«Le forze produttive contengono i rapporti di produzione. Oggi si rovescia la tradizionale relazione tra forze produttive e rapporti di produzione: potremmo dire che sono le stesse forze produttive a contenere i rapporti di produzione, mentre il capitale variabile (cioè il lavoro vivo cooperante in rete) incorpora il capitale fisso – le metropoli e le sue piazze, la cultura e la natura. Il comune indica proprio questa dimensione relazionale delle forze produttive in quanto produzione di forme di vita (i saperi) per mezzo di forme di vita (i saperi). I poveri divengono potenza produttiva senza passare per i rapporti salariali; i lavoratori continuano a essere pienamente produttivi anche quando sono disoccupati; i poveri precarizzati e i precari impoveriti sono produttivi per se stessi, nelle reti e dentro le piazze.»
A parte che sfido chiunque non conosca a menadito la genealogia di quel filone teorico a capire *una sola frase* di questo testo, che pure dovrebbe essere un “manifesto” rivoluzionario indirizzato alle moltitudini… A parte ciò, io dalla retorica qui esemplificata mi sento lontanissimo. Mi sembra che ormai si sia esteso il significato dei termini “produzione” e “produttivi” fino a evacuarli del loro senso, a renderli analiticamente esangui e… improduttivi :-/
Ad ogni modo, poco mi interessa far polemica tra compagni. Ho copiato questo passaggio solo per rendere ben chiare le differenze tra cosa/come si scrive là e cosa/come si scrive qui.
@WM1
Spero si capisse che *non* stavo definendo il tuo post “negriano”
:)
@ Logical Warfare
no, il riferimento non era a te, ma a uno dei post esterni a cui faceva riferimento Tuco nel suo commento su Tom Sawyer e la palizzata. Si intitola “La quarta dimensione”, lo trovi cliccando su uno dei pingback qui sopra. Una vera “perla” :-)
Quelli che, non sapendo che il commento d’esordio va in moderazione, insultano subito e quando li banni si lamentano su altri blog :-D
Riporto un link imho interessante su FB e sul ruolo delle Big Web companies: http://adrianshort.co.uk/2011/09/25/its-the-end-of-the-web-as-we-know-it/ (via @tigella su twitter).
Riguardo alla discussione su “Intelligenza collettiva, lavoro invisibile e social media”, cioè sulle differenza tra questo “lavoro invisibile” e il lavoro “nascosto” perché lontano degli operai cinesi e su alcuni fraintendimenti (colpevoli o meno) scaturiti ho poco da aggiungere perché non sono competente.
Dico solo che secondo me il ruolo di FB va ben oltre quello dello sfruttamento del lavoro invisibile degli utenti. Sfruttamento, controllo (la “total surveillance” di cui parla l’articolo), appropriamento vanno a braccetto, non esistono l’uno senza agli altri. Nella situazione attuale i dati sono perlopiù merce, domani forse potranno essere molto di più parte di una macchina oppressiva/repressiva.
Io che non sono su Facebook avevo immaginato che nel giro di qualche anno FB o qualcosa di simile sostituisse carte d’identità e passaporti. Quest’estate ho affittato un appartamento ad Amsterdam per pochi giorni, e dal sito che regolava il servizio mi è stato richiesto di fornire un account FB come prova della mia identità (nessuno mi ha chiesto un documento reale!). Non avendolo ho dovuto fare un giro di telefonate e scambio di email abbastanza snervante, e sono stato trattato quasi come un sans-papier. Quanto ci vorrà ancora perché diventi obbligatorio di fatto per “vivere”? E obbligatorio del tutto?
Io che sono asino ho difficoltà a seguire pure quello che si scrive qui, non posso permettermi di essere post-operaista non solo nei fatti ma nemmeno a parole…
:-/ tocca travajè
@Wu Ming 2 Effettivamente “lotta” non sta benissimo di fianco a “individuale”, una lotta suona di più come una cosa che si fa in tanti. Spesso però una “scelta” arriva dopo una lotta, fatta almeno con se stessi, per superare la condizione di “contento” (visto che non è facile per quella di “cornuto e mazziato”). Forse una lotta in un piano diverso, che è mole per le parti che la compongono, ma è molecola rispetto al molare/collettivo. Questo sempre senza sperare di lavarsi la coscienza, semplicemente non si è più contenti… e la lotta si sposta su un altro piano.
Nota a margine. Rileggendo il post e spulciando i commenti mi chiedo per chi si sia scritto.
Il ragazzino del video dell’apertura dell’apple store, e molti altri con lui, potrebbero leggerlo (e vorrebbero)? Cavarci qualcosa?
Non lo scarto a priori, ma mi permetto qualche dubbio.
@j
Non credo che i commenti siano una buona misura della ricezione di un testo, specie quando il suddetto gira in Rete grazie a decine di segnalazioni, tweet, ecc. In questi due giorni, Giap ha avuto circa il doppio delle visite medie giornaliere, il che indica già un forte allargamento rispetto ai “soliti convertiti”.
E poi: grazie ai miei nipoti, ho un discreto contatto con il mondo dei liceali. Un sacco di ragazzini ancora confusi, vagamente anticapitalisti, sostenitori del consumo critico, convinti che Apple, Amazon e Google siano profondamente diversi da Nike, Del Monte e Monsanto. Sempre grazie al suddetto contatto, sono abbastanza sicuro che i suddetti ragazzini abbiano letto il posto e si siano fatti qualche domanda. Poi magari niente commenti, ma il germe del dubbio, quello sì.
@precaria guerilla
La “lotta individuale” rischia sempre di diventare “la mia lotta”, e “la mia lotta” nella lingua di Karl Marx si traduce, ehm… Mein Kampf?
@uomoinpolvere
“Quest’estate ho affittato un appartamento ad Amsterdam per pochi giorni, e dal sito che regolava il servizio mi è stato richiesto di fornire un account FB come prova della mia identità (nessuno mi ha chiesto un documento reale!)”
Questo che dici è inquietante. In molti ipotizzano che l’identità passerà attraverso internet, ma spero non attraverso Facebook, anche se Zuckerberg e Google stanno giocando a vedere chi se li tiene questo primato. Non è un caso se lo CEO di Google ha scritto che è importante mettere il vero nome e cognome su GooglePlus, perché esso è un “servizio d’identità”. Vale a dire: schedati da solo.
L’unico servizio, inteso come social network, che non funziona in base alla logica del Addsense e del marketing, ovvero, che non vede i tuoi dati come “merce” finora è Diaspora. Ma il problema è che un social network senza utenti è poco “conveniente”, dovrei convincere i miei amici a passare da Facebook a Diaspora, forse alcuni lo farebbero. In tanti speravano che Diaspora facesse il “boom”, ma poi arrivo GooglePlus, rubandogli le idee delle “cerchie”, ovvero del poter gestire in maniera controllata cio che condividi con gli altri. Cosa che ora ha pure FB copiando Google Plus.
Io uso Facebook, sono ben cosciente però delle implicazioni, diciamo che sono “dentro” in modo conflittuale. In parte per tenermi informato – sostanzialmente per vedere gli “eventi”, concerti ecc -, in parte perché in qualche modo dovrò pur comunicare con persone che una volta usavano la chat msn o skype e ora usano solo FB. A mio modo ho cercato di rendermi intaggabile, per via dei caratteri giapponesi che ho dato al mio nick (mai un vero nome), e in più ho disabilitato le possibilità di usare le applicazioni, il che significa che non posso cliccare “mi piace” sui siti. (devo ancora informarmi se questo esclude la possibilità di non avere il cookie di cui tanto parlano, ne dubito ma forse cancellando la cache di firefox sparisca)
altra cosa inquietante, riguardo gmail. alcuni giorni fa io e mio padre ci siamo scambiati un paio di e-mail, in cui discutevamo sulle misure di alcuni scaffali in legno che mio padre si e’ offerto di costruire per noi. sulla colonnina degli annunci pubblicitari di gmail mi e’ comparsa la pubblicita’ di un negozio specializzato in scaffalature. mmmmh.
tuco, questa è cosa nota, esplicita e palese :-)
Che le pubblicità di gmail usino il contenuto del messaggio per proporre pubblicità contestuale è noto, e pure propagandato (i commerciali di Google te lo dicono chiaro e tondo anche quando fanno le presentazioni per le aziende).
Meno scontato è che appaia pubblicità contestuale “centrata” fuori da gmail (cioè che la pubblicità delle scaffalature ti compaia la mattina dopo in un video di youtube) o peggio ancora che ci siano annunci contestuali basati con una certa evidenza sulla tua rete di contatti (mi ricordo un famoso “abbigliamento proletario” in conversazioni in cui non c’entrava nulla, in compenso avevo appena aggiunto ai contatti i vari ragazzi dell’associazione in cui giro).
Quella dell’uso di FB come carta d’identità invece è *davvero* inquietante, perché vuol dire che si è spinto anche pervadere ambiti *fuori* dal suo controllo diretto, da qua a Orwell non c’è poi tantissima strada.
@Tuco
Questo a dire il vero è una cosa abbastanza nota. In parole povere, Google legge le nostre mail. Ovviamente non con una persona, ma utilizza un programma che fa un’analisi semantico del contenuto. In questo modo ti spara pubblicità mirata. È purtroppo uno dei tanti “compromessi” che prendiamo all’ora di firmare il contratto.
Poco fa mi sono comprato un netbook, giorni dopo averlo acquistato le pubblicità che vedevo non erano più sui laptop, ma sulle custodie. Non so se rendo l’idea.
Credo che si potrebbe fare un’ulteriore riflessione al riguardo. Ne parlavo giusto ieri con mio padre. Se ci fate caso, Google, a differenza di Facebook, include un pacco servizi non indifferente: Gmail, Picasa (per le foto), Google Talk (a breve sostituto di Skype per il VOIP), e ora ha un social network. Per non parlare del fatto, sottinteso ormai, che è il servizio per eccellenza all’ora di indicizzare le nostre ricerche. Google sa, e sapere – per dirla con Focault – è potere.
Quel che voglio dire è questo: io sono del parere, che Google non venda dati a terzi :) semplicemente gli fagocita per sé. Mentre Facebook elabora dei grossi database, coi nostri gusti, i nostri dati personali, le nostre chat e i siti che visitiamo, per poi venderli al miglior offerente, Google si tiene tutto per sé ed elabora le statistiche allo scopo di migliorare il suo servizio. Non sono le aziende di marketing che comprano database a Google, è in contrario, è Big G a vendere il servizio di Marketing a queste aziende.
Il negozio di scaffalature che ti sei trovato davanti nella pubblicità non ha fatto altro che pagare a Google per fargli pubblicità, ed è stato lo stesso Google a sapere dove piazzarla. Diverso è il discorso di Facebook. In quel caso una multinazionale di scaffalature, metti IKEA, potrebbe comprare a Facebook un intero database di informazioni per poi fare studi di marketing da sola.
Non so cosa sia più inquietante. Paradossalmente la prospettiva di Google è più “sicura”, se non fosse che prima o poi cambierà padrone, e se un sapere simile cade nelle mani sbagliate – a patto che non lo fosse/sia già – saremmo tutti in scenari orwelliani.
@Rockit
“Meno scontato è che appaia pubblicità contestuale “centrata” fuori da gmail (cioè che la pubblicità delle scaffalature ti compaia la mattina dopo in un video di youtube)”
No, per niente scontato, se consideri che Youtube è proprietà di Google :/
@Wu ming 2 Emh, non capisco. Non capisco come si possa arrivare a un'”alleanza mondiale tra “attivisti digitali”, lavoratori cognitivi e operai dell’industria elettronica” senza passare da una serie di scelte e atteggiamenti, anche individuali, che io, forse in modo poco ortodosso, ho chiamato “lotta”. Cioè, queste scelte devono arrivare dall’alleanza di cui sopra, per poi essere eseguite dall’individuo, o forse è dalle scelte dell’individuo che si può arrivare a un’alleanza? E poi se, nel contesto di un breve commento, ho usato il termine “lotta” in un senso diverso da quello che intendi tu (un senso che condivido e uso anch’io per altri contesti, ma non è facile in poche righe fare tutti i distinguo del caso), che bisogno c’era di tirare fuori addirittura il Mein Kampf? Mi è sfuggita l’ironia, si tratta per caso di reductio ad hitlerum?
@WM2… non mi riferivo agli eventuali interventi in sede di commento ma alla fruibilità del post e di certi commenti…
Se da un lato è necessario un intervento del genere, penso anche che ci sia bisogno di veicolare gli stessi contenuti in un altro modo. Magari narrativo, o magari, come dire (e so di mettere il culo tra le pedate) for dummies.
Il post in sé e alcuni commenti sono a tratti esoterici per molti lettori – il polso della situazione ce l’ho in parte anche io, avendo ricevuto dei feedback da diverse persone a cui ho girato il link… ne prendo uno a caso tra gli ultimi (e scusa Girolamo se ti tiro in mezzo): “Lo slogan dei Wobblies è un remake della definizione di comunismo di Marx-Engels dell’Ideologia tedesca, l’unica pagina di quel libro che avrebbe meritato di sopravvivere alla critica roditrice dei topi. Scritta così, rende evidente il debito di questa definizione con la metafora hegeliana (Fenomenologia) delle doglie come del nuovo che nasce all’interno del vecchio”…
È uno scambio interno, mirato ecc. certo, tutto quello che vuoi ma, cito uno dei personaggi a cui ho girato il tutto, “non se capisce ‘na mazza”
Aggiungo poi un piccolo suggerimento libresco, per una lettura affiancata che potrebbe correre in parallelo, divergere e convergere (soprattutto sul criptofascismo grillino ma a livello globale) “non è un cambio di stagione” di Martín Caparrós
[…] Wu Ming 1 (pubblicato su Giap il 26 settembre […]
@precaria guerrilla
Sì, ti è sfuggita l’ironia.
(o viceversa m’è rimasta a me nelle dita. La prossima volta metto una faccina ;-)
@ j
per quanti sforzi di sintesi e divulgazione uno faccia – e io in questo post ne ho fatti *parecchi*: ogni volta che ho usato un concetto ne ho fornito la spiegazione più terra-terra possibile -, ci sarà sempre qualcuno che comunque non capisce… o che decide fin da subito di non capire.
[Anche se mi pare strano che qualcuno possa ritenere incomprensibili i primi quattro paragrafi del post, che sono davvero “for dummies” e hanno tanto di esemplificazioni video…]
Veniamo da un lungo periodo di postura “anti-intellettuale a prescindere”, di iper-semplificazione di ogni tematica. C’è un pregiudizio nei confronti di ogni testo presuntamente “difficile”. Liquidare uno scritto dicendo che “non si capisce un cazzo” non solo è la reazione più facile e deresponsabilizzante, ma è anche ricattatoria nei confronti di chi lo ha scritto: siccome *io* soggettivamente non capisco (o non ho voglia di sforzarmi di capire), vuol dire che oggettivamente non si capisce, quindi tu sei un intellettuale di merda lontano dai comuni mortali etc., quindi devi “abbassare” ancora se vuoi essere preso sul serio.
Non nego che siano possibili altri approcci, ancor più “for dummies” di questo, narrativi o che altro (io in casa ho “Il capitale” di Marx in forma di graphic novel). Ma se devo spiegare la teoria marxiana del valore-lavoro nel post di un blog, mi sembra che più “in basso” di così non si potesse andare: sinceramente, non posso fare molto di più che spiegare i concetti e fornire esempi concreti.
@WM1… e infatti dico che il post è necessario e non lo liquido affatto. Non è presuntamente difficile o difficile tout court, ma non lo è per me e per molti altri. Mi limito a constatare che molti dei feedback che ho ricevuto vengono da persone che lo considerano difficile e non presuntamente.
Non è questione di riscriverlo o di renderlo for dummies per essere preso sul serio. Qui la serietà non è minimamente in discussione, e tanto meno la portata del testo (che mi sembra ancora una versione beta, bella grossa e potente, ma beta).
Ma la ricezione del testo, che potrebbe produrre consapevolezza in certi soggetti, non raggiunge (del tutto) questo scopo.
Che fare? Non lo so. Una narrazione, un fumetto, un video, un libretto di istruzioni?
Chi lo deve / può fare? Ne so ancora meno. Forse un lavoro rizomatico collettivo…
@ j
tutto quello che scrivo è “beta”, sempre :-) Infatti questo post è nella categoria “Appunti”. Io i miei appunti li ho socializzati, poi sta anche ad altri vedere se e come estendere la riflessione, il lavoro e gli sforzi per arrivare al maggior numero di persone possibile.
ovviamente si può rendere una cosa (più) “pop” anche senza farla diventare terra terra… in questo devo dire la lettura di Caparros è interessante.
In questa direzione, tra le altre, andrebbe fatto lo sforzo. (e lo dico a me stesso)
@j
Magari qualcuno bravo coi pennarelli potrebbe fare una roba del genere:
http://www.youtube.com/watch?v=hpAMbpQ8J7g
Però io credo anche che un post così debba stimolare il lettore a “studiare” di più. Ad esempio, potrebbe stimolare a prendere in mano Marx e/o qualcuno di più recente che spiega Marx e spiega il mondo in cui viviamo da un punto di vista marxista. Non si può pretendere che il post e i commenti sottostanti spieghino tutto. Attenzione: io per primo ho sfruttato la disponibilità di WM su twitter per aver chiarimenti sulle differenze con il post-operaismo, perché fondamentalmente ero curioso e desideravo avere *subito* la risposta ai miei dubbi. Però, dai, un po’ di fatica bisogna farla, non si può pensare di avere sempre tutto semplificato; potevo starmene zitto e prima leggermi “Marx oltre Marx” di Negri e cercare capire da me, per dire. Apple e il web 2.0 con le loro interfacce e i loro design for dummies ci stanno “cambiando” più di quanto pensiamo, imho. :)
Anche perché poi, pur ri-esprimendo la mia gratitudine ai WM per l’impegno che stanno mettendo in questo post, quanto scritto qui è come loro vedono il problema; ci sono altri compagni che vedono la questione in modo più o meno diversa. Ed essere consapevoli delle molteciplità non può che essere un bene, pur avendo, si spera, una propria posizione.
:)
Aggiungo delle cose al mio commento precedente, come al solito parziali e tagliate con l’accetta, approfittando della lunga discussione di qui sopra.
Una volta chiarita la presa di distanza dalle illusioni – più o meno consce – sul capitalismo “immateriale” buono e cooperativo, bisogna anche evitare che questo articolo sia strumentalizzato da quelli che sostengono che in fondo il capitalismo è sempre lo stesso, e la centralità produttiva va ancora attribuita all’operaio e alla sua figura maschia e “materiale”.
A me pare che il punto vero sia un altro e che l’articolo di WuMing1 vada valorizzato nella sua complessità, per la capacità che ha di mettere in relazione più mondi e più culture [e qui, ovviamente, l’Autore mi smentirà se non è d’accordo ;)].
Alla base della piramide del lavoro globale c’è il caro vecchio lavoro operaio perché produce i beni “materiali” che poi vengono riempiti di senso dai lavoratori “immateriali”?
E’ un’immagine suggestiva, ma che rischia di non fotografare il tratto comune del lavoro, che va oltre la mansione specifica. Mi si permetta il paradosso: è come se mentre Marx ed Engels studiavano la rivoluzione industriale, qualcuno gli avesse detto che in fondo se non ci fossero stati ancora i contadini (che esistevano ancora allora ed esistono ancora oggi) gli operai delle fabbriche non avrebbero avuto nulla da mangiare. A questa critica, i Nostri hanno replicato che l’egemonia del modello industriale abbracciava anche il lavoro nei campi, la sua organizzazione e i macchinari con cui esso veniva condotto.
Ecco, erigere una barriera tra il lavoro “materiale” da quello “immateriale”, significa dividere artificialmente ciò che è più unito di quanto sembra, cioè fare un favore ai nostri nemici. Innanzitutto, perché senza la rete e l’infrastruttura digitale che sottende la globalizzazione, non ci sarebbe stata l’integrazione dei processi produttivi di cui si parla. Sarebbe cioè stato impossibile produrre un bene *contemporaneamente* a Mumbay e nella Silicon Valley.
Inoltre, quando parliamo di lavoro “cognitivo” (definizione che è più appropriata di “immateriale”, proprio perché non dà adito ad equivoci e perché esclude che insieme al lavoro del cervello, delle relazioni e degli affetti ci sia anche la fatica “materiale”) non ci riferiamo soltanto alla produzione di valore in Facebook (che secondo me esiste, ma ne parleremo un’altra volta). Narrare il lavoro e i conflitti, da questo punto di vista, significa accogliere la sfida di rendere conto di questa complessità, tracciandone nessi e spazi comuni.
Quando i politici indiani devono spiegare il concetto di «soft power» della loro economia emergente nella globalizzazione citano sempre il caso del settore della ristorazione indiana, che nella sola Gran Bretagna impiega più dipendenti dell’intero comparto metallurgico in India. Pollo tandoori batte acciaio: un prodotto impregnato di cultura saperi tradizionali e sapori etnici, che incorpora il lavoro di cura e il sapersi adattare ai sapori e ai saperi di un altro luogo, è più forte dell’insipida e alienante produzione di acciaio.
*Tendenzialmente* (e questo avverbio da solo potrebbe generare discussioni infinite, a proposito dello stile post-operaista), misurare il valore del lavoro di questo tipo, di un lavoro così complesso e che incorpora e si contamina con elementi che prima erano più palesemente separati dall’attività lavorativa. Ecco perché il pensiero dei movimenti delle donne, che si è sempre confrontato con questa dimensione di incrocio tra vita e sfruttamento, è prezioso.
Su Giap! si è parlato anche di tempo storico e tempi rivoluzionari. Credo sia il caso di tenere presente quella discussione: dobbiamo battere altri tempi rispetto a quelli, lineari e piatti, del capitale, mettere in relazione le complessità e non stabilire gerarchie o lotte di egemonia tra (presunte) diverse forme di lavoro.
Aggiungo due righe sul (post)operaismo. La forza (e qualche volta il limite, che molti pensatori hanno pagato duramente) di questa corrente è che si è forgiata nella carne viva delle lotte. E cioè che l’assunto di base è che tra analisi teorica e proposta politica non c’è nessuna differenza. La prima è direttamente la seconda, e viceversa.
Tuttavia, non c’è dubbio che da questo filone, eterogeneo e articolato al suo interno, siano venute anche analisi lucide e intuizioni feconde. Ormai quasi più di due anni fa, la rivista “Sociologia del lavoro” (una pubblicazione accademica e poco incline di solito alle contaminazioni) ha sentito il bisogno di dedicare un numero monografico al lavoro cognitivo e alle ambivalenze che esso contiene. Quel volume è utile a fugare ogni schematismo: si affronta il tema del rapporto tra “lavori” e della finanza come forma di governo e sfruttamento di questi, si mette a critica “il mito del consumatore produttivo” (questo il titolo del saggio di Vanni Codeluppi, mi pare c’entri con quanto discutiamo), si analizza il lavoro della rete.
@Wu Ming 2 Bene, mi rimangono punti oscuri (in questo senso è interessante il dialogo tra WM1 e J). Ma il tema è di grande importanza e approfondirò, sarà una dura “lotta” ;-) , forse anche “individuale” :-) ma ne vale la pena… Ben vengano le faccine. Grazie, ora la smetto di rompere le palle… (:-|)
Scusate nella fretta ho cancellato la fine di una frase, la riscrivo qui completa:
“*Tendenzialmente* (e questo avverbio da solo potrebbe generare discussioni infinite, a proposito dello stile post-operaista), misurare il valore del lavoro di questo tipo, di un lavoro così complesso e che incorpora e si contamina con elementi che prima erano più palesemente separati dall’attività lavorativa è per il capitale impossibile”
Il problema è che quando si producono analisi come queste, marxiste ma non neo-marxiste (almeno non nell’accezione di questi ultimi anni e di un certo filone culturale), provenienti non dalle solite siglette paracomuniste ma da un gruppo di artisti che addirittura produce (davvero) cultura, la gente (un certo tipo di gente) va nel pallone. Soprattutto, vanno nel pallone coloro i quali si erano, per un certo periodo di tempo, creduti in dovere e in diritto di dare rappresentanza politica ad un certo tipo di soggettività, quella dell’intellettualità diffusa. Quindi scompigliano tutti gli schemi, o meglio escono dai soliti schemi definiti, di qua i veteromarxisti, di la i neomarxisti, dall’altra parte gli anti, o post-marxisti, per creare qualcosa di nuovo. Cosa che crea anche un potente immaginario culturale, oltretutto.
Definire, poi, questa analisi negriana fa davvero sorridere (occorrerebbe poi scindere Negri dal negrismo). Definirla complicata o inaccessibile fa ancor più sorridere, soprattutto da chi poi nel corso del tempo si è impegnato a rendere indecifrabile qualsiasi tipo di ragionamento politico.
Ancora complimenti, davvero…
@ Uomoinpolvere
La storia della casa di Amsterdam è a dir poco esemplificativa ed inquietante…quello dei social network è uno degli strumenti che saranno sempre più affinati per il controllo (e la repressione) sociale.
Ad un certo punto andrebbe anche fatto un discorso di sottrazione da certe dinamiche…senza per questo scadere in ritorni a gloriosi passati o antimodernità…però non possiamo continuare ad accogliere ogni novità tecnologica o informativa come evento neutro o necessario dello sviluppo al quale ci dobbiamo in qualche modo evitare.
Alessandro – Militant
(mi firmo così non avete l’impressione ogni volta di parlare con un insieme indistinto di persone..:)
scusate, c’è una frase senza senso, volevo dire questo
“..non possiamo continuare ad accogliere ogni tipo di novità tecnologica o informativa come evento neutro o necessario dello sviluppo al quale non possiamo sottrarci.”
[…] so, con questa storia di Wu Ming ho esagerato. È tempo di voltare pagina e trattare un argomento che mi sta particolarmente a […]
@ WM1
Il rapporto tra “marxismo-marxismo” e “post-operaismo” èì una storia infinita di bambini e acque sporche (come hai più volte sototlineato). Ad esempi,: il bambino è la fine della legge del valore, che aveva, negli anni Settanta (nelle pratiche politiche di una parte dell’area dell’autonomia, quantomeno, prima ancora che nei libri e opiscoli di Negri & co.) un senso molto preciso: era finito il periodo in cui, grazie all epolitiche keynesiane (welfare, fiscalizzazione degli oneri sociali, ecc.) si dava un equilibrio di mercato tra lavor e profitto, salario e prezzo della merce, produzione e circolazione deel merci. E quindi questo equilibrio doveva essere imposto con altri strumenti: col comando politico (ruolo dello Stato, decisionismo politico, politiche repressive). Non a caso la critica dell’economia politica si intrecciava con la critica del diritto. Oggi, la stessa funzione viene svolta attraverso i processi dell’economia finanziaria (o meglio: della finanziarizzazione dell’economia): i cui punti di crisi determinano l’impossibilità di tenere in un qualche straccio di equilibrio prezzi, salari, circolazione – insomma, tutto ciò che dell’economia politica attraversa concretamente la nostra esistenza. E quindi la crisi globale.
L’acqua sporca dov’é? Nell’idea che dala crisi del valore, che aveva le sue radici nei rapporti materiali di produzione (condizione del lavoratore, struttura del salario, contratti di lavoro, diritti, ecc.), si possa bypassare in allegria quel substrato concreto e materiale che è la vita dell’essere umano messo al lavoro. Magari passando attraverso una retorica che – non essendo il linguaggio mai neutrale – finisce per deformare l’oggetto nominato. Altro esempio: il passo che citi (come esempio di pessima retorica, soprattutto dal punto di vista della comunicazione), nel sintetizzare in una sequenza di slogan ciò che andrebbe detto in forma analitica – “Oggi si rovescia la tradizionale relazione tra forze produttive e rapporti di produzione: potremmo dire che sono le stesse forze produttive a contenere i rapporti di produzione, mentre il capitale variabile (cioè il lavoro vivo cooperante in rete) incorpora il capitale fisso” – non dice cosa diversa (salvo che non si capisce una mazza al di fuori del ristretto ambito di chi queste cose le sa già) da quello che dici tu su Fb: la capacità di produrre plusvalore (io direi rendita, piuttosto che profitto) di Fb, il suo capitale fisso (l’equivalente di acciaio, corrente elettrica, macchine e rulli trasportatori, materi aprima per la fabbrica fordista) è nella capacità degli individui di produrre relazioni (comunicazione, passioni, inimicizie, ecc.); capacità che viene “messa al lavoro” attraverso Fb. Se dico che Fb si comporta come un produttor emusicale che gira per i giardini ad ascoltare quelli che suonano la chitarra, e poi mette a profitto (cioè ruba) note e accordi che ha sentito, forse mi faccio capire meglio. Se la stessa cosa la scrivo in un gergo paramarxiano, no. E quindi ti dò ragione sul fatto che, a furia di usare termini-ombrello come “produzione” e “immateriale”, “cognitivo”, si finisc eper confonderne i significati, e soprattuto per oscurare le diverse basi materiali di ciascuno degli aspetti. Con paradosso di trovare passi come quello che hai citato accanto ad analisi cogenti della crisi finanziaria, delle forme di vita precaria, ecc.
Ecco perché discussioni come queste servono. Soprattutto come stimolo a trovare nuove pratiche.
@ Alessandro (Militant)
Ti quoto al 200% quando dici che bisognerebbe distinguere Negri dal negrismo. Ma anche questa è una cosa già detta e ridetta, qui (e il fatto che ci sia bisogno di ridirla è un limite, o meglio, un’oscurità del linguaggio negriano di riferimento).
@ J
C’è sempre un punto in cui chi parla crede di non dover semplificare ancora, e invece a volte bisognerebbe ancora. Ma in una discussione su Marx, merce e feticcio (di questo stiamo parlando, no?) mi sembrava di potere dare per scontata la conoscenza della definizione di comunismo come “movimento reale che distrugge lo stato di cose presenti”. C’è sempre, all’orizzonte, il rischio che, spiegazione della spiegazione dopo spiegazione, la carta geografica dell’Impero coincida col territorio e diventi un lenzuolone inutilizzabile.
Mi scuso con tutti per i tanti sgorbi di battitura nel post precedente. Dalla Olivetti 22 all’iMac, nell’arco di 30 anni, per me non è cambiato niente, batto sui tasti da schifo. Limite mio.
[…] emmeeffe Dopo la lettura di un articolo molto stimolante a firma del gruppo che diede vita al fenomeno Luther Blisset una decina di anni fa, da qualche […]
Non fa una grinza che il nuovo tablet di Amazon, il Kindle Fire, sia “made in China” dalla solita Foxconn:
http://bit.ly/mYhJn4
Gli operai muoiono dalla voglia (nostra) di possederlo.
@ jimmyjazz (e anche girolamo)
1. Marx non ha *mai* privilegiato il lavoro industriale ai danni di quello contadino o di altro tipo: è una vera e propria leggenda metropolitana che si smonta facilmente anche solo sfogliando il Capitale (nemmeno leggendolo…) dove gli esempi presi da settori non industriali fioccano. Un esempio? Nel capitolo 14 su plusvalore relativo e assoluto Marx per fare l’esempio di che cosa sia un lavoratore produttivo sceglie… un maestro elementare!
2. Privilegiare una particolare qualità di lavoro – sia esso materiale, cognitivo, di cura etc. non cambia nulla – è stata una delle tare del post-operaismo (a dire il vero anche dell’operaismo stesso, ma lì c’era qualche buon motivo in più per farlo). Il lavoro produttivo per Marx è quello che semplicemente produce denaro (o meglio più-denaro da denaro). Il mezzo con il quale viene fatto è indifferente (anche se fondamentale da ricostruire per le lotte). Dall’Ipod alle armi, dalla prostituzione ai libri di Wu Ming poco importa, l’importante è semplicemente che al termine del ciclo, il percorso della valorizzazione sia avvenuto con successo.
3. Assolutamente fuorviante è l’esempio del pollo Tandori e dell’acciaio. Come se il percorso della valorizzazione possa basarsi semplicemente sul numero degli addetti per settore. Quelli più produttivi non è mica detto che siano quelli che hanno più addetti! Basta guardare ai profitti per addetto che fanno i colossi petroliferi. O – come dici tu stesso – basterebbe guardare ai tempi di Marx gli addetti dell’agricoltura contro quelli dell’industria.
4. C’è un *enorme* fraintendimento per quanto riguarda la legge del valore-lavoro. Il capitale non *misura* il lavoro, né l’ha mai fatto (né se ne appropria parassitariamente come dice girolamo rubando le relazioni – o peggio a volte si dice “la vita – di quelli che stanno su facebook). Il valore *non è* una misurazione astratta applicata al concreto del lavoro. E che magari poi è pure andata in crisi quando il lavoro ha acquisito maggior contenuto relazionale/affettivo etc. E’ la tesi (sbagliata e compiutamente anti-marxiana) di “Marx oltre Marx” e dell’idea che il lavoro fuori dalla fabbrica abbia mandato in tilt il processo di misurazione dei tempi/produttività. Questa idea del capitale-righello passivo che si limita a vessare l’operaio sulla catena di montaggio e a misurarne la produttività secondo schemi rigidi e astratti è una deformazione fantascientifica, già falsa nell’800. Tralascia il fatto che nell’estrazione di valore dinamica qualitativa e quantitativa siano inscindibilmente mischiate. L’organizzazione produttiva è già all’inizio del ciclo (anche nei suoi aspetti qualitativi) finalizzata alla produzione di valore (e dunque denaro). Se perdiamo di vista questo punto finiamo davvero per pensare che la cooperazione sociale abbia già in sé (*immediatamente* come si usa dire) potenzialità sovversive. E che dunque il capitale sia un “parassita” che si limita “alla cattura” etc. etc. D’altra parte, anche solo intuitivamente, se la cooperazione sociale fosse davvero così libera e il capitale così passivo e parassita, perché ci metteremmo a produrre tutta questa merda?
@ Logical Warfare
certo, se la cooperazione sociale avesse una sua indipendenza rispetto al capitale, saremmo ancora nella sussunzione formale del lavoro al capitale. Per come la intendo io, sussunzione reale significa anche che l’attuale cooperazione sociale non pre-esisteva al modo di produzione capitalistico. Faccio però notare che i termini “sussunzione” e “sottomissione”, come il termine tedesco che traducono (Subsumtion) hanno una connotazione di “cattura”, il capitale ghermisce e in-globa il lavoro. Un margine di “esternità” permane, seppure minimale.
Ma capisco la tua critica, capisco dove vai a parare: l’idea di una cooperazione/moltitudine “buona” che per sua intima tendenza vuole sfuggire al comando del capitale cattivo è proprio uno degli assunti post-operaisti (retorici prima che teorici) che più mi lascia perplesso. L’ho già scritto: esiste la “moltitudine cattiva”.
Il punto è che nel mio post io non ripropongo questo assunto: dico – o almeno, ho provato a dire – che nessun modo di produzione è mai stato “cooperativo” (socializzato) nella misura in cui lo è il capitalismo. E mi sembra un’autentica banalità. Al contempo, dico anche un’altra cosa, non meno banale: non esisterebbe cooperazione sociale produttiva se gli esseri umani non tendessero a cooperare, socializzare, stare insieme. C’è la cooperazione sociale perché c’è la società. En passant, ricorro a un concetto che più marxiano non si potrebbe: Gemeinwesen (l’essere comune, la tendenza alla comunità). Ci ho fatto la tesi di laurea, sul ricorrere di questo concetto in Marx.
Come scrivevo, gli studi sul cervello stanno facendo passi da gigante e ci stanno rivelando molte cose sull’empatia e le nostre attitudini e virtù relazionali. Nulla di “trans-storico”, anzi: il concetto di neuroplasticità del cervello fa piazza pulita di qualunque innatismo volgare, mettendo in relazione vita psichica e dinamiche socio-ambientali. Le nostre sinapsi si creano in risposta agli stimoli della vita collettiva, associata. Quella vita associata, al contempo, è resa possibile dai neuroni specchio, che permettono a ciascuno di noi di relazionarsi con gli altri esseri umani. I neuroni specchio sono quelli dell’identificazione con l’altro, dell’apprendimento per imitazione, dell’empatia, della relazione.
Ecco, per me questa è la Gemeinwesen. Che, attenzione, è *potenzialità*, non è la “moltitudine buona”. E non è nemmeno un “fuori” dalla valorizzazione capitalistica. E’ semmai “sotto” il capitale, è il sostrato che sta alla base della cooperazione produttiva.
Se non riconoscessimo questo sostrato e la sua importanza, su cosa potremmo fondare la nostra idea che possano esistere altre relazioni sociali, un’altra comunità, un’altra condivisione delle risorse, un altro ethos collettivo *oltre* l’attuale modo di produzione?
@ Logical Warfare
1. La tesi di Marx oltre Marx è che la crisi della legge del valore sia stata causata dai cicli di lotte dell’operaio-massa prima, e dell’operaio sociale dopo, e non dal “lavoro fuori dalla fabbrica”. Anche perché la metropoli veniva interpretata (sulla falsariga dei Wobblies) come fabbrica diffusa. Non a caso, anche se ormai fuori tempo massimo, l’ultima parola d’ordine che Rosso cercò di lanciare a fronte della deriva militaristica e soggettivistica del movimento fu “Si torna in fabbrica”.
Non avendo mai pensato che Negri, Ferrari Bravo & Co. fossero ortodossia marxista, non ho un particolare interesse a una critica che riporta il loro pensiero alle “dure leggi” del padre fondatore (anche se capisco il senso della tua critica).
2. Nel mettere tra asterischi *immediatamente*, in fondo hai ragione. Che la cooperazione sociale abbia al tempo stesso un potenziale di assoggettamento e di desoggettivazione, di adeguamento ai modi dello sfruttamento, ma anche di liberazione, a me sembra ovvio. Che l’inserzione di quell’avverbio in -mente sia foriero di catastrofi (come quasi sempre con gli avverbi, che non sono nostri amici, come ci avverte Stephen King), perché causa uno slittamento semantico sotto il quale c’è il salto di interi passaggi non solo logici, ma pratici, non comporta la falsificazione delle potenzialità della cooperazione sociale: ha invece a che fare (a volte) con l’errata comprensione, inficiata da cattiva teleologia, di queste potenzialità.
Nel punto 2 del suo ultimo commento, Girolamo ha scritto cose molto vicine a quelle che stavo scrivendo io nel frattempo.
@ redview: eh ma mica tutti hanno gli strumenti e le capacità per farlo…
@ girolamo: ho lo stesso problema, dalla penna a sfera al powerbook non riesco a battere sui tasti :) (minchia ma tutti apple…)
… Non dico di far coincidere mappa e territorio, ma di tracciare eventualmente, altre mappe e altre legende anche per chi non capisce, o non riesce a capire, un cazzo di cartografia.
@ wm2… RSA Animate – First as Tragedy, Then as Farce… fico
Questa volta non posso far altro che quotare Girolamo.
Nel suo post dell’1.31 ha spiegato con semplicita’ cosa significa crisi del valore lavoro in Marx Oltre Marx. Scusate se e’ poco.
Continuo a pensare che molte delle cose di quella esperienza teorica siano ancora valide.
Altro e’ l’avvitarsi politico e teorico da Impero in poi..
Altro ancora sono gli epigoni di Negri.
@ Logical Warfare
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx descrive
come dalla metà del 1800 la grande industria abbia sostituito l’agricoltura come forma egemonica di produzione. Ovviamente, e Marx ne è cosciente, questo passaggio non avviene in termini quantitativi. L’economia industriale era una piccola parte dell’economia, persino nell’epicentro della rivoluzione industriale cioè l’Inghilterra.
La maggior parte dei lavoratori lavorava duramente nei campi e non dentro le fabbriche. Tuttavia, Marx argomenta che tutte le altre forme di produzione saranno costrette ad adottare i parametri della produzione industriale: l’agricoltura, l’estrazione mineraria e in fin dei conti la società stessa dovranno adottare il regime di meccanizzazione, la disciplina, la temporalità e i suoi ritmi. Scrive ad esempio, prendendosi gioco dei nostalgici della proprietà fondiaria e dell’egemonia agraria e prendendo di petto le sfide della rivoluzione industriale:
“Il movimento deve ormai avere il sopravvento sull’immobilità, la volgarità aperta, cosciente di sé sulla volgarità nascosta e incosciente, la brama del possesso e quella del godimento, l’egoismo confessatamente irrequieto, mobile della ragione rischiaratrice sopra l’egoismo locale, prudente, probo, pigro e fantastico della superstizione, e parimenti il denaro sopra l’altra forma di proprietà
privata”. [Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi
Torino 1980, pag, 94]
Per non parlare del fondamentale “Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale” di EP Thompson che ha dimostrato come la temporalità industriale abbia esercitato la sua egemonia sulla società.
Ma dobbiamo chiederci: ancora l’industria esercita quella egemonia? Una risposta negativa non equivale ad affermare che “non esistono più gli operai”, né che non contano nulla, perché come ho scritto sopra abbastanza rozzamente, si tratta di capire come costruire nessi tra diversi tempi e vite. A questo scopo, interpretata in maniera complessa e articolata e non come banale pietra filosofale della composizione di classe, la categoria del lavoro cognitivo torna utile.
Sul concetto di Gemeinwesen, neuroplasticità e neuroni a specchio, sarebbe interessante approfondire come queste nuove dimostrazioni scientifiche entrino nella prassi e nell’analisi degli ambienti marxisti.
Un esempio è la contraddizione della sola rivendicazione del “semplice maggior potere d’acquisto” degli operai nelle fabbriche degli anni Settanta ed in molte lotte operaie contemporanee.
Dinamiche che hanno lasciato terreno fertile per opportunismi di partiti di massa cripto-fascisti o anche solo fascisti.
La rete delle emozioni che pervade il cervello attraverso i collegamenti sinaptici ed i neurotrasmettitori (si può approfondire anche sul fattore BDNF ) permette addirittura di provare “empatia”, tramite esperienze comunque avvenute nel passato, per un evento ancora da verificarsi.
Pertanto nel momento in cui il benessere a breve termine derivante da un potenziale maggior potere d’acquisto conquistato con la lotta è maggiore del benessere a lungo termine derivante dalla lotta di classe, individualmente si possono verificare episodi di negazione completa di dinamiche rivoluzionarie e collettivamente alla creazione addirittura di sacche di movimenti, passatemi il termine “pseudoriformisti”.
Inoltre è interessante verificare come queste nuove scoperte scientifiche possano in qualche modo riaprire un dibattito ormai vecchio più di un secolo, come quello tra Stirner e Marx.
Marx liquidò egregiamente il fantasma sovrastrutturale dell’individuo egoista stirneriano, menzionando però al termine della critica come effettivamente anche la spinta individualistica fosse necessaria per la lotta collettiva al capitale.
Complimenti per l’articolo…
Ragazzi secondo me anche iniziative come queste:
https://www.facebook.com/event.php?eid=214787688565963¬if_t=event_invite
sono frutto dello “sfruttamento della rete”. Rete fintamente decentrata, che nasconde grossi punti di concentrazione del potere che sfociano in manifestazioni pseudo-militanti come quella che ho linkato.
Non solo il plusvalore è diventato “Cloud” (non sai di essere sfruttato e da chi) ma anche la “lotta” (lotto, non so perchè nè contro chi di preciso).
Michael Chion lo definiva *l’acusma*, il “fantasma sensoriale” di cui sentiamo la voce senza individuarne la sorgente di provenienza. Possiamo parlare oggi di lotta acusmatica?
@ Nexus
non ce l’hai un link per chi diserta Facebook? Io, ad esempio, non vedo nulla.
@WM1
un’ultimissima cosa prima che la discussione approdi inesorabilmente verso l’off topic
La questione della presunta autonomia della cooperazione sociale naturalmente è delicata e magari sono stato colpevolmente un po’ tranchat (ma è un po’ la logica del blog). Dalla totale internità della cooperazione al modo produzione capitalistico – che mi pare incontrovertibile – non ne segue la sua assoluta eterodirezione (giocando coi lacanismi si potrebbe dire che è “non-tutta” dentro al rapporto capitalistico). Semplificando un po’ io credo che politicamente vada posta una questione: come mettere in crisi il circolo della valorizzazione capitalistica che sottomette la produzione di beni, la scienza, le relazioni etc. alla pulsione all’accumulo di ricchezza astratta? Dov’è il luogo, il punto dove questo meccanismo può essere messo in crisi? Io non credo che si debba partire né dai valori (in questo sono totalmente operaista) né da istanze culturali, né da una sostanza da realizzare etc. Ma tutto sommato non credo nemmeno che si debba partire da un’idea di relazioni sociali “diverse”, da un’altro ethos e da un’altra idea di comunità come dici tu alla fine del tuo post. Mi pare che si dice già troppo in questo modo. Il conflitto di classe (ma si potrebbe anche chiamarla il dis-equilibrio strutturale dei rapporti di una società capitalistica) si articola attorno a un punto sintomatico: che è quello dato dal fatto che ogni processo di estrazione del valore debba passare tramite l’organizzazione del lavoro (e certo anche comando finanziario, politiche monetarie etc.). Il capitale vuole solo produrre denaro da denaro (accumulare “più denaro”), ma per farlo deve passare attraverso le merci. Deve far sì che il valore – che è un fantasma – passi attraverso vari corpi (merce, denaro, mezzi di produzione etc.)… e tra questi non può fare a meno di usare la forza-lavoro. E’ il suo limite, ma la nostra ricchezza. Da lì si dà la possibilità di conflitto. Lo chiamo punto sintomatico non a caso… perché la psicoanalisi si basa precisamente sull’idea che il sintomo lo si può far parlare oppure ignorarlo. Il conflitto di classe lo si può o ignorare o farlo parlare (con il conflitto di classe), ma nella totalità capitalistica (come nella forma soggettiva) questo sintomo c’è e bisogna passare da lì per attuare un cambiamento, perché è l’unico punto dove si può fare al capitale. Da quel sintomo. E ovviamente questo punto non è *in* fabbrica o *nel* consumo o da qualche parte in particolare. E’ un nulla che è nello stesso tempo ovunque. Siamo noi politicamente a dover costruire il suo modo d’esistenza. Il conflitto di classe può usare tatticamente diverse gruppi sociali o frame culturali ma è in definitiva vuoto per quanto riguarda il contenuto. E’ solo il punto di crisi del modo di produzione capitalistico.
E’ per quello che anche se le cose che dici sulla Gemeinwesen e la neuroplasticità sono molto interessanti (en passant sarebbe interessante approfondire quello che dicevi su psicoanalisi e scienze cognitive su cui sono *totalmente* d’accordo con te) hanno già troppa determinazione qualitativa secondo me. L’idea del sostrato antropologico (anche se non lo chiami “invariante biologico” come fa Virno mi sembra un po’ che vai in quella direzione) o l’insieme di potenzialità di quella “tendenza alla comunità” che nella plasticità biologica/socialità identificherebbe l’uomo in quanto tale… a me suona ancora un po’ troppo debitore di un umanesimo che invece mi pare il caso di lasciarsi alle spalle. Questo non vuole dire non fare i conti con quell’importantissima rivoluzione che sono state le scienze cognitive. Pero’ penso che pensiero radicale oggi possa essere naturalista e materialista anche senza essere… umano.
Spero di non avere troppo frainteso il tuo pensiero
E in ogni caso grazie della bella discussione
@ WM1
Il problema è che questi “nerdoluzionari” usano FB come unico mezzo di diffusione della loro iniziativa. Un pò come usare la carta patinata per i flyer di una campagna contro il disboscamento.
Ergo: sono costretto ad incollarti l’intero proclama.
NB: questo è un copia incolla, non è scritto da me!
***
source: https://www.facebook.com/event.php?eid=214787688565963¬if_t=event_invite
“ Liberiamo il Parlamento Italiano!!”
Piazza del POPOLO a partire dall mezzanotte del 14 sotto lo striscione di
ASSEMBLEA NAZIONALE, per mettere la parola FINE alla stagione dei partiti.
NON PUO’ ESSERE CONSIDERATO “PUBBLICO” un debito contratto per “INTERESSI PRIVATI” dai partiti al Governo e dalle Caste che li sorreggono.
per contatti: COORDINAMENTO NAZIONALE 15 Ottobre
http://www.facebook.com/event.php?eid=171138979632587
Questo evento è amministrato da, G.A.R, ASSEMBLEA NAZIONALE (C.A.C.I.), COORDINAMENTO NAZIONALE 15 Ottobre, intergruppi.
I G.A.R. assumono e promuovono le forme giuiridiche dell’ASSEMBLEA NAZIONALE nata su progetto del Comitato per la Costruzione di un’Assemblea Costituente in Italia (C.A.C.I.)
SCENDEREMO IN PIAZZA A MILIONI sarà sotto gli striscioni di ASSEMBLEA NAZIONALE (di tutti i cittadini Italiani) e dei G.A.R.
L’Europa ha delegittimato il governo italiano. Ora spetta a noi! E’ il momento di rompere il muro dello scetticismo e della rassegnazione. E’ il momento di uscire dalla logica delle pure manifestazioni di denuncia, di indignazione, di propaganda e di rabbia. Basta con gli Scioperii Generali e con le manifestazioni-comizio.
I TEMPI sono maturi per la
MOBILITAZIONE GENERALE
di tutti i cittadini italiani e la fondazione
di un’ASSEMBLEA NAZIONALE
creata, costruita, diretta da tutti i cittadini italiani.
15 OTTOBRE:
UNA GRANDE MARCIA NAZIONALE DI LAVORATORI, GIOVANI, DONNE, SU PALAZZO CHIGI, CON L’ASSEDIO PROLUNGATO E DI MASSA DEI PALAZZI DEL POTERE, SINO ALLA CADUTA DEL GOVERNO.METTIAMO LA PAROLA “FINE” alla stagione della Casta e dei Partiti.
OBIETTIVI e AZIONI:
1°)Costituzione dell’ASSEMBLEA NAZIONALE di tutti i cittadini Italiani;
2°) DELEGITTIMAZIONE del GOVERNO;
3°) ASSEMBLEA COSTITUENTE
4°) RESTAURAZIONE della SOVRANITA’ POPOLARE;
5°) CONGELAMENTO di tutte le Amministrazioni REE, in assenza di trasparenza, di avere aumentato il debito pubblico.
6°) INCRIMINAZIONE di persone e società REE di avere concorso all’aumento del debito pubblico attraverso: mancanza di pubblicità e trasparenza degli effetti finanziari ed economici che cio’ avrebbe comportato. REE di assenza di trasparenza; REE di falso ideologico, arriccchimento improprio, appropriazione indebita, collusione, concussione, corruzione, etc, etc,.
7°) RIPUDIO DEL DEBITO PUBBLICO E RIAPPROPRIAZIONE DELLA SOVRANITA’ MONETARIA, con conseguente accertamento ed eventuale incriminazione di chi ha contribuito a generarlo e aumentarlo, lobbies finanziare, industriali etc. etc.
7°) DIMEZZAMENTO dei parlamentari,
8°) ABOLIZIONE INCONDIZIONATA e TOTALE di tutti i privilegi, auto blu, voli blu etc etc…della classe politica.
8°) NUOVA LEGGE ELETTORALE, che permetta di scegliere candidati direttamentea attraverso il sistema delle ASSEMBLEE; dalla Zona alla Regione.
9°) REGOLAMENTAZIONE DELL’ASSUNZIONE DEI CONSULENTI ( perché ti sei fatto eleggere se poi devi assumere un consulente?);
10°) SVILUPPO: RILANCIO DELL’ECONOMIA a 360° gradi, previo CENSIMENTO e MONITORAGGIO delle realtà economiche e sociali del Paese centimetro per centimetro quadrato.
10°) NUOVE LEGGI SULL’EVASIONE FISCALE, IL FALSO IN BILANCIO e FALSO IDEOLOGICO con conseguente inasprimento delle pene
11°) LOTTA ALL’INQUINAMENTO AMBIENTALE, con l’introduzione di severe normative per la tutela del pianeta e della nostra salute
G.A.R PROGRAMMA “SCENDEREMO IN PIAZZA A MILIONI” 15 OTTOBRE 2011
Ore 10:00 ritrovo in piazza del popolo sotto lo striscione ASSEMBLEA NAZIONALE
comunicazione formazione del comitato C.A.C.I. interverranno i fondatori del comitato per delinearne gli scopi e il progetto – ILLUSTRAZIONE DEI PROGETTI POLITICI DEL POPOLO vedi descrizione evento “SCENDEREMO IN PIAZZA A MILIONI”
Ore 11:00 assemblea cittadina per discutere quanto detto nella presentazione iniziale
Ore 12:00 intervento di Giulietto Chiesa (da confermare) esperto del signoraggio bancario e della sovranità monetaria
Ore 13:00 corteo verso Montecitorio
Ore 14:00 pranzo al sacco a Montecitorio
Ore 16:00 corteo continua verso Palazzo Madama
Ore 18:00 corteo continua verso il Palazzo del Quirinale
Ore 19:00 Cena a sacco sotto Palazzo del Quirinale
Ore 20:00 Fiaccolata di ritorno verso Piazza del Popolo in memoria dei padri costituenti
Arrivo in Piazza del popolo musica di strada e accampamento
Coordinamenti:
Torino: https://www.facebook.com/event.php?eid=277182545640832
Milano: https://www.facebook.com/event.php?eid=103416986431495
Brescia: https://www.facebook.com/event.php?eid=217657918286761
Cosenza: https://www.facebook.com/event.php?eid=270979092926449
Fine.
[…] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241 […]
Nexus… Minchia… Ossignùr… Sembra la versione dell’inaugurazione dell’Apple Store adattata per il teatro da Guglielmo Giannini… Quel “REI” maiuscolo e percussivo, il signoraggio, Giulietto Chiesa, la caricatura “descamisada” del potere costituente… Nel ventre enfio del Paese si agitano forze oscure. Son cazzi da cagare, se il frame rimane questo.
messaggio in codice per wm1:
caro kogoj, semo kagaj
Giulietto Chiesa (da confermare) esperto del signoraggio bancario e della sovranità monetaria?
Giulietto Chiesa esperto (da confermare) del signoraggio bancario e della sovranità monetaria
Giulietto Chiesa esperto del signoraggio bancario e della sovranità monetaria (da confermare)
… … … … …
@WM1
Il brutto è che quando provi a criticare le loro posizioni, passi per il reazionario di turno. Eppure basta partire da una semplice analisi linguistica di questi proclami, per capire che la loro narrazione è intossicata dall’ideologia della “non-ideologia”, dal sistema stesso che ha bisogno di creare un nemico acusmatico (uno straw-man enemy) , distante ma accessibile, feticizzabile. Così il capitale capitalizza la rabbia della gente che continuerà a curare i sintomi e non la causa.
E’ come quando Pasolini si metteva contro quelli di sinistra perchè era contrario all’aborto. Il problema, diceva, non è l’aborto in sè, ma il coito che lo precede. L’aborto, come la libertà sessuale, rischiavano di borghesizzarsi se privati di uno sguardo a lungo raggio. Rischiavano, e così è stato.
Questa è davvero una “cloud struggle” dove alcuni detentori di potere offrono il loro spazio per la fluttuazione apparentemente libera di idee, rancori, valori, interpretazioni. Spazio privato, mezzo di comunicazione (come mezzo di produzione). E come insegna McLuhan:”il mezzo è il messaggio”.
A me sembra una sorta di spot contro la Legge Basaglia.
Pranzo al sacco nei GAR, poi marcia verso la Chiesa, di Giulietto (da confermare), poi cena la sacco nei CACI -a proposito, sono proprio caci, assai amari-, poi assedio ai signori, e anche alle signore, del signoraggio, anche se signora chi sono, signora mia. Poi notte al sacco nel sacco.
Infine, tutti al TSO nel BSE !
Da ricoverare.
Da confermare.
L.
Non so se Aldo Grasso legge Giap, ma oggi parla del nuovo apple store http://www.corriere.it/cronache/11_settembre_30/grasso-apple-isteria_bb487e34-eb21-11e0-bc18-715180cde0f0.shtml
Mi si sta cagliando il latte alle ginocchia (da confermare)
Storify su “feticismo della merce digitale” http://bit.ly/o17ArM raccoglie reazioni positive e negative al post di Wu Ming 1 (ma non riassume, ovviamente, i 170 and counting commenti).
@thiswas Qualche giorno fa anche in Sicilia è stato aperto un apple store, sull’edizione on-line dell’edizione palermitana di repubblica si presenta – col solito pseudoservizio fotografico – come “il più a sud d’Europa” (http://bit.ly/peJudI). Si scive di mille persone in coda. Chissà, qui non c’è un mazzetta siciliano che possa dirci com’era la situazione veramente…
Oltre alla gran marketta pubblicitaria de la repubblica, assurda questa del dire e trovare sempre “il primo del”, “il più grande di”, “il più”, “il più”, “il più”…
@mr mills
ma poi questi servizi (sic) si spiegano davvero con la marchetta o il feticismo tecnologico ha pervaso anche la stampa?
Non sono un mazzetta ma sono un siciliano. Non so nulla dell’inaugurazione dell’apple store, ma non ho difficoltà a crederci, così come non ho difficoltà a immaginare le folle oceaniche dei primi mesi. Qui c’è un tasso di disoccupazione mostruoso, la gente comincia a mancare dei mezzi di sussistenza di base, la sanità è andata allo sfascio *MA*… non appena apre un centro commerciale (e ne apre uno ogni paio di settimane: riciclaggio di denaro sporco? a pensar male si fa peccato ma molto spesso ci si azzecca….) per mesi si susseguono file interminabili di autobus e automobili cariche di “pellegrini” venuti a racimolare qualsiasi parvenza di reliquia del capitalismo. Fino ad apertura del successivo “più grande centro commerciale del meridione” e così via. Perché non dovrebbe essere lo stesso per un apple store?
Assumo il mio nick di twitter, giusto per uniformità.
e poi…
“UNA GRANDE MARCIA NAZIONALE DI LAVORATORI, GIOVANI, DONNE”: che bel modo di categorizzare :-)
a me piace questa:
“SVILUPPO: RILANCIO DELL’ECONOMIA a 360° gradi, previo CENSIMENTO e MONITORAGGIO delle realtà economiche e sociali del Paese centimetro per centimetro quadrato.”
Della serie “Non ci siamo svegliati ieri”, ecco uno stralcio dalla Postilla alla raccolta Giap! Tre anni di narrazioni e movimenti (Einaudi, 2003). La Postilla è datata 20 gennaio 2003, ed è un’autocritica, una presa di distanza dalla nostra primissima dichiarazione d’intenti (gennaio 2000):
«”Impresa politica autonoma” era un concetto ancora piuttosto trendy, nel movimento ‘centrosocialista’ degli anni Novanta. Oggi nemmeno sotto tortura useremmo lo stesso slogan. Vanno benissimo i due aggettivi, “politica” e “autonoma”, rispetto ai quali non c’è molto da aggiungere. Ma l’impresa cognitiva, con l’attuale depressione economica, ha finito per mostrare i suoi limiti. I tempi della new economy sono un ricordo sbiadito, quando i lavoratori del cervello potevano trasformare la grande disponibilità di capitali inflattivi (comunque risultato di speculazioni e super-sfruttamento) in un’opportunità di redistribuzione del reddito, facendosi largo a colpi di neuroni per evitare che i soliti oligopoli si spartissero la torta. Lo spazio c’era, i soldi sembravano veri. Da qui l’opportunità di tanti assalti stile Q, dalle secche dell’underground a una piena visibilità, dal ‘dilettantismo’ al professionismo.
Al momento, l’aria è cambiata e la crisi affida i capitali nelle mani di pochi signori della guerra. I lavoratori del cervello vedono erodersi possibilità di reddito, garanzie illusorie, effimere conquiste. Altro che farsi ‘impresa’ – col rischio, peraltro sempre in agguato, di un terribile autosfruttamento, in cui si diventa ‘padroni di se stessi’, senza essere meno stronzi di qualsiasi altro padrone. La sfida è semmai la “lotta di classe”, che al momento si presenta in una forma piu’ “classica” e vintage: lavoro vivo versus capitale […]»
Ma il distacco da una certa retorica e da un certo milieu teorico era iniziato ancor prima, come dimostra questa mia dichiarazione dell’anno precedente, inclusa nell’introduzione di Amador Fernandez-Savater alla raccolta di nostri scritti Esta revolución no tiene rostro (Acuarela, Madrid 2002):
«”En lo que se refiere a Imperio, estoy convencido de que, en este momento, se trata de una categoría poco útil, y al leer los materiales escritos inmediatamente después del 11 de septiembre los encuentro demasiado “ideológicos”, como si la realidad debiese adecuarse a la fuerza a categorías preexistentes y de moda. El análisis de Negri y Hardt tenía fecha, se refería a una fase anterior del orden mundial, al neoliberalismo, a la new economy, al “clintonismo” y a un multilateralismo que, en estos momentos está en crisis. Ahora estamos en la fase del “nacional-liberalismo”, de la austeridad y del “keynesianismo militar”. Una fase diferente que necesita de otras categorías y de otra épica. No necesariamente todo lo que han escrito Negri y Hardt debe ser dejado a un lado, pero hay mucho que investigar. Tratamos de evitar lecturas desalentadoras, que producen sobre todo una sensación de impotencia y que no revelan nada sobre la complejidad y la fuerza-invención del movimientos de los cuales nosotros hemos escuchado el llanto de un recién nacido. También las formas de la guerra (“preventiva”, “global permanente” o como quiera llamársela) cambiarán a causa del conflicto. Evitemos, si es posible, producir una nueva jerga teórica llena de palabras-contraseña. No tenemos ninguna necesidad de un lenguaje reiterativo y alienante, hecho de “ritornelos”identitarios y de conceptos vacíos. Ésta es la mejor forma de, por decirlo en términos de Bifo,”abandonar las ilusiones y prepararse para la lucha”, que es también la lucha contra nuestras ilusiones de ayer” .»
Un contributo alla discussione
http://sebastianoisaia.wordpress.com/2011/07/29/miseria-del-comune/
http://sebastianoisaia.wordpress.com/2011/07/04/lenigma-del-capitale-di-marx/
[…] ispiratore: Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple CondividiloTwitterFacebookEmailLike this:LikeBe the first to like this […]
Mi aggiungo ai complimenti. Purtroppo le mistificazioni sono abbastanza diffuse, se ne trovano pure su radio tre prima pagina, proprio ieri (o l’altro ieri, non ricordo) Federico Fubini ( http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-db2da500-05f3-448b-a158-776a0dd270fa.html ) rispondendo ad un ascoltatore blaterava di imprese che non necessitano più di sfruttare ecc, una realtà di altri tempi, che ormai si punta sull’innovazione. Ovviamente immateriale.
[…] Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple […]
[…] Vi noltro questo interessante numero di Giap! […]
Serge Quadruppani sta traducendo questo post in francese. Per l’occasione, facendo tesoro di questa discussione, ho rafforzato alcuni passaggi e inserito alcune aggiunte “a prova di stupido” :-) Riporto qui i passaggi arricchiti, con le aggiunte in grassetto. Consiglio di inserirle anche a chi sta traducendo in altre lingue.
[N.B. : Pour éviter tout malentendu : je possède un Mac et je travaille bien avec. J’ai aussi un iPod, un Smartphone avec Android et Kindle. Ceux qui font mon travail doivent connaître les modalités d’utilisation de la culture et de la Toile. Come spiegherò meglio sotto, la mia critica non si incentra sull’accusa di « incoerenza » del singolo e sul comportamento individuale del consumatore, su cui negli ultimi anni si è costruita una retorica sviante, ma sulla necessità di connettere l’attivismo in rete alle lotte che avvengono « a monte », nella produzione materiale.]
[…]
Une telle représentation aussi est due aux usagers, mais celui qui remplit son compte en banque, c’est Zuckerberg.
Ovviamente, il genere di « lavoro » appena descritto non è comparabile, per fatica e sfruttamento, al lavoro materiale descritto nei primi paragrafi di questo testo. Inoltre, gli utenti di Facebook non costituiscono una « classe ». Il punto è che dobbiamo in ogni momento tenere in considerazione sia la fatica che sta alla base della produzione dell’hardware, sia la continua privatizzazione predatoria di intelligenza collettiva che avviene in rete. Come scrivevo sopra: « I due livelli coesistono ». La valorizzazione dipende da entrambe le attività, vanno visualizzate e analizzate insieme.
[…]
Si après ce discours, on me demandait : « Alors, la solution, c’est d’être en dehors des réseaux sociaux? » oppure: « La soluzione è usare soltanto il software libero? », o ancora: « La soluzione è non comprare certe macchine? », je répondrais que la question est mal posée. Certainement, construire à la base des réseaux sociaux différents, fonctionnant avec des logiciels libres et non basés sur le commerce des données sensibles et de relations, est une belle et bonne chose. Mais ça l’est aussi de maintenir une présence critique et informative dans lieux où vit e communique la majorité des personnes, peut-être en expérimentant des modes conflictuels d’utiliser les réseaux existants.
Dura da troppo tempo l’egemonia di un dispositivo che « individualizza » la rivolta e la lotta, ponendo l’accento prevalentemente su quel che può fare il consumatore (questo soggetto continuamente riprodotto da precise tecnologie sociali): boicottaggio, consumo critico, scelte personali più radicali etc. Le scelte personali sono importanti, ma 1) troppo spesso questo modo di ragionare innesca una gara a chi è più « coerente » e più « puro », e ci sarà sempre qualcuno che metterà in mostra scelte più radicali delle mie: il vegano attacca il vegetariano, il frugivoro crudista attacca il vegano etc. Ciascuno rivendica di essere più « fuori », più « esterno » alla valorizzazione, immagine del tutto illusoria; 2) Il consumatore è l’ultimo anello della catena distributiva, le sue scelte avvengono alla foce, non alla sorgente. E forse andrebbe consigliata più spesso la lettura di un testo « minore » di Marx, la Critica del programma di Gotha, dove si critica il « socialismo volgare » che parte dalla critica della distribuzione anziché da quella della produzione.
Je suis en train d’essayer d’expliquer depuis un certain temps que selon moi, les métaphores spatiales (comme le « dehors » et le « dedans ») son inadéquates […]
Allora le aggiungiamo anche alla traduzione in inglese, in corso in forma collaborativa (anche se gran parte del lavoro l’ha fatto SandorKrasna) su http://wiki.maurovanetti.info/index.php?title=Fetishism_of_Digital_Commodities_and_Hidden_Exploitation
Sul merito, le trovo delle ottime integrazioni che rafforzano il testo alla luce dei commenti più o meno intelligenti che ha suscitato. Mi piace pensare che anche sull’originale si stia facendo in un certo senso un’operazione di scrittura collaborativa. :-)
Scusate lo “spam” ma vorrei linkarvi questo post che ho iniziato a scrivere da una settimana grazie a voi :)
siccome prendo molto spunto da questa discussione, penso che forse a qualcuno possa interessare.
Ho trovato altri casi “inquietanti” come quello di Uomoinpolvere, in cui Facebook viene scambiato per servizio d’identità. Inoltre ho trovato un modo per bloccare il cookie di Facebook, Google e Twitter (sembra che tutti e quanti questi social network registrino e facciamo una mappa della nostra cronologia) senza però che questo modifichi drasticamente l’utilizzo di bottoni twitter e quant’altro.
Ovviamente linko questo post nelle fonti quindi è anche una sorta di Pingback. Detto ciò, eccolo:
Quando c’era Orwell i maiali ti spiavano di rado
:)
@ Logical Warfare
“Io credo che una delle questioni marxiane più cruciali è il problema della *localizzazione* dello sfruttamento (Badiou direbbe del suo modo d’apparire o della sua logica d’esistenza).”
Purtroppo non conosco Badiou, per cui faccio un po’ di fatica a dare un significato a questa frase. Del pari, non capisco cosa intendi quando dici che il capitalismo è una “logica”.
Dici inoltre che la creazione di valore non si gioca solo sulla produzione. Se intendi dire che, ad esempio, i processi di distribuzione (commercio, vendita ecc.) hanno un ruolo fondamentale nella creazione di valore, non possiamo che essere d’accordo… ben prima delle enclosures e della rivoluzione industriale, i mercanti genovesi e veneziani si arricchivano investendo capitali nel commercio con l’Oriente.
Però una cosa secondo me va ribadita in ogni caso: anche nella distribuzione il fondamento della valorizzazione del capitale è sempre e comunque *il lavoro*. Chi costruiva le navi se non falegnami, fabbri, tessitori di vele? Chi le conduceva facendole navigare su e giù per il Mediterraneo? Chi cavalcava cavalli e cammelli carico di merci? Sarò banale, ma al di là di tutte le puntualizzazioni “colte”, gira e rigira, al fondo del processo di valorizzazione si trova sempre qualcuno il cui lavoro resta parzialmente non remunerato (e quindi sfruttato).
Una nota di chiusura, a titolo personale: ho una laurea magistrale in filosofia, conseguita tre anni fa, e non ho mai smesso di leggere e studiare. Adesso vivo sulla pelle la condizione di lavoratore precario disoccupato, che campa solo grazie a risparmi messi da parte faticosamente in due ani e mezzo, risparmiando sul cibo e sui vestiti, e all’aiuto dei genitori (lavoratori prossimi alla pensione, non ricchi capitalisti). Per questa ragione – fermo restando il rispetto e la stima per chi ne sa più di me, e la curiosità per discussioni come questa – vivo con crescente insofferenza tutto questo “name dropping” filosofico e le infinite puntualizzazioni teoretiche sulle virgole del Capitale.
Mi sto radicalizzando politicamente – e sto cominciando a leggere Marx in modo più approfondito – a causa di precise condizioni materiali che sperimento in prima persona, condividendole con decine di coetanei nelle stesse condizioni. Per questo motivo mi permetto di dire che, a forza di discussioni colte, il rischio è quello di rinchiudersi in un’enclave di intellettuali iperesperti, perdendo il contatto con la realtà, e trascurando il bisogno di risposte di molte persone comuni che, per la prima volta da anni, sono di nuovo sensibili ai temi dell’anticapitalismo.
Scusate lo sfogo, ma penso che certe cose vadano comunque ricordate.
@ Don Cave
1)
Riguardo alla questione particolare che poni, quella della localizzazione dello sfruttamento (o se vuoi, più chiaramente, del luogo dove si produce il “valore”) mi rendo conto di aver fatto una semplificazione brutale e me ne scuso, ma quello che volevo dire è:
c’è stata una lunga tradizione nel marxismo che ha messo al centro l’organizzazione produttiva: o nel senso qualitativo dell’alienazione dell’operaio e della sua attività de-umanizzante (scuola di francoforte, marxismo critico); o nel senso della proprietà dei mezzi di produzione (modello sovietico). Un’altra tradizione al contrario, come quella social-democratica, ha piuttosto messo al centro il problema della redistribuzione del valore, ovvero il fatto che l’attività di redistribuzione da parte dello stato avrebbe permesso alla classe operaia un accesso a una maggiore qualità della vita. Quello che io tentavo di dire invece è: stabilire in modo preciso *un luogo* all’interno del ciclo dove avvenga la produzione del valore non è così scontato. O meglio ha bisogno di qualche precisazione. E sebbene sia evidente (e sono d’accordo con te su questo ma mi pareva di essere stato chiaro a riguardo) che la produzione del valore *non possa aggirare* il fatto di dipendere dalla messa al lavoro della forza-lavoro, tuttavia il processo non inizia e non finisce lì. Lì ha un suo momento critico, perchè il Capitale per passare dall’ *astratto* del denaro che ha anticipato all’inizio del ciclo (investimenti) all’ *astratto* del più-denaro della vendita sul mercato (profitti) deve necessariamente passare per il *concreto* della produzione e dell’attività lavorativa della forza-lavoro. E lì è possibile fare male al processo di valorizzazione. Tuttavia bisogna tenere conto del ruolo, ad esempio, del capitale bancario all’inizio del ciclo (dove vengono allocate le risorse per gli investimenti), oppure quello del mercato del lavoro dove viene comprata la forza-lavoro o quello della vendita nella sfera della circolazione alla fine del ciclo. Come sappiamo il capitale ha interesse soltanto a produrre valore-denaro, tuttavia per far questo c’è bisogno che il ciclo avvenga in ogni suo passaggio con successo. Già dall’inizio l’organizzazione della produzione viene fatta con l’idea che quella merce andrà venduta e diventerà profitto, ma se ciò non avviene alla *fine* del ciclo, quello che sarà accaduto in quella fabbrica non sarà stato sfruttamento e produzione di valore. Ma nulla. Il tempo dello sfruttamento non è il presente (lì ci può essere solo l’abruttimento umano dell’operaio al lavoro, che può essere grave e insopportabile ma non è la stessa cosa dello sfruttamento) ma il futuro anteriore (se quello è davvero lavoro che produce valore, lo si saprà solo al termine del ciclo, nel momento in cui una merce viene venduta contro denaro e il valore prende il corpo del denaro). E’ per quello che dico che la produzione di valore è una logica, perché deve mettere insieme: 1) il capitale bancario e del credito e le sue strategia; 2) il modo con cui viene pensata la produzione (esternalizzazioni, logistica etc.); 3) il modo con cui vengono vendute le merci etc. (e molti passaggi intermedi). E tutti questi passaggi, che oggi sono complessi e spalmati su 5 continenti e con modalità e tempi molto diversi devono essere tenuti tutti insieme. E noi dobbiamo tenerli insieme anche col concetto. Altrimenti se le vediamo solo in un passaggio rischiamo di falsarne la lettura, come avviene quando un gruppo di lavoratori lotta per non esternalizzare una produzione di cui andrebbe a beneficiare un altro segmento della forza lavoro. E’ solo tenendole insieme che una lotta da orizzontale (di diverse sezioni delle forza-lavoro in competizione tra di loro, come nella nauseante retorica del merito) diventa verticale (della forza-lavoro contro l’assurdità del processo di valorizzazione).
La centralità della produzione non vuole dire l’esaustività della produzione.
2)
Capisco perfettamente la tua insofferenza verso il “name dropping”. Non c’è niente di più insopportabile di quando un sapere si compiace narcisisticamente della proprio nicchia pseudo-(e oramai neanche più tanto)elitaria. Se il sapere viene utilizzato come rispecchiamento di un’asimmetria, e si compiace e gode di questa cosa, si merita di venire messo a tacere, in modo quanto più spietato e impietoso possibile. Se hai percepito questo nei miei post, mi merito tutta la tua strigliata.
Detto questo, qui però bisogna essere molto chiari. Se la cosa è gratuita è un conto (ovvero se è finalizzata al rinsaldamento e alla conferma della propria posizione elitaria), ma non possiamo nemmero fare finta che non ci siano dei saperi che abbiano inevitabilmente un proprio aspetto tecnico e una propria specificità. La filosofia – e da quello che mi dici lo sai anche tu – è uno di questi. Per riuscire a fare propri alcuni concetti, per entrare in dimestichezza con alcuni pensieri c’è bisogno di avere una preparazione tecnica: c’è bisogno di avere fatta propria una serie di problemi della storia della filosofia, un certo linguaggio, alcuni proprietà logiche etc. Io non credo che, allo stato attuale delle cose, la filosofia possa essere compresa da tutti, perché è evidente che in alcuni casi per avere dimestichezza con il tecnicismo di alcuni testi o con alcuni pensatori c’è bisogno di passarci tanto tempo che non tutti purtroppo hanno. Alcuni dei filosofi citati, come Lacan, Marx, Badiou o Sellars sono tra questi. E’ colpa dei filosofi dunque che devono essere più chiari e spiegarsi più chiaramente? No, secondo me no. La filosofia è la filosofia, e i filosofi che sanno fare quello bene devono fare quello nel modo migliore possibile… non nel modo più semplice possibile. Il problema è: come relazionarsi ai saperi in modo allargato? La democratizzazione assoluta (tutti possono parlare di tutto) non mi sembra una via percorribile: è la via dove regna l’opinione o dove l’unica libertà garantita è quella di sparare cazzate. C’è bisogno di avere dei luoghi e delle modalità di trasmissione, ed è una questione molto complessa per certi versi ancora poco affrontata. Normalmente questo problema viene tradotto col termine orribile di divulgazione perchè si riesce a pensarlo solo come pamphlet spiegato ai “dummies”… e ci sarebbe già da mettersi le mani nei capelli. Nella tradizione marxista quest’opera di mediazione e trasmissione dei saperi (e di loro traduzione in strategia politica e alfabetizzazione culturale allargata) era stata fatta dal partito. E’ chiaro che questa cosa sia andata in crisi ora e bisogna porsi un problema di che tipo di soggetto politico possa farsene carico. E questo non è certo un problema teorico. E’ per questo che mi trovi a disagio con l’anti-intellettualismo imperante e con la generale insofferenza sulla non comprensibilità dei saperi: è un problema complessivo che investe tutti. Sintomo peggiore di questa generale deriva anti-intellettulastica è l’assenza assoluta dei saperi scientifici (che solo i cretini equiparano alla tecno-scienza) da ogni discussione pubblica. I più difficili da maneggiare e proprio per questo quelli che necessiterebbero più di altri di una parzialità politico-soggettiva (invece del finto neutralismo della tecnica).
Si potrebbe obiettare “che c’entrano i tecnicismi su Giap?” ma è chiaro che a volte, quando si tenta di capire la realtà abbiamo bisogno dell’aiuto di alcuni saperi specifici… e quando succede facciamo esperienza del fatto che non c’è una modalità politica o un linguaggio per farli propri e usarli intelligentemente e in modo allargato. Se c’è una crisi economica abbiamo bisogno di sapere alcune cose di economia, ma a volte ci si limita pateticamente a chiedere a “chi ne sa” o a urlare alla finanza predona, capro espiatorio inutile e politicamente dannoso. In questo senso non si può che sbagliare, nel senso che non esistendo una forma propria (il tanto decantato “comune” che risiederebbe nella capacità linguistica è una scorciatoia inservibile) bisogna tentare di fare di un sapere privato (nel senso di nicchia) una cosa pubblica… e nello stesso provare a costruire il soggetto che possa fare di questo spazio di mediazione possibile una realtà.
Scusate la lungaggine…
Grazie. Pezzo bellissimo e da meditare. Una boccata d’ossigeno
Ed ecco, in tutto il suo splendore, la traduzione in francese:
Fétichisme de la marchandise digitale et exploitation cachée: les cas Amazon et Apple
http://www.article11.info/spip/Fetichisme-de-la-marchandise
Ho fatto una fatica mondiale a leggere tutti i commenti. Da utilizzatore critico di mac (ne ho uno anche io) mi limito a segnalare la piega inattesa degli eventi. I vostri post sono sempre al momento giusto. Oggi la prima pagina del sito Apple porta il necrologio di Steve Jobs. A me è venuto in mente il concetto di morte del Vecchio. Un Vecchio simbolico (che non lo era poi granché) del capitalismo contemporaneo. Colui che ha ideato i dispositivi a lungo criticati, trattato come un santo in vita: l’invenzione dei keynote, del feticismo della merce che si fa spettacolo e credo (guardare gli occhi dei suoi azionisti e degli intervenuti era guardare un uomo andare a messa nella chiesa del capitale). Beh, sono rimasto stupito.
@ Frost
dieci giorni fa hai scritto:
“però manca la condanna in latino sotto Jobs.”
Sì, e adesso hai capito il perché. Non si augura alcun male a un uomo che sta già morendo.
Got it…
Giusto, oggi gli mando un pensiero, poi se ne parlerà a lungo immagino.
Frost, la mia non era una precisazione “buonista”.
Ci suicideremo pregando nell’indulgenza di Santo Stefano dei Lavori.
Intitoleremo a lui il compito della redenzione ultraterrena del nostro fallimento, qui non emendabile.
Non siamo stati abbastanza affamati, nè abbastanza folli.
Troppo pochi i 3,95 l’ora nello scantinato fatiscente in attesa di crollo. Troppo pochi i 20 per dodici ore da schiavo tra i pomodori di Foggia.
Pensa differente.
Assembla iPhone in Vietnam.
Costruiamo reti.
Le montiamo sotto le vostre finestre.
Ci teniamo a voi.
Se cadeste in tentazione. Amen.
Una cosa verrebbe da dirla. Ai giovani. Se la parola ha un senso.
Siate folli. Siate affamati.
Mangiate i ricchi. Mangiate i sacerdoti.
L.
@WM1
certo lo so bene.
ma mentre condivido la vostra analisi (e ringrazio ancora per la chiarezza con cui sapete dire quel che mi frulla in testa confusamente…), la mia esperienza di vita mi lega alla vicenda del signor Jobs. Che pure ben conosco, e a cui attribuisco il peso delle responsabilità che porta.
Ma non porta solo quelle – è un po’ il discorso che sta facendo DeeMo su Twitter in questi attimi – quindi un pensiero glielo dedico, anche solo per quel che mi ha permesso di fare grazie alla sua inventiva. Mentre non mi nascondo dietro alla retorica e alla santificazione, e gli attribuisco anche tutte le sue responsabilità.
Forse è un banale conflitto “emotivo vs. razionale” ma penso che ci sia dentro molto di quel che vorrei dire sull’argomento di questo post. Adesso serve trovare il tempo e la lucidità per farlo.
@ Frost
il conflitto di cui parli è importantissimo, è l’anima e il nocciolo dell’intera faccenda, e io credo sia sano sentirsi come ti senti tu ora. La contraddizione muove tutto, come cantavano gli Stormy Six.
Cosa può succedere nella mente umana nel momento della scomparsa di un qualcuno very important person? Inizialmente,tutti a piangere poi, tutti a ricordare le marachelle dietro ad un successo personale. Le due posizioni appartengono a persone con pensieri/azioni diverse o è frutto di un meccanismo comune a entrambe le campane, in una sorta di movimento verso la razionalità? Ma? Solamente una piccola riflessione senza risposta.
@xcopyx
“Marachelle” è un concetto morale. Mi interessa poco sapere se anche tu, Steve Jobs, figliolo, hai peccato. La sua pagina Wikipedia in inglese registra che appena diventato CEO ha cancellato tutti i progetti filantropici di Apple; Bill Gates ha fatto il contrario, ma non scriverei sui muri W Bill Gates e abbasso Steve Jobs (ma devono tutti avere nomi secondo quel pattern gli amministratori delegati famosi?).
Qui si parla – credo – di concetti sociali. La gente che oggi piange Steve Jobs come se fosse morto loro fratello non credo che si riferisca all’uomo Steve Jobs, di cui si sa soltanto che abbia detto “Siate affamati. Siate folli” (prossimamente su queste T-shirt). La gente si riferisce al personaggio Steve Jobs e cioè ad un concetto sociale personificato. Capire qual era veramente quel ruolo nella società umana mi sembra utile a capire delle cose del mondo in cui viviamo. Non credo che per farlo serva “infamare il morto”, anche perché Apple è ancora lì senza di lui; tra l’altro, questo significa che per Jobs si prepara un nuovo ruolo sociale, ormai del tutto libero da qualsiasi riferimento alla sua persona fisica: il santo fondatore dell’Ordine della Mela. Ne vedremo delle brutte.
Sto leggendo degli articoli su Jobs veramente deliranti. “Santo subito! “, “siate affamati, siate folli”, il genio, l’innovatore, magari tutti i capitani d’industria fossero stati come lui e via dicendo. Sarò un troglodita in fatto di teconologia, mi piace stare sempre due-tre passi indietro alle innovazioni recenti, tipo che ho un cellulare da 20 euro che fa solo telefonate, ma rimango un po’ disgustato.
Le due frasi del suo “testamento spirituale” sono criptate nell’immagine che apre questo post. Il che è tutto dire.
Una t-shirt con gli ultimi due versi del post di luca io la indosserei.
Quello che leggo (frettolosamente) in questa mattinata è più un elogio al perpetuo sogno americano del self-made man che altro. Il mondo è una pozzanghera da cui dovete emergere.
Non si esce vivi dagli anni ’80.
@Mauro Vanetti
da ignorante e confuso, il nome che mi frulla in testa da quando ho saputo la notizia è quello di Henry Ford. Concetto sociale personificato. Intendi magari che le brutte che vedremo si chiameranno “Jobsismo”?
(ma anche no: è troppamente bruttissimo)
[…] dico nulla di nuovo rilevando come il “feticismo della merce digitale“, clamorosamente evidente soprattutto sul versante gadget, smartphone in testa, lavori in […]
@VecioBaeordo
Il fatto è che quello che ha inventato Ford è enormemente più importante di quello che ha inventato Jobs. Francamente non mi è molto chiara quale sarebbe la “filosofia rivoluzionaria” di Steve Jobs. Beni di lusso per le masse? Boh, non mi pare un fatto di portata così storica. Detto questo, anche quando sarò riuscito a capire quale sarebbe esattamente la figata che ha fatto Steve Jobs, vale comunque tutto il discorso sul feticismo della merce digitale; per dire, dove sia la genialità dei “tipi di Google” (come si chiamano?) mi è più chiaro, ma i feticisti di Google che conosco sono della stessa risma dei loro arcirivali feticisti di Apple.
Io quello che leggo stamattina è sincera ammirazione e rispetto per un genio e dispiacere per un uomo morto di cancro a 56 anni.
Avevo letto questo post nei giorni scorsi con molto interesse; queste cose esistono, è giusto renderle note e combatterle. Ma non mi è piaciuto molto il fatto di ripostare il link su Twitter il giorno della morte di Steve Jobs.
Prima di tutto perché non si può identificare un uomo con una multinazionale, anche se ne è il fondatore e ne è stato il CEO; in una realtà del genere le responsabilità non sono mai, non possono materialmente essere, di una persona sola.
E poi perché di fatto le idee di Steve Jobs hanno cambiato la vita in meglio a milioni di persone, e secondo me merita di essere ricordato, almeno oggi, innanzitutto per quanto il suo genio ha portato nel mondo.
Il che non significa ovviamente che io lo consideri un santo o un eroe, né che non condivida le critiche contro Apple. Però boh, non mi è proprio piaciuto l’accostamento.
Ma almeno se stessimo parlando di Stallman o Linus potrei capire, loro sì che hanno messo a disposizione delle persone delle innovazioni tecnologiche. Qui parliamo solo di uno che ha messo bene a profitto le sue idee, e la retorica sugli imprenditori di successo che parlano della loro filosofia di vita fa veramente vomitare.
@ Francesca
rispetto il tuo disagio, però credo vi sia un equivoco.
Il link postato su Twitter portava alla spiegazione del perché sotto la foto di Jobs non vi fosse la “condanna” in latino come sotto le foto di Bezos e Zuckerberg. E la spiegazione era, semplicemente: non si infierisce su un uomo che sta morendo di cancro. Perché mentre si impaginava questo post, era evidente che Steve Jobs aveva ormai pochi giorni di vita. Lo aveva scritto, benché tra le righe, nel suo commiato da Apple.
Come questa spiegazione possa essere scambiata per un attacco denigratorio, io non lo capisco. Ho specificato che non era “buonista”, perché il buonismo è la morte della critica, è lo smussamento degli spigoli, e io voglio essere libero di mantenere gli spigoli acuminati, e al tempo stesso non voglio infierire su un uomo che il cancro sta consumando. Non mi è chiaro perché le due cose dovrebbero escludersi: aut gli spigoli, aut l’elementare rispetto per un essere umano.
Quanto al fatto che “le idee di Jobs” abbiano “cambiato in meglio” la vita a milioni di persone, questa è un’affermazione troppo unilaterale. Facciamo attenzione non una, ma due, tre, quattro volte prima di dire cose come questa. In primis, perché nel dirle rafforziamo una narrazione tutta incentrata sul Grande Capitalista Geniale, come se dalle idee di un singolo fosse uscita la rivoluzione del personal computer, che invece è frutto di processi di intelligenza collettiva dispiegata fin da molto tempo prima che Jobs assemblasse il primo Macintosh, è frutto del lavoro mentale e materiale di vaste moltitudini che, innovazione dopo innovazione e nel quadro di precise condizioni economiche e sociali, hanno prodotto quel che sappiamo.
Dire questo non toglie nulla alla grande intelligenza e alle intuizioni di Jobs, ma le mette nella giusta prospettiva.
Inoltre, parlando più nello specifico del “miglioramento”: si tratta una verità parziale, che ha senso solo se non ci si scorda mai che oggi un’infimissima minoranza di persone si accaparra la stragrande maggioranza della ricchezza del pianeta – condannando alla miseria, alla fame e financo alla schiavitù sterminate masse di persone – e che Jobs era uno degli uomini più ricchi del mondo.
L’attuale maxi-polarizzazione della ricchezza, il processo epocale di concentrazione oligopolistica e anche monopolistica, lo spostamento massiccio di liquidi e risorse dal pubblico al privato (oggi Apple ha più soldi dell’intero governo federale USA), ha migliorato o peggiorato le condizioni di vita della gente?
E’ evidente che le ha peggiorate.
Apple, che è una corporation gigantesca, e Jobs, che ne era a capo ed era uno dei nababbi miliardari più straricchi del mondo, possono essere considerati estranei a questo processo? Apple è meno neoliberista di altre grandi corporation? Sfrutta di meno? Jobs era meno accaparratore di altri? Era più filantropo? Non risulta.
Cerchiamo di tenere sempre in mente il contesto e i processi collettivi, altrimenti ci nutriamo di panzane, di cattiva mitologia. Le invenzioni nel campo della microelettronica, dell’informatica e della telematica hanno prodotto gli strumenti che in moltissimi usiamo per comunicare, lavorare, vivere etc. Certamente la rete ha reso più comodo e veloce e meno stancante fare molte cose, e altre le ha trasformate in modo radicale. Ma se non facciamo vedere l’altra faccia, siamo sempre nel feticismo della tecnologia.
@Francesca3176
La “personificazione” di Apple con SJ è forse il cardine della pubblicità dell’azienda.
Viene ripetuta e amplificata in continuazione (tanto che oggi l’epigrafe ha preso il posto dell’home page, è un po’ più che gratitudine verso il fondatore questa).
Siccome contribuisce pure questa personificazione a creare l’immagine dell’azienda, e contribuisce (quindi) a “nascondere” la polvere sotto il tappeto, forse è giusto discuterne sotto a questo post.
Sul fatto che “perché di fatto le idee di Steve Jobs hanno cambiato la vita in meglio a milioni di persone” si potrebbero avere discussioni eterne. La domanda sintetica è: sicura? Sicura cioè che quello che ha cambiato la vita a milioni di persone (cioè il PC *senza* pomo disegnato sopra) sia qualificabile come “le sue idee”? Ci sono milioni di persone che usano prodotti della sua azienda, ma perché siano “le sue idee” a cambiare la vita in meglio questo cambiamento dovrebbe essere, diciamo così, “esclusivo” dei prodotti della sua azienda.
Invece mi pare che si viva tutti bene anche senza.
Insomma, è un po’ come dire che Scalfari ha cambiato la vita di centinaia di migliaia di persone in meglio fondando Repubblica. La boiata in tale affermazione è evidente, se sfrondi un po’ Steve Jobs dal “mito” non è che sia tanto lontana.
Forse avreste schivato l’accusa di buonismo se aveste scritto che Jobs è morto di cancro a causa della prolungata esposizione a prodotti Apple…ma…un momento…questa me la sono rubata dalla voce Steve Jobs di Nonciclopedia…fail
Oggi abbiamo la certezza che l’operazione ideologica di Apple è riuscita definitivamente. Apple è diventata Steve Jobs, se ne parla come se fosse stato lui stesso a produrre direttamente tutti i computer e Ipod che usiamo. E’ quasi una sorta di back-lash artigiano ma su basi completamente fideistiche, quasi religiose (i fiori fuori dagli Apple store?!). Su facebook prima c’era gente che lo paragonava a Marconi come colui che ha inventato delle cose che ci hanno cambiato la vita. Saltano tutti i passaggi intermedi, ad esempio quello che divide industria e scienza (e di come le prima ha soggiogato la seconda), ma poco importa. Nella settimana in cui consegnano i nobel alla fisica e alla medicina… quello che ci ha cambiato il mondo è Steve Jobs.
Ad ogni modo la vera portata rivoluzionaria di Apple è proprio questa: il nascondimento dei passaggi intermedi, sciolti nell’illusione dell’accessibilità semplice e alla portata di tutti. E’ già iscritto nella sua interfaccia user-friendly che nasconde sempre di più gli elementi teconologici e di sapere. Tutto è chiaro, a vista, limpido, facile. Tutti dicono “Apple è facile”, lo sanno usare pure i nonni. Il loro CEO ha l’aria affabile, si veste col maglioncino ed “è un vero appassionato, non è mica lì solo per fare soldi”. E vai con il lessico della rivoluzione, del cambiamento etc. Eppure non ci vuole molto a vedere l’aggressività delle strategie monopolistiche, gli Ipod che non si possono aprire e/o aggiustare (nemmeno per sostituire la batteria) in modo da costringerti a cambiarli ogni anno, ora l’operazione di Icloud, ennesimo attaccato alla cultura peer-to-peer…
Forse bisognerebbe sempre diffidare dai padroni col maglioncino. Pure Marchionne ce l’ha…
[…] Consapevoli, possibilmente, che esistono letture altre di una assunta e sussunta realtà. […]
@Wu_Ming 1
Sì, c’era un equivoco, perché il link mi portava sulla pagina iniziale e non sul post che dici tu, che non avevo ancora visto, quindi in effetti non avevo capito una minchia :-)
Vorrei però puntualizzare due cose. Credo che tutte le invenzioni dalla ruota in poi siano frutto dell’intelligenza collettiva e delle condizioni economiche e sociali del momento, ma ci vuole sempre qualcuno più geniale degli altri per sintetizzare la conoscenza e ricavarne qualcosa di utile, innovativo e abbordabile in termini di costo.
“Apple è meno neoliberista di altre grandi corporation? Sfrutta di meno? Jobs era meno accaparratore di altri? Era più filantropo?” No), e infatti non l’ho detto (anche se non condivido completamente il mettere tutte le corporation sullo stesso piano di efferatezza) anzi in una divisione manicheistica degli umani starebbe tra i cattivi. Però sarei ipocrita se facessi finta, io come molti altri, milioni di altri, che la mia vita sarebbe ugualmente comoda senza la tecnologia che Steve Jobs ha contribuito a sviluppare, quindi io mi unisco a quelli che ringraziano e sono dispiaciuti della sua morte.
[…] informatica e digitale hanno anche un rovescio della medaglia che non può essere dimenticato. Approfondito articolo di Wu Ming pubblicato su Giap …. Il tema delle ICT è importante e deve essere consapevolmente affrontato anche nello scenario delle […]
E io mi domando: ma questa retorica (del tipo che si incontra oggi ovunque a proposito della morte di Steve Jobs) non è efficace, in qualche misura, anche a livello più ampio? Nel senso che non solo agisce nella direzione di amplificare il ruolo del Grande Capitalista Geniale ma inoltre ratifica la rappresentazione del capo supremo cui tutto si deve e che tutto dispone?
[…] poco tempo fa usciva un prezioso contributo su Giap, ve lo consiglio: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241 apple, fantacoccodrilli, innominabili voragini culturali, Steve […]
Riporto – perché penso possa interessare e sono cose ancora, forse, non dette – passi di un post che ho appena pubblicato su Jobs, l’innovazione, il marketing e il motivo per cui viene idolatrato (post: RIP Steve Jobs (discorso controverso)):
“Dovete considerare che, una delle “innovazioni” che Apple ha portato sicuramente nel marketing è stata veicolare e creare l’idea di “leggerezza” dell’azienda, la chiusura – non solo del software, ma sopratutto strutturale – che l’azienda porta con sé le ha permesso di farlo.
Esempio: dal di fuori sembrava che l’unico che lavorava, che progettava ed inventava fosse Steve Jobs. L’azienda ha fatto evaporare tutto il resto, così il cliente rimaneva a stretto contatto con il marchio. Mi ricorda la scuola filosofica di Pitagora, dove ogni invenzione veniva attribuita al maestro, tant’è che oggi non possiamo sapere che il teorema che porta il suo nome sia stato scoperto da lui o da un suo allievo.
[…]
Perché la gente lo idolatra? credo che il discorso si ricolleghi per forza di cose a quello del Feticismo Digitale, su cui i Wu Ming […] e consiglio la lettura perché colpisce in pieno la questione.
[…] Anche perché, nonostante i tempi che corrono, Apple ha sempre sfruttato il “narcisistico torpore” dei suoi clienti, concetto illustrato da Marshall McLuchan nel 1964 (vedasi l’articolo: “Perché Apple incanta la gente?“)
Lo idolatrano perché in assenza di un oggetto di culto alcuni se lo devono trovare/creare/appropriare, e così lo proiettano in lui.
Il rischio, allora, è che ne facciano una religione (come sta succedendo). Anziché limitarsi ad una condoglianza sincera e ricordarlo come una persona, Jobs diventa icona e simbolo di filosofo dei tempi moderni, viene citato come un guru spirituale, “Stay hungry, Stay Foolish“. ”
;)
Comunque è incredibile quanto si sia diffusa la favola del genio che ci ha cambiato la vita. Oggi ho parlato con uno che mi voleva convincere che Jobbs ha inventato il PC :-!
Detto questo, nessuno mi ha risposto sul motivo per il quale Jobbs godeva di tanta buona stampa. Io non ricordo un altro caso di un industriale/imprenditore che riesca a far parlare (bene) di sé ogni 5 minuti come accadeva a lui. Eppure di potenti multinazionali ce ne sono. Gates, nonostante la fondazione e la beneficenza, non ha la stessa benevolenza dei media. Eppure gli aggeggini apple hanno un mucchio di difetti, non sarebbe difficile parlarne anche male. mah.
Non solo Jobs ha inventato il PC, ma la frase “Stay Hungry, Stay Foolish” viene attribuita a lui come il Padre Nostro a Gesù Cristo, quando è lo stesso Jobs, nel discorso a Stanford del 2005, che dice: quella frase stava scritta sull’ultimo numero di una rivista, “The Whole Earth Catalog”, un mito per la mia generazione, creata da Stewart Brand. Per fortuna che adesso ci penserà Steve Workers a ristabilire la verità: http://steveworkers.tumblr.com/
@Francesca3176
“ci vuole sempre qualcuno più geniale degli altri per sintetizzare la conoscenza e ricavarne qualcosa”.
O magari il genio non è altro che una declinazione della fortuna. La botta di culo di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. L’inverso di essere l’unica cosa umida in piedi in un piazzale quando cade il primo fulmine della tempesta. Uno lì ci sarebbe stato, forse l’equazione del mondo stabilisce solo questo: una probabilità quantistica. Magari l’individuo non conta, magari non esiste nemmeno, è una nostra percezione, un’interpretazione che inventiamo noi perché il nostro cervello per sua natura produce e divora mito…
ho messo questa citazione http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241&cpage=2#comment-8164 come aggiornamento status di FB e dopo pochi secondi è sparita. faccio una rimostranza pubblica sempre tramite status e dopo poco sparisce anche quella. passano minuti e minuti, aggiorno, faccio log-out e di nuovo log-in, mi metto a scrivere “prova prova” sugli status e non appare niente. sembro di fatto bloccato, sospeso, come se fossi sub-judice. ora da pochi minuti sembra essere tornato tutto apposto, forse sarò un po’ paranoico, ma sono coincidenze inquietanti
Per chi volesse chiarirsi le idee sulla rivoluzione informatica, penso che la “bibbia” sia e rimanga “Hackers” di Steven Levy. Ovviamente c’è anche Jobs.
@Aretim per curiosità ho fatto anch’io quanto dici. per ora il post non è sparito
[…] e discorsi che sto facendo nelle ultime settimane; per la precisione dall’uscita di questo post dei soliti WuMing sul loro blog Giap, che vi invito a […]
Proposta di esercizio di meditazione i-Zen:
(ri)leggersi tutti ad alta voce le pagine del Manifesto di Marx-Engels sul capitalismo (segnatamente sulla rivoluzione industriale) per studiare la costruzione dell’argomentazione. Non c’è affermazione elogiativa del capitalismo che non sia vera, in quelle pagine; ma, anche, non c’è elogio che non contenga l’argomento della critica. Il capitalismo ha aumentato la qualità e la quantità dello sfruttamento e allargato il divario tra il ricco e il povero, dunque ha reso senz’altro peggiore il mondo, ma ha anche creato (dichiara di aver creato) un mondo migliore, nel quale non si muore di pellagra, scorbuto, vaiolo, ecc.
La rivoluzione digitale (scambiata con Jobs così come la rivoluzione industriale viene scambiata con Ford o Taylor) ha creato (dichiara di…) un modo migliore, ma anche un mondo peggiore. Del resto il computer (l’ordinatore, credo si dicesse all’epoca) che ha aiutato a creare le bombe di Hiroshima e Nagasaki fu poi messo a gestire una rete di depositi di sangue per trasfusioni, e ha salvato centinaia di migliaia di vite con la sua capacità di calcolo che aveva contribuito ad uccidere centinaia di migliaia di vite.
L’errore logico sta nel pensare che le cose siano bianche o nere, buone o cattive in sé; l’errata, ma logica, conseguenza sta nell’attribuire conseguenti pagelle di santità.
Buongiorno,
scusate per la freddezza dei numeri, dato l’argomento estremamente toccante, cioè il suicidio.
Apprendo come nell’Azienda cinese che produce strumenti tecnologici si sono verificati 15 suicidi nei primi 5 mesi significa 3 al mese, ammettendo che non ci sia una stagionalità particolare, questo significa 36 all’anno.
Su 900.000 dipendenti significa esattamente 4 su 100.000.
In Italia, nel 2008, i suicidi sono stati 2.828 (http://it.wikipedia.org/wiki/Suicidio#Dati_statistici_sui_suicidi_in_Italia) su circa 60.000.000.
Cioè 4,71 su 100.000.
Praticamente in una sola azienda cinese si verifica una media di suicidi annuo quasi pari a quella che si verifica in tutta Italia.
@Wu Ming 4
Ehm, stiamo parlando di medie, non di cifre assolute.
Anche a casa mia e a casa tua si verifica una media di suicidi annuo quasi pari a quella che si verifica in tutta! :)
(in tutta Italia, intendevo)
@ ivan_iraci
Scusa, non mi intendo di statistiche e di medie. Sono molto ignorante in materia. Tuttavia non credo che se prendo come campione casa mia rileverò che vi si verificano in media 4,71 suicidi all’anno. Solo se prendo in considerazione il campione Italia e considero casa mia dentro quel campione. Ma appunto dipende da quanto allargo la visuale. Sbaglio?
@claudio @wm4 @ivan_iraci
il dato importante in quella statistica e’ che, all’ interno del campione formato dai dipendenti di quell’ azienda, i suicidi sono avvenuti tutti all’ interno dell’ azienda o comunque per motivi legati alle condizioni di lavoro in azienda. immagino che se prendiamo come campione, per dire, i 900.000 dipendenti della pubblica istruzione in italia, il tasso di suicidi sara’ in media con quello nazionale, ma i motivi dei suicidi saranno molteplici.
@Wu Ming 4
Se si verificassero in media 4,71 suicidi all’anno a casa mia (4 persone), dovrei prima adottare un bambino e poi optare per il suicidio di massa. Questa però sarebbe una cifra assoluta, non percentuale. Ma se consideriamo 4,71 suicidi l’annuo ogni 100.000 persone la cosa assume un aspetto statistico/probabilistico: ogni anno ci sarebbe una probabilità su 21500 circa che qualcuno a casa mia si suicidi. Quindi trascurabile.
Andando alla pratica e volendo analizzare il fenomeno per l’azienda cinese di cui prima, la cifra assoluta in effetti non ci dice molto (per quanto ogni singolo suicidio sia un fatto ORRIBILE): se non viene confrontata con la statistica nazionale della percentuale di suicidi annui di quell’azienda è poco carica di senso. Se è la stessa del tasso di suicidi annuo in tutta la Cina, il tenore di vita in azienda non è stato influente. Se è maggiore o minore in maniera significativa se ne possono cominciare a trarre delle indicazioni. Spero di avere chiarito un po’ le cose, nei miei limiti comunicativi.
Ma come m#####a scrivo?!? O_O
“se non viene confrontata con la statistica nazionale della percentuale di suicidi annui di quell’azienda è poco carica di senso”
Volevo dire:
“se non viene confrontata con la statistica nazionale, la percentuale di suicidi annui di quell’azienda è poco carica di senso”
@tuco
esattamente quello che stavo per dire. Oltretutto bisogna aggiungere alla terribile statistica i tentativi falliti e il fatto che da qualche tempo siano stati praticati dei deterrenti *fisici* come le reti.
Il raffronto, inoltre, andrebbe fatto non già con una nazione (la cui media comprende campioni non raffrontabili con gli operai foxconn) ma con altre fabbriche. Una situazione paragonabile, per numero di suicidi, è quella che riguardò France Telecom tra il 2008 e il 2009.
@ ivan_iraci
Ok, quindi dovremmo sapere il dato di suicidi annuo cinese… Ad ogni modo il dato più importante, al di là della cifra nuda e cruda, è quello che segnala tuco qui sopra: la connessione che c’è tra i suicidi nella detta azienda e le condizioni di lavoro.
[…] perchè ci appaiono “immateriali” pur potendo essere toccate e usate. Il lungo post su Giap! a proposito del feticismo della merce digitale è da meditare, specie nelle ore in cui la veglia […]
Qui http://china-files.com/it/link/7447/sui-suicidi-alla-foxconn-la-storia
trovate un po’ di riferimenti alla questione foxconn.
Un po’ datato ma interessante.
@Wu Ming 4
Eh, e il punto è proprio quello. Se non sappiamo qual’è l’incidenza dei suicidi sull’intero campione della popolazione, non si possono trarre correlazioni tra contesto e suicidio, men che meno conclusioni sulla causa.
Se il tasso fosse identico, potrei concludere – con la stessa “autorevolezza” – che i suicidi siano legati alle condizioni di vita generale e che quindi sia del tutto incidentale che siano avvenuti in fabbrica. Se fosse minore in modo significativo, potrei per assurdo (assurdo fino a un certo punto) concludere che l’Apple salva delle vite in Cina. E viceversa. Mi sono spiegato?
https://secure.wikimedia.org/wikipedia/en/wiki/List_of_countries_by_suicide_rate
Stando a questi dati, nel 2008 in Cina la casistica è stata di 13.85 suicidi su 100.000 abitanti. Il triplo rispetto ai dipendenti della Foxconn.
Dati maggiormente dettagliati qui:
http://www.chinadaily.com.cn/usa/2010-09/28/content_11359568.htm
@ ivan_iraci
Eh, no, scusa, ma mica hai a disposizione solo i numeri. Stiamo parlando di persone in carne e ossa che si fiondano giù da un tetto. Si possono conoscere le loro storie e provare a capire le cause dei suicidi. Affermare che se il tasso di suicidi in azienda conferma quello nazionale allora i suicidi non dipendono dalle condizioni di lavoro è una falsa conclusione. Ragionare sui numeri non significa ragionare sulle cause.
…altrimenti davvero puoi dire tutto e il contrario di tutto. Anche che siccome il tasso di suicidi aziendale di Apple in Cina è minore di quello nazionale allora Apple salva delle vite.
Chiudo col thread e mi scuso per la segmentazione dei miei messaggi (non ho ancora carburato e le idee arrivano a poco a poco): anche la statistica nazionale però è indicativa fino a un certo punto. Bisognerebbe conoscere anche le statistiche su campioni di popolazione equivalenti a quelli della Foxconn: lavoratori di aziende dello stesso settore, nella stessa fascia di età e di pari livello di studio. Solo dopo *FORSE* si potrebbe trarre qualche conclusione. Scusate ancora per forma e quantità dei messaggi.
Oggi alcuni studenti in lotta contro la Gelmini citano Steve Jobs. La Rete degli Studenti dichiara: “Scendiamo in piazza perché crediamo, con le parole di Steve Jobs, che chi e’ abbastanza pazzo da pensare di poter cambiare il mondo, è chi lo può cambiare”.
Questo mi pare confermi quanto è tossica questa faccenda. Pensate solo cosa succede se qualcuno prende sul serio la cosa e comincia a chiedersi chi potrebbe essere uno Steve Jobs italiano… (Montezemolo, Marchionne ecc. Tra l’altro lo stesso Berlusconi viene da quella mitologia imprenditoriale.)
@Wu Ming 4
E’ *esattamente* quello che volevo evidenziare: i numeri sono ingannevoli e vanno maneggiati con estrema cautela e cognizione di causa. Altrimenti si rischia di fare numerologia.
@ ivan_iraci
insisto: il raffronto andrebbe fatto con un altre fabbriche o, almeno, con la media degli operai occupati in Cina. Come dice anche l’articolo che linki, in Cina si è registrato un altissimo tasso di suicidi di donne nelle zone rurali per vent’anni. Non si può parlare di numeri a casaccio e comunque che la situazione sia grave lo sanno anche alla foxconn che, si fa per dire, ha cercato di correre ai ripari.
@thiswas
E’ proprio quello che ho scritto un paio di post più sopra.
Quello che dice Ivan è giusto.
La prima cosa che il mio prof di statistica in uni mi ha insegnato è che correlazione non è sinonimo di causalità. Quindi: se il dato della media di suicidi nazionali in Cina è il triplo della Foxconn, beh, è così, bisogna prenderne atto. Ciò non vuol dire che in Foxconn la gente stia meglio e sia più felice, ma semplicemente che si suicida di meno: le cause non vengono rivelate da quei numeri. Magari si suicidano meno semplicemente perché le reti lo impediscono…
La carne e la storia delle persone è la cosa più importante, però non bisogna stare attenti a cercare le cause dell’infelicità di quelle persone in statistiche che rivelano poco.
mi correggo: “però bisogna stare attenti a non cercare le cause dell’infelicità di quelle persone in statistiche che rivelano poco”.
avevo il “non” ballerino…
Il succo, per chi campa sulla comunicazione, è che quando si sa in giro non fa fico. Ed è per quello che si mettono le reti. Che poi non fa fico ancora di più e allora forse diventa un autogoal. Perchè si vedono. E se poi qualcuno je rimbalza è un casino. Dunque tra poco spariranno.
Almeno da oggi programmatori e lavoratori dell’hardware avranno il loro giorno di festa, in cui l’ostensione di Stefano da Cupertino “che ha cambiato le nostre vite” si svolgerà mediante processioni e ologrammi torreggianti su carri.
Tutti gli occhi già guardano al 2021. Il giorno del primo decennale dell’assunzione in cielo di Stefano sarà anche il ventennale della Guerra in Afghanistan.
Sarà una grande festa.
L.
Temo che sia proprio con quest’approccio “riduzionista” che si finisce per fare numerologia. A parte che il tasso annuo dei suicidi non tiene conto dei tentativi non riusciti (che alla Foxconn sono stati 16).
Ricapitoliamo:
I suicidi Foxconn hanno preoccupato il management e profondamente turbato l’opinione pubblica cinese (e, per un breve lasso di tempo, mondiale) per la cadenza, il contesto e la qualità (intesa come insieme delle caratteristiche e modalità di un evento).
In un solo stabilimento, quello di Shenzhen si sono contati dieci cadaveri nell’arco di cinque mesi (dal gennaio al maggio del 2010).
Ciò ha reso manifesta la condizione operaia in quel sito, perché è evidente che se in una fabbrica si contano due suicidi al mese, è altamente plausibile che vi sia una condizione di sofferenza psichica diffusa, sofferenza che solo in rari casi sfocia nell’uccidersi.
I suicidi sono un sintomo di qualcosa di più vasto, e come dice Lacan, “bisogna saperci fare col sintomo”. Se poniamo l’accento solo sulla media dei suicidi, compiamo un’operazione di ragioneria che allontana irrimediabilmente la possibilità di interrogare il sintomo.
E infatti questa è proprio l’argomentazione che ha usato Steve Jobs:
http://gizmodo.com/5552770/steve-jobs-will-fix-this-foxconn-suici-de-nonsense
Dopo i suicidi Foxconn, le proteste degli operai hanno portato a un aumento salariale, e il passaparola e la rabbia collettiva hanno avuto uno sbocco imprevedibile: i grandi scioperi alla Honda. Tutti i commentatori hanno collegato i due eventi.
http://www.telegraph.co.uk/finance/china-business/7818406/China-faces-wave-of-strikes-after-Foxconn-pay-rise.html
Ecco, gli operai della Honda hanno saputo interrogare correttamente il sintomo.
Dopo i suicidi Foxconn, un giovane reporter del Southern Weekly, Liu Zhi Yi, si è fatto assumere in camuffa dalla fabbrica, e in seguito ha scritto un reportage definendo “infernali” le condizioni di lavoro all’interno.
http://www.engadget.com/2010/05/19/the-fate-of-a-generation-of-workers-foxconn-undercover-fully-tr/
Ecco, Liu Zhi Yi ha saputo interrogare correttamente il sintomo.
Nel frattempo, sono usciti video di operai pestati dai guardioni della fabbrica:
http://shanghaiist.com/2010/05/20/foxconn-security-guards-beating.php
Chi ha fatto trapelare queste testimonianze, ha interrogato correttamente il sintomo.
Un’organizzazione non-profit di Hong Kong ha condotto un’inchiesta sulla Foxconn e ha prodotto un rapporto intitolato “Gli operai come macchine: il management militare alla Foxconn”, eccolo:
http://sacom.hk/archives/740
Chi ha prodotto questo rapporto ha saputo interrogare il sintomo.
La Foxconn ha aggiunto ai contratti degli operai una clausola in cui il lavoratore… si impegna a non suicidarsi. Poi ha montato le reti. Ha anche assunto *cento monaci buddhisti* per il conforto psicologico della maestranze.
A suo modo, il management ha cercato di interrogare il sintomo, molto più di quanto abbia fatto il committente, cioè Steve Jobs.
In ogni caso, a nessuno questa deve sembrare una cosa normale, una situazione di “ordinaria amministrazione”, perché in fondo il tasso annuo di suicidi etc. etc.
Dei suicidi, come dicevo sopra, non conta solo la quantità. La quantità va sempre rapportata alla qualità, al contesto, alle modalità. E in Cina hanno saputo farlo, tanto gli operai quanto diversi giornalisti e i ricercatori.
Mangiate i padroni. Diffondete la ricetta.
L.
@Wu Ming 1
Non avevo alcun intento “riduzionista” e ben lungi da me anche il solo sospetto di tale tentazione.
Le mie precisazioni sono nate da un semplicistico e fuoriviante (ma in buona fede) post di Wu Ming 4 in cui concludeva: “Praticamente in una sola azienda cinese si verifica una media di suicidi annuo quasi pari a quella che si verifica in tutta Italia.”
Facendo una banalissima esegesi di questo post, si voleva evidenziare “l’esorbitante casistica di suicidi”. Posto che è sbagliato sia il metodo (che non ho adottato io per primo) che la conclusione, io volevo solo giungere alla conclusione che la quantità non è un metro da adottare, perché ingannevole, ambiguo, contraddittorio e mai conclusivo. Invece l’accento va posto appunto sulla *qualità*, sulle *singole storie*, sulle *ragioni* e sulle *dinamiche*. Dal mio punto di vista, che la shoa abbia riguardato milioni, piuttosto che migliaia, centinaia o decine di persone cambia ben poco, nel merito. Lo stesso vale per la questione della Foxconn. Spero adesso di avere chiarito la mia posizione. E grazie della ricapitolazione che “riciclerò” impunemente con qualche decina di persone visto che questo post ha troppi commenti ormai per indicarne la lettura a chi parte già da posizioni pregiudiziali.
scusate se mi ripeto: ammmettiamo pure che il tasso di suicidi tra i dipendenti foxconn sia esattamente uguale alla media nazionale cinese. il punto e’ che il dipendente foxconn si suicida per motivi strettamente legati al lavoro in fabbrica, e lo fa *proprio in fabbrica*, perche’ vuole gridare al mondo qualcosa a proposito di *quella fabbrica*.
(le persone, in condizioni “normali”, si suicidano per mille motivi: per amore, per rimorso, per l’incapacita’ a relazionarsi con gli altri, e *anche* per motivi legati al lavoro. alla foxconn pare che i suicidi siano legati *esclusivamente* alle condizioni di lavoro).
[…] la retecrazia! Ma per l’amore del cielo, non raccontiamoci idiozie. Come spiegato da Wuming1, in questo post di qualche giorno fa Per colpa del net-feticismo, ogni giorno si pone l’accento solo sulle […]
piccolo o.t. (riguardo alla shoah, non direi proprio che la *quantita’* dei morti sia irrilevante nello stabilire la *qualita’* dello sterminio. infatti l’ aspetto piu’ mostruoso della shoah sta nell’ organizzazione industriale dello sterminio, con modalita’ fordiste, fino al riutilizzo dei corpi come materia prima. queste cose bisognerebbe tenerle sempre in mente, ad esempio quando qualche fascista propone paragoni osceni tra la risiera e le foibe.)
Ivan, riciclare impunemente la “mia” ricapitolazione sulla Foxconn è prassi altamente consigliata! :-)
@tuco
Mettiamo si fosse riusciti a fermare i nazisti molto prima di arrivare al punto in cui sono arrivati, cosa sarebbe cambiato nel merito? Sarebbero stati meno colpevoli? Le cose – giustissime – che hai scritto sono secondo me da non considerare in proporzione agli effetti ottenuti, ma agli effetti che si *volevano* e che si era *messo in atto* per raggiungere. IMHO, eh.
@ivan
cosa sarebbe cambiato nel merito? diobono, si sarebbero salvate 6 milioni di persone, e la cultura ebraica non sarebbe stata estirpata per sempre dall’ europa.
@tuco
E sempre o.t. sul “confronto” tra shoa, risiere e foibe, è a mio avviso sbagliatissimo porre la differenza in termini numerici o di “sistematizzazione” dell’eliminazione del “nemico”. Anche in questo caso la differenza, IMHO, va evidenziata a chiare lettere tutta nella *dinamica*. Cosa ha preceduto la shoa? Cosa ha preceduto le foibe? Non so se sono stato in grado di rendere il mio pensiero.
Salve, con ritardo faccio i miei complimenti per il post. Ho letto e riletto anche i commenti, tutto davvero molto bello; ci ho messo un po’ a rispondere perché avrei voluto contribuire, ma la mia preparazione non é umanista e tendo semmai…a mettere infila numeri, calcoli, e diagrammi di flusso! :)
…il che magari con Marx inizia a essere utile se si vuole spiegare in termini ancora più corretti la realtà.
Ad ogni modo, ho provato a fare un esperimento, diciamo così. Sul mio account facebook avevo pubblicato questo post la scorsa settimana, alcuni lo hanno letto, nessuno lo ha commentato (se non in privato). Ier mattina c’é stata una cascata di immagini personali cambiate con la faccia di S.J., posto, commenti, idolatrie, e non ce l’ho fatta, ho aggiornato il mio stato commentando stizzito contro chi pensa di essere alternativo.
Si é aperto un buco nero di discussioni e pure di offese. Il mio peccato originale é che anche io ho un mac, quindi giù botte da orbi, come prevedeva WM1. Che critichi a fare se ne fai parte? Un tizio mi ha invitato a fare come lui, a lasciare ogni orpello e vivere nei boschi a contatto con la natura.. (ma lo scriveva da un iPad..boh..). Ci mancava un invito alla lettura di Massimo Fini e s’era apposto!
Che cosa ne ho dedotto? Che é molto difficile riuscire a spiegare certe cose con chi o non sa nulla di Marx, o davvero non ne vuole sapere (..quel barbuto cattivone terrorista..).
Quindi un passo molto utile sarebbe spiegare ancora più linearmente ciò che é ben spiegato nel post di WM1 , per arrivare ad ancor più coscienze.
Io c’ho provato qua:
http://viceversa-news.blogspot.com/2011/10/il-commento-piu-un-gappista-che-un.html
e non é certo finita. Quello su cui c’é da lavorare é il CHE FARE, secondo me. Cercare un collegamento reale coi lavoratori di Foxcoon, per esempio? O costruire un social network senza padroni né pubblicità? (se esiste, ditemelo…sono ignorante nel campo…)
Meglio riuscire ad occupare una fabbrica di computer e collettivizzare la produzione. Lo so, sono sogni, ma a volte temo che bisogni mettere sul piatto delle proposte ancor più pratiche, per saltare a pié pari le critiche idiote..
ps: vi giro questo articolo al riguardo, che peró mi sembra un po’ “magrino”…
http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/10/articolo/5493/
@Crayencour: ciò che proponi riguardo a LCA e EF é fantastico! Ho lavorato con LCA e Emergy Analysis, al tempo ho dovuto discutere molto con i vari prof. perché, a mio modo di vedere, male si riusciva a contare l’utilizzo del lavoro umano.. Forse con l’Emergy si puó fare, ma tocca normalizzare i valori rispetto ad una media che é difficile definire. Meglio, forse, usare l’exergia (conosci?) come base dell’analisi emergetica.
Sarebbe davvero bello poter discutere di questo, ritengo sia uno dei modi per dare basi più solide ad un marxismo che deve considerare l’uomo come natura, e quindi basarsi sul conflitto capitale – natura.
Estremizzando e semplificando, le teorie marxiane le ritengo ben interne alla termodinamica.
@tuco
E’ chiaro che non sono bravo a esprimere il punto. Sì, sarebbero state salvate 6 milioni di persone, che non è una cosa per nulla trascurabile per quei 6 milioni di persone e per il resto dell’umanità. Ma relativamente alle colpe del nazismo cosa sarebbe cambiato? Oh, poi mica pretendo di avere ragione. E’ solo la mia opinione, fallabilissima. :)
@ivan
mica ho detto che la differenza va evidenziata *solo* in quell’ aspetto. ho detto che va evidenziata *anche* in quell’ aspetto, perche’ i “grandi numeri” e la “modalita’ fordista” dello sterminio, nel caso della shoah, fanno tutt’uno con i presupposti ideologici dello sterminio.
Ciao,
l’intento del mio primo post era proprio quello di evitare della numerologia pura, in particolar modo parlando di una cosa tanto “delicata” (non mi viene un termine migliore) come il suicidio.
Forse le motivazioni che hanno spinto le persone che lo hanno messo in atto alla Foxconn erano proprio ed esclusivamente le condizioni di lavoro rivoltanti (dal mio punto di vista, che però si riconduce alla soggettività dell’etica e della morale, temo) alle quali questi lavoratori erano stottoposti.
Ma forse no, o forse non sono state l’unica causa: non credo che nessuno le abbia potute intervistare dopo per farselo dire..
Stabilire una correlazione così diretta ed unica tra il suicidio e le condizioni di lavoro, mi è venuto da pensare, magari non è un’operazione “intellettualmente onesta” (in base a quello che ho letto di wu ming, peraltro, mi viene molto spontaneo pensare che si sia trattato di un “mani involontario”).
Quindi non mi è rimasto che tentare di rivolgermi alla statistica, per cercare di capirne di più.
Se avessi scoperto che 4 suicidi ogni 100.000 persone sono il doppio o il triplo della percentuale cinese, e non meno della percentuale italiana, sarei stato certamente più indotto a pensare che la causa diretta, l’elemento scatenante, abbia senz’altro potuto essere il lavoro in quell’azienda.
Se però 4/100.000 casi sono meno dei 4,7/100.000 in Italia, mi viene da pensare che la spinta al suicidio della Foxxcon non sia così forte.
Forse il campione di 900.000 dipendenti di Foxxconn non è rappresentativo, o comunque confrontabile con la popolazione italiana (francamente questo è probabile).
Forse analizzando meglio i dati si potrebbe scoprire che in Italia 3,7 dei 4,7 suicidi ogni 100.000 abitanti sono di persone di oltre 80 anni, ed in “età lavorativa” si suicida “solo” una persona ogni 100.000 (non lo so..) e questo renderebbe veramente enorme il numero percentuale della Foxxcon.
Però credo che si possa arrivare a sostenere questa tesi solo dopo avere veramente analizzato in maniera profonda i dati.
@ Claudio
diciamo che, rispetto a chi tenta questi computi e raffronti “alla buona” da migliaia e migliaia di km. di distanza e in un contesto diverso, io ritengo più affidabile chi, in *quel* contesto socio-culturale ed economico, ha riscontrato che quei suicidi dicessero molto e, dopo aver fatto ricerca *sul campo*, ha prodotto reportage, inchieste e rapporti che collegano le morti alle condizioni di lavoro in fabbrica. Soprattutto, ritengo molto affidabile l’insorgenza operaia seguita ai suicidi, che evidentemente sono stati giudicati intollerabili e visti come una *rottura* con il tran tran, il manifestarsi di un Evento dirompente.
@ivan (poi la smetto, e mi scuso per l’ o.t.). io la questione intorno alle foibe la conosco molto bene, perche’ sono di trieste. per demistificare la costruzione ideologica intorno alle foibe, e’ necessario anche andare a vedere cosa sia realmente accaduto e in che modo. perche’ allora si scopre che ad esempio una delle foibe considerate “monumento nazionale” in realta’ contiene i resti dei soldati tedeschi morti durante la battaglia di opicina del 29/4-3/5 1945. e cosi’ via. secondo me questi aspetti non sono affatto irrilevanti, nella ricostruzione storica.
@Mauro Vanetti
su nostro scambio di opinioni ieri verso quest’ora: quello che intendevo, e che non sono stato capace di esprimere, l’ha detto WM su twitter mezzora fa: “Jobs sta ai prodotti Apple (che non ha inventato lui) come Ford sta al T Model, l’auto delle masse che fece una “rivoluzione”.
@tuco
Eh, sì, lo so. Mi sono documentato un bel po’ perché quello delle Foibe è uno dei cavalli di battaglia della destra (e purtroppo anche di un certo centro sinistra che predica l’appiattimento delle differenze) e quindi ho sempre preferito saper ribattere con le spalle un pizzico più coperte che dai semplici “sentito dire”. Quindi concordi anche tu quindi che la questione non è prevalentemente numerica, ma di sostanza. Di dinamiche e di fatti specifici.
@ivan
pero’ e’ *anche* questione di numeri, perche’ se un consigliere comunale o un sottosegretario spara la cifra di 20mila infoibati, questo dato deve essere confutato. allo stesso modo, se irving, sulla base di demenziali considerazioni statistiche, riduce il numero degli ebrei morti nei campi di sterminio a “poche centinaia di migliaia”, e per di piu’ sostiene che fossero morti per malattia o fame, queste affermazioni vanno confutate.
@ VecioBaeordo
però quel tweet, riportato da solo, può ingenerare equivoci. Era inserito in un ragionamento: perché citare in positivo Steve Jobs in una mobilitazione contro privatizzazioni e neoliberismo? Lo citereste Henry Ford? A quel punto c’è stata un’obiezione: ma Jobs era un genio e un innovatore. Risposta: anche Ford, alla grande. Obiezione: ma Ford non ha inventato un prodotto, bensì un modello di produzione. Il che, anche fosse (ma non è proprio così), sarebbe persino più importante andrebbe aggiunto. Comunque, nemmeno Jobs ha mai inventato una macchina direttamente, la sua vera genialità sta principalmente nelle strategie di marketing. Il rapporto tra Jobs e il computer non è più diretto di quello tra Ford e il T Model.
@tuco
Il florilegio di cifre va certamente confutato, ma bisognerebbe anche stroncarlo a monte. Le cifre vengono usate come argomento (e confutate con altre cifre) perché è più facile fare così che affrontare le questioni da un punto di vista della ricostruzione storica delle dinamiche.
Le cifre vanno secondo me depotenziate. Per un fascista è facile snocciolare cifre, lo è persino per Pansa. E’ ricostruire dinamiche e relazioni che è faticoso ma anche dannatamente complesso poi da ribaltare. Ecco perché preferisco sbattere “La lunga liberazione” di Mirko Dondi in faccia a chi mi prende a Pansate. :)
Riprendo un post di Tuco sopra, perché qui non si tratta né di numerologia né di ridurre alcunché – mi sembrava di essere stato chiaro.
“scusate se mi ripeto: ammmettiamo pure che il tasso di suicidi tra i dipendenti foxconn sia esattamente uguale alla media nazionale cinese. il punto e’ che il dipendente foxconn si suicida per motivi strettamente legati al lavoro in fabbrica, e lo fa *proprio in fabbrica*, perche’ vuole gridare al mondo qualcosa a proposito di *quella fabbrica*.
(le persone, in condizioni “normali”, si suicidano per mille motivi: per amore, per rimorso, per l’incapacita’ a relazionarsi con gli altri, e *anche* per motivi legati al lavoro. alla foxconn pare che i suicidi siano legati *esclusivamente* alle condizioni di lavoro).”
L’unica cosa che io voglio sottolineare è che quanto dice Tuco non è in relazione causa-effetto con le statistiche dei suicidi, ma è in correlazione. Correlazione non è causalità. Fine.
Se l’analisi non si ferma ai numeri ma aggiunge anche reportage giornalistici come qualcuno ha fatto sopra, ciò permette di verificare che è molto probabile che la causa principale, se non l’unica, dei suicidi in Foxxconn siano le terribili condizioni di lavoro. Quindi, è possibile stabilire una relazione di causa-effetto tra condizioni di lavoro e suicidi (o tentativi).
@ivan
scusa, ma se tu scrivi
“Dal mio punto di vista, che la shoa abbia riguardato milioni, piuttosto che migliaia, centinaia o decine di persone cambia ben poco, nel merito.”
io non sono assolutamente d’accordo. se i nazisti si fossero limitati ad ammazzare poche decine di ebrei in pogrom scoordinati ed episodici, oggi non staremmo ad interrogarci sulla natura del nazismo e sulle sue origini culturali. nel caso della shoah, la qualita’ sta *anche* nella quantita’. si decide a tavolino di sterminare completamente un popolo di milioni di individui, e per farlo si mette in moto un apparato di tipo industriale che prevede persino l’uso dei cadaveri come materia prima. e’ *questo* esito che ci impone oggi, e ci imporra’ ancora per secoli, di continuare a interrogarci sulla natura e le implicazioni del nazismo.
il discorso su pansa e su come contrastarlo e’ diverso, e su quello ti do ragione quando dici che la numerologia e’ una trappola cognitiva.
Su questo articolo del “secolo xix” quotidiano di genova dove si idolatra superficialmente la figura di Jobs è interessante il commento 37.
http://www.ilsecoloxix.it/p/mondo/2011/10/06/AOP6y5AB-rivoluzionato_nostra_genio.shtml
@redview
eh, come matematico sono il primo a sapere che i dati e le statistiche non dicono molto sulla natura di un fenomeno. possono suggerire qualcosa. poi pero’ ci vuole una chiave di interpretazione, che nel caso dei suicidi foxconn e’ fornita appunto dalle testimonianze dei compagni di lavoro.
@tuco
Sono perfettamente d’accordo con te, come ho scritto sopra: le testimonianze danno una chiave di lettura che permette di far diventare causa-effetto una correlazione.
@tuco
“se i nazisti si fossero limitati ad ammazzare poche decine di ebrei in pogrom scoordinati ed episodici, oggi non staremmo ad interrogarci sulla natura del nazismo e sulle sue origini culturali”
Non l’ho posta affatto in questi termini. Ho scritto: “se si fosse riusciti a fermare i nazisti molto prima di arrivare al punto in cui sono arrivati” e di “considerare in proporzione […] agli effetti che si *volevano* e che si era *messo in atto* per raggiungere”.
Spero sia evidente la differenza.
@ivan
capisco quel che vuoi dire, anche se mi sembra un esercizio un po’ astratto. se fossimo riusciti a fermare “prima” i nazisti, non avremmo mai saputo fino a che punto si sarebbero spinti. e non sto facendo filosofia. mi riferisco proprio al fatto reale che i nazisti si premuravano bene di non lasciare prove di quel che stavano facendo e che avevano intenzione di fare.
comunque nel tuo primo commento, quello delle 11:08, questo non l’avevi ancora detto, e quindi sono saltato sulla sedia.
[…] Un capitano di industria viene pianto e celebrato dai consumatori come un musicista dai fan. Il feticismo della merce è stato superato a destra dalla venerazione per un nerd cinquantenne. E in questo, segno dei tempi, non ci sarebbe nulla di […]
ah si’, ivan, ancora una cosa. se fossimo riusciti a fermare i nazisti subito dopo la conferenza di wansee, ci saremmo trovati di fronte solamente al piano folle di una decina di gerarchi. sarebbe rimasta aperta la questione se quel piano fosse materialmete realizzabile. cio’ che e’ sconvolgente del nazismo e’ proprio il fatto che quel piano si sia potuto realizzare.
@tuco
“comunque nel tuo primo commento, quello delle 11:08, questo non l’avevi ancora detto, e quindi sono saltato sulla sedia.”
Eh, uno cerca di essere sintetico per non tediare il prossimo e da per scontate troppe cose. Alla fine il discorso si prolunga per N-mila commenti col risultato di aver tediato molto più che non dilungandosi sin da principio, con l’aggravante dell’incomprensione.
Il minimo risultato col massimo sforzo. :-)
[…] meno, se li ebbe, essi impallidiscono di fronte ai suoi pregi. Come spiegato approfonditamente da Wu Ming 1, l’idolatria per i santoni del digitale spesso occulta lo sfruttamento (da lui definito […]
@ivan
non credo che abbiamo tediato, in realta’, altrimenti ci avrebbero chiesto di smettere. e sono anche convinto (ma questa e’ solo una mia opinione personale) che questo scambio non fosse completamente o.t. rispetto ai ragionamenti che stiamo facendo in questi giorni. :-)
@WM1
sisi, non volevo generare equivoci, d’altronde credo che qui sopra quel rischio sia basso. Mi pareva che quel tweet rendesse bene il parallelo tra i due in questo contesto, che tu sai raccontare come si deve mentre io riesco solo a intuire e non a spiegare. Tutto qui :-)
[…] che il ridicolo culto feticista sorto attorno ai prodotti della Apple: a tal fine rimando ad un interessante articolo dei Wu Ming): fenomeni che denotano, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’irruenza di quell’“effetto […]
Una considerazione a latere, quasi OT, sul pezzo di kaizenology citato sopra. “Non è stato l’unico, ma – per ora – è l’unico a cui tutti accendono un cero”.
Ricordo la quantità di “gente comune” che qui a Torino è andata a rendere omaggio in duomo alla salma di Gianni Agnelli, anno 2003 d.C.
http://it.wikipedia.org/wiki/File:FuneraleGianniAgnelli.jpg
Commenti superflui, credo.
@VecioBaeordo
secondo me con Jobs c’è un salto di qualità (si fa per dire).
L’idolatria verso i personaggi famosi c’è sempre stata ed io non mi meraviglierei se si andasse al funerale di Jobs con l’ipod nelle orecchie o si portassero i fiori al suo funerale.
Ma qui c’è gente che ha portato i fiori ai negozi!
Quando è morto agnelli nessuno ha acceso ceri davanti alle officine della fiat. C’è una identificazione pazzesca uomo/merce/canale di vendita da parte di cittadini/consumatori/fanboys.
@thiswas
ma Agnelli si è sbattuto molto meno per sembrare Quello Buono. In fondo si è limitato alla Juve e alla Ferrari e non se l’è mai tirata da guru. Per dire, Camillo e Adriano Olivetti in due modi diversi hanno investito di più in quel senso (in proporzione ai tempi e probabilmente con meno intenzione).
Stallman al solito non la manda a dire:
“Steve Jobs, the pioneer of the computer as a jail made cool, designed to sever fools from their freedom, has died.
As Chicago Mayor Harold Washington said of the corrupt former Mayor Daley, “I’m not glad he’s dead, but I’m glad he’s gone.” Nobody deserves to have to die – not Jobs, not Mr. Bill, not even people guilty of bigger evils than theirs. But we all deserve the end of Jobs’ malign influence on people’s computing.
Unfortunately, that influence continues despite his absence. We can only hope his successors, as they attempt to carry on his legacy, will be less effective.”
Qui ovviamente per ‘il male’ si intendono le politiche chiuse e le mafiose guerre di brevetti che stanno rendendo molto difficile la vita agli sviluppatori opensource. Non è solo la Apple, certo, e tutto continuerà anche senza di lui. Anzi credo che tutto ci sia a prescindere dall’uomo Steve Jobs. Ieri, oggi e chissà per quanto invece si idolatra stevejobs, un semplice alias della Apple, l’avatar fattosi carne di precise strategie di marketing e industriali. Ma cool e innovative, coi prodotti che ci hanno migliorato la vita. Almeno, erano cose già in commercio ma lui/esso ci ha fatto sentire fighi nell’avercele. E’ così che lo stereotipo anni 80 del nerd cervellone diventa colui che non solo conquista il mondo, ma è anche popolare e socialmente rilevante. Eppoi lui/esso indossa il maglioncino!
Quando ci lascerà Wozniak cosa si scriverà?
“Chi cazzo è Wozniak?” “Quello bravo ma sfigato”.
@ost
Woz sfigato?
http://punto-informatico.it/3252792/PI/Commenti/lampi-cassandra-altro-steve.aspx
[…] adora Jobs in quanto consumatori, perché i suoi prodotti funzionano e hanno un design straordinario, perché rendono la vita comoda […]
Le considerazioni di Formenti, ultime tra le molte critiche verso la santificazione di Steve Jobs, sono del tutto condivisibili. Anche Stallman in linea di principio ha ragione: ossia, ha ragione, ma dimentica di fare i conti col fatto che la gran parte degli utenti del web non è diventata una moltitudine di hacker, non ha neanche provato a diventarlo (e questo è un fatto: criticabile quanto si vuole, ma è un fatto con cui fare i conti), ed è discutibile che possedesse le capacità per diventarlo. Rispetto a quest’ultimo passaggio: Steve Jobs (tutto ciò a cui S.J. fa segno), che ha alzato barriere invisibili, e negli ultimi tempi neanche invisibili, ha al tempo stesso messo in mano a semi-incompetenti come me possibilità di accrescimento delle proprie capacità psico-fisiche che sarebbero state altrimenti precluse.
Il punto è che quel che ha detto Stallman lo condividevano e condividono tutti i sostenitori del software libero. Si può dire che non ha avuto tatto, sì è ammissibile, ma ha detto quello che pensava, è stato sincero. Tanta stima.
Il problema ora è la strumentalizzazione. Già repubblica ha fatto il suo articoletto intitolato “sono contento che se ne sia andato”.
Perché la frase “non sono felice che sia morto” non fa titolo. Pazienza.
vorrei fare ancora una precisazione sul mio commento
07/10/2011 at 2:22 pm
l’ emoticon :-) era rivolto a ivan, un segno di amicizia, per fargli capire che non c’era astio nelle mie ripetute repliche. non era riferito in nessun modo all’ argomento di cui stavamo discutendo. ci tengo a precisarlo, perche’ ho ben chiara la responsabilita’ che ci si assume verso chi legge quando si parla di quegli argomenti.
Che poi, anche se è o.t. rispetto al tema principale, anche questo mito della “user experience” a me pare una cazzata. I mac degli anni ’90 inizio 2000 funzionavano molto meglio dei pc ma erano molto meno intuitivi. Per diventare fruibili a tutti hanno dovuto rinunciare a una serie di fissazioni che avevano prima (a cominciare dalla fissa per il tasto unico del mouse).
Per quanto riguarda gli Ipod, che sono stati il vero cavallo di Troia della Apple, il loro successo rimane ancora oggi per me un mistero. A parità di prezzo, da sempre, gli altri lettori mp3 sono migliori sia sotto il profilo audio che sotto l’aspetto di gestione dei files (qui apro una parentesi, per me è assurdo che su un mio device io non possa decidere liberamente di importare ed esportare i miei files, è assurdo che mi si imponga il software di gestione, è assurdo che la macchina provveda a rinominarmi i files e potrei andare avanti). Nel 2003, quando è uscito il primo ipod windows compatibile, io avevo un lettore creative che era nettamente superiore sotto tutti gli aspetti e costava 100 euro in meno.
Così come non mi spiego il fatto che Microsoft abbia potuto vendere a tutto il mondo un sistema operativo ciofeca come era Millennium edition, così ancora oggi non capisco il successo dell’Ipod. Quanto all’Iphone, che dire, uno smartphone che all’inizio non mandava gli mms, un software che ancora oggi non ti fa cancellare una telefonata dal registro delle chiamate… a me continua a sembrare tutto assurdo. Ok, ho finito la solfa tecnologica, continuiamo pure… :-)
@tuco
Hai fatto comunque bene a precisare, ma credo che in questo caso non ci fosse rischio di fraintendimenti, sia per la non motivazione di esistenza di alcun astio (perché mai, poi?) sia per la serietà con cui bisogna maneggiare certe materie. Ma hai fatto BENE.
Inizio con il ringraziarvi, per avermi fornito uno spunto davvero interessante su cui ho poi costruito un pezzo per il mio blog.
Ci tengo però a fare una piccola osservazione riguardo la soluzione da voi posta al problema.
Porre l’ assenza di “feticismo” nei nostri comportamenti come atteggiamento sufficiente per contrastare questo problema sociale è a mio avviso discutibile.
Proprio per il fatto che il capitalismo e il consumismo di massa si fondano sull utilizzatore ultimo, cioè noi, allora dobbiamo mettere in chiaro e tondo che è solo e soltanto con il boicottaggio d’ acquisto che si tagliano le gambe a questo sistema.
D’ altro canto dobbiamo trovare il senso critico per capire quando uno strumento può essere fondamentale per il raggiungimento ideale dello scopo, che è la costruzione di una società equa.
Se dunque esiste un mezzo, quale la rete, addirittura quale Facebook, grazie al quale possiamo diffondere messaggi, idee, nuove proposte di modelli sociali, sarebbe stupido non farlo.
D’ altro canto, non vedo come l’ acquisto dell’ ultimo modello di iPhone in sostituzione al nostro cellulare ancora funzionante potrebbe portare ad un miglioramento.
La tecnologia è dunque da considerarsi semplice mezzo, che se utile deve essere utilizzato e se non indispensabile non deve essere sfruttato.
Infine, e non per questo meno importante, rinunciare alle tecnologie “per colpa” di questi comportamenti significherebbe arrendersi davanti ad un sistema colossale che ruba ad ognuno di noi la possibilità di utilizzare nel modo corretto i frutti del progresso.
“Stare nella rete dunque”, perchè questo è il modo di riappropriarci di ciò che è nostro e di tutti, ma “stare per la rete”, contro chi è contro la rete, perchè nessuno possa impadronirsene.
Non solo senza feticismo, concluderei dunque, ma anche con senso critico.
Per chi volesse dare un’ occhiata al mio pezzo, è il benvenuto:
http://www.liberarchia.net/blog/?p=133
@thiswas
“il loro successo rimane ancora oggi per me un mistero. A parità di prezzo, da sempre, gli altri lettori mp3 sono migliori”
non entro nella dimostrabilità tecnologica di questa frase: mai avuto ipod. Invece: stasera passando distrattamente nella stanza dove qualcuno sta guardando un film in tv, intercetto la frase detta da qualcuno tipo un ladro di grandi magazzini: “Anche se quelle cose le hai già, è il modo in cui sono esposte che te le fa desiderare”. Il film non so quale sia e non mi importa, la frase invece l’ho istintivamente ricondotta a questo thread e a Apple in generale. Magari getta un po’ di luce sul tuo “mistero”?
[…] che produce iPhone, iPad, iPod, oltre ad avere commesse per Nintendo, Sony, etc., poi c’è amazon.com, la Coca-Cola, Nestlè, la stessa Fiat, tutte grandi multinazionali che l’etica l’hanno […]
@ Liberarchia
leggerò il tuo post con calma, intanto permettimi di spiegare cosa non è chiaro, secondo me, nel tuo commento.
Intanto, sgombro il campo da un equivoco. Tu scrivi:
«Porre l’ assenza di “feticismo” nei nostri comportamenti come atteggiamento sufficiente per contrastare questo problema sociale è a mio avviso discutibile.»
Sono d’accordissimo con te, anzi, io vado molto oltre: non solo è discutibile, ma è una gigantesca stronzata :-D
Infatti nessuno, né nel post né nella discussione che è seguita ed è tuttora in corso, ha mai sostenuto nulla del genere. La “defeticizzazione” è esplicitamente posta come pre-condizione dell’analisi e poi della lotta: se non ci si accorge prima di tutto che il nostro rapporto con le macchine e con la rete è ideologico, non si potrà nemmeno agire. Nel post si parla di lotte, sono le lotte la risposta da dare, e devono essere grandi lotte collettive. Il post si conclude con una frase che mi sembra molto chiara: “Un’alleanza mondiale tra “attivisti digitali”, lavoratori cognitivi e operai dell’industria elettronica sarebbe, per i padroni della rete, la cosa più spaventosa.”
Da qui arrivo alla tua affermazione che mi crea più problemi. Tu scrivi:
«Proprio per il fatto che il capitalismo e il consumismo di massa si fondano sull utilizzatore ultimo, cioè noi, allora dobbiamo mettere in chiaro e tondo che è solo e soltanto con il boicottaggio d’ acquisto che si tagliano le gambe a questo sistema.»
Nello scenario che proponi ci sono solo il capitalismo e il consumatore. Dove sono le classi in lotta? Dov’è il momento della produzione? Dov’è l’estorsione di plusvalore dal lavoro salariato? E’ quel che accade in quella fase il *fondamento* del capitalismo. Negli ultimi venti-trent’anni si è ragionato quasi sempre in termini di “centralità del consumatore”. Il momento del consumo è importante, ma se non lo si pensa insieme a quello della produzione e della valorizzazione, si finisce in un vicolo cieco.
Il discorso è molto concreto, lo faccio in parole povere:
1) il boicottaggio funziona bene come *tattica*, funziona come arma in campagne chiare e mirate, volte a ottenere un risultato specifico e riscontrabile. Boicotto la tale azienda finché non farà (o smetterà di fare) la tal cosa.
2) il boicottaggio di *certi* marchi o certe tipologie di prodotto o certi esercizi commerciali può anche essere parte integrante dello stile di vita di una persona, della sua etica individuale: io ad esempio sono vegetariano, quindi boicotto il consumo di carne e pesce; per questa e altre ragioni non metto piede in un McDonald’s (e affini) nemmeno “se viene giù Cristo”. Le scelte personali sono rispettabili, ognuno fa le sue, ognuno si pone dei limiti etici.
3) Tuttavia, e arrivo al punto, il boicottaggio non può essere la strategia che “taglia le gambe al sistema”, per un motivo di ordine logico “puro”, uno di ordine “metaforico” e uno di ordine logico/pratico.
A rigor di logica, se volessimo boicottare i prodotti che sono frutto dello sfruttamento, bisognerebbe *boicottare tutto*, perché lo sfruttamento è connaturato al sistema. Perché limitarsi a boicottare i dispositivi Apple e non anche quelli delle altre aziende? E, scusate, che senso ha boicottare solo l’informatica? Le nostre auto, i nostri motorini non sono frutto dello sfruttamento? E il cibo che mangiamo? I vestiti che indossiamo? Non se ne esce più! E ci sarà sempre quello che “boicotta più di te”, per questo ho fatto l’esempio del crudista che critica il vegano che critica il vegetariano che critica il pescatariano che critica il carnivoro.
Il problema di fondo è sempre quello che dicevo: la “spazializzazione” del problema. Il pensare in termini di “dentro” e “fuori”. E’ chiaro che se penso di potermi “tirare fuori” dal sistema (o almeno dagli aspetti peggiori di esso) grazie alle mie scelte di ordine etico e al mio stile di vita individuale, mi sto ponendo su un piano in cui *non c’è mai limite al fuori possibile*: ci sarà sempre qualcuno sedicentemente più drastico e radicale di me nello spingersi ancora più fuori dal sistema. E si tratta di un fuori illusorio, prodotto dalla mala impostazione del problema, cioè dalla metafora spaziale. Non c’è alcun “fuori”. Quella che ne deriva è, in buona sostanza, un’allucinazione di massa, al cui interno non possiamo che scazzarci: chi usa il software liberissimo si pone più fuori dal sistema di chi usa il software un po’ meno libero che a sua volta si pone più fuori dal sistema di chi usa semplice software open source… e magari tutti costoro hanno altri generi di consumi che, su un altro piano, li espongono alla critica di altri. Ad esempio, mangiano carne. Quindi per un vegetariano o un vegano sono dentro al sistema anche se usano software libero. Non se ne esce, in tutti i sensi. Questo è il problema legato alla metafora. Dobbiamo liberarci dall’eccesso di spazializzazione che ha dominato l’attivismo e il pensiero critico negli ultimi decenni, e tornare a parlare di tempo. E qui ri-consiglio la mia conferenza sull’Occhio del purgatorio:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4353
Il motivo di ordine pratico è questo: per “tagliare le gambe al sistema” bisogna agire il più collettivamente possibile. Quindi se vogliamo farlo boicottando i consumi, dobbiamo boicottare in massa. E quali consumi dobbiamo boicottare? Virtualmente tutti, come si diceva sopra, e questo è del tutto irrealizzabile. E poi, tagliare le gambe al sistema per fare che, in che direzione? Se non si cambiano le cose al livello della produzione, socializzandola, istituendo diversi rapporti sociali, non può esserci nessun cambiamento, soltanto un crollo catastrofico a cazzo di cane.
E così siamo finiti in un cul de sac, e al contempo siamo tornati al punto iniziale: se il ragionamento continua a incentrarsi su quel che può fare il consumatore, non capiamo come funziona il sistema, e restiamo senza risposte. Il ragionamento strategico deve partire dalle lotte collettive (attuali o potenziali) dei lavoratori che stanno nel rapporto di produzione. Il boicottaggio può essere una formidabile arma tattica nel quadro di una strategia basata sull’alleanza che mi auspicavo sopra. Pensiamo a questa moltiplicazione:
lotte operaie x
consumo critico etc. x
lotte ambientali x
lotte contro la discriminazione di genere x
lotte dei lavoratori della conoscenza e della scienza x
teoria radicale che comprenda i fenomeni x
controinformazione in rete x
_______________
= ?
Segnalo un articolo comparso su Micromega che ha citato l’articolo di Wu Ming:
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/10/07/carlo-formenti-steve-jobs-santo-subito/
un trailer (lungo) di Dreamwork, doc italiano sui lavoratori della Foxconn
http://vimeo.com/27982653
@VecioBaeordo
Ovviamente, lo ‘sfigato’ era nella battuta. Classica visione Applecentrica è che ciò che non è Apple è da sfigati. :-)
E Woz è stato il vero genio della prima era apple, ma pochi se lo ricordano. Da programmatore, per me l’unico Steve della Apple è solo Woz. Diffido dei ‘guru tecnologici’ senza tunnel carpale :)
[…] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241 […]
Babilonia ha capito che la repressione non funziona, non funziona per tutti: il potere del desiderio è più forte, tanto da travolgere totalitarismi. E quindi, dannato organismo mutageno che non è altro, ha incanalato i nostri desideri in contenitori creati per vederci insoddisfatti, perennemente alla ricerca di altro. Tutto oggi è un prodotto tangibile (Bio, light, natural, total, sticazzi) stili di vita preconfezionati su modelli creati da più di un secolo di analisi commerciale. Le nuove versioni New age, tarate per darti quel pizzico di ascetico meditativo rinunciatario (al costo di circa 30%, d’altra parte la leggerezza non è stata inventata per i poveracci che considerano ancora il cibo come nutrimento e non come droga, nemico, ossessione) ha definito in modo assoluto e tangibile la frontiera, il limite ultimo della civiltà del consumo.
Massificare e produrre stili di vita alternativi ha reso, de facto, l’alternativa assolutamente inutile. La cristallizzazione del pensiero in ideologie di qualunque tipo e qualunque forma, rapidamente accessibili dalle loro rappresentazioni simboliche ha del tutto ucciso la presa di coscienza della società, dell’intelligenza sociale e del rapportarci agli altri. Mai come ora essere è uguale ad avere, e anche non avere nulla è ormai un modus vivendi ostentato dagli intellettual radical chic del salotto di fianco. La Henkel, ad esempio, produttrice del famigerato coccolino è ormai tutta un’insegna eco-total-riciclabil. Pura pubblicità, certificati acquistabili. Tutte le grandi multinazionali hanno assimilato, diversificato ed etichettato i prodotti in base al bacino d’utenza, senza cambiare una virgola dell’inci (o la composizione delle confezioni, solo più ruvide o di colori che vanno dal beige al bianco avorio).
Un processo trasversale, correlato, intessuto con la politica tanto che ormai è difficile vedere dove inizia il mercato e dove la politica, entrambi ormai rispondono solo alle leggi del consumo, leggi che abbiamo costituito noi, utenti, con tempo, stratificando scelte ed opinioni. E’ vero che il potere è in mano al popolo, e per essere tranquilli l’industria dello Spettacolo, l’ultima ma non la meno pericolosa della diabolica trinità, ha contribuito e ha fatto leva sui nostri peggior istinti, sull’anima trash, sulla nostra ossessione per sesso e violenza. Le stesse immagini di denuncia, un tempo così importanti, l’arte post sgnap di rottura, le installazioni di carne morta e carne viva, hanno ormai cessato da tempo una qualunque forma di risveglio delle coscienze e sono state del tutto inglobate in una casella apposta, dove l’immagine di morte si moltiplica e ci contamina, rendendoci ciechi e sordi davanti al dolore vero.
In tutto questo, c’era ancora un bisogno, un desiderio che non avevano sfruttato appieno, la nostra fame di interconnessione sociale. Ormai isolati in cubicoli abitativi e terrorizzati dall’altro (xenofobia, criminalità, perversioni e sette sataniche, di cui il nostro cubico amico colorato ci fa fare indigestione ogni giorno a pranzo e cena, pressocche gratuitamente, servizio pubblico…per mantenerci in uno stato costante di terrore in cui cresciamo, ce ne nutriamo, tanto che alcuni di noi non sanno più nemmeno che vuol dire sorridere ad un estraneo.)
Abbiamo Bisogno degli altri. L’Altro ci è testimone. L’altro completa il Sé. L’altro ci dà la percezione dell’unità di Essere. Le nostre emozioni coinvolgono gli Altri. L’unico dipende dall’Altro per la sua stessa realizzazione come unico, e non sarà mai concepito o realizzato nell’Isolamento. Ma i rapporti con gli altri non possono essere ne inscatolati, ne minimizzati, ne limitati da alcuna ideologia. Prima o poi ne sfuggono sempre. La realtà virtuale, l’avatar ha dato per qualche tempo e per qualcuno un succedaneo illusorio di vero coinvolgimento per poter dispiegare tutti i desideri che nella realtà venivano repressi (da noi stessi, dagli altri) ma non può bastare. L’appartenenza a un Brand è in alcuni casi, un buon momentaneo palliativo per l’angoscia del vivere.
Il capitalismo si basa solo e soltanto sull’illusione che ci sia qualcun altro con più potere di noi da inseguire, qualcos’altro più buono da mangiare, qualcun altro più bello da scopare, in un’escalation che non ha nulla a che vedere con il “VERO” desiderio. Che è immanente, qui e ora. Che spesso è molto più umile e accessibile, e tutto il mondo ci urla vergogna, intortandoci di falsate teorie biologiche che non hanno nulla a che vedere con la mia cena delle 20.00 o con la mia relazione amorosa.
Il sistema è composto sostanzialmente da tre grandi blocchi interconnessi:
Informazione: produzione d’ideologie, trasmissione di notizie, religione, progettualità del controllo, tutto quello che ha a che fare con il mondo dell’idea.
Produzione: oggetti (che utilizziamo per sfornare Informazione) di energia, beni, esecuzione della progettualità.
Riproduzione: Noi, gli elementi del sistema, che vivendo produciamo Informazione e produzione, gettando in pasto il tempo, il frutto della nostra passione tra informazione e produzione.
Il sistema ha creato gli anticorpi per la lotta armata mettendo in atto l’Informazione (false notizie sui back bloc ad esempio) e la produzione (di legislazioni che prevedessero la caduta delle accuse alle forze dell’ordine)
Ha creato altresì anticorpi al boicottaggio sostenendo e dando alla luce sistemi di produzione che di biologico e no OGM non hanno altro che un marchio, anche l’equo e solidale è diventato un brand.
Creare una discontinuità massiva e improvvisa tra questi tre elementi del sistema è, a mio, parere l’unico modo per combattere efficacemente questa Idra. Creare contemporaneamente da basso un sistema alternativo e indipendente l’unico modo per non doverci più scendere a patti.
Chiedo scusa per la lunghezza.
Articolo molto interessante che condivido sotto molti aspetti, tuttavia ci sono dei passaggi che non mi tornano, ad esempio quello relativo a Facebook, ora, io detesto Facebook e il fatto che mi ritrovi in qualche modo a difenderlo è un po’ paradossale, ma per onestà intellettuale mi tocca farlo.
Wu Ming 1 applica il discorso di marx sul plusvalore al rapporto fra facebook e i suoi utenti arrivando anche a dire che quando spippoli sul social network lavori gratis, perchè Facebook vive del tuo spippolare e ci fa i soldi.
Non è propriamente esatto, il rapporto Facebook-utente si basa su una sorta di baratto, loro utilizzano i tuoi dati, (quelli che vuoi condividere) e in cambio ti offrono un servizio, una rete, delle applicazioni, dello spazio web, questo scambio costituisce la retribuzione del tuo lavoro-nonlavoro. Lo scambio non è vantaggioso? Benissimo, sei libero di non iscriverti, ma dal momento che lo fai sai che il rapporto fra te e l’azienda è quello, d’altra parte non si può pretendere che Zuckerberg sia un filantropo che spende un sacco di soldi per far funzionare un social network solo per farci vivere meglio.
Si potrebbero creare dal basso social media diversi, suggerisce Wu Ming 1, ma si dimentica di dire che piattaforme del genere avrebbero dei costi e pure alti se vogliono offrire servizi minimamente comparabili a quelli dei social media che dominano la scena, chi paga quei costi? L’unico modo è introdurre una sorta di canone o quota di registrazione per gli utenti, ma gli utenti accetterebbero di pagare per un servizio che altri offrono gratuitamente e meglio?
Io ho fatto la mia valutazione e ho deciso di non accettare il rapporto utente-azienda di Facebook, per questo non ho un account, questo fa si che resti tagliato fuori da molte cose e questo proprio perchè anche chi avversa Facebook, come Wu Ming 1, ci si assoggetta ugualmente perchè è cosa buona e giusta “mantenere una presenza critica e informativa nei luoghi dove vive e comunica la maggioranza delle persone”, ma questo non contribuisce a far si che quei luoghi egemonizzino il panorama dei social media?
Nel suo discorso fra “integrati” e “apocalittici” poi, Wu Ming 1, si dimentica che c’è almeno una terza categoria, quella dei “realisti”.
In pratica dice che il capitalismo si basa obbligatoriamente sullo sfruttamento, ovvero, tu operaio vieni pagato meno del valore di ciò che produci, su questo plusvalore il padrone ricava il profitto. Questo sfruttamento raggiunge livelli ancora più alti nel caso delle multinazionali, quindi boicottiamo o almeno limitiamo il consumo di prodotti delle multinazionali? No, perchè “Chi fa il mio lavoro deve conoscere le modalità di fruizione della cultura e di utilizzo della rete” e assoggettarsi ai social network dominanti è necessario per “mantenere le voci critiche all’interno di essi”, però si possono usare “senza rimuovere lo sfruttamento che sta a monte di questi prodotti. E’ uno sforzo improbo, ma bisogna compierlo.” I minatori di litio, gli smaltitori di carcasse di computer e gli operai cinesi sfruttati ne saranno commossi, ma questo REALISTICAMENTE non cambia una virgola, ci fa solo sentire migliori.
In pratica, come si fa a abolire il capitalismo ma conservarne i benefici?
Una qualche forma di capitalismo (ma possiamo chiamarlo anche in un altro modo) è necessaria perchè ci sarà sempre obbligatoriamente un padrone e per la cronaca, anche quello del padrone è un lavoro (uso il termine padrone anche se lo rifiuto, ma è per capirci), ricorrere in qualche modo allo “sfruttamento” del plusvalore è una scelta obbligata, anche perchè un’ azienda non può trovarsi sempre sul filo del rasoio, ha bisogno di poter disporre di una certa liquidità per far fronte a periodi di crisi, investire, occuparsi della manutenzione degli impianti ecc… è quando il plusvalore è troppo e l’operaio è sfruttato che non va bene, ma si può trovare una via di mezzo.
Io da ex operaio sono per tornare a consumi e ritmi di produzione più ragionevoli, per creare un’ industria più etica e giusta, che abbia al centro la vita dei cittadini e non il profitto.
Per arrivare a una cosa del genere però, REALISTICAMENTE, si devono fare delle rinunce, perdere delle comodità, comprese quelle legate alle “modalità di fruizione della cultura e di utilizzo della rete”. non dico rinunciare a tutto ma almeno a qualcosa, fare qualche sforzo pratico che non sia solo quello “improbo” di dedicare un pensiero ai minatori che si sono sacrificati perchè si possa stare al passo coi tempi, magari usando l’ultimo modello di iQualcosa.
[…] che il ridicolo culto feticista sorto attorno ai prodotti della Apple: a tal fine rimando ad un interessante articolo dei Wu Ming): fenomeni che denotano, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’irruenza di quell’“effetto […]
@trabeoscopio
Bonariamente: il tuo intervento potrebbe essere rappresentativo del tipo di idee contro cui è stato scritto questo post. :-)
Alla fine sostieni che il capitalismo non è così male (e addirittura ti sembra che sia esagerato chiamare i padroni padroni), ma che dobbiamo “moderarlo” col consumo critico.
Solo una nota: confondi il plusvalore con l’utile di esercizio, e quindi dici che il plusvalore (cioè lo sfruttamento) è necessario perché ogni azienda deve avere liquidità, utili da reinvestire ecc. Ovviamente non è questa la parte “problematica” del lavoro non pagato agli operai; in qualunque società immaginabile (e lo dice Marx stesso) bisognerebbe mettere da parte un po’ del valore prodotto per questi scopi pratici. Il problema, per Marx e credo per molti di noi, è il profitto, ovvero quel plusvalore che finisce ad alimentare il consumo di beni di lusso per i proprietari o azionisti dell’azienda. Questa cosa è tipica del capitalismo ma non è “necessaria” per far funzionare la società; anzi, quello che alcuni sostengono da circa 160 anni è che questa cosa finisca per mandare in malora la società umana.
Nel frattempo, in larga parte grazie al lavoro di SandorKrasna (il sottoscritto non ha avuto proprio tempo questa settimana e non ha alcun merito), è sostanzialmente completa la traduzione in inglese. Se WM1 (e possibilmente qualche madrelingua) ci può dare un’occhiata possiamo gettare questa bella bomba ideologica anche nel mondo anglofono: http://wiki.maurovanetti.info/index.php?title=Fetishism_of_Digital_Commodities_and_Hidden_Exploitation
Correggete liberamente, è una wiki (non in sciopero e non minacciata da Vasco Rossi).
Il fatto di trasformare l’approccio all’iPad in “iQualcosa” (quotando trabeoscopio) e sintomo di un attaccamento anche più radicale al capitalismo, il quale diventa “capitalismo etico”. Vi consiglio questa video-animazione di una conferenza di Zizek.
http://youtu.be/hpAMbpQ8J7g
Capisco il motivo della critica (ma non è un pò troppo comodo denunciare lo sfruttamento delle multinazionali del web e poi rimanere nel web così com’è?) eppure, come sottolinea WM1, è ingannevole sia un approccio “inside/outside” sia quello che Zizek chiama “decaffeinato” (ho l’iPod ma senza iQualcosa).
In entrambi i casi l’illusione risiede nell’approccio “etico” basato sul personale e non sul collettivo. Compro l’iQualcosa al posto dell’iPod..ma cmq compro. E lo faccio da solo. Il fatto invece di stare “dentro e contro” (cit. Wm1) innescherà un meccanismo di lotta e, come sappiamo, la lotta o è collettiva o è onanismo. ;)
Ho controllato e credo che ancora non sia stato riportato, nel tal caso mi scuso:
il corriere: http://goo.gl/ttt1t
«Se Steve Jobs è stato indiscutibilmente un genio – ci spiega – non è affatto dimostrato che le sue invenzioni abbiano reso in alcun modo migliore la nostra vita»
[…]
«a dire il vero non è molto chiaro perché, in un mondo migliore, i prodotti più cool debbano portare i profitti più osceni a un minuscolo numero di abitanti di questo mondo migliore»
[…] ti suicidare, ma mangia i padroni”, sussurra nelle orecchie dei lavoratori cinesi della Foxconn (la fabbrica cinese che produce gli iPad, diventata famosa nel mondo per il numero impressionante di …). “Non fare la schiava, mangia il padrone”, mormora alle lavoratrici di Barletta. […]
@santiago,
l’ho linkato prima, in coda ai commenti su #SteveWorkers… repetita iuvant? :-)
Il boicottaggio è utile ma non è abbastanza. Bisogna dare l’esempio con la propria quotidianità, nelle semplici scelte, e sfruttare anche il mezzo della scrittura…dare esempi, altri scenari, scelte non consuete, modi di ragionamento, il pensiero…tutto questo può essere comunicato con la scrittura
e per poter scrivere e comunicare bisogna prima vivere…vivere le lotte, vivere le emozioni, vivere in un modo che sia d esempio…
@Mauro Vanetti
No, non ci siamo capiti, io rifiuto il termine “padroni” per il motivo opposto, lo rifiuto perchè i miei colleghi di fabbrica chiamavano così i nostri datori di lavoro, come se fosse normale, come se chi ti da lavoro di fatto ti possedesse e fosse una specie di essere di categoria superiore. Di fatto è vero, dal salario dipende la tua vita, ma accettando di avere un padrone, l’operaio, si relega volutamente al ruolo di schiavo che accetta qualsiasi cosa in cambio del denaro che magnanimamente il padrone vorrà concedergli, questo perchè dimentica quello che sta facendo: l’operaio sta semplicemente vendendo una merce (la sua forza lavoro) a un cliente. L’operaio deve imparare a dare il giusto prezzo alla sua merce e capire che chi la compra non lo fa per fargli un favore ma lo fa perchè ne ha bisogno.
Il modo in cui mi esprimo quando parlo di un capitalismo più giusto probabilmente risente del fatto che non conosco i termini giusti. Probabilmente proprio il termine “capitalismo” è sbagliato per quello che voglio dire, tant’è che sulla questione del profitto sono completamente d’accordo con te, per questo come spiegavo in una parte del mio commento che evidentemente non hai letto, bisogna ridurre drasticamente produzione e consumazione e portarla a misura d’uomo.
Quello che non capisco è : a parte la soluzione un po’ autoassolutoria del “dentro e fuori”, come è possibile distruggere il capitalismo e allo stesso tempo godere di roba come iPhone, kindle, ecc..? A parte dedicare il proprio pensiero ai lavoratori che si stanno rovinando la vita per produrli, ci rendiamo conto che se quei lavoratori fossero retribuiti quello che gli spetta pagheremmo quei prodotti molto, ma molto di più? Siamo disposti a fare sacrifici in questo senso? A rinunciare a qualcosa?
E come si produrrebbero e distribuirebbero questi prodotti in un ipotetico futuro senza alcun tipo di capitalismo?
Per me va bene, ma vogliamo provare a immaginarlo?
@ trabeoscopio
Nexus e Mauro Vanetti ti hanno già risposto, togliendomi molte parole di bocca. Io però vorrei commentare questo tuo passaggio:
“fare qualche sforzo pratico che non sia solo quello “improbo” di dedicare un pensiero ai minatori che si sono sacrificati perchè si possa stare al passo coi tempi”
Scusami, ma questa notazione somiglia un po’ troppo alla pseudo-obiezione di chi, in giro per la rete, critica il mio post senza essere andato oltre la lettura della “Nota Bene”, quindi non si è accorto che:
1) io rigetto l’impostazione incentrata sulle scelte personali del singolo consumatore, a vantaggio di un’impostazione che parte dal ruolo attivo della classe operaia mondiale, quindi la “defeticizzazione” è la premessa a un discorso che ri-sposti il focus sulla produzione e sulla materialità dello sfruttamento che c’è a monte;
2) la mia proposta è collegare l’attivismo in rete (di controinformazione e hacking) e le lotte dei lavoratori cognitivi (sul web stesso e nell’industria dei media) agli scioperi e alle rivendicazioni degli operai dell’industria elettronica. Se non si fa questo, non c’è “consumo critico” che abbia la minima pregnanza, al di là della soddisfazione personale che ciascuno di noi prova facendo una “buona azione”.
Su boicottaggio e consumo critico ho risposto già diverse volte nel corso di questo thread, il commento più completo finora è questo:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241&cpage=3#comment-8317
[A margine: sì, usare una merce e ricordare ogni volta a se stessi che incorpora sfruttamento è uno sforzo “improbo”, quando intorno a te ci sono tizi obnubilati che rimangono in fila 24h per essere tra i primi a entrare nell’ennesimo nuovo tempio dei consumi, e quando la morte di uno squalo capitalista viene pianta senza alcuno spirito critico come se fosse morto un caro amico di famiglia. Nondimeno, l’aggettivo era usato con una lieve sfumatura ironica, perché è più improbo lavorare alla Foxconn.]
Questa storia che io avrei scritto qualcosa tipo: “Continuiamo a consumare come prima ma ogni tanto pensiamo allo sfruttamento” (quando invece ho scritto che bisogna attaccare il modo di produzione alle sue basi) è l’ennesima conferma che il frame che critico è molto, molto forte, e certo non poteva bastare descriverne il funzionamento nel post stesso: saranno solo lotte *materiali*, *collettive*, *transnazionali* a creare il nuovo quadro che renda inoperante la dicotomia dentro/fuori e l’illusione che la leva per rovesciare il mondo la stringa in pugno il consumatore.
@ trabeoscopio
“ci rendiamo conto che se quei lavoratori fossero retribuiti quello che gli spetta pagheremmo quei prodotti molto, ma molto di più?”
Ehm… Il ragionamento – pur nel suo egoismo, eurocentrismo e “consumatorcentrismo” – avrebbe una qualche logica se il super-sfruttamento a 51 centesimi l’ora degli operai Foxconn si traducesse poi in prezzi bassi dei gadget Apple. Invece i gadget Apple sono costosissimi, perché quel super-sfruttamento si traduce solo ed esclusivamente in *enormi* margini di profitto. La quota di pluslavoro è di dimensioni colossali.
@ Wu Ming 1
Mi pare però che l’obiezione/problema posta da trabeoscopio quando dice che:
“Io da ex operaio sono per tornare a consumi e ritmi di produzione più ragionevoli, per creare un’ industria più etica e giusta, che abbia al centro la vita dei cittadini e non il profitto.
Per arrivare a una cosa del genere però, REALISTICAMENTE, si devono fare delle rinunce, perdere delle comodità…” sia da considerare come uno dei nodi più difficili da sciogliere, una barriera oltre la quale molti non riescono a vedere. Quando si affronta la questione (eurocentrica e “consumocentrica”, ne convengo!) del mantenere le comodità e i vantaggi che certo tipo di prodotti portano con sé, abbandonando o combattendo il sistema capitalistico , non mi sembra che il solo far emergere le contraddizioni risulti essere un argomento sufficiente. Ci si tuffa di testa in una serie di dicotomie controproducenti che si avvitano l’una nell’altra, decrescita/super-crescita, capitalismo = vita facile / niente capitalismo = il ritorno della peste bubbonica e del sozzo medioevo. In sintesi: il consumatore europeo (occidentale) è davvero convinto, anche quando critico, che l’alternativa non esista o che se esista sia tutta da ridere, o peggio piena di sforzi improbi e vani. Il problema per me è: come si fa a convincere il consumatore che non è solo consumatore (ultimo, gaio anello della catena) ma che, ragionevolmente, è anche un elemento mediano di quella catena, e perciò soggetto a sfruttamento?
@ liberonclst
certo, far emergere le contraddizioni occultate è solo la premessa del lungo lavoro collettivo che va fatto.
Ma se la premessa non è sufficiente, io la ritengo comunque *imprescindibile*.
Già scardinare le facili dicotomie che si sono imposte in occidente man mano che il “mondo del lavoro” veniva rimosso dal discorso pubblico (e si imponeva un immaginario fatto tutto di Pensiero Unico, centralità del consumatore, mito dell’imprenditore, ce-lo-chiedono-i-mercati) è un modo di ri-inquadrare la questione.
Il “nodo” si può sciogliere solo collettivamente, con la collaborazione fattiva di sempre più soggetti, facendo informazione e demistificazione e al contempo producendo nuove narrazioni meno “intossicate”, e soprattutto *connettendoci alle lotte concrete che sono in corso*, facendole uscire sempre più dall’invisibilità a cui sono state condannate nei trent’anni dell’egemonia neoliberista.
Se non ri-introduciamo con forza nel discorso l’elemento del *lavoro vivo* sfruttato, non avremo speranza di impostare alcun discorso pregnante e credibile.
@Wu Ming 1
“…quel super-sfruttamento si traduce solo ed esclusivamente in *enormi* margini di profitto. La quota di pluslavoro è di dimensioni colossali”.
Ehm… so bene che la quota di pluslavoro è di dimensioni colossali, ma immaginiamo un mondo in cui ogni lavoratore sia retribuito per quel che effettivamente merita, quanto dovrebbe essere retribuita secondo te la giornata di lavoro di un minatore che si spacca la schiena estraendo litio? E quella degli operai che fanno il lavoro alienante di assemblare, confezionare ecc… i prodotti? E quella di chi passa la giornata davanti a uno schermo a progettare i prodotti o a programmare le applicazioni? E i costi di trasporto, distribuzione, retribuzione degli addetti di vendita? Siamo sicuri che a conti fatti, specie se si diminuissero anche gli orari e i ritmi di lavoro (come io auspico), il costo reale di uno di quegli aggeggini non sarebbe almeno il doppio di quello attuale?
Con questo non voglio dire che allora sia giusto lo sfruttamento, voglio dire l’opposto, che è giusto pagare le cose quello che valgono, se comprassimo meno, ovvero comprassimo solo quello che effettivamente ci serve, non ci parrebbe una spesa così sacrificante come ci appare oggi.
Quanto al resto, perdonami, ma la mia pseudo-critica (che in realtà, come spiegherò sotto, è diversa nella sostanza da quella che mi attribuisci), può essere intesa come risposta a una pseudo-soluzione, perchè se parli di defeticizzare la rete ma al tempo stesso proponi l’attivismo di rete come chiave di volta della soluzione e parli dell’importanza di conservare le voci critiche all’interno dei social media di massa, mi sembra che tu non ti renda veramente conto di quanto la rete sia masturbatoria e di quanto sia pericolosa questa sua natura.
Sul discorso a proposito di boicottaggio e consumo critico sono pienamente d’accordo, come sul fatto che un crollo del sistema a cazzo di cane non serve a niente. Resto però convinto che per ottenere un’inversione di tendenza sia necessaria una mutazione culturale e che debba cambiare in sostanza il nostro approccio al consumo, se non cominciamo a farlo non c’è attivismo di rete che tenga.
Non mi tiro indietro, anche io ho comprato e uso prodotti di multinazionali e di certo non voglio dare lezioni a nessuno, però devo dire che cerco di sfruttare i prodotti fino alla loro fine, ho cambiato due cellulari in tutta la mia vita e solo quando quello vecchio smise di funzionare, quello che ho ora (non so che modello sia) è un Nokia di almeno sei anni fa, funziona bene, perchè cambiarlo? Vero, smartphone e roba varia di ultima generazione hanno mille opzioni in più, ma ne ho veramente bisogno? Stessa cosa per il computer. Io non parlo di boicottare i prodotti delle multinazionali, parlo di cambiare mentalità di consumo, assecondare qualsiasi necessità tecnologica imposta perchè “oggi si fa così”, con tutte le giustificazioni, mi sembra un’arrampicata sugli specchi e aiuta il sistema a conservarsi così com’è.
@ traeboscopio
“assecondare qualunque necessità tecnologica imposta perché oggi si fa così”? Questa frase quale posizione riassume? Quella che ho espresso nel mio post sicuramente no. Tant’è che, come più volte ribadito, noi WM disertiamo Facebook. Ma non biasimiamo in nome del “purismo” gli attivisti che lo usano,se là sopra ci stanno milioni di persone: è evidente che se voglio organizzare un’iniziativa pubblica partecipata non posso semplicemente snobbare quel network. Quanto allo smartphone, certo che non è obbligatorio averlo, ma noi gestiamo dei blog e abbiamo una presenza intensa in rete, e siccome molte persone accedono al blog via mobile e interagiscino con noi in quel modo, per noi diventa necessario usarlo e studiarlo nelle sue applicazioni, cessa di essere una cosa frivola e diventa uno strumento di lavoro. Analogamente, uno che fa lo scrittore in una fase di radicalissima trasformazione dell’editoria, gli e-reader li deve conoscere e la tematica la deve quantomeno “masticare”. Chi nella vita fa altro può legittimamente ritenerle cazzate ma, se permetti, quali siano le nostre necessità tecniche e operative lo decidiamo noi.
@Wu Ming 1
Lungi da me essere purista, non condanno certo chi usa facebook, io ho fatto la mia scelta personale, che poi è legata più al suo impatto culturale, non certo all’uso che fanno delle mie informazioni (in tal caso dovrei boicottare pure Google).
Detto questo ancora una volta mi sembra che tu abbia troppa fiducia nella rete, sembra che tu non ti renda conto che l’opportunità che offre, quella di diffondere facilmente informazioni a milioni di persone, abbia il difettone che la gente, bombardata continuamente da centinaia di informazioni, non riesca più a concentrarsi veramente su niente. Senza parlare della dannosa simulazione di partecipazione (e quindi di libertà) che internet offre. Questo è uno dei motivi per cui ritengo la tua soluzione legata all’attivismo di rete una pseudo-soluzione, se poi quella di Steve Workers dovrebbe essere un’esempio di contronarrazione è meglio che chiuda direttamente qui la mia critica, dubito che ci capiremmo, o meglio, saliremmo sulle rispettive barricate e ne nascerebbe una discussione sterile.
La frase sull’assecondare le necessità tecnologiche imposte si rifà a frasi come “per noi diventa necessario usarlo”. Non ti giudico, fai benissimo a usare quegli aggeggi, ti semplificano il lavoro ecchissenefrega, ma la necessità è un’altra cosa, non credo che Noam Chomsky, per fare un esempio fra i tanti di un altro scrittore attivista in una fase di radicalissima trasformazione dell’editoria, si serva di altro che non sia un computer dotato di tastiera, questo non lo taglia fuori dal mondo o rende quello che scrive meno potente o le sue idee meno influenti, anzi.
Non è che dico di boicottare l’innovazione tecnologica a priori, figuriamoci, mica sono un Amish (casomai dico che possiamo anche progradire a ritmi meno sostenuti se questa corsa all’innovazione deve travolgere diritti umani), ma è questo concetto di “necessità” che non mi convince e va al di la delle praticità di svolgimento del lavoro, è un concetto diffuso e accettato come dato di fatto a tutti i livelli e di fatto è quello su cui gente come Steve Jobs ha fondato il suo impero e la sua mitologia.
Non me ne frega niente che tu abbia Smartphone, Kindle ecc… mi lascia perplesso il fatto che dopo aver scritto un post del genere tu ricorra all’alibi della “necessità”, e dimmi che lo usi perchè è comodo e grazie al cielo te lo puoi permettere, no? Non c’è nulla di male e suona meno fuori luogo.
@ trabeoscopio
Il punto più strano – ma davvero, davvero strano – della tua argomentazione è proprio quando mi/ci accusi di “troppa fiducia nella rete”, di non sapere cos’è la rete etc. Sto giungendo rapidamente alla conclusione che, se non ci capiamo, è perché quando parliamo della rete ne abbiamo due immagini diverse. Io mi spingerei quasi fino a dire che la rete non esiste, e ora mi spiego.
Nel post c’è scritto chiaramente che la tecnologia non è una forza autonoma e che quando crediamo di parlare di tecnologia in realtà stiamo parlando di rapporti sociali, e che la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, forma pervasa di pratiche liberanti ma soprattutto di pratiche assoggettanti, oppressive. Dirmi che avrei “troppa fiducia nella rete” equivale quindi a dire che ho troppa fiducia nel capitalismo, e siccome nei confronti del capitalismo io nutro *zero* fiducia, andiamo a finire nel non-sense.
Questo post dice che quella della rete “libera e bella” è una narrazione tossica, che la dialettica della rete schiavizza mentre emancipa e che la rete è strumento anche di guerra e oppressione. Se questa è apologia della rete, Savonarola era il PR di una discoteca riminese.
Dire che la dialettica liberazione/assoggettamento va spezzata e che l’attivismo in rete rimarrà prigioniero di una visione feticistica se non si collega alle lotte che avvengono a monte, sarebbe una visione “fiduciosa”?
In realtà, da un po’ di tempo a questa parte noi passiamo per quelli “pessimisti” nei confronti della rete, ci si attacca perché ogni volta che qualcuno si esalta per la rete, noi lo riportiamo bruscamente coi piedi per terra. Abbiamo stroncato l’immagine delle “twitter revolutions” nel mondo arabo:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3832
E cercato di smontare l’idea che “la rete” avesse vinto i referendum del giugno scorso:
http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4504
Tuttavia, non abbiamo mai negato che in occasione di quelle rivoluzioni le persone abbiano saputo trovare modi intelligenti, astuti, aggreganti, *utili* di usare certi strumenti, come appunto Twitter. E in questi mesi, dalla Spagna al Cile agli Stati Uniti, dalla “Marcia su Bruxelles” alla campagna “Stop the Bill!” in Inghilterra, dai No Tav al movimento di massa in Israele, questi mezzi hanno permesso un’interconnessione delle lotte, dei discorsi, delle parole d’ordine che sinceramente trovo stupido liquidare con la formuletta snob della “simulazione di partecipazione”.
Non è “mia” l’idea dell’attivismo in rete. Anzi, non è nemmeno un’idea. E’ qualcosa che esiste e continuerà a esistere sul piano della prassi, che tu e io lo vogliamo o no. Internet è pervasa da conflitti (sulla neutralità delle rete, sul diritto d’autore, sugli assetti proprietari, sulla censura legislativa) e io credo che sia demenziale non cercare di connettere questi conflitti alle lotte nel mondo del lavoro. Questa è la strada che secondo me va seguita.
Anche arricciare altezzosamente il naso di fronte a una performance come “Steve Workers” rivela un distacco da ciò che sta succedendo nei movimenti, dove una riflessione sugli “agenti collettivi di enunciazione”, fenomeni come quello di Anonymous, e tentativi di genealogia dell’anonimato, dell’impersonalità e dei “multiple names” sono in corso (soprattutto in Spagna, che in questo momento è la situazione europea più avanzata) da parte di molti cervelli, vedasi ad esempio:
http://alt1040.com/2011/10/cuando-lo-anonimo-no-era-anonymous
Insomma, io mi sa che ci rinuncio, perché ti vedo fare boxe con le ombre, nel senso che continui a polemizzare con una posizione che qui non ha espresso proprio nessuno, e al tempo stesso non riesco a farmi la più pallida idea di quale direzione tu stia indicando.
Non può darsi, semplicemente (e lo dico senza amor di polemica) che tu abbia sentito la forte spinta a commentare prima di aver letto il post con sufficiente attenzione e/o di averci meditato un po’ sopra, raffrontandolo a quanto si dice normalmente di Internet e magari facendo un po’ di mente locale su quanto sta accadendo nel mondo dalla sollevazione tunisina in avanti?
[…] un merito, quello di ricordarci che internet è uno strumento, non un valore in sé. Wu Ming 1 in questo articolo invita a defeticizzare la tecnologia. Perché la tecnologia è uno strumento e deve essere usata. […]
@Wu Ming1
No, guarda, ci rinuncio anch’io, discutere in questo modo non serve a niente, quindi mi ritiro con la mia snobbaggine, la mia stupidità e la mia altezzosità, scrivo le ultime precisazioni perchè poi sennò mi rimangono nel gozzo.
La rete è il capitalismo dici, mah, la rete è un mezzo, un mezzo che per molti versi tira fuori il peggio dei difetti umani, compresi i miei.
Tu scrivi: -la mia proposta è collegare l’attivismo in rete (di controinformazione e hacking) e le lotte dei lavoratori cognitivi (sul web stesso e nell’industria dei media) agli scioperi e alle rivendicazioni degli operai dell’industria elettronica.-
Io, che come scrivi sono snob, non ho la minima fiducia nell’attivismo di controinformazione di rete, non ce l’ho perchè:
1) della controinformazione che circola su internet un 1% (a tenersi larghi) è sensata, il resto sono boiate pazzesche.
2) gran parte degli utenti sono persone semplici che non sono in grado di riconoscere le cose sensate dalle boiate pazzesche.
3) in internet è facile creare qualcosa ma è ancora più facile buttarlo in vacca (e sono pronto a scommettere che purtoppo succederà anche con gli indignados).
4) l’unica cosa sensata secondo me sarebbe quella di creare un movimento a diffusione globale al cui interno vi siano persone competenti, che sappiano progettare modello di società più giusta che sia realizzabile, persone che pianifichino razionalmente i relativi modi per mettere in pratica questa alternativa e rovesciare il sistema attuale, persone che sappiano mettere a punto una comunicazione semplice ed efficace che sappia colpire le persone semplici e spiegargli con parole a loro comprensibili concetti complicati (e Steve Workers non funziona, e dopo ti spiego pure il perchè), poi ci vorrebbero attivisti erectus, ovvero persone che anzichè stare sedute alla scrivania si alzano in piedi e con le loro zampucce vanno a fare i testimoni di Geova, (ma possibilmente meno fastidiosi), ovvero che vanno a “diffondere il verbo”, cioè parlare e distribuire materiale informativo personalmente, (casa per casa se necessario), dando una faccia umana al movimento e raggiungendo le tante persone che non usano internet o che non lo usano per informarsi e che comunque sono obnubilati dalla comunicazione dominante.
Questo non si realizzerà con internet perchè, pure se come strumento potrebbe essere utilissimo, almeno per la prima fase di un progetto del genere, possiede anche una serie di caratteristiche che ne decreterebbero il fallimento, sia a causa dei punti 1, 2 e 3, sia perchè l’attivista erectus è in via di estinzione proprio a causa di internet, questo perchè favorisce la proliferazione dell’attivista sapiens, ruolo di gran lunga più comodo e che da l’illusione di ottenere più risultati. L’attivista sapiens partorisce o diffonde idee (spesso senza sapere di cosa parla, vedi punto 1) diffonde un’idea tramite i social media e raggiungendo mille persone ha l’illusione di aver ottenuto un buon risultato, ma in realtà il suo impatto nel mondo reale si avvicina allo zero dato che raggiunge solo altri “attivisti sapiens”, perdipiù storditi da altri quintali di controinformazione, di cui sono avidamente ghiotti, da qui la mia formuletta snob della “simulazione di partecipazione”.
Dirai “ma dico appunto che la rete da sola non basta”, forse l’ho interpretata male io, ma nella tua proposta non parli ne di attivismo “bipede” ne di progetto comune ragionato, io credo che avere le idee chiare sia fondamentale prima di attivarsi. Barnard (che è un personaggio che prendo con le molle, come tutti del resto) ci aveva scritto un articolo molto tempo fa, in cui diceva più o meno le stesse cose: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5343
Ma veniamo a Steve Workers, mi dispiace di aver arricciato il naso altezzosamente a questa geniale idea, ma secondo me non funziona.
Come ho detto, la comunicazione, per essere efficace deve essere in grado di colpire la gente semplice, cosa che Steve Worker non fa.
Perchè Steve Jobs, pur essendo ultracapitalista, è riuscito a diventare un’icona amata a sinistra? Perchè ha dato un immagine di se e della sua azienda che la gente non identifica nel capitalismo, viceversa Steve Workers da un immagine decisamente di sinistra, anzi, di estrema sinistra, (a dirla tutta ricordando anche pagine buie della sinistra), questo automaticamente respinge una larghissima fetta di persone, in più non è certamente il modo più intelligente per defidelizzare quelli che ora santificano la mela morsicata come simbolo progressista. Davvero non riuscite a vederlo? Davvero non riuscite a capire che se non si riesce a trovare una forma di comunicazione nuova, che rompe con simbologie del passato e riesce a unificare la gente semplice facendogli superare i preconcetti, non si va da nessuna parte?
Comunque io ho detto la mia, mi ritiro. Buon lavoro.
Soccia trabe,
che acume tattico, che sovrapposizioni, che ripartenze.
Mi sa che sei Mazzarri.
La faccia mia sotto i piedi vostri.
L.
ah, se lo dice paolo barnard…
(ovviamente non linko, ma sul medesimo sito rossobruno si possono trovare interessanti riflessioni del medesimo paolo barnard a proposito di prostituzione e condizione femminile. e non e’ off topic.)
Tuco, ho premesso che Barnard è da prendere con le molle, ma vale quello che dicono i wu-ming su Mentana a Elm Street, non conta chi lo dice, conta il contenuto, del resto se questo è l’approccio mi dai ragione di essere sfiduciato sulla rete.
Luca, bah, non ho la verità in tasca, (mi sono anche fatto prendere la mano nella critica, lo riconosco), certo, uno ti chiede cosa credi si debba fare concretamente e provi a pensare una soluzione, viceversa l’attivismo confuso, che non finisce mai o quasi, a incidere nel mondo reale, mi sembra un circolo in cui pupparselo a vicenda.
Però qui arriva il bello, dato che sfotti devi proporre qualcosa, qual’è la tua proposta per incidere sulla realtà? come cambi le cose nel mondo della gente di ciccia?
Seriamente, quello che va fatto ora è cominciare a pensarci, senza strategia l’attivismo, di rete e non, è masturbazione.
[…] necessario a garantire all’impresa il proprio successo e dando vita ad un certo numero di feticismi: il feticismo della tecnologia come forza autonoma liberante o il feticismo della comunicazione […]
@ trabeoscopio
tu scrivi:
“ci vorrebbero attivisti erectus, ovvero persone che anzichè stare sedute alla scrivania si alzano in piedi e con le loro zampucce vanno a fare i testimoni di Geova, (ma possibilmente meno fastidiosi), ovvero che vanno a “diffondere il verbo”, cioè parlare e distribuire materiale informativo personalmente, (casa per casa se necessario), dando una faccia umana al movimento e raggiungendo le tante persone che non usano internet”
In questo momento negli USA ci sono quasi 900 piazze occupate o variamente presidiate da gente che ci mette il corpo, e lo mette a repentaglio. L’occupazione di Wall Street produce un giornale cartaceo che viene diffuso in maniera militante in tutta Manhattan. Corpi che lanciano sfide concrete. Come so che ci sono? Perché cerco di stare in rete con le antenne puntate.
In Cile c’è un movimento che coinvolge una grossa fetta di popolazione e da mesi tiene le strade a dispetto di una repressione ferocissima. E’ iniziato dalla rivendicazione studentesca di un’istruzione pubblica e gratuita, poi ha coinvolto lavoratori di tutte le categorie, intellettuali, cittadinanza diffusa, e chiede l’abolizione dell’attuale costituzione, ancora inficiata dal retaggio di Pinochet. Corpi che lanciano sfide concrete. Come so che ci sono? Perché cerco di stare in rete con le antenne puntate.
In Spagna ci sono assemblee permanenti di quartiere, e mobilitazioni che bloccano le confische di case da parte delle banche. Dal maggio scorso si è sviluppato un movimento plurale che sta allontanando la cappa plumbea di quella che in quel Paese chiamano la “cultura della transizione” (la cultura normalizzante dei trent’anni del post-dittatura). Quel movimento lancia insistentemente la parola d’ordine di uno “sciopero sociale euro-mediterraneo”. Corpi che lanciano sfide concrete. Come so che ci sono? Perché cerco di stare in rete con le antenne alzate.
L’altro ieri sono giunte a Bruxelles le marce di attivisti che hanno attraversato a piedi mezzo continente. E’ stato occupato il Parc Elisabeth, e ci sono stati arresti. Anche quando la marcia partita da Madrid era passata per Parigi, era stata accolta da cariche di polizia e arresti. C’è stata una manifestazione spontanea notturna in Place de la Bastille, e un’agitazione diffusa finché gli arrestati non sono stati liberati. Corpi che lanciano sfide concrete. Come so che ci sono? Perché cerco di stare in rete con le antenne alzate.
La Grecia è da un paio d’anni teatro di uno degli scontri sociali più radicali da molti anni a questa parte. E lo so perché chi lo porta avanti usa la rete.
In Italia il movimento che usa la rete in modo più intenso è anche il movimento più *fisico* che esista, cioè il movimento No Tav.
Ieri sera al Cairo i militari hanno fatto una strage di manifestanti, oggi l’Egitto piange la loro morte, e grazie alla rete apprendiamo che uno di loro era un attivista blogger che dal gennaio scorso, dal vivo di quelle strade, aveva informato incessantemente il mondo su quanto stava accadendo nel suo Paese.
Il 2011 verrà ricordato come l’anno in cui i movimenti hanno riempito le strade di pratiche di liberazione, in una lunga ondata che coinvolge Tunisia, Egitto, Bahrain, Israele, Siria, Spagna, Grecia, Inghilterra, Francia, Islanda, Norvegia, Cile, USA…
In questa fase c’è un disperato bisogno di un pensiero critico radicale, che nasca in dialogo con queste lotte e le accompagni, senza illusioni, smontando le “macchine mitologiche” e le narrazioni tossiche, facendo esperimenti con gli strumenti che abbiamo in dotazione. Noi ci proviamo, da scrittori, da persone che con le narrazioni ci lavorano e un po’ ne conoscono il potere ipnotizzante.
La narrazione più tossica di tutte sai qual è? Quella del non-succede-un-cazzo e degli attivisti che “stanno solo seduti alla tastiera”. In questo momento, i movimenti agiscono in un luogo che è convergenza di rete e strada. L’esercito spara nella folla, e muore un blogger, o uno che stava twittando foto della repressione.
Forse sei tu che dovresti uscire dal tuo bozzolo di idee preconcette, e accorgerti di cosa sta succedendo. E per farlo, potrebbe esserti utile stare in rete con un po’ più di attenzione, e senza nasconderti dietro pseudo-sentenze e vere e proprie idiozie come:
“l’attivista erectus è in via di estinzione proprio a causa di internet”
“della controinformazione che circola su internet un 1% (a tenersi larghi) è sensata, il resto sono boiate pazzesche.”
“in realtà il suo impatto nel mondo reale si avvicina allo zero dato che raggiunge solo altri attivisti sapiens”
Adesso basta davvero. Ho avuto fin troppa pazienza. Hai persino linkato un sito fascista. Levati dai coglioni.
@trabeoscopio, quello che conta e’ anche *dove* lo si dice, *in quale discorso* si inserisce quel che si dice, e *perche’* lo si dice. il sito “comedonchisciotte” sta portando avanti da anni un discorso ambiguo e pericoloso. dalle mie parti si dice che sta misciando merda. la frase con cui si conclude l’ articolo (“cambiare il consenso dei popoli, verso la rinascita del primato del Bene Comune”) mi spinge immediatamente ad indossare mutande di lamiera da 2mm. i “popoli” non esistono, i “popoli” sono attraversati da conflitti, di classe, di genere, di visione politica, ecc.
@Wu Ming1
Però è anche vero che la rete non è così diffusa in ogni casa.
In val di Susa molti anziani (ed anzianissimi over 80) hanno imparato ad usare internet, le telecamere digitali ed a mettere insieme un filmato da pubblicare su youtube, ma non sono la maggioranza.
Per contro l’altro giorno ho dovuto giurare ad un cinquantenne che la vicenda del tunnelgelmini non era uno scherzo ma il comunicato sul sito del ministero c’era veramente! (niente internet a casa sua)
Non so, forse ci vorrebbe un mix dei due metodi, sistema che in valle ha dato buoni risultati.
@ lalica
ehm… non ho appena descritto un mix dei due metodi? Stare in piazza, occupare un parco, parlare con la gente, diffondere un giornale cartaceo, fare assemblee di quartiere, picchettare fisicamente una casa per impedire che una banca la confischi, lottare sui luoghi di lavoro.. e usare la rete. La connessione di materiale e “immateriale” (parola che moltissimi usano ma che è del tutto falsante) era anche la premessa di tutto il discorso, e del post.
E ora in inglese, coi dovuti ringraziamenti alla crew!
http://www.wumingfoundation.com/english/wumingblog/?p=1895
Per chi sa lo spagnolo:
http://www.pagina12.com.ar/diario/suplementos/cash/33-5499-2011-10-10.html
interessantissimo, ci sono un paio di concetti di un economista argentino Pablo Levín, che descrive il “capitale tecnologico”. Trovo molte analogie con quello discusso fino ad ora, anche se in questo post si prende una prospettiva diversa. La tesi è che Steve non avrebbe potuto creare l’impero che ha fatto se non fosse stato per il contesto e lo Stato. Ma è illuminante la parte che descrive il concetto del “privilegio del innovador” (privilegio dell’innovatore) e di come questo, nel caso del capitale tecnologico, debba essere mantenuto con ingenti risorse, cosa che spiega il caso della FoxConn (senza citarlo però -.-). Se volete posso dar una mano a tradurlo, ma farlo da solo mi porterebbe troppo tempo, per via di termini che non conosco in italiano.
PS: non ho letto tutto il vostro scambio con Trabeoscopio, ma posso dire a sua difesa che sicuramente non è un fascista, ci conosciamo dal forum di spinoza e mi è sembrato strano vedervi litigare, insomma secondo me vi siete fatti prendere la mano entrambi. Dopo comunque se ho tempo leggerò meglio.
@Santiago
hola ti posso dare volentieri una mano a tradurre l’articolo ;)
@ santiago
nessuno ha detto che è un fascista, abbiamo fatto notare in due che ha linkato un noto sito rossobruno, ma è sulle argomentazioni che, con tutta la pazienza umanamente possibile, gli si è risposto punto per punto. Inoltre, gli si è contestato che, nella foga di dire la sua (che non si capiva granché quale fosse) ha ripetutamente attribuito a noi posizioni del tutto fantasmatiche. Càpita.
“In questo momento negli USA ci sono quasi 900 piazze occupate o variamente presidiate da gente che ci mette il corpo, e lo mette a repentaglio. ”
in questo momento negli USA ci sono 25 milioni di disoccupati o sottoccupati, 40 milioni di persone che campano di tessere annonarie, qualche milione che è stato buttato in mezzo alla strada dalle banche. 900 piazze occupate sono molte? IMHo non sono niente. E soprattutto, ci sarebbero stati anche senza internet, perchè sono le condizioni economiche che le mandano in piazza, non il web
@ amaryllide
Senza dubbio sono le condizioni economiche che mandano in piazza. Il web casomai serve a comunicare tra una piazza e l’altra. E con il resto del mondo.
Dopodiché, certo, quelle piazze possono essere poche o molte, a seconda del termine di paragone che si sceglie. Rispetto alla gravità della situazione statunitense sono poche, dici. Potremmo anche aggiungere che rispetto alla gravità della situazione planetaria sono ancora meno. E una volta che ce lo siamo detti cosa abbiamo guadagnato?
@ amaryllide
invito a informarsi e seguire quel che sta iniziando a succedere negli USA (e nel resto del mondo), prima di emettere sentenze frettolose e sommarie. Comunque il discorso che facevo era un altro: non è vero che o si fa attivismo in rete o si sta in strada, è una dicotomia falsa, le due dimensioni sono interconnesse nelle lotte di tutto il mondo, si usa la rete per informare sulle lotte e le rivolte mentre le si fa, per i movimenti è una pratica vitale e assicura anche il contagio da una città all’altra. Questo non significa che siano “twitter revolutions”, è un’immagine che noi contestiamo da tempi non sospetti perché è parte di una narrazione tossica e perché è espressione proprio di quel feticismo della tecnologia come forza autonoma che ho attaccato nel post qui sopra.
E’ vero, il conflitto sociale c’è sempre stato, le rivolte ci sono sempre state, ma ogni rivolta è figlia del suo tempo, non trascende la storia, ma assume la propria forma nel rapporto con l’ambiente che ha intorno e con le condizioni materiali, con le tecnologie e le armi che ha a disposizione. Il movimento globale del 2011 ha la forma che ha anche perché usa la rete. Riguardo a questo, tempo fa ho letto un’interessante analisi sul movimento spagnolo, quando la ritrovo posto il link.
[…] rivoluzionaria e geniale, se priva di componenti partecipative essa sarà destinata certamente al fallimento. Per quanto possa apparire utopistica questa chiave di lettura, l'industria dell'informatica ci […]
riguardo a quel che sta succedendo negli usa, stavo pensando che le prime marce a selma avevano coinvolto poche centinaia di persone. anche nella storica marcia a washington nel 1963 i numeri (300mila manifestanti) erano stati molto piccoli se paragonati a una qualunque manifestazione nazionale della cgil a roma. ora nessuno e’ in grado di dire come evolvera’ la protesta in usa, pero’ credo che farne solo una questione di numeri sia un po’ riduttivo e anche un po’ snob.
Attenzione.
————-
Steve Jobs ha parlato dall’Olimpo dove risiedono gli iGods.
Ha dettato i comandamenti sui quali si fonderà la nuova iReligion che verrà predicata nel tempio:
http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/10/10/news/ijobs_biografia_non_autorizzata_riccardo_bagnato-22975186/?ref=HREC2-7
Qui verranno formati i seguaci della iReligion che aspirano a diventare ministri dell’ iGod.
Così è scritto.
Sia fatta la Sua volontà.
Amen.
[…] specie di corto circuito. Dopo aver letto articoli e commenti che gettavano (giustamente) il crucifige su Amazon in quanto quint’essenza dello squalismo pseudo […]
[…] blog inaccessibile, ma in uno dei più seguiti della rete, quella che a loro piace tanto: il blog wuming. Invece i ‘compagni’ della sede romana del SEL fanno manifesti a lutto. Ciao Steve, dicono. […]
[…] da social media specialist. Steve Jobs è stato un imprenditore che ha avuto la fortuna di vendere oggetti/feticci di cui nessuno aveva bisogno ma di cui tutti hanno sentito la necessità. Arrivare ad adattare un […]
[…] Chi raramente sbaglia sono loro. […]
Se ce ne fosse stato bisogno, l’ennesima prova della confusione totale che regna tra i partiti (e i giornali) “di sinistra”.
http://www.unita.it/italia/il-colmo-dell-autolesionismo-br-sinistra-divisa-pure-su-jobs-1.341456
L’articolo di Rinaldo Gianola è la solita minestra riscaldata qualunquista, con tutte le obiezioni “pre-installate” di default nel discorso pubblico, già smontate una per una in questa discussione e in quella in calce al post su Steve Workers. Gianola rivela una scarsissima conoscenza di tutta la questione, non accenna minimamente al ciclo produttivo ma solo alle scelte dal lato del consumatore, e sulla biografia di Jobs ha due-tre nozioni di terza mano. In particolare, questo riassuntino nemmeno troppo vagamente apologetico:
“la scalata di un giovane di umili origini, adottato da una famiglia operaia, che inventa un computer in un garage, che rischia il fallimento e poi costruisce il più grande successo imprenditoriale planetario”
dà un po’ la nausea, perché è iper-feticizzante, disinformato (ad es. scompare Wozniak), subalterno alle cazzate del “self made man” ‘mmerigano che sono *purissimo neoliberismo* e che rimuovono dal quadro il lavoro e l’intelligenza collettiva. Sembra che abbia fatto tutto Jobs, e questa è narrazione tossica.
La questione finale è “Resta da capire chi è di sinistra”. Almeno, grazie a questi articoli, possiamo scoprire chi finge di esserlo.
Registriamo anche un’opinione un po’ più assennata, Odifreddi su Repubblica.it
http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/10/13/il-libro-di-jobs/?ref=HREC1-12
[…] giorni fa in alcuni angoli della rete si discuteva di feticismo e merci al tempo dell’era digitale. L’occasione era data […]
[…] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241 Share this:TwitterFacebookLike this:LikeBe the first to like this post. […]
[…] infatti l’articolo precedente, quello sulla defeticizzazione della rete, di cui sottoscrivo anche le virgole, su Steve Jobs e compagnia cantante, avrei reputato la cosa […]
[…] un saggio di WuMing1 pubblicato giorni prima sul blog. Lunghissimo, lo leggo tutto e inizio a riflettere. Inizio a pensare che per essere manovrati, noi […]
Complimenti a questo blog “intellettualoide” che cerca di far riflettere con argomenti validi e sostenuti da tesi corpose.
Ho voluto condividere ciò che ho letto qui con il mio progetto collettivo palermitano:
http://www.abattoir.it/2011/10/15/tornare-alla-realta-i-feticisti-di-jobs-e-gli-operai/
Grazie
G. G.
A proposito di “come facciamo a metterci in contatto con le lotte cinesi”.
La prima risposta è: imparare il cinese e leggersi Weibo e Renren…
La seconda: non fidarsi di giornalisti che non sanno il cinese e non sanno leggere Weibo e Renren (in Italia, il 99%)
La terza: non siamo i primi a porci il problema, qualcosa è già stato fatto, http://www.chinastudygroup.net cerca di radunare studiosi e attivisti sia cinesi che stranieri. Per dare un’idea, questi partono dicendo che se si cerca roba alla Liu Xiaobo, dalle loro parti si para male. Per iniziativa del CSG viene pubblicata la http://chinaleftreview.org/, sia in inglese che in cinese. L’ultima uscita è completamente dedicata alla condizione operaia. Una delle cose interessanti è che l’editoriale dell’ultimo numero è stato firmato dalla redazione del Chinese Workers Research Website (legato in qualche maniera all’IMT, credo), chiuso qualche mese fa dalle autorità. Il sito ha ricevuto la solidarietà di alcuni sindacalisti della United Auto Workers, fra l’altro. In più, per i cortocircuiti di cui la politica cinese è piena, alla China Left Review sono vicini i “neo-maoisti” della rivista Utopia(http://www.wyzxsx.com/ solo in cinese), che sono a loro volta quelli che hanno organizzato la “branca cinese” degli indignados a Shanghai, con un certo sostegno delle stesse autorità di Shanghai (ennesimo cortocircuito, Shanghai generalmente esprime la destra cinese)
In italiano, PuntoRosso, “Il Miracolo Cinese” scritto da autori cinesi attivi nella Asian Regional Exchange for New Alternatives, di cui però non trovo tracce recenti.
Spero che possa essere interessante, sta roba.
[…] rimosso le condizioni di lavoro delle donne morte a Barletta e, invece come ci fa notare wu ming1 ( http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241) non conosce affatto le condizioni di lavoro delle persone che lavorano nelle aziende del web come […]
“In rete, le pratiche assoggettanti sono regola tanto quanto le altre. Anzi, a voler fare i precisini, andrebbero considerate regola più delle altre, se teniamo conto della genealogia di Internet, che si è evoluta da ARPAnet, rete informatica militare.”
questa precisazione mi ha fatto tornare in mente un articolo molto interessante che leggevo qualche giorno fa sulla LRB (http://www.lrb.co.uk/v33/n18/amia-srinivasan/armchair-v-laboratory , qui il seguito http://rdd.me/vhomit1b), dove si parlava della “genetic fallacy”, descritta come “the mistaken assumption that ‘bad’ origins necessarily make for false beliefs or illegitimate practices.” (“la conclusione errata che origini “cattive” significhino necessariamente false convinzioni o pratiche illegittime”).
In altre parole, credo che suggerire che pratiche assoggettanti siano la regola “più” di quelle liberanti richiamandosi alla genealogia di internet non sia del tutto corretto.
@ giocomai
era un en passant sul filo del paradosso, introdotto da un “a voler fare i precisini”. Intendevo dire che pratiche di ogni tipo accompagnano la rete fin dal suo inizio. Comunque sì, a rigore la tua osservazione è giusta e la accetto.
@Wu Ming 1
sì sì, era chiarissimo. l’intenzione era semplicemente quella di condividere una riflessione, non certo cavillare sul merito di un passaggio che è del tutto marginale rispetto alle argomentazioni dell’articolo…
[…] Amazon (un articolo di Giap! relativo a ciò che si potrebbe nascondere sotto la superficie del miracoloso s…) solleva un nuovo ginepraio includendo tutta la catena di produzione di un libro, e divenendo uno […]
@WuMing1, il tuo discorso sulla “spazializzazione” ha chiarito molto il concetto.
E mi ha suggerito per un nuovo pezzo.
http://www.liberarchia.net/blog/?p=374
E’ di oggi la notizia che Amazon apre in Italia un nuovo centro di distribuzione delle merci, con tanto di dichiarazione/invito ai giovani italiani ad andarci a lavorare; riporto quanto dichiarato da un dirigente italiano di Amazon su internet «È soprattutto a loro che ci rivolgiamo, offrendo la possibilità di lavorare in un ambiente davvero dinamico, ricco di stimoli e di opportunità di crescita professionale. Tutti i processi, infatti, sono studiati e ottimizzati per ridurre al minimo i tempi di attesa del cliente. È affascinante scoprire come funziona realmente Amazon, cosa succede dietro le quinte del più grande sito mondiale di commercio elettronico, senza doversi allontanare dal proprio territorio».
Ma sarà davverò cosi affascinante lavorarci?
[…] dirla con le parole di Wu-Ming 1 in questa discussione ci riconduciamo alla questione della “spazializzazione” del problema, il pensarla in […]
A mio avviso non è possibile citare Marx in modo ancora così lindo, come se il primo libro di Das Kapital non fosse stato pubblicato nel 1867.
Non è detto ovviamente che una cosa fatta tempo fa sia necessariamente superata, le discipline economiche e filosofiche soffrono di una certa orizzontalità, ossia banalmente più sistemi descrivono gli stessi aspetti della realtà, senza che ci possa essere un adeguato controllo sulla verità e sull’aderenza effettiva delle teorie alla stessa.
Problema che, al contrario, non si pone spesso per le scienze più o meno esatte come la matematica, la fisica, la chimica. Il sapere legato a queste discipline si evolve chiaramente in modo verticale e gode anche di altre caratteristiche belle, tipo il fatto che una teoria possa trovarsi dentro un’altra o possa descrivere e prevedere fenomeni particolari, sotto certe ipotesi e non sotto altre. Faccio un esempio di discorso simile con questo post di Odifreddi.
Il fatto è che si è parlato con troppa sicurezza. Non è molto quello che sappiamo su come funziona il mondo in realtà. Approfittando di questo intervento per divulgare un link attinente alla disciplina che amo, faccio un esempio stupido: in questa intervista di Roberto Natalini alla Medaglia Fields (equivalente del Nobel, ma nella matematica) Cedric Villani quest’ultimo dice che “Se mettiamo l’acqua a bollire, l’acqua si trasforma in vapore e lì abbiamo un problema matematico che nessuno sa risolvere” (nel video nell’intervallo: 5.00 – 5.30).
In altre parole pretendere di parlare con così tanta saldezza di fenomeni molto più complicati mi sembra completamente non realistico. Non è una cosa nuova quella che dico, sono passati ben 150 anni. Qualcos’altro si è detto di macroeconomia e economia politica.
Infatti abbastanza noto è questo brano, preso dal saggio “Science: conjectures and refutations” di Popper:
My problem perhaps first took the
simple form, ‘What is wrong with Marxism, Psycho-analysis, and individual psychology? Why are
they so different from physical theories, from Newton’s theory, and especially from the theory
of relativity ?
To make this contrast clear I should explain that few of us at the time would have said that we
believed in the truth of Einstein’s theory of gravitation. This shows that it was not my
doubting the truth of those other three theories which bothered me, but something else. Yet
neither was it that I merely felt mathematical physics to be more exact than the sociological or
psychological type of theory. Thus what worried me was neither the problem of truth, at that
stage at least, nor the problem of exactness or measurability. It was rather that I felt that
these other three theories, though posing as sciences, had in fact more in common with primitive
myths than with science; that they resembled astrology rather than astronomy.
I found that those of my friends who were admirers of Marx, Freud, and Adler, were impressed by
a number of points common to these theories, and especially by their apparent explanatory power.
These theories appeared to be able to explain practically everything that happened within the
fields to which they referred. The study of any of them seemed to have the effect of an
intellectual conversion or revelation, opening your eyes to a new truth hidden from those not
yet initiated. Once your eyes were thus opened you saw confirming instances everywhere: the
world was full of verifications of the theory. Whatever happened always confirmed it. Thus its
truth appeared manifest; and unbelievers were clearly people who did not want to see the
manifest truth; who refused to see it, either because it was against their class interest, or
because of their repressions which were still ‘un-analysed’ and crying aloud for treatment.
The most characteristic element in this situation seemed to me the incessant stream of
confirmations, of observations which ‘verified’ the theories in question; and this point was
constantly emphasized by their adherents. A Marxist could not open a newspaper without finding
on every page confirming evidence for his interpretation of history; not only in the news, but
also in its presentation–which revealed the class bias of the paper–and especially of course
in what the paper did not say. The Freudian analysts emphasized that their theories were
constantly verified by their ‘clinical observations’. As for Adler, I was much impressed by a
personal experience. Once, in 1919, I reported to him a case which to me did not seem
particularly Adlerian, but which he found no difficulty in analysing in terms of his theory of
inferiority feelings, although he had not even seen the child. Slightly shocked, I asked him how
he could be so sure. ‘Because of my thousandfold experience,’ he replied; whereupon I could not
help saying: ‘And with this new case, I suppose, your experience has become thousand-and-onefold.’
What I had in mind was that his previous observations may not have been much sounder than this
new one; that each in its turn had been interpreted in the light of ‘previous experience’, and
at the same time counted as additional confirmation. What, I asked myself, did it confirm? No
more than that a case could be interpreted in the light of the theory. But this meant very
little, I reflected, since every conceivable case could be interpreted in the light of Adler’s
theory, or equally of Freud’s. I may illustrate this by two very different examples of human
behaviour: that of a man who pushes a child into the water with the intention of drowning it;
and that of a man who sacrifices his life in an attempt to save the child. Each of these two
cases can be explained with equal ease in Freudian and in Adlerian terms. According to Freud the
first man suffered from repression (say, of some component of his Oedipus complex), while the
second man had achieved sublimation. According to Adler the first man suffered from feelings of
inferiority (producing perhaps the need to prove to himself that he dared to commit some crime),
and so did the second man (whose need was to prove to himself that he dared to rescue the
child). I could not think of any human behaviour which could not be interpreted in terms of
either theory. It was precisely this fact–that they always fitted, that they were always
confirmed–which in the eyes of their admirers constituted the strongest argument in favour of
these theories. It I began to dawn on me that this apparent strength was in fact their weakness.
Considero alcune espressioni:
1. “Nel capitalismo, mettere la maggiore distanza possibile tra “monte” e “valle” è l’operazione ideologica per eccellenza”
2. “A essere occultati sono i rapporti di classe, di proprietà, di produzione: se ne vede solo il feticcio. E allora torna utile il Karl Marx delle pagine sul feticismo della merce (corsivo mio): «Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi.» “Forma fantasmagorica di un rapporto tra cose”. Come i computer interconnessi a livello mondiale. Dietro la fantasmagoria della Rete c’è un rapporto sociale determinato, e Marx intende: rapporto di produzione, rapporto di sfruttamento.
Su tali rapporti, la retorica internettiana getta un velo”
3. “In rete, le pratiche assoggettanti sono regola tanto quanto le altre. Anzi, a voler fare i precisini, andrebbero considerate regola più delle altre, se teniamo conto della genealogia di Internet, che si è evoluta da ARPAnet, rete informatica militare”
4. “La questione non è se la rete produca liberazione o assoggettamento: produce sempre, e sin dall’inizio, entrambe le cose. E’ la sua dialettica, un aspetto è sempre insieme all’altro. Perché la rete è la forma che prende oggi il capitalismo, e il capitalismo è in ogni momento contraddizione in processo. Il capitalismo si affermò liberando soggettività (dai vincoli feudali, da antiche servitù) e al tempo stesso imponendo nuovi assoggettamenti (al tempo disciplinato della fabbrica, alla produzione di plusvalore). Nel capitalismo tutto funziona così: il consumo emancipa e schiavizza, genera liberazione che è anche nuovo assoggettamento, e il ciclo riparte a un livello più alto”
5. “La lotta allora dovrebbe essere questa: far leva sulla liberazione per combattere l’assoggettamento. Moltiplicare le pratiche liberanti e usarle contro le pratiche assoggettanti. Ma questo si può fare solo smettendo di pensare alla tecnologia come forza autonoma e riconoscendo che è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe”
6. “Se la tecnologia si imponesse prescindendo da tali rapporti semplicemente perché innovativa, la macchina a vapore sarebbe entrata in uso già nel I secolo a.C., quando Erone di Alessandria realizzò l’eolipila. Ma il modo di produzione antico non aveva bisogno delle macchine, perché tutta la forza-lavoro necessaria era assicurata dagli schiavi, e nessuno poté o volle immaginarne un’applicazione concreta”
7. “Prendendo in considerazione tutto questo, si vedrà che di lavoro fisico (lavoro di merda, sfruttato, sottopagato, nocivo etc.) un’infornata di iPad ne incorpora parecchio, e con esso incorpora una grande quantità di tempo di lavoro. E non vi è dubbio che si tratti di tempo di lavoro socialmente necessario: oggi gli iPad si producono così e in nessun altro modo.
Senza questo lavoro, il general intellect applicato che inventa e aggiorna software, semplicemente, non esisterebbe. Quindi non produrrebbe alcun valore. Se “per fare un tavolo ci vuole il legno”, per fare il tablet ci vuole l’operaio (e prima ancora il minatore etc.). Senza gli operai e il loro lavoro, niente valorizzazione della merce digitale, niente quotazione di Apple in borsa etc. Azionisti e investitori danno credito alla mela perché produce, valorizza e vende hardware e gadget, e ogni tanto fa un nuovo “colpo”, mettendo sul mercato un nuovo “gioiellino”. E chi lo fa il gioiellino?”
8. “Su Facebook il tuo lavoro è tutto pluslavoro, perché non vieni pagato. Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no.
L’informazione è merce. La conoscenza è merce. Anzi, nel postfordismo o come diavolo vogliamo chiamarlo, è la merce delle merci. E’ forza produttiva e merce al tempo stesso, proprio come la forza-lavoro. La comunità che usa Facebook produce informazione (sui gusti, sui modelli di consumo, sui trend di mercato) che il padrone impacchetta in forma di statistiche e vende a soggetti terzi e/o usa per personalizzare pubblicità, offerte e transazioni di vario genere.
Inoltre, lo stesso Facebook, in quanto rappresentazione della più estesa rete di relazioni sul pianeta, è una merce. L’azienza Facebook può vendere informazione solo se, al contempo e senza sosta, vende quella rappresentazione di se stessa. Anche tale rappresentazione è dovuta agli utenti, ma a riempirsi il conto in banca è Zuckerberg”
9. “Non è certo nuovo, quel che sto dicendo: un tempo si era soliti chiamarla “lotta di classe”. In parole povere: gli interessi del lavoratore e del padrone sono diversi e inconciliabili. Qualunque ideologia che mascheri questa differenza (ideologia aziendalistica, nazionalistica, razziale etc.) è da combattere”
10. “E rendiamo visibili le lotte, gli scioperi. In occidente se ne parla ancora poco, ma in Cina gli scioperi si fanno e si faranno sempre di più”
Commento brevemente:
1. L'”operazione ideologica” di cui si parla non sta scritto da nessuna parte che sia intenzionale. Potrebbe emergere naturalmente. Non è scritto direttamente, ma l’impressione è quella. Chiamarla così dà di solfa ottocentesca.
2. Il “feticcio” di cui si parla potrebbe essere soltanto una visione parziale e approssimativa di un processo emotivo spontaneo degli uomini. I rapporti di produzione e sfruttamento non sono così chiari.
3. Il fatto che Internet sia nato da ambienti militari non significa nulla. Anche Von Braun prima di lavorare alla spedizione sulla Luna lavorò ai V2. Le invenzioni di derivazione militare sono innumerevoli, senza che abbiano la benché minima connessione finale con le armi. Capita ovviamente per via del grosso numero di investimenti in R&S in ambito bellico. Anche il radar favorisce “pratiche assoggettanti”?
4. Rifiuto completamente questo discorso. Nello stesso modo in cui rifiuto l’infelice esempio di Engels: “Il principio della sintesi di grado più elevato… è usato normalmente in matematica. Il negativo (-a) moltiplicato per se stesso diventa a^2, cioè la negazione della negazione ha generato una nuova sintesi”, direttamente dall’Antiduhring. Ma veramente stiamo parlando della dialettica? Con un effetto Flynn che va avanti da chissà quanto tempo alla fine parliamo di concetti semplicissimi che pretendono di catturare in modo puntuale la realtà.
5. La tecnologia è “plasmata” in parte da “rapporti di produzione e proprietà”. Ma può camminare benissimo da sola. Come cammina da solo Ubuntu. Come cammina Arduino. Lo conoscete il progetto Arduino?
6. Questo esempio è completamente fuori luogo. Non è perché c’erano gli schiavi che non decollò l’idea di Erone. Anche l’eliocentrismo di Aristarco non decollò perché c’erano gli schiavi (ricordiamo che siamo 300 anni circa prima di Cristo)?
7. Cosa succede se immaginiamo una catena di montaggio completamente meccanizzata, che non ha bisogno di alcun operaio? Avete dato un’occhiata al rapporto tra il fatturato di Foxconn e quello di Apple? E al rapporto tra il numero di dipendenti?
8. Non è scontato che Facebook sarebbe riuscito a monetizzare il suo successo. Infatti è successo soltanto nel 2009. Quello di pensare al plusvalore del proprio profilo è un gioco che si può ripetere per un mucchio di altre cose, in primis quando diamo attenzione a qualcosa circondato da pubblicità. Possiamo pensare in termini di denaro quasi qualsiasi cosa. In più YouTube per esempio ha difficoltà ad essere profittevole.
9. La “lotta di classe” è un eccesso di semplificazione che sta rendendo difficili gli obiettivi da raggiungere per gli stessi lavoratori.
10. Con tutto il rispetto, soltanto alla fine si parla di cose serie?
Non è mia intenzione buttare a mare Marx, ma va ripulito dall’impianto filosofico Hegeliano, se vogliamo proiettarlo nel presente e nel futuro.
Via “lotta di classe”, “plusvalore”, “ideologizzato”, “mistificato”. Sono cose troppo vaghe e assai dubbie.
Avanti con la Robin Hood Tax, potenziamento del Welfare, internazionalizzazione delle istanze sindacali, aumento delle retribuzioni, stabilizzazione del lavoro, democrazia, sviluppo per tutti, conoscenza per tutti, Open Source, hardware OpenSouce, diffusione delle aziende cooperative, e così via.
Il Secolo Breve è finito.
@ eulerCM
PREMESSA TEORICA N. 1: Perché riprendere concetti marxiani come “pluslavoro”, “tempo socialmente necessario”, “sussunzione reale”? Anzi: perché riprendere testi come i Grundrisse (qui non citati ma evocati in ogni riga) e il “Capitolo VI inedito”? I motivi principali sono due:
1) sono testi di Marx postumi, che erano ancora sconosciuti quando nacquero i “marxismi” della prima metà del novecento, e di certo erano e sono rimasti sconosciuti a Popper (che, per inciso, di Marx non conosceva quasi nulla, lo confondeva coi vezzi di alcuni amici che riteneva o si definivano marxisti). Questi e altri testi postumi sono spesso più ispiranti e importanti di quelli che Marx riuscì a pubblicare quand’era vivo. Infatti, quando ormai era vecchio, a uno che gli chiese come giudicasse le proprie opere, rispose: “Quali opere?”.
2) da questi testi postumi è partito il maggior numero di “attualizzazioni” e linee di fuga, nel bene e nel male. Senza quei due testi non avremmo le odierne analisi sul postfordismo etc. Il solo “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse ha dato vita al filone operaista degli anni ’60 e, dopo Marx oltre Marx di Negri, al post-operaismo dagli anni ’80 a oggi. Le analisi sul capitalismo finanziario di Marazzi e Fumagalli non esisterebbero senza i Grundrisse.
Ragion per cui, quando uno cita i Grundrisse o il VI inedito, non si sta riconnettendo solo a testi scritti 150 anni fa o giù di lì, ma anche a filoni di ricerca che sono proseguiti fino ai giorni nostri.
Ora, è evidente che io cito il “Vi inedito” al fine di:
– chiamare un “time-out” su certi discorsi che mi sembrano esagerati, arzigogolati e discutibili;
– risalire il fiume di quei discorsi verso la “fonte”, per chiarire il come e il perché di utilizzi (o non-utilizzi) dei concetti-base con cui non sono d’accordo.
PREMESSA TEORICA N.2 : C’è poco di “lindo” (se intendi, con questo aggettivo, una specie di atteggiamento scientista, ortodosso, fideistico etc.) nel modo in cui ho usato Marx in questo testo, e mi sembra davvero arduo trovarci un “impianto teorico hegeliano”. Se leggessero questa tua interpretazione, tutti gli hegeliani inorridirebbero. Il testo è fortemente impregnato di Foucault – un nietzscheano – e di Furio Jesi. Concetti come “pratiche di assoggettamento”, “macchina mitologica”, “relazioni di potere” non si trovano in Marx. Però Marx è l’unico di cui cito il cognome, perché mi piace agitare il drappo rosso di fronte ai tori. La parola “dialettica” qui non descrive un processo hegeliano di tesi-antitesi-sintesi, al limite viene descritta una “sintesi disgiuntiva” (Kant/Deleuze), un interagire di pratiche eterogenee e molteplici (e rapporti di proprietà, di produzione, di classe), che per tutto il tempo rimangono coesistenti.
Foucault e Deleuze direbbero che ho descritto un dispositivo, le pratiche che lo attraversano, i soggetti costituiti da tali pratiche, e gli spazi di libertà che questi soggetti possono crearsi insistendo su certe pratiche anziché su altre. Non c’è sintesi hegeliana né alcunché del genere.
Veniamo ai PUNTI NUMERATI:
1. “Operazione ideologica”. Se uno ha presente cosa si intenda per ideologia all’interno del discorso marxiano e poi marxista, e cioè un insieme di assunti, credenze e automatismi che struttura la realtà sociale, permea la nostra quotidianità (Zizek spiega come l’ideologia sia responsabile anche delle differenze tra i diversi modelli di water diffusi in Germania, Inghilterra e Stati Uniti!) e ci fa percepire come naturale e ineluttabile l’ordine delle cose, è evidente che la questione dell’intenzione diventa assolutamente secondaria e poco interessante.
2. L’obiezione in realtà non è un’obiezione. Quello che descrivi in alternativa al feticismo… è feticismo. Il feticismo è appunto “visione parziale e approssimativa”, e all’osso, come figura retorica del pensiero, è una sineddoche: si vede la parte e si pensa che sia il tutto. Si vede la merce e non i rapporti sociali che stanno a monte di essa. Proprio perché “i rapporti di produzione e sfruttamento non sono chiari”.
3. A questo ho risposto in un commento poco sopra il tuo.
4. Sulla dialettica, già detto sopra. L’Antiduhring, permettimi, c’entra poco. Qui non c’è alcun accenno a una sintesi, il “livello più alto” a cui riparte il ciclo assume in toto tutte le eterogeneità e molteplicità del livello precedente, e l’intera complessità dell’interagire di pratiche di assoggettamento e liberazione. Il livello è “più alto” solo nel senso che è più complesso.
5. No, la tecnologia non cammina da sola, se non nel nostro linguaggio, per azione della grammatica (questa “vecchia infida bagascia!”, diceva Nietzsche) che la trasforma in soggetto, la declina al singolare, la “personalizza” etc.
Una tecnologia “cammina” e trova applicazione se ci sono le circostanze favorevoli, gli investimenti adeguati etc. E ci sono fattori politici e geopolitici. Proprio per questo, non è affatto detto che a “camminare” sia la migliore tecnologia a disposizione, e faccio un esempio: nella guerra dei formati di videocassette, vinse il VHS della JVC, che era molto più scarso del Betamax della Sony. Il VHS vinse lo scontro per vari motivi, tutti sganciati dalla qualità del prodotto. Uno dei meno noti fu l’aggressione legale alla Sony da parte di Universal e Disney, che strumentalmente adirono le vie legali contro il Betamax, appigliandosi al fatto che alcuni proprietari di videoregistratori Sony avevano usato quella tecnologia per registrare programmi di proprietà delle due mega-corporation USA. L’incombenza della spada di Damocle giudiziaria praticamente bloccò la penetrazione del Betamax nel mercato americano, che all’epoca era l’unico esistente. Aggiungiamoci errori fatta dalla Sony. Insomma, la tecnologia migliore si estinse, e quella peggiore “camminò”, ma non certo da sola.
6. Di primo acchito, sembra più fuori luogo il paragone tra eolipila (una macchina) ed eliocentrismo (una teoria astronomica). Eppure, anche in questo caso, Marx e Foucault tornano utili (“Storia dei sistemi di pensiero”, si chiamava il corso di Foucault al Collège de France). L’eliocentrismo di Aristarco non “decollò” (mentre decollò la teoria di Tolomeo 400 anni più tardi) perché contraddiceva l’episteme dell’epoca, il sistema di pensiero della società – o meglio, della koinè – in cui viveva. L’inventore, lo scienzato, non sono “soggetti sovrani” che dominano tempo e verità e trascendono l’episteme. Se così fosse, nella storia dell’umanità ciascuna invenzione e scoperta si sarebbe affermata non appena fatta, e invece sappiamo che non è così. Un’idea si impone quando la sua formulazione coincide con una crisi dell’episteme che la circonda, e/o quando è percepita come risolutiva di un problema (non necessariamente di ordine pratico) di cui essa stessa ha rivelato l’esistenza. L’eliocentrismo si impone in quella che i francesi chiamano “età classica” – ossia nella prima fase della modernità, a partire dal XVI secolo – perché si “accorda” alla messa in crisi dell’episteme “aristotelica” e pre-moderna come uno strumento si accorda con l’orchestra. Per citare Paul Veyne che parafrasa Marx: “L’umanità si pone i problemi nel momento in cui li risolve”.
Questo è anche il motivo per cui nell’opera di Marx (a parte qualche passaggio dell’Ideologia tedesca, passaggio che comunque si deve a Engels) non c’è preconizzazione di come sarà la società post-capitalistica, né “ricette” in tal senso. Per lui, sarebbe stata la lotta a cambiare l’episteme e a rendere pensabile quel problema. Alla faccia di chi lo dipinge come un determinista, o attribuisce a lui i disastri della pianificazione burocratica nei paesi dell’Est…
7. Non è chiaro il nesso tra la prima domanda e le due successive. Ad ogni modo, quello dell’automatizzazione completa è un miraggio che ha accompagnato tutto il Novecento, traguardo che è stato più volte preconizzato, e invece si è andati sempre più nella direzione contraria. E’ solo in apparenza un paradosso che, con lo sviluppo tecnologico, nel mondo il lavoro operaio di fabbrica sia aumentato anziché diminuire. Da un lato, la manodopera dei paesi “in via di sviluppo” costa meno della Grande Riconversione; dall’altro lato, non esiste solo la produzione, e senza il lavoro non ci sarebbe il capitale. Senza lavoratori, non ci sarebbero salariati. Senza salariati, non ci sarebbe una massa di persone con potere d’acquisto. Senza tale massa, non si venderebbero le merci prodotte dalle macchine.
8. Come ho esplicitamente scritto nel pezzo, non è necessario che il proprietario di un mezzo di produzione riesca a realizzare profitti per dire che è stato erogato pluslavoro. E il paragone con il guardare la pubblicità è già stato contro-argomentato nella discussione qui sopra.
9. Mi sembra implausibile che allo stato attuale sia l’espressione “lotta di classe”, in disuso forzato da decenni, a rendere difficile la vita ai lavoratori. Nel frattempo, però, la lotta di classe l’hanno fatta i padroni, infischiandosene del fatto che sia un “eccesso di semplificazione”. Anzi, loro non si fanno problemi a tagliare con l’accetta. Si fanno meno pippe di noialtri. Aggiungo che anche “We are the 99%” sembra un eccesso di semplificazione, ma se uno va a vedere la concentrazione della ricchezza nei paesi capitalisti avanzati, vede che lo slogan dice un’importante verità.
10. Le domande retoriche bisogna saperle fare.
Zizek su ideologia e funzionamento degli sciacquoni:
http://youtu.be/rzXPyCY7jbs
A proprosito della premessa teorica n.1:
1) E’ ininfluente che Popper conoscesse o meno a fondo Marx. Il fatto è che ha indovinato sulla piega quasiparanoica che hanno preso le sue teorie presso non poche persone. Mi viene in mente una frase di Wittgenstein a proposito di Freud: “Freud, con le sue ingegnose pseudo-spiegazioni (e proprio perché sono ingegnose), ha reso un pessimo servizio”.
2) Non so: per me il fatto che non si sia soliti svincolare i concetti dalle parole e dalle pagine di Marx, cioè che sia necessario usare proprio le sue parole per parlarne sia un segno di debolezza. Si sente mai un matematico dire “la definizione di limite, che si trova sulle opere di Bolzano e Cauchy, è la seguente…”? I concetti non prendono consistenza invocando il cognome di un filosofo e nessun filosofo e nessun pensatore è ragionevolmente insostituibile.
a proposito della premessa teorica n.2:
Va bene: bisogna buttare a mare tutte le principali caratteristiche legate alla filosofia continentale, per andare al nocciolo. Per usare una parola cara. Adesso dovrebbe andare meglio.
a proposito degli elenchi numerati:
1. non sono d’accordo. Invece è importante: le reazioni nel “sistema limbico” sono importanti.
2. sì, avevo capito. Ma io aggiungo: non sono chiari a te e a me.
3. ho visto.
4. lo so che c’entra poco. Ma era per fare un esempio del perché questo modo di filosofare gode di poca stima presso di me e lo rifiuto. Non è importante cosa si intenda per “livello più alto”.
5. chi ha parlato della “migliore tecnologia a disposizione”? Il caso che hai citato non fa testo: sono due prodotti della stessa generazione, avevano punti di novità di base troppo simili. D’altra parte da qualche anno sono tornati di gran moda i dischi in vinile. Domanda banale: perché? Alla luce di quest’ultimo fatto ha senso quell’esempio?
Per fortuna la saggezza della collettività (con dentro la tecnologia, scienze, ecc) cammina da sola, indipendente da noi che stiamo parlando qui.
Faccio soltanto il nome di Daniel Dennett (Satana?).
Ma Arduino?
6. ho citato l’eliocentrismo, perché, come nel caso di Erone, quello che c’era intorno non era pronto ad accoglierlo. E’ stato un po’ come riprodurre fenomeni elettrici. Mica i fenomeni elettrici sono noti soltanto da 300 anni! Non sono cose che poteva fare una persona sola. Diciamo che su quello che dici sulla questione siamo più o meno d’accordo, anche se ho il rigetto, cerca di capirmi. Se hai inteso come penso.
7. beh non è vero che si è andati nella direzione contraria. La produzione è aumentata drammaticamente. Un rapportino produzione su persone richieste ci starebbe. Non è per niente detto che la meccanizzazione faccia scomparire i lavoratori. Semplicemente: potrebbero fare altro. Se le mani non servono più, io dico che rimane tutto il resto. Che è molto interessante. Le domande successive erano un motivo per fare caso all’enorme valore della progettazione rispetto alla produzione (e basta).
8. uffa ‘sta teoria del plusvalore. Dove ho detto che il plusvalore dipende dal profitto? Perché succedono queste spiacevoli cose? Che mi si attribuiscono cose non dette? Non è che perché io non usi paradigmi e strumenti linguistici cari alla – diciamo così – filosofia continentale, io sia completamente idiota.
Non è ovviamente quello che contesto alla teoria del plusvalore. Quello che la rende malferma è – a quanto effettivamente ammonti, rispetto al valore del lavoro dei soggetti coinvolti -. Quanto vale effettivamente per esempio il senso estetico e la tenacia nel perseguirlo di Jobs (indipendentemente dal rapporto tra me e Apple: non ho neanche un prodotto Apple! Non mi piacciono le cose che non posso manipolare. In più sono scandalizzato e arrabbiato per quello che succede in Foxconn)?
Ho parlato del profitto di Facebook per “smitizzare” la grandezza, la magnificenza e la potenza attribuitegli. Confermo: quello di considerare la navigazione su FB valore è arbitrario.
9. esistono le classi? Non me n’ero accorto.
10. uno su mille ce la fa, dice Morandi. E le sa fare. Non è capitato a me.
Questo scambio mi ha fatto ricordare Mack Smith e De Felice quando si scontrarono in televisione (non l’ho visto dal vivo, sono troppo giovane!). Non l’ho trovato su YouTube, chissà se si può recuperare. Ma soprattutto: era Mack Smith? Non mi ricordo tanto bene (veramente).
Ciao ciao
@wm1
i water italiani invece hanno un piano inclinato su cui la merda scivola lasciando una traccia, che poi deve essere eliminata manualmente con la carta igienica o con lo scatizzolamerda. :D
@eulerCM
piccola parentesi un po’ OT e mi scuso
“5. La tecnologia è “plasmata” in parte da “rapporti di produzione e proprietà”. Ma può camminare benissimo da sola. Come cammina da solo Ubuntu. Come cammina Arduino. Lo conoscete il progetto Arduino?”
Peccato. Un intervento preciso, documentato e scientifico (alcuni punti mi fanno pensare, e Dennett non è Satana, e Morandi invece parliamone) rovinato da “Ubuntu cammina da solo”. Se fossi Arduino mi sentirei offeso dall’accostamento e luciderei le alabarde ;-)
Saluti da una debian (ovviamente sid) che non cammina da sola ma almeno è in buona compagnia. Ubuntu invece.
Con tutto il dovuto rispetto, l’intervento di eulerCM mi sembra un tipico esempio di una corrente di pensiero che conosco bene perché è piuttosto forte nel mondo da cui provengo, quello degli scienziati e dei tecnici. Si tratta di un approccio “meccanicista” alla politica, dove tutti i concetti complessi vengono stralciati perché “troppo vaghi” – in realtà, perché chi li stralcia non ha avuto voglia di fare lo sforzo di comprenderli.
Si tratta dell’illusione (molto “popperiana”) che possa esistere una scienza senza filosofia. Noi – voglio dire tutti noi che almeno in qualche misura attingiamo dalla tradizione di pensiero marxista – sappiamo che una scienza che rinunci ad una filosofia è una scienza che abbraccia l’ideologia dominante.
Si noti come per esempio si propongano di scartare concetti chiave per capire il mondo, come “ideologia” o “lotta di classe”, non perché siano categorie inadatte se messe a confronto con la realtà – cosa che andrebbe dimostrata scientificamente appunto – ma semplicemente perché “sanno di solfa ottocentesca”. In questo tra l’altro non ci si accorge che è proprio questo atteggiamento positivistico-illuminista che sa di solfa forse neppure ottocentesca ma addirittura settecentesca.
La cosa più curiosa è il richiamo ad Arduino, che so cosa sia eppure non vedo cosa c’entri.
Infine, la conclusione socialdemocratica di tutto questo discorso: “Avanti con la Robin Hood Tax, potenziamento del Welfare, internazionalizzazione delle istanze sindacali, aumento delle retribuzioni, stabilizzazione del lavoro, democrazia, sviluppo per tutti, conoscenza per tutti, Open Source, hardware OpenSouce, diffusione delle aziende cooperative, e così via”.
La montagna ha partorito il topolino. Sì, proprio come disse Lenin. :-)
@eulerCM
Non entro nel merito più ampio, ma il tuo punto 5) è quanto meno vago e impreciso. Per vie dritte e traverse mi occupo di Open Source e Linux da circa venti anni e posso spenderci due parole.
A proposito di Ubuntu, ti ricordo che è un progetto in massima parte finanziato da Mark Richard Shuttleworth, un imprenditore dalle possibilità finanziare talmente grandi da essere stato il secondo turista spaziale al mondo e il primo d’Africa.
La Ubuntu Foundation, di cui è stato promotore, finanziatore e CEO fino al 2010, è stata avviata nel 2005 con un investimento iniziale di 10 milioni di dollari.
Ma anche questo è fuorviante: si diceva che “[la tecnologia] è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe”.
Senza voler contare gli investimenti diretti in un progetto, bisogna ricordare che Arduino (un progetto bellissimo e meritevole) è certo cresciuto e sostenuto dall’intelligenza collettiva dei contributors nel modello Open, ma è anche patrocinato dalla start-up di Banzi, è reso possibile dall’esistenza di chip prodotti da diverse aziende (come l’ATmega328), chip che a loro volta sono costruiti da operai, che mettono assieme silicio raccolto da minatori bambini.
Ora, come si fa a negare che “[la tecnologia] è plasmata da rapporti di proprietà e produzione, e indirizzata da relazioni di potere e di classe”?
Si badi che queste considerazioni non vogliono assumere alcun accezione negativa o un approccio qualunquista al giudizio di quei progetti.
Solo ricordare che adottare il modello Open Source non significa uscire dalla società e dal mercato e svincolarsi dai rapporti di produzione.
Neppure nelle pratiche.
Nell’agosto del 1999 ero al Chaos Communication Camp a Berlino, una riunione di migliaia di techno-hippie, hacker attivisti e tecnomani nudisti da tutto il mondo, promossa dal Chaos Computer Club di Wau Holland.
Tra gli sponsor c’erano la Cisco e la Deutche Telekom.
C_
@ EulerCM
ah, ecco. Tutto questo scrivere per poi riproporre pari pari ciarpame superato come la rivalità tra filosofia anglosassone/analitica e filosofia continentale. Un modo di ragionare da cattedratici, più adatto a firmatari di richieste di fondi che a persone interessate ad affrontare i problemi. Proprio Marx è un esempio di come si possano incontrare in modo fecondo tradizione anglosassone e continentale. Nel pensiero di Deleuze sono importantissimi i filosofi britannici, a partire da Hume, alla disamina del cui pensiero dedicò il suo primo libro, Empirismo e soggettività. Noi stessi usiamo senza problemi esempi e acquisizioni della filosofia analitica e della tradizione di pensiero “anglosassone”, che è il background filosofico di Wu Ming 2. E in generale, molti “continentali” non si fanno alcun problema a integrare nelle loro riflessioni gli esperimenti mentali degli “analitici”. E’ meno diffusa la pratica contraria, perché spesso molti analitici ragionano in termini di pisciata territoriale.
Ad ogni modo, a me sembra che i tuoi contro-contropunti numerati siano piuttosto frettolosi, o forse è un limite mio: non riesco a capire le obiezioni alle mie risposte… a parte chiedermi di Arduino (ti ha risposto Christiano e sottoscrivo) e ribadire che Popper pensava che il pensiero di Marx fosse “paranogeno”. Su quest’ultimo punto, tu pensi che non sia importante conoscere direttamente un pensiero per dire che ha un effetto paranogeno. Trovo quest’assunzione illogica e balzana.
In generale, condivido l’impressione di Mauro sulla montagna e il topolino. Come diceva Lenin.
Vorrei far notare che quello che sto dicendo fa di me un “intruso”. E’ un “tutti contro di me”, non perché le mie idee siano necessariamente minoritarie o sbagliate. Facilissimo prendermi per il sedere in questa situazione.
@Mauro Vanetti
“In questo tra l’altro non ci si accorge che è proprio questo atteggiamento positivistico-illuminista che sa di solfa forse neppure ottocentesca ma addirittura settecentesca”
A mio parere è ardito dire che pretendere chiarezza e più precisione sia una cosa settecentesca. Non sono io che lo chiedo in fondo. E’ il mondo là fuori. Che sta bocciando la forma di Wu Ming 1. La natura fa “economia”, risparmia. Ricordiamocelo.
“Infine, la conclusione socialdemocratica di tutto questo discorso”
Oh! Che cosa prevedibile! La “presa in giro della socialdemocrazia”! “Noi vogliamo tutto, perché ci spetta”!
Grazie, ci sono cresciuto con questi paradigmi. Paradigmi basati sull’argilla.
“La montagna ha partorito il topolino. Sì, proprio come disse Lenin.”
Eh, bello Lenin. Ho un’edizione stampata a Mosca negli anni 30, appartenente alla mia famiglia, che è uno splendore. Non si capisce quante sciocchezze stanno scritte.
@Christiano
Ma che c’entra quello che dici tu!
Ho fatto quegli esempi per mettere in evidenza che ci sono non poche cose che vanno avanti per la passione della gente per le sfide, la conoscenza, la condivisione, ecc.
Quanta roba Freeware c’è in giro?
@Wu Ming 1
“Ad ogni modo, a me sembra che i tuoi contro-contropunti numerati siano piuttosto frettolosi, o forse è un limite mio: non riesco a capire le obiezioni alle mie risposte”
A me non sembra strano che siano più brevi. Dopotutto la discussione deve finire, va chiarendosi e io mi posso limitare a ribadire alcune cose. Mah.
A me sembra che almeno alcune obiezioni siano chiare e meritino delle risposte. RiMah.
“Trovo quest’assunzione illogica e balzana”
Molto meno di quanto tu creda, forse. Infatti nessuna teoria merita una simile ubiquità. Il che è giustissimo. Da cui consegue quello che dice Popper.
“In generale, condivido l’impressione di Mauro sulla montagna e il topolino. Come diceva Lenin.”
Devo dire che è proprio la MIA impressione, dall’inizio.
@eulerCM
Non sei accerchiato. Non sono “tutti contro di te”. Non voglio prenderti “per il sedere”.
Mi ripeto: “la passione della gente per le sfide, la conoscenza, la condivisione” non colloca automaticamente quella gente fuori dalla società e dal mercato e non colloca la produzione tecnologica che ne deriva fuori “da rapporti di proprietà e produzione, […] da relazioni di potere e di classe”.
Quanto appaia ovvio l’ho già spiegato sopra.
Se non capisci che c’entra (eccome!), colpa mia, non saprei davvero come spiegarlo meglio.
E infine, solo per precisione, freeware non significa open source.
C_
@ EulerCM
veramente qui tutti, a partire da me, si sono sforzati di risponderti nel merito, con argomenti e controesempi. Prova ne sia che “la discussione deve finire” (e perciò bisogna essere lapidari), non l’ha detto nessuno di noi: lo hai detto tu. Se oltre a questo non sai offrire altro che il “me tapino”, povero Calimero:
http://youtu.be/BlM–m-AELY
Io, boh, non so proprio che farci. Ad maiora.
@Christiano
Sono d’accordo con te: “non colloca automaticamente quella gente fuori dalla società e dal mercato e non colloca la produzione tecnologica che ne deriva fuori”.
Ma la mia obiezione iniziale riguardava Erone e il fatto che “la saggezza della collettività” sia legata mani e piedi. Cosa non vera. Ha una certa indipendenza dai fatti economici.
“E infine, solo per precisione, freeware non significa open source”
sono ottuso, non capisco questa tua precisazione. Dove ho detto che sono la stessa cosa? Parlando di prodotti Freeware volevo parlare della quantità di cose messe gratuitamente a disposizione della gente…
“Non sei accerchiato. Non sono “tutti contro di te”. Non voglio prenderti “per il sedere”.”
Non credevo di dover sentir parlare di cose così old su Wu Ming… sono così deluso…
“veramente qui tutti, a partire da me, si sono sforzati di risponderti nel merito, con argomenti e controesempi. Prova ne sia che “la discussione deve finire””
Ti stai guardando bene dal rispondere a quello che ho detto a proposito del plusvalore… dove avevo detto che il plusvalore era legato al profitto nella testa di Marx? e il resto?
Non insisto. Volevo fare delle obiezioni che sapevo potessero essere dirompenti, perché proveniente da un altro tipo di formazione. Non sto ad elemosinare attenzione. Amen.
Ecco, di solito, dopo il “ce l’avete tutti con me”, arriva il “vi stimavo, ma mi avete davvero deluso”. Copione rispettato fin nei minimi dettagli.
A cosa dovrei rispondere sul plusvalore, scusa? La tua “obiezione” originaria diceva che non era scontato che FB “monetizzasse”, il che, rispetto all’analisi sul pluslavoro contenente nel mio pezzo, è una non-questione. L’ho specificato, e tu hai ribattuto con una domanda: “Dov’è che avrei scritto etc. etc.” Per me, l’hai scritto esattamente dove io l’ho letto. Poi, se volevi dire un’altra cosa, potevi spiegarti meglio.
Ma io vi stimo ancora! E’ rispettato il copione perché letteratura e conoscenza non sono la stessa cosa.
Sei parecchio “platonico” nel gerarchizzare i saperi, per essere un popperiano e uno che disprezza la filosofia continentale :-)
@eulerCM
Ti prego di non essere deluso: il mio incipit serviva a rassicurarti, nel senso che siamo qui a discuterne. Cercando solo di fare attenzione a non finire in flame inutili e con la paziente moderazione dei tenutari del blog verso i trollatori.
Nel merito.
Il mio commento riguardava esattamente la tua risposta al punto 5), quando scrivi che “[la tecnologia] può camminare benissimo da sola. Come cammina da solo Ubuntu. Come cammina Arduino”.
A cui ho obiettato che è “vago e impreciso”. E con riferimento a questi due precisi esempi, ho riportato parzialmente quali[1] siano per essi i “rapporti di proprietà e produzione” e le “relazioni di potere e di classe”.
L’impressione è che, quando scrivi “ha una certa indipendenza”, sia tu il primo a sostenere la dipendenza o l’impossibilità deterministica di affrancamento con quell’aggettivo indefinito “certa”.
Infine la “precisazione” era giusto una “precisazione”, dal momento che prima avevamo discusso in ambito Open e poi è stato citato il Freeware.
Cionondimeno, il fatto che esista “una quantità di cose messe gratuitamente a disposizione della gente” non sposta di una virgola quanto da me esposto.
C_
Insigne Eulero,
Sapevi che avresti fatto obiezioni dirompenti.
Le cose si risolvono con la robin hood tax.
Il Secolo Breve è finito.
Estiqatsi.
Accipicchia.
Perbacco.
Appena la trovo in cantina, ti mando la medaglia di bronzo ai giochi della gioventù regionali del ’77. Del secolo breve.
Non è proprio la medaglia fields ma basta per attestare che non dico stronzate.
Per gli agonisti come te ci sono ottime palestre di boxe. Così lo schermo fete meno di inutile testosterone.
Nell’ultima seduta spiritica che ho fatto, mi sono intrattenuto a lungo con Lenin.
Mi ha detto di dirti che non ti conosce, ma ti saluta con affetto. Nonostante le cazzate.
L.
Quello che avevo detto a proposito della teoria del plusvalore è che a quantificarlo si rivela così ballerino da essere quasi inservibile.
Quindi avevo chiesto infatti: quanto valeva il contributo di Jobs all’interno di Apple? Come possiamo rispondere in modo realistico a questa domanda?
Oppure, in una piccola impresa, come si fa a separare il profitto dal compenso del piccolo uomo d’affari?
Non sono solo io a dirlo. Se siete così bravi, saprete trovare quale “economistar” potrebbe aver detto cose simili.
Avevo detto che non mi sembrava il caso di dare così tanto peso al plusvalore perché non sappiamo bene la faccenda.
Poi la frase finale, quella della Robin Hood Tax, non significa che io escluda il socialismo reale (in accezione molto elastica). E’ che sono scettico quando si parla di Rivoluzione. Non abbiamo l’apparato tecnico teorico al momento perché sia un successo (come Erone?). Preferisco avanzare passo passo e poi vedere che succede. L’obiettivo è ovviamente un mondo migliore. E non è detto che alla fine l’esito sia il socialismo reale, a essere “precisini”.
Il punto è che quando succedono cose come il “caso Sokal”, ti viene il dubbio che a sinistra si perda perché ci sono persone che parlano a vuoto.
Beh, devo dire che adesso mi è leggermente più chiaro cosa non hai capito del mio discorso. Io non ho “quantificato” proprio nulla, anzi, ho dichiarato di non essere minimamente in grado di contabilizzare il valore in termini di ore-lavoro. Invece, ho spiegato che alla base della valorizzazione di una merce come iPad et similia continua a svolgere una funzione essenziale il lavoro necessario per produrla, checché ne dica chi ha rimosso tale lavoro dal quadro. Le fasi successive della valorizzazione (che non ho negato, anzi, ho parlato di “livelli coesistenti”), dalla creazione e innovazione di software ad alchimie di vario genere, non sarebbero possibili senza quel lavoro. Ora, la quota di quel lavoro che l’impresa remunera è esiziale, rispetto al valore che contribuisce a produrre. Tutto il resto è pluslavoro, concetto che è molto semplice da capire: le corporation occidentali spostano gli impianti in paesi “in via di sviluppo” proprio perché là possono pagare gli operai il meno possibile, cioè ottenere una grande mole di pluslavoro. Cosa c’entri questa bruta, concretissima materialità di processi con le fanfaluche decostruzioniste che prese di mira Sokal con la sua beffa non mi è per niente chiaro: forse qualcuno qui ha sostenuto che la realtà è solo scrittura etc.? Mah, mi sembra che davvero polemizzi a casaccio. Se poi ti sembra che nell’ultima parte del post io abbia proposto velleitariamente di fare hic et nunc la Rivoluzione, per giunta con la maiuscola reverenziale, adesso ho la limpida certezza che tu abbia preso ogni fischio per fiasco.
@euler
“Si sente mai un matematico dire “la definizione di limite, che si trova sulle opere di Bolzano e Cauchy, è la seguente…”?”
da matematico a matematico: beh, per i limiti forse no, ma per teorie piu’ sofisticate direi di si’. ad esempio si parla di “teoria delle distribuzioni di schwartz”, di “spazi di hilbert”, di “metodo di galerkin”, ecc. ecc.. e ogni teorema viene sempre citato col nome di quello che lo ha dimostrato, se non altro per rendere il giusto omaggio a chi quei teoremi ha concepito e dimostrato. e poi perche’ ogni matematico grosso, con la sua opera, ha creato un contesto e un gergo, e farne il nome attiva immediatamente nel lettore quel contesto e quel gergo.
(e poi, dai, e’ chiaro che se io prendo in mano un volume di hoermander sono sicuro al 100% che tutto quel che c’e’ scritto li’ dentro e’ vero, e che le dimostrazioni non contengono “bachi”. mentre se prendo in mano l’ articolo di un pinco pallino qualunque, una sana diffidenza e’ d’obbligo.)
anyway: non ha senso confrontare la matematica con la filosofia, e rimproverare quest’ ultima di non essere formulabile in termini paragonabili a quelli matematici. non tutto cio’ che pensiamo puo’ essere formulato in termini paragonabili a quelli matematici.
(comunque e’ vero che un uso troppo disinvolto, nei trattati filosofici, di metafore prese dal linguaggio scientifico ha aumentato la diffidenza reciproca tra i due mondi invece di ridurla)
Tra l’altro è evidente (come da foto) che Sokal è l’ambasciatore vulcaniano sulla terra. (Basterebbe sostituire una consonante…)
http://www.sissa.it/ilas/jekyll/n02/libri/libri_1999_04_01_n4_beffa.htm
http://it.memory-alpha.org/wiki/Soval
Va bene, siamo d’accordo sulla quasi totalità dei punti in realtà.
Richiamo le primissime parole del primo post: la mia intenzione, forse presuntuosa, era di dare una scossa e dire “ehi! c’è un certo margine di incertezza nelle ricostruzioni che si fanno! non ci spingiamo troppo in là!”. E poi c’è un serio problema, che è quello di liberarci dell’apparato ottocentesco di Marx. Non si può parlare ancora in quel modo, come scriveva lui. Le sue idee vanno riformulate e sfrondate (in realtà una certa riformulazione è in atto da un pezzo).
Non ce l’avevo con te quando ho parlato di Rivoluzione, ma con Vanetti e luca.
Il caso Sokal l’ho tirato fuori come un “drappo rosso per agitare i tori”, ma non ti accuso di parlare a vanvera. E’ una sirena che ho tirato fuori, ma se ne sta buona e spenta per conto suo ;)
Per me la discussione è finita. Su alcuni (forse piccoli) punti non siamo d’accordo, pazienza.
@tuco
Ma certo sono totalmente d’accordo con te.
Ma lo sai come me che in matematica capita di fare tante formulazioni equivalenti delle stesse cose. Non si vanno a prendere o a cercare le stesse parole precise, al massimo una formulazione si ricostruisce uguale e succede. E’ quello che mi rende perplesso a volte. Anche sul grado di comprensione effettivo delle cose per esempio.
@eulerCM
“A mio parere è ardito dire che pretendere chiarezza e più precisione sia una cosa settecentesca.”
Dipende. Saprai cos’è la meccanica quantistica. Saprai cos’è la logica fuzzy. Saprai cos’è la teoria del caos. Saprai che il concetto newtoniano di traiettoria non funziona per descrivere tutto, e che per descrivere cose più complesse di una palla di biliardo si usano concetti come distribuzioni, pattern, attrattori. Saprai che ai giorni nostri si studia scientificamente ma statisticamente il comportamento di masse umane, la topologia delle reti, l’evoluzione di sistemi.
Piccola bibliografia essenziale per capire che quella che per te è “chiarezza e precisione” è un approccio superato – e sì, sette-ottocentesco – nella scienza:
– James Gleick, “Caos – La nascita di una nuova scienza”
– Morris Mitchell Waldrop, “Complessità – Uomini e idee al confine tra ordine e caos”
– James Bailey, “Il postpensiero – La sfida dei computer all’intelligenza umana”
– Max Buchanan, “Nexus – Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione funzionano allo stesso modo”
– Philip Ball, “Critical Mass – How One Thing Leads to Another” (non ce l’ho in italiano)
Una definizione può essere “chiara e precisa” pur non essendo esprimibile semplicemente come un’equazione o pur non portando ad un modo facile per calcolare una serie di grandezze. “Plusvalore” è un concetto molto più preciso e chiaro di come tu lo stai usando, ma invece di porti il problema di precisare e chiarire il concetto tu lo rifiuti in blocco perché ti turba l’idea che si possa parlare in modo scientifico di qualcosa che per sua natura non è semplice e misurabile come – per esempio – la temperatura. Eppure proprio tu hai segnalato come anche un concetto tecnico preciso come la temperatura abbia una sua “vaghezza” (fuzziness) e dei suoi ambiti di validità (a rigore, non esiste la temperatura di un oggetto che non sia in equilibrio termico, per esempio; e d’altronde non esistono al mondo oggetti in perfetto equilibrio termico; ne vogliamo forse dedurre che non esista la temperatura?).
Proseguiamo:
“Non sono io che lo chiedo in fondo. E’ il mondo là fuori. Che sta bocciando la forma di Wu Ming 1.”
Non credo che questo articolo fosse scritto con l’obiettivo di essere fotocopiato in un milione di esemplari e consegnato al primo che passa per la strada. C’è una differenza tra analisi, propaganda e agitazione. Se si hanno le idee chiare a livello di analisi, si può trovare il modo di tradurle in propaganda e agitazione; se si hanno le idee confuse, al momento di scrivere un volantino ci si metteranno dentro il “topolino” che ci hai messo tu: la Robin Hood Tax e le cooperative. Meglio sudare un po’ di più sull’analisi.
“Oh! Che cosa prevedibile! La “presa in giro della socialdemocrazia”! “Noi vogliamo tutto, perché ci spetta”!
Grazie, ci sono cresciuto con questi paradigmi. Paradigmi basati sull’argilla.”
Non so cosa voglia dire che tu ci sia cresciuto, ma di sicuro non dai l’impressione di conoscerli molto bene. Il problema del tuo topolino non è che sia piccolo. La differenza tra riformismo (socialdemocrazia) e rivoluzione non è una differenza quantitativa (un pochino vs tutto), è una differenza qualitativa. La Robin Hood Tax è una proposta che è stata fatta propria dalla stessa Unione Europea, cioè proprio dai rappresentanti politici delle banche e del grande capitale industriale che hanno creato questa crisi; si tratta di una proposta che non cambia niente di essenziale nel funzionamento di questo sistema economico, e quindi che se anche venisse applicata non risolverebbe il problema di fondo e non impedirebbe future crisi. Le cooperative esistono già da più di cent’anni, l’Italia ne è piena e sono spesso i luoghi di peggiore sfruttamento.
Tu proponi un topolino, qui avremmo bisogno di un leone.
“Dipende. Saprai cos’è la meccanica quantistica. Saprai cos’è la logica fuzzy. Saprai cos’è la teoria del caos. Saprai che il concetto newtoniano di traiettoria non funziona per descrivere tutto, e che per descrivere cose più complesse di una palla di biliardo si usano concetti come distribuzioni, pattern, attrattori. Saprai che ai giorni nostri si studia scientificamente ma statisticamente il comportamento di masse umane, la topologia delle reti, l’evoluzione di sistemi”
Non vedo cosa abbia a che spartire la capacità di previsione della meccanica quantistica con quella delle teorie economiche di Marx. Non parliamo poi del rigore di strutture matematiche astratte.
Ma chi ha detto che io voglia formulazioni in termini di matematica conosciuta fino al seicento?
In più io direi che invece molte formulette della teoria del valore sono eccessi di semplificazione. Tentativi di descrivere fenomeni complessi mediante equazioni della scuola elementare. Il che ci può anche stare in qualche modo. Ma andiamo calmi.
““Plusvalore” è un concetto molto più preciso e chiaro di come tu lo stai usando, ma invece di porti il problema di precisare e chiarire il concetto tu lo rifiuti in blocco perché ti turba l’idea che si possa parlare in modo scientifico di qualcosa che per sua natura non è semplice e misurabile come – per esempio – la temperatura”
Ma chi ha detto questo?
Non lo rifiuto in blocco (rifiuto in blocco la dialettica hegeliana, quella sì). E’ che non mi piace sentir parlare con cotanta sicurezza di cose che non sono chiare. Ma vuoi mettere a pari la misurazione della temperatura con quella del pluslavoro? Fatti un giro sui tentativi di calcolo del pluslavoro e poi ne riparliamo.
Economia, Marx e “parlare in modo scientifico” sono proprio cose molto distanti, mi dispiace. Potete arrabbiarvi e sbattere i piedi. La cosa più verosimile che si possa dire è che stiamo quasi a zero su questa disciplina.
So che in passato si è parlato assai di “scritti scientifici”, ma è stato un eccesso di ottimismo.
Se poi vogliamo dire qualcosa in più: gli studi di Marx hanno notoriamente (banale dirlo) più valore qualitativo che quantitativo.
“Non credo che questo articolo fosse scritto con l’obiettivo di essere fotocopiato in un milione di esemplari e consegnato al primo che passa per la strada. C’è una differenza tra analisi, propaganda e agitazione”
Wu Ming 1 non se la prenda, ma questo articolo per me è in una zona grigia. Troppo superficiale per l’analisi, troppo profondo per la propaganda. Anche troppo “emotivo”.
“si tratta di una proposta che non cambia niente di essenziale nel funzionamento di questo sistema economico, e quindi che se anche venisse applicata non risolverebbe il problema di fondo e non impedirebbe future crisi”
In questo punto siamo distanti anni luce. Innanzitutto per me (sono in grande compagnia) non è affatto chiaro come lo era per Marx che il “sistema capitalistico” sia un fatto temporaneo all’interno degli eventi economici. Forme più o meno imparentate per me (sono ancora in grande compagnia) ci sono sempre state.
Sarebbe bello poter fare a meno del plusvalore, ma non è detto che si possa fare, per quello che è stato sperimentato hefinora sembra ce il plusvalore tolga al lavoratore nell’immediato sul compenso, ma poi glielo restituisca con gli interessi in termini di innalzamento del livello medio del benessere (sempre parlando con molta cautela e approssimazione e del “mondo occidentale”).
In altri termini sembra che togliendo il profitto il benessere medio scenda in modo tale da rendere non conveniente alla fine farne a meno (valgono sempre le cose ho detto prima sulla cautela ecc.).
Ma questo è ancora tutto da vedere.
A proposito delle crisi: chi lo dice che non sia “il migliore dei mondi possibili”? Cioè che il sistema migliore possibile possa contenere delle “falle”? NON LO SO, ma dico: chi lo dice che non sia così? Domanda banalissima. Ma si provi a rispondere sensatamente.
Non so che farci, ma per me la Rivoluzione è un salto nel buio. Non mi convince. Se si arriva all’economia totalmente pianificata e all’eliminazione del profitto non si arriva con successo per me con così pochi mezzi teorico/tecnici.
“Non so cosa voglia dire che tu ci sia cresciuto, ma di sicuro non dai l’impressione di conoscerli molto bene”
Significa.
Invece voi andate fortissimo. Facciamo come se Samuelson, Popper, Dennett e altri non fossero mai esistiti. Al massimo va bene Foucault, Deleuze, Adorno, ma NON OLTRE eh! Facciamo ben attenzione.
Per me è la mistificazione delle letture ingenue di Marx.
Vi prego, non arrabbiatevi con me. Non tutte le persone hanno lo stesso stile e la stessa personalità. Permettetemi di essere critico conservando le mie caratteristiche individuali, di formazione, psicologiche, strumenti linguistici, filosofici ecc.
Errata: *hefinora = finora; *ce = che.
@ EulerCM
tu puoi tenerti la formazione che ti pare, ci mancherebbe. Purché non insinui che la tua è *la* formazione par excellence, mentre tutti gli altri si nutrirebbero di superstizioni. E purché, of course, non rovesci addosso agli interlocutori il tuo malessere in forma di vittimismo, excusationes non petitae, saccenteria da due soldi, riduzionismi scientisti assortiti. Perché non è che quest’approccio “comincia” a essere stucchevole: è stucchevole già da un pezzo.
[…] alle imminenti, probabilmente, elezioni, ma a costo di cosa? La apple ha basato il suo impero sullo sfruttamento del lavoro, sull’indebitamento, vendendo a rate i suoi prodotti, di moltissimi dei consumatori che ha […]
La discussione è stata lunga, ricordare tutti i passaggi fatti è difficile e quindi scusate se ripeto qualcosa di già detto sul plusvalore.
Volevo solo sottolineare che quando Marx introduce il plusvalore lo fa partendo dallo scambio di equivalenti e dall’ipotesi che nessuno truffi nessuno, cioè che le merci vengano scambiate secondo il loro valore. Leggendo quelle pagine non può non apparire chiaro di come il plusvalore origini dal pluslavoro, cioè lavoro non pagato dal padrone al lavoratore.
Una volta introdotto il plusvalore in modo teorico e scientifico, Marx porta vari esempi quantitativi andando a pescare i bilanci di varie industrie del tempo. Se ti metti lì calcolatrice alla mano puoi anche tu rifare i suoi conti.
Ora, in quelle industrie c’era poco da interpretare: si spendeva tot in macchinari, tot in stipendi, gli operai lavoravano tot ore e producevano tot numero di merci. L’origine del plusvalore è cristallina. Sono pagine bellissime da leggere.
Oggi esistono ancora industrie dove si può fare questo discorso, sicuramente più complesso, ma credo sia fattibile. Ad esempio, le industrie cinesi dove producono elettronica; o nei centri smistamento di amazon.
D’altra parte, il lavoro cognitivo a monte di un iphone è difficile da quantificare nello stesso modo, se non impossibile.
Non vedo perché, però, questo lavoro cognitivo debba avere un natura diversa dal lavoro manuale, e quindi non essere analizzabile nello stesso modo – perlomeno a livello teorico se non pratico per le difficoltà accennate.
Ciao.
[…] che il ridicolo culto feticista sorto attorno ai prodotti della Apple: a tal fine rimando ad un interessante articolo dei Wu Ming): fenomeni che denotano, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’irruenza di quell’“effetto […]
[…] and phisically.“ Riteniamo sia utile leggere la versione integrale del documento, che potete trovare qui, è un po’ lungo, ma vale la pena arrivare fino in fondo e mettere alla prova il proprio […]
[…] messi all’ingrasso, in parte sfruttati dal sistema economico. Gretel sono i contratti precari, i lavoratori cinesi della Apple, i cassaintegrati italiani, chi aveva le azioni della parmalat, ma anche chi ipotizzava un calcio […]
[…] messi all’ingrasso, in parte sfruttati dal sistema economico. Gretel sono i contratti precari, i lavoratori cinesi della Apple, i cassaintegrati italiani, chi aveva le azioni della parmalat, ma anche chi ipotizzava un calcio […]
[…] che il web è libero. Le conseguenze di quello che Wu Ming chiama, in un post da mandare a memoria, feticismo della merce digitale. A cui soprattutto chi agisce in rete e nella rete crede deve porre molta […]
[…] http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241 Share this:TwitterFacebookLike this:LikeBe the first to like this post. […]
Condivido quasi tutto sullo sfruttamento che c’é dietro Internet. Ma bisogna ricordare che Internet é soprattutto un concetto, che va al di là della tecnologia. Basti pensare a WikiLeaks. Internet é una memoria collettiva, ha dimensioni virtualmente infinite, e non é cancellabile, perché i suoi contenuti sono duplicati su migliaia di hard disk sparsi in tutto il mondo. Questi contenuti possono essere facilmente fruiti, replicati, diffusi per mezzo di computer realizzati con le tecnologie piú diverse.
Non ci potrà piú essere il rogo della biblioteca di Alessandria d’Egitto. Grazie ad Internet, riscrivere la storia, come si faceva in 1984 di Orwell, sarà molto piú difficile. Internet, come concetto, é eterno. Si evolve con la tecnologia. E diventerà sempre piú pregnante.
@ lucanemi
che la proliferazione di copie digitali e la natura policentrica della rete siano una garanzia, in linea di massima sono d’accordo. Però sulla presunta “eternità” di questa condizione, ho molte riserve. L’informazione è pur sempre registrata su supporti fisici (i dischi rigidi dei server, e le nostre copie di back-up sono su memorie portatili fisiche), supporti che sono molto fragili, deperibili, smagnetizzabili, e che funzionano solo se c’è corrente elettrica (e quella dell’energia è una delle questioni più spinose del futuro prossimo). In un eventuale (non improbabile) crollo di sistema, o addirittura della nostra civiltà, puff!, scomparirebbe moltissimo materiale (sicuramente tutto quello privo di “hard copy”, come suol dirsi). La “documentalità”, come la chiama Ferraris, è fortemente a repentaglio.
Anni fa scrissi un articolo sui due corni di questo dilemma, che nell’impianto mi sembra ancora attuale e utile. La pars construens era la stessa del tuo commento:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/wm1_x_infoxoa.html
Imho la frase “internet sia un concetto che va oltre la tecnologia” è proprio un esempio di feticismo.
1) Internet è un insieme di protocolli di rete, inventati da persone (general intellect) legati da rapporti economici: i protocolli sono contingenti. 2) I computer e server su cui gira internet sono altrettanto contingenti in quanto legati alla produzione energetica: e qui la contingenza va dal blackout del quartiere, alla lega petrolifera di turno che può tagliare i rifornimenti, alla fine di riserve energetiche. 3) Il nostro accesso ad internet è mediato da varie società che per mille motivi potrebbero bloccarne l’accesso (mi riferisco ad esempio agli internet provider).
ciao
@Wu Ming 1
Il tema del tuo articolo del 2003, la conservazione della conoscenza, è sempre interessante ed attuale. Finchè ci sarà energia elettrica, la tecnologia potrà andare in aiuto alla migrazione, al refreshing dei documenti. Ad esempio, eMule, il più diffuso programma di file sharing, permette di condividere centinaia di migliaia di documenti, sparsi sugli hard disk di centinaia di migliaia di computer della Rete. Grazie al protocollo di rete Kademlia, i documenti vengono replicati da un computer a un altro, si propagano in modo autonomo, quasi virale. I files condivisi sulla Rete sembrano un patrimonio virtualmente indistruttibile, anche perchè si evolve con la tecnologia. Certo, finchè ci sarà tecnologia …
E se tornassimo alla barbarie, al Medio Evo? Allora sarebbe diverso. Forse ci resterebbero solo poche server farm sparse per il mondo, isolate e ben protette, dotate di generatori diesel di energia elettrica. Forse solo pochi privilegiati potrebbero leggere i documenti sugli schermi dei computer installati nelle server farm. Agli altri resterebbero solo storie da raccontare.
@redview
Sono completamente d’accordo sul fatto che Internet alimenti il capitalismo e lo sfruttamento. Ma nel mio commento mi riferivo ad Internet come mezzo per diffondere e tramandare l’informazione e la conoscenza. Una volta che un’informazione va nella Rete, è quasi impossibile fermarla. I punti di accesso alla Rete sono milioni, e una volta in rete le informazioni si propagano in modo virale, spesso incontrollabile. Basta una chiavetta USB. Basta un cellulare con un collegamento WiFi.
Certo, se vivessimo in un mondo totalitario, che controlla tutti gli internet provider, e magari controlla anche Google, forse sarebbe diverso.
@lucanemi
Nel mio commento non ho parlato di sfruttamento. Internet non va oltre la sua tecnologia; se qualcosa sembra andare oltre è qualcosa di “fantasmagorico”, ie feticista.
Non sono d’accordo quando dici che un’informazione in internet è (quasi) impossibile fermarla: nel mio commento ho fatto tre esempi di come potrebbe essere fermata (esempi che sono a prescindere dallo sfruttamento presente in ognuno di essi).
ciao :)
@lucanemi
Il fatto che la digitalizzazione dell’informazione ne favorisca la conservazione è un falso mito.
Elenco alcune problematiche, oltre agli scenari semi apocalittici (ma non improbabili) rappresentati da WM1.
1) l’accesso alle tecnologie di conservazione: ad oggi non siamo in grado di leggere i documenti digitalizzati appena un ventennio fa perché non possediamo su larga scala strumenti adatti ad eccedere agli archivi conservati sui supporti in uso all’epoca (nastri, floppy, DAT, per non parlare di schede forate e simili)
2) la durata del supporto: un CD è tutto meno che longevo, figurarsi i supporti magnetici. Ad oggi gli unici materiali che hanno dato prova di longevità significativa sono la cara e vecchia carta, il papiro, la pergamena, l’argilla, etc, etc…
3) i protocolli di comunicazione: sì, i testi su internet si moltiplicano, ma la loro moltiplicazione è proporzionale alla “popolarità” del testo. Un testo non popolare può restare relegato ad archivi vetusti accessibili tramite protocolli che i più non hanno neanche mai sentito nominare. Non è fantasia, ma ci sono ad oggi documenti archiviati esclusivamente su BBS, Gopher, UUCP. Dubito che siano in molti a riuscire ad accedere a questi dati. Domani sarà il turno del World Wide Web.
4) i formati dei file: tutti i documenti archiviati in formati proprietari sono di fatto destinati all’oblio a meno che qualcuno non si occupi di una loro conversione ad altro formato (meglio se aperto) prima che le varie software house decidano di abbandonare il supporto a tali formati per spingere la vendita di nuove suite software.
5) l’indicizzazione dei dati: se un dato non è indicizzato (e l’indicizzazione non è una cosa che avvenga motu proprio e per magia, né in modo sempiterno), che esista o meno cambia veramente poco. Di fatto, non si può sapere che esiste né come reperirlo.
Potrei elencare altri motivi per cui Internet *NON* è la biblioteca eterna, ma mi fermo qui.
C’è un aspetto del mio articolo del 2003 che a tutt’oggi mi sembra cruciale, ma ogni volta che l’ho sottoposto all’attenzione di qualcuno, ho ottenuto solo perplessità e obiezioni che mi sembravano frutto di un eccessivo attaccamento all’oggi (in parole povere: scarsa propensione a immaginare il futuro).
Un libro, se lo trovo in un fosso o in una cripta, per quanto logoro e marcito sia, lo riconosco come tale. E’ un libro. Magari è scritto in una lingua che non conosco, o addirittura in un alfabeto o altro sistema di segni che non conosco, ma è un libro, fin lì ci arrivo. E’ una fonte, un reperto storico, è scrittura, tramanda qualcosa o almeno questo era l’intento di chi l’ha scritto e pubblicato.
Andando ancor più indietro: una lapide incisa, una tavoletta d’argilla… Si capisce subito che sono scrittura, che trasmettono messaggi. Ci dicono già qualcosa anche prima di essere decifrate e tradotte.
Ma un tablet spento che cazzo è? Un computer sfasciato che cazzo è?
Sono solo rottami, pezzi di plastica e ferraglia. Immaginiamoci di essere un tizio del 27esimo secolo d.C., in un mondo segnato da fratture e discontinuità con il passato, un mondo a bassa tecnologia oppure basato su tecnologie diversissime da quelle odierne.
Costui scava un buco e trova un kindle, o un dvd, o un laptop, una chiavetta USB… Li trova perfettamente conservati, ma… non sa che farci. Non sa nemmeno cosa siano. Se un device è spento, come fai a sapere che contiene scrittura? Uno schermo è solo una lastra di vetro o plastica, inerte, inespressivo. Una chiavetta è solo un parallelepipedo di plastica.
Se una fonte non è riconosciuta come tale, non è più una fonte.
Noi stiamo nascondendo la scrittura. E intendo “scrittura” in senso lato, includendo la conservazione di immagini, grafici, software etc.
Se sul medio periodo (intendendo con “medio periodo” un futuro ancora segnato da continuità col nostro presente) la digitalizzazione sta ampliando la fruizione della cultura (è un processo diseguale, contrastato, ma è in corso), sul lungo periodo (e c’è *sempre* un lungo periodo), forse sta compromettendo la possibilità di tramandare la nostra cultura, impedendo ai posteri di riconoscerla come tale.
Gli interventi sono di lucanemi sono ottimi e colgono in pieno le caratteristiche vantaggiose del Web e dell’archiviazione distribuita.
Le repliche di redview e WuMing1 sono a mio avviso molto fiacche. E’ sensato pensare a un futuro prossimo, ma non troppo in là. Andando troppo in là ci si spinge in un gioco teorico su cui molto poco si può dire.
La durata di quasi tutti i supporti ha una scadenza. Se un un supporto è in pericolo si passa ad un altro e questo non è di solito né un grosso problema (va bene anche l’esempio passaggio pergamena – carta), nè un nostro problema.
Di che stiamo parlando?
La produzione energetica non mi sembra che sia in pericolo, in quanto il sole rimarrà acceso per i prossimi 5 miliardi di anni.
L’accesso a Internet è davvero difficile limitarlo in modo serio. Se troppa gente è coinvolta da limitazioni, è anche statisticamente più facile trovare esperti e scienziati che si impegnino a sabotare. Per questo è abbastanza difficile che limitazioni all’accesso possano avvenire su vasta scala.
Chi se ne frega dei protocolli. Non capisco. Sono ottuso.
@ivan_iraci
1. Le cose che vale la pena traferire da supporto a supporto si trasferiscono. Certo non si può pretendere di trasferire anche i filmini girati dei miei cuginetti bambini con le videocamere degli anni 70.
La collettività decide cosa è importante e cosa no, come decide quali libri vale la pena ripubblicare e quali far cadere nell’oblio.
2. Nelle webfarm gli hard disk si rompono continuamente e vengono continuamente sostituiti. Il loro contenuto per questo è backuppato e poi riscritto su un nuovo supporto ininterrottamente. Che l’hard disk non sia sempre quello non ha la minima importanza. Questo sistema è molto più longevo e sicuro della carta.
3. Non hanno nessuna importanza. E’ la collettività a scegliere quello che vale la pena recuperare con più o meno facilità.
4. Se servono si convertono, non è un ostacolo.
5. Equivale a perdere e mettere fuori posto un libro in una biblioteca immensa. Credo che sia molto più facile quest’ultimo caso.
Internet *NON* è la biblioteca eterna, è molto di più.
@Wu Ming 1
Però può darsi che i datacenter permettano all’umanità di perpetuarsi in caso di catastrofe:
http://www.docstoc.com/docs/74597247/When-Sysadmins-Ruled-the-Earth
Only joking (ma ottimo racconto). :)
@wm1
se ti puo’ consolare, per me il problema che hai sollevato e’ tutt’altro che secondario. a dire il vero gia’ da piccolo mi metteva ansia l’ idea che forse un giorno non avrei piu’ potuto ascoltare le registrazioni che io e mia sorella facevamo col registratore a bobine (non mi ricordo se fosse un butoba MT5 :)). quel giorno e’ arrivato abbastanza presto. a un certo punto, all’ inizio degli anni ottanta, il registratore si e’ sfasciato, e tutte quelle bobine sono finite in cantina, e ora non c’e’ modo di ascoltarle. i miei figli non sarebbero in grado di distinguere quei nastri da un addobbo natalizio. e’ solo un microesempio di quel che potrebbe accadere sui tempi lunghi in un macrocontesto.
@Wu Ming 1 ultimo intervento
In realtà non è un grosso problema. Le leggi della fisica e della matematica per fortuna rimangono sempre le stesse nel tempo ed è realistico pensare che in futuro ne sapremo almeno quanto ne sappiamo adesso.
Di conseguenza non dovrebbe essere particolarmente difficile ricostruire il funzionamento di un tablet, di una penna USB, ecc.
Ricordo che ad oggi noi abbiamo ricostruito il funzionamento di praticamente tutti gli oggetti che ci sono arrivati interi o anche non integri dal passato, anche se complicati.
Colgo l’occasione per divulgare il caso della macchina di Anticitera.
D’altra parte esiste la Reverse Engineering già adesso.
@ eulerCM
a parte che le mie, più che “repliche”, erano integrazioni, non so, io quest’atteggiamento “Ma di cosa state parlando? Questi non sono problemi! Non ha senso pensarci!”, l’ho sempre associato alla sconfitta preventiva della ragione (e dell’immaginazione, ma questo va sans dire).
Ciascuno è libero di gettare sulla realtà gli sguardi che preferisce, calibrandone a proprio piacimento angolatura e gittata. Tu non trovi sensato pensare alla documentalità e alla posterità remota, io invece sì, e faccio notare che (per fare un esempio) è anche in nome della posterità remota e passando per problemi legati alla documentalità che si pongono problemi *concretissimi* come quello dei siti di stoccaggio delle scorie nucleari:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/lifestyle/scorie.html
Inoltre: di formazione sono uno storico, e dalla scuola francese delle Annales ho imparato che ragionare sulla “longue durée” non solo ha senso, ma è la premessa di ogni impostazione storiografica seria. So che il divenire storico non è lineare né continuo, che alle nostre spalle abbiamo collassi di grandi civiltà, con immense perdite di memoria pubblica. Magari non è il problema più immediato, ma ragionarci sopra non è mai una perdita di tempo.
Di professione, poi, faccio lo scrittore. Tra i compiti dell’arte e della letteratura c’è anche quello di far vedere la realtà da punti di vista non scontati e stranianti, di immaginare scenari, di estrapolare il presente in modo non lineare. Proporre distopie che funzionino come cautionary tales. Imbastire con altri strumenti “esperimenti mentali” non troppo dissimili da quelli della filosofia analitica che tu apprezzi.
Di fronte a questo contributo tra storia, prefigurazione e poesia, rispondere: “Ma di che parlate? E’ una perdita di tempo occuparsi di questo! Non è un problema di cui valga la pena occuparsi!” suona un po’ asfittico, forse anche un po’ meschino.
@ eulerCM
veramente,non abbiamo ancora decifrato i quipu degli Inca. Non sappiamo a cosa servisse Stonehenge. Non abbiamo nessuna certezza sulla funzione dei menhir. Etc. etc. Potrei citarti decine e decine di esempi.
Non è un po’ rischioso fare affermazioni generalizzanti su un campo che non si conosce bene?
@eulerCM
“Chi se ne frega dei protocolli. […] Le leggi della fisica e della matematica per fortuna rimangono sempre le stesse nel tempo”
Si vede che non ti intendi di informatica.
Beh, la chiavetta non sta al tentativo di capire il suo funzionamento come Stonehenge sta al tentativo di capire il suo significato. E così vale per le altre decine e decine di esempi.
Capisco quel che vuoi dire, ma per me alcune cose sono semplicemente non corrette e l’ho fatto notare. Lo scopo dei miei interventi non vuole andare molto oltre.
Sfortunatamente il problema delle scorie è una cosa molto seria e la conoscenza che abbiamo di tecniche per accelerare il decadimento radioattivo è così a una fase primitiva da destare preoccupazione anche per il futuro.
Così in tutta sincerità non è per l’archiviazione dei dati. Anzi, le pubblicazioni dei primi del 900 che ho trovato e sto trovando su Archive.org sono fenomenali!
E poi in questo momento mi sento nello stato d’animo di fare pseudopuntualizzazioni e null’altro. Successivamente magari diventerò, diciamo così, più poetico. Se dovesse capitare.
@Mauro Vanetti.
Gia.
Anche la storia della scienza e dei paradigmi epistemologici non sembra essere precisamente il suo forte… Ma abbiano qui fisici e matematici, non mi addentro nella tematica perché ubi maior…
Ahahah, e dove avrei rivelato queste debolezze?
Ahahaah.
@ eulerCM
argomenti o smammare. Questi commentini “ridanciani” da troll qui non vengono tollerati.
@ eulerCM
“le pubblicazioni dei primi del 900 che ho trovato e sto trovando su Archive.org sono fenomenali!”
A parte che stai parlando di digitalizzazione della carta stampata, cioè proprio di quel supporto riconoscibile di cui parlavo sopra, quindi non stai eccependo al mio esempio, faccio notare che dai primi del ‘900 a oggi è trascorso un battito di ciglia, se questa è la “lunga durata” che hai in mente tu, non stiamo parlando della stessa cosa.
Va bene. Per me potete cancellare questo e il precedente commento, togliendo le risate. Comunque basta. Intervengo solamente se si portano delle obiezioni concrete o magari si mettono in evidenza queste castronerie che gira voce io abbia detto.
Era un esempio per indicare che l’archiviazione dei dati per il futuro non sembra essere minacciata, visto che adesso molte pubblicazioni sono anche su Internet e poi il mio entusiasmo è troppo grande!
In ogni caso la digitalizzazione aiuta in qualche grado persino la riproduzione cartacea.
@ eulerCM
di’ un po’, ma l’hai letto il mio articolo del 2003 su digitalizzazione e memoria che ho proposto alla discussione qualche commento sopra? Perché, se da un lato fai del “benaltrismo”, dall’altro sfondi porte aperte… Mah.
L’intervento di EulerCM spiega la mia visione di Internet molto meglio di come avrei potuto fare io. Sono completamente d’accordo con EulerCM: Internet potrebbe diventare la biblioteca eterna.
Il punto di forza di Internet sta appunto nel fatto che è composto da milioni di macchine, anche molto diverse, che dialogano tra loro e si scambiano informazioni. Grazie ai programmi di file sharing, come eMule, i documenti possono essere replicati su migliaia di computers, realizzati con tecnologie diverse, e dislocati in diverse parti del mondo. Cosa c’è di più sicuro per conservare dei documenti preziosi? Del resto, è quello ha fatto WikiLeaks. Una volta che i documenti sono in rete, neanche gli USA riescono più a controllarli.
“La durata di quasi tutti i supporti ha una scadenza. Se un un supporto è in pericolo si passa ad un altro e questo non è di solito né un grosso problema (va bene anche l’esempio passaggio pergamena – carta), nè un nostro problema.”
parlo da una prospettiva da bibliotecario: questo affermazione è contraria alla realtà, purtroppo. Nessuno ha tempo e soldi per travasare in nuovi supporti i contenuti dei floppy allegati. E oggi i floppy non li si possono più leggere. Gran parte del materiale digitalizzato gira su banche dati a pagamento (jstor, tanto per dirne una). Ma se cessavi un abbonamento a rivista le annate passate ti rimanevano per sempre, se interrompi i pagamenti delle licenze ti scompare tutto, anche le annate digitali passate.
E quella è roba con copyright, non è che la puoi craccare e tenere in casa. I cani da guardia delle case editrici accademiche sono lì con occhi e orecchie tese.
Quindi, pur con tutti i passi avanti, la digitalizzazione ha degli aspetti negativi: costo aumentato per accedere alle risorse, diminuzione della diffusione capillare, accentramento dei fornitori di contenuti e forte diminuzione della durata dei supporti – e dei loro contenuti.
(se devo dire la mia, rispetto a 20 anni fa, il miracolo che ha fatto la rete è stato quello di portare tutti i cataloghi di tutte le biblioteche on line. e gratis. Una ricerca che poteva durare anni oggi la si fa in due ore scarse)
@Wu Ming 1 8:55 pm
Per alcuni aspetti, Internet può essere visto come una creatura viva, fatta da cellule che sono computers, che possono convertire i documenti da vecchi a nuovi formati e tramandare la conoscenza.
Ma se Internet venisse completamente abbandonato, se ad esempio ci fosse una catastrofe planetaria, effettivamente tutte queste informazioni andrebbero perse. Come giustamente dici, può darsi che nessuno, in futuro, riesca a estrarre dati da un vecchio hard disk, così come oggi nessuno riesce più a leggere i vecchi floppy disk.
I documenti digitali che non sono in rete, che magari sono conservati solo su un CD o su una chiavetta USB, rischiano di andare persi. Anche i documenti sono un pò come creature vive: se nessuno li mette in rete, li segue, li condivide, li cura convertendoli a nuovi formati, possono estinguersi. Come del resto succede con i libri.
@ eulerCM e lucanemi
Diffusione, conservazione e fruibilità sono concetti non intercambiabili, voi li state ampiamente confondendo.
La problematica è ben più complessa di come la ponete, tanto che, per fare un esempio tra tanti, la Libreria del Congresso vi ha dedicato un intero programma. E’ un grosso problema anche in termini normativi, per toccare un altro aspetto, tanto più che la smaterializzazione documentale pone tante e tale problematiche da aver reso la bozza di normativa sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione un vero trattato di filosofia…
Giusto per avere un’idea, partite da qui:
http://www.icpsr.umich.edu/icpsrweb/ICPSR/curation/preservation.jsp
Questo vale per le politiche di preservazione attuate in maniera sistematica su documenti governativi o di valenza accademica, ma la stragrande maggioranza dell’informazione non è soggetta a prassi di tale genere.
Che ci vogliate credere o meno, è ben più probabile che la conoscenza si trasmetta e resti fruibile in futuro tramite supporti materiali, piuttosto che immateriali.
Le conversioni sono possibili sì, ma chi se ne occupa su larga scala? Ma se non si riesce neanche a imporre l’uso diffuso di formati aperti! :D
E poi chi non si occupa di informatica ha il mito della reverse engineering, come se fosse cosa semplice.
In uno scenario futuro, per fare reverse engineering di un documento digitale in formato proprietario su un supporto in disuso e proprietario anch’esso, bisognerebbe (banalizzando terribilmente) prima capire come i dati sono archiviati sul supporto (e in assenza di specifiche, voglio proprio vedere…) e produrre un lettore adeguato (cosa non banale né economica né fattibile su scala meno che industriale). Poi dalla sequenza di segnali analogici che rappresentano il dato digitale, devi capire la codifica adottata e tutta un’altra serie di amenità solo per ottenere il FILE (o una parte di esso, perché… vabbè, lasciamo stare) da cui non hai ancora estrapolato il contenuto. Per averne il contenuto devi capire COME è strutturato quel formato di file e procedere per tentativi.
Insomma, lavoro di ANNI di un team di fisici, matematici, ingegneri elettronici, informatici, eccetera, trascurando la disponibilità di tali professionalità e dei mezzi materiali e tecnologici per affrontare il problema.
Come dice Wu Ming 1, se ti trovi davanti una tavoletta di cera o una pergamena il dato è lì, tangibile. C’è tutto il problema della sua interpretazione, ma *è lì* immediatamente tra le tue mani.
@ivan_iraci
La replica di eulerCM sui punti 1-5 mi sembra perfetta, sottoscrivo al 100%. Internet può servire a risolvere il problema della rapida obsolescenza dei supporti digitali (floppy disk, CD).
@ Luca
diciamo che ci sono due piani del discorso: uno sincronico e uno diacronico. “Sincronico” indica il piano con-temporaneo, quello che succede nel presente, mentre siamo qui; “diacronico” indica il piano del divenire storico, del susseguirsi di epoche, quello che è successo prima e succederà dopo il nostro essere qui.
Sul piano sincronico, ci troviamo in buona sostanza d’accordo: più l’informazione circola, più viene replicata, più garanzie ci sono che rimanga relativamente (*) accessibile. Tuttavia, il processo non è per nulla incontrastato: esistono potenti dinamiche di accentramento e recinzione dell’informazione, di chiusura dei formati, di monopolizzazione e privatizzazione dei dati, e spesso essere “tecno-entusiasti” (feticisti digitali) impedisce di vederle.
Sul piano diacronico, che quasi mai viene preso in considerazione quando si parla di Internet, io individuo i problemi che ho cercato di spiegare.
* “Relativamente” perché c’è il digital divide (quasi metà della popolazione mondiale non ha mai fatto una telefonata), perché in molti paesi il potere censura la rete etc. etc.
@ lucanemi
la rete non è “immateriale”, è fatta di server, cioè di dischi rigidi. Sotto l’aspetto della deperibilità dei supporti, non c’è alcuna differenza tra le nostre “copie private” e quel che sta in rete.
@ivan_iraci 11:26 pm
Il problema che tu segnali è corretto, i documenti in formato digitale possono diventare obsoleti e illeggibili, ma una soluzione al problema può essere proprio il libero file sharing su Internet in formati aperti e non proprietari.
Possibile dover scrivere questo sul sito di Wu Ming?
@lucanemi
Facciamo finta finta che sia vero e che tutto lo scibile attualmente digitalizzato fosse libero di replicarsi indefinitamente su Internet (cosa che comunque non è vera). Ma per quanto riguarda i formati?
comunque non serve una catastrofe planetaria perche’ internet vada in vacca. e’ sufficiente che un po’ alla volta cambino i modelli di sviluppo economico e i paradigmi culturali (basta vedere che fine sta facendo la rete ferroviaria negli usa, tanto per restare in tema di reti). che cacchio ne sappiamo di quali saranno le priorita’, le aspirazioni e gli stili di vita dei nostri discendenti fra 400 anni?
@Wu Ming 1 11:41 pm
Questo tuo post mi piace molto, sono completamente d’accordo. In realtà io sono più un tecno-dipendente che un tecno-entusiasta.
Attenzione però. Anche l’Open Source può essere un feticcio. Uno dei maggiori finanziatori dell’Open Source è l’IBM (sui computer mainframe IBM gira anche Linux) e io non mi fido dell’IBM.
@ lucanemi
un certo “feticismo dell’open source” è stato fatto a brandelli da diverse persone proprio in questa discussione (prima schermata, se non ricordo male) :-)
Ma non avete mai provato a salvare un documento con Word per Windows ed aprirlo con Word per Mac? Magari contenente un po’ di formule matematiche? A me a volte capita e a volte le formule sono visualizzate di merda.
Oppure: proprio oggi ho ricevuto un pdf, probabilmente codificato usando qualche alfabeto non standard: morale, ogni tot c’era una parola illeggibile.
Due esempi tanto piccoli, tanto irrilevanti, quanto significativi sul fatto che i formati siano importanti e, come dice Mauro Vanetti, solo se non ti intendi di informatica puoi dire il contrario.
Suonate un file audio comprato su iTunes su un mp3 player non Apple, e poi riparliamone. ;)
Io non dico che ci debba essere una catastrofe naturale. Magari ci sarà, tempesta elettromagnetica che cancella tutti gli hard disk; o magari, come ho scritto, nel tuo quartiere salta la corrente: ciao internet e ciao hard disk.
Recentemente ha chiuso splinder, piattaforma piuttosto popolare per blog: dove andranno a finire?
A volte ho provato ad usare Tweetdeck per scrivere commenti lunghi su twitter, e ora quei commenti non sono più raggiungibili perché Tweetdeck ha fatto casino: quindi?
Ripeto, i miei sono esempi piccoli ed inutili, ma dimostrano di come non ci si possa fidare ciecamente della tecnologia digitale.
Per leggere un file digitale bisogna fare reverse engineering di hardware e software, oltre che della lingua del contenuto.
Non semplifichiamo troppo.
Tagliarla corta su questi temi per me vuol dire avere una visione del futuro a breve termine, limitata a dieci, cinquant’anni: futuro spicciolo, come è stato spiegato su questo blog.
ciao
PS: e in tutto questo discorso sto lasciando fuori lo sfruttamento del lavoro umano e l’impatto ambientale, di proposito, se non si finisce più.
“di’ un po’, ma l’hai letto il mio articolo del 2003 su digitalizzazione e memoria che ho proposto alla discussione qualche commento sopra? Perché, se da un lato fai del “benaltrismo”, dall’altro sfondi porte aperte… Mah.”
Già. Ma il mio primo commento era rivolto inizialmente a più di una persona.
“Nessuno ha tempo e soldi per travasare in nuovi supporti i contenuti dei floppy allegati.”
E ci credo. Ma questo è un fatto banalissimo e generale. Bisogna fare delle scelte, non ci possiamo permettere un deposito eterno di materiale.
Le cose che servono alla collettività si conservano, il resto si butta via e possibilmente si ricicla per le cose che sono utili sul serio. Il deposito eterno non andrebbe bene neanche in un Paese a piano quinquennale…
In ogni caso a mio avviso il materiale andato perduto nei floppy è meno importante e grande di quanto si possa pensare.
“Gran parte del materiale digitalizzato gira su banche dati a pagamento (jstor, tanto per dirne una)”
Perché jstor riesce a difendere seriamente i suoi archivi? Se lo dici tu.
“la digitalizzazione ha degli aspetti negativi”
Assolutamente sì. E bisogna combattere. Poche chiacchiere e poco fatalismo dalle fondamenta teoriche d’argilla.
“In uno scenario futuro, per fare reverse engineering di un documento digitale in formato proprietario su un supporto in disuso e proprietario anch’esso, bisognerebbe (banalizzando terribilmente) prima capire come i dati sono archiviati sul supporto (e in assenza di specifiche, voglio proprio vedere…) e produrre un lettore adeguato (cosa non banale né economica né fattibile su scala meno che industriale). Poi dalla sequenza di segnali analogici che rappresentano il dato digitale, devi capire la codifica adottata e tutta un’altra serie di amenità solo per ottenere il FILE (o una parte di esso, perché… vabbè, lasciamo stare) da cui non hai ancora estrapolato il contenuto. Per averne il contenuto devi capire COME è strutturato quel formato di file e procedere per tentativi.
Insomma, lavoro di ANNI di un team di fisici, matematici, ingegneri elettronici, informatici, eccetera, trascurando la disponibilità di tali professionalità e dei mezzi materiali e tecnologici per affrontare il problema.”
Infatti io credevo si parlasse di un eventuale reperto archeologico del futuro. Non vedo perché il numero di persone che potrebbe lavorarci dovrebbe essere piccolo. Già oggi su alcune interrogativi che riguardano l’archeologia e altre discipline occupano più o meno direttamente anche migliaia di persone.
““tecno-entusiasti” (feticisti digitali)”
Io sono tecnoentusiasta senza essere tecnoentusiasta in questi termini. Sono contento dell’esistenza di Internet e in più combatto personalmente contro le distorsioni introdotte dal potere e dal capitalismo rampante.
Sono un feticista digitale? Ma davvero esistono tanti feticisti digitali?
A mio avviso dall’articolo e da questi commenti vien fuori un atteggiamento troppo duro, polemico e nero nei confronti del Web.
“la rete non è “immateriale”, è fatta di server, cioè di dischi rigidi. Sotto l’aspetto della deperibilità dei supporti, non c’è alcuna differenza tra le nostre “copie private” e quel che sta in rete.”
Fortunatamente non è così. Se io carico dei documenti su Scribd e l’HD su cui ci sono i miei salta, secondo te io ho perso i documenti?
Ovvio che no. I dati sono backuppati (anche più volte) e se un HD salta si sostituisce e si ricopia dal backup (cose di cui si occupano tutto loro e frequenti nelle web farm & co).
Gli HD si rovinano facilmente eh, non ci si può permettere di dipendere da queste quisquilie, mi sembra incredibile che venga sollevato un problema di questo tipo.
“Facciamo finta finta che sia vero e che tutto lo scibile attualmente digitalizzato fosse libero di replicarsi indefinitamente su Internet (cosa che comunque non è vera). Ma per quanto riguarda i formati?”
Ancora con questa storia dei formati :D
Per me è sovrastimato.
“Ripeto, i miei sono esempi piccoli ed inutili, ma dimostrano di come non ci si possa fidare ciecamente della tecnologia digitale.”
Purtroppo non dimostrano un bel niente, perché è fuori di senno pretendere di accumulare tutto quello che passa per la Rete. Anzi, meno male che alcune si perdono. Dimenticare è importante, è come ca****disse uno famoso, indovinate chi, che comincia con la W :D
“Per leggere un file digitale bisogna fare reverse engineering di hardware e software, oltre che della lingua del contenuto.
Non semplifichiamo troppo.”
Ho già detto sopra, non si capisce perché una sfida archeologica dovrebbe avere dei limiti di risorse ristretti. Mah.
“PS: e in tutto questo discorso sto lasciando fuori lo sfruttamento del lavoro umano e l’impatto ambientale, di proposito, se non si finisce più.”
Porco mondo, porco.
Suvvia perdonatemi qualche mia (pessima) battuta.
@ eulerCM
ma che c’entra il back-up dei server? Continui a confondere i due piani del discorso, rimani sempre e solo nel presente. Il back-up avviene su un altro disco rigido, cioè sullo stesso supporto, coi medesimi problemi di deperibilità sul lungo periodo. Avere il back-up è una garanzia in più oggi e nel medio periodo, ma più in là non ci è dato di sapere nulla; siamo ben lontani dalla rete “eterna” di cui parlava Luca nel suo primo commento, inoltre abbiamo in potenza quei problemi di invisibilità della scrittura, non-riconoscibilità del reperto e non-ripescabilità del contenuto di cui parlavo poco sopra. Sforzati di pensare anche il diacronico, non solo il sincronico, e pensare a noi tutti anche in termini di *civiltà* nel suo divenire, non soltanto di società hic et nunc. Perché pensare il divenire aiuta a capire il momento attuale. Non si può confinare la riflessione soltanto a ciò che ha immediata utilità pratica.
Per il resto: io uso il personal computer dal 1984, l’e-mail e le reti informatiche dal 1990, ho usato intensamente le BBS, sto sul web dai suoi albori, il primo sito web l’ho fatto nel 1997 (usando direttamente l’html, senza interfaccia grafica), coi miei compadres ho sperimentato alacremente con tutti gli strumenti esistenti (a parte Second Life, che mai cagammo, e Facebook, che non si confà al nostro modo di lavorare), e ho gestito svariati blog in diverse lingue.
Insomma, che deve fare un cristo per non attirarsi facili, squinternate accuse di apocalitticismo?
Me lo devi venire a insegnare tu che la rete ha delle potenzialità? :-/
Beh, il processo di sostituzione dei supporti di archiviazione è continuo e i dati potrebbero rimanere sulle macchine e i computer, che via via cambierebbero, così come i supporti, potenzialmente all’infinito.
Ovviamente un grosso ruolo lo potrebbe giocare un miglioramento qualitativo notevole dei supporti di archiviazione in futuro. Io sono abbastanza ottimista, anche se, se continuiamo di questo passo, mi sa che dobbiamo trovarci un altro pianeta dove andare a prendere le materia prime (come ha suggerito Hawking).
Non ho niente da insegnare a nessuno.
Buonanotte ;)
*Si ricorda* (cit. Paolo Vinci) che i Wu Ming vennero ufficialmente invitati per un talk al linux day 2003 a Forlì (questo post conferma la giustezza dell’invito)
declinarono l’invito per altri impegni ed allora mi sostituii a loro presentando http://www.erbamate.net/wp-content/uploads/file/letteratura_open_source.pdf
a proposito di feticismo dell’open source guardare la foto del grande Stallman :-)
ci si basò anche e soprattutto su questo articolo di wm2 e wm4 http://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/lonrot.html
la replicabilità delle storie in quanto vive e soggette alla legge dell’evoluzioni arrivò al cuore, e si condivise con tutti quei ragazzi che frequentavano il Forlì Linux Group perchè, chiaramente, in grado di apprezzare.
@eulerCM 09/12/2011 at 3:39 am
<>
Condivido al 100%. I documenti (libri, video, musica) condivisi con eMule sulla rete Kademlia possono essere replicati in migliaia di copie su migliaia di PC diversi collegati a Kademlia via Internet. Se un hard disk si guasta, poco male: si butta, si sostituisce e i documenti vengono di nuovo scaricati dalla rete. La rete Kademlia è dinamica, aperta: ogni giorno nuovi PC possono collegarsi.
Sul mio PC ho un hard disk da 1 terabyte di film, libri, musica condivisi su eMule, e il mio PC è sempre connesso a Internet. Ovviamente i nemici principali di eMule sono i copywriters.
Non è detto che il file sharing ci porti alla “biblioteca eterna” di cui parlavo in un post precedente, potrebbe anche essere un vicolo cieco. Ma credo che al momento sia il meglio che abbiamo.
Secondo me ha ragione chi ha detto che Internet così come più in generale i documenti digitali sono vivi. Proprio questa è la loro fragilità, “funzionano” finché respirano e sono alimentati, sono insomma una funzione della nostra civiltà e non un deposito dei suoi prodotti. Questa è una delle letture possibili di “Fahrenheit 451”, dove va letteralmente in cenere l’illusione di immortalare la cultura umana su oggetti inanimati (la carta), perché in ultima istanza l’unico vero supporto della cultura è la materia cerebrale.
Il problema dei formati, “sopravvalutato” secondo un interlocutore che la fa semplice, è il problema dei problemi. Non esiste informazione senza formattazione, perché nemmeno capisci dove inizia il messaggio, dove finisce, quali caratteri lo compongono, e insomma che cazzo ci sia scritto ammesso che quella roba sia una scritta. Devo dire che forse sono anche più estremista dei Wu Ming perché non vedo grande differenza nell’informazione su supporto digitale rispetto a quella tradizionale. L’esempio del libro o della scritta su un cartello è fuorviante perché libri e cartelli esistono ancora nel 2011 e quindi per forza li capiamo al volo; come è stato osservato, i documenti prodotti dalle società comuniste primitive (preistoriche, prima dello sviluppo della scrittura, prima che esistessero Stato e proprietà privata) sono perduti o ci sono indecifrabili – stiamo parlando della maggior parte del tempo di esistenza dell’umanità sul pianeta, con quei nostri antenati non abbiamo quel “dialogo unilaterale” che possiamo già avere con i classici dell’antichità o con gli autori del Medio Evo. Ma pure in quei casi molto più recenti (“solo” pochi migliaia di anni fa), siamo sicuri che sia sempre possibile riconoscere in quanto tale un messaggio analogico? Avremmo capito (al di là del significato) che i geroglifici erano scritte senza la Stele di Rosetta? Di questo non mi intendo, chi ne sa di più se vuole dica.
Racconto invece una banale storia di vita quotidiana, che a mio parere mostra le dimensioni del problema dei formati. Ho “brasato” tutto ciò che avevo sul mio computer portatile, dopo aver salvato tutti i file che mi interessavano su un disco fisso esterno. Ho creato tre partizioni sul disco fisso interno, una per metterci Windows, una per metterci Linux e una per metterci i dati. Quest’ultima partizione dati sarebbe la mia piccola personale “biblioteca eterna”, indipendente dalle mutevoli sorti dei sistemi operativi, giusto? Ebbene, la partizione dati l’ho formattata con Windows in un formato di file system che credevo fosse un banale FAT o qualcosa con esso compatibile. Bello contento mi installo sulla seconda partizione una diffusissima distribuzione Linux, cerco di montare la partizione dati in modo che la si potesse vedere anche da Linux e… Sorpresa, non si vede. Non era FAT, era un fottutissimo formato exFAT inventato da Microsoft e invisibile per l’altro sistema operativo. Il formato *dei file* (testo, immagini, video) era comprensibile in entrambi i mondi, il formato *del file system* no; Linux neppure capiva che quella partizione contenesse dei file, dove iniziava un file e dove finiva un altro, come fosse la struttura delle directory: per Linux quello poteva essere un pezzo di disco fisso in cui non c’era mai stato alcun dato. Ovviamente il problema poteva essere risolto, ma se *simultaneamente* su una stessa macchina ci possono già essere problemi così gravi di formato, vi immaginate cosa può succedere dopo secoli se si rompe la catena della compatibilità e dell’interintellegibilità?
Chiusura: ma questa è una visione “pessimista” o “apocalittica” (rieccoli… apocalittici vs integrati)? Non so cosa ne pensino i Wu Ming, personalmente non la vedo così. Mi sembra una visione che invita ad un atteggiamento attivo verso il nostro patrimonio informativo, che fa capire come, ragionando su ampia scala, questro patrimonio non può essere fatto a pezzettini e conservato al sicuro “nel Cloud” o in un sistema RAID personale nascosto in un bunker in cantina. Si tratta di un patrimonio che resta vivo finché è viva la civiltà che se ne prende cura, si tratta di un patrimonio che – come i patrimoni monetari d’altronde – frutta interessi soltanto perché sotto di lui c’è del lavoro vivo che lo perpetua. Un milione di euro nascosti in un forziere sottoterra non frutteranno interessi come gli zecchini d’oro di Pinocchio, e allo stesso modo qualche Terabyte di testi scritti non frutteranno cultura da soli tra mille anni se li seppelliamo in una server farm (tanto per dirne una, anche il testo puro dipende dal charset, la battaglia per imporre uno standard è una lotta tra interessi commerciali, interessi nazionali, sviluppi culturali – qual è il codice ASCII del carattere dell’euro?). Chi crede alla prima cosa è un feticista del capitale, chi crede alla seconda è un feticista digitale.
Io vedo questo discorso semplicemente come un appello a prenderci attivamente cura (e quindi anche a prendere controllo e quindi anche a prendere possesso) del “monte dati” collettivo dell’umanità. Anche questo è un terreno di battaglia e anche qui Stato nazionale e proprietà privata giocano un ruolo reazionario nell’opporsi a standard aperti, accessibilità, libera fruizione, interculturalità.
Stando sempre al problema dei formati e della conoscenza che prolifera se e solo se val la pena di essere trasmessa, aggiungo qualcosa derivante dalla mia esperienza.
Non sono un storico, ma suppongo che per la storiografia gli atti amministrativi (e i loro equivalenti nell’arco della storia) siano importanti per ricostruire la storia e la cultura di una popolazione ALMENO quanto le produzioni letterarie.
In ambito di atti amministrativi, non c’è Internet che tenga: ogni amministrazione ha i suoi dati e – al più – le comunicazioni con le altre amministrazioni per le pratiche che coinvolgono più amministrazioni.
In caso di disastro (incendio, ad esempio, o tsunami) non ci sono server e raid che tengano, a meno di andare a mettere “in the cloud” i dati, e questo presterebbe il fianco a tutta una serie di problematiche che non è detto che siano minori rispetto alla perdita dei dati stessi.
Ma non c’è necessariamente bisogno di tirare in ballo le catastrofi naturali: il semplice cambiamento di fornitore di software di protocollo informatico (in assenza di un formato adottato uniformemente o di adeguamento allo stesso), ad esempio, rende virtualmente inaccessibili le pratiche passate perché software diversi adottano formati diversi. E meno male che esiste ancora il cartaceo! :)
So – per esperienza diretta – di amministrazioni che, a seguito di perdite di dati su supporto digitale quando avevano già messo in atto una spinta smaterializzazione (e quindi anni di Storia locale e storie locali di cui si è persa traccia…) o per evitare problemi di compatibilità in caso di cambio di fornitore, hanno deciso di fare *backup su carta*. :D
STAMPANO TUTTO A FINE GIORNATA.
Quando si arriverà alla diffusione definitiva della smaterializzazione documentale, spero che ci si ponga SERIAMENTE il problema di evitare di consegnare all’oblio la nostra storia a seguito di cause ben più banali dell’incendio della Biblioteca di Alessandria…
Credo che uno dei punti chiave della discussione, su cui dovrebbe riflettere anche chi, entusiasticamente, riduce la questione a un mero problema di ingegneria inversa, è dove viene a collocarsi la conoscenza nel passaggio tra supporto analogico e digitale.
In una pergamena di geroglifici, o una qualche altra forma di codice riprodotto su di un supporto analogico, la conoscenza è davanti ai nostri occhi, mentre osserviamo la pergamena, anche se dovesse risultare non decifrabile. Potremmo empiricamente (anche senza risultato) tentare di trovare le corrispondenze utili per decifrare quel codice, perchè siamo certi che chi l’ha scritto le ha riprodotte direttamente su quel supporto.
Nel caso di una scheda perforata, invece, la conoscenza non risiede in quello che noi teniamo tra le mani, la scheda stessa, bensì nel meccanismo tecnologico che doveva leggerla. Il cambio di prospettiva inficia il nostro rapporto stesso con la conoscenza. Quello che è andato perduto è l’intero bagaglio di quella conoscenza, non soltanto una parte.
Non a caso, la Stele di Rosetta ci permette di decifrare tutti i geroglifici tornando ad abbracciare un’intera conoscenza condivisa entro quel particolare codice. Svelato il codice, quel che ci appare non presenta alcuna ambiguità, perchè nulla di quanto possiamo sapere risiede altrove.
Riuscire a ricostruire un particolare dispositivo elettronico di lettura delle schede perforate, per contro, non ci darebbe mai la certezza di aver svelato un intero codice; il vuoto interpretativo si sposterebbe, bruscamente, dal supporto di cui disponiamo (la scheda perforata), al mezzo che (noi supponiamo) dovrebbe averlo generato.
Quel mezzo da noi ricostruito non avrebbe alcun riferimento di verità, se non il rapporto invertito causa-effetto tra la conoscenza cui tentiamo di risalire (il mezzo tecnologico) e il prodotto che quella stessa conoscenza avrebbe generato (la scheda perforata).
Equivarrebbe alla pretesa di risalire alla forma di un palazzo ricavandola non da frammenti di un progetto, o dalle sue rovine, ma dallo studio degli altri palazzi della stessa città. E magari si tratta del Guggenheim di Bilbao.
m.
@mauro vanetti
@ivan_iraci
(ma anche gli interventi degli ultimi giorni)
Probabilmente vado OT, ma non riesco a togliermi dalla testa questo pensiero, che chiamare ipotesi è forse troppo presuntuoso data la mia ignoranza: che in qualche modo che non immagino (ma concreto) ci sia un legame profondo tra il senso che una civiltà riesce a darsi, nel bene e nel male, in un determinato momento storico, e le tracce di sè che coscientemente tramanda, tangibili e in alcuni casi intelligibili.
Questo vale non solo per la scrittura ma, per fare un esempio ancora più evidente, per l’architettura: i popoli preistorici e quelli molto antichi hanno lasciato tracce tangibili di se stessi che non solo oggi faremmo fatica a riprodurre, ma in alcuni casi addirittura a smontare. Quante delle costruzioni realizzate nel nostro tempo potrebbero durare più di una manciata di decenni? Anzi: quante sono *pensate* per durare più di tanto?
Un altro esempio, sempre restando nella cultura. L’altra sera ho visto Mario Brunello suonare un violoncello vecchio di quattro secoli. Le migliori chitarre elettriche prodotte oggi sono pensate per essere sostituite tra quattro o cinque anni dall’ultimo modello più tecnologico.
Possiamo sospettare di avere, coscienti o meno, lo stesso atteggiamento verso la nostra produzione culturale? O meglio: possiamo pensare la stessa cosa del senso che diamo a *tutta* la cultura, compresa quella anteriore, che abbiamo ereditato e non ci appartiene?
Può darsi che in realtà sappiamo benissimo che digitalizzare tutto aumenta il rischio di perdere tutto?
Se nella nostra percezione del momento attuale rientrasse, come credo, l’idea più o meno esplicita che il passato e il futuro non sono cazzi nostri, che durare non ci interessa e non vale la pena, non sarebbe in fondo perfettamente logico se agli archeologi del futuro restasse poco o nulla di noi e di quello che ci passa per la testa e per le mani?
“Questo vale non solo per la scrittura ma, per fare un esempio ancora più evidente, per l’architettura: i popoli preistorici e quelli molto antichi hanno lasciato tracce tangibili di se stessi che non solo oggi faremmo fatica a riprodurre, ma in alcuni casi addirittura a smontare. Quante delle costruzioni realizzate nel nostro tempo potrebbero durare più di una manciata di decenni? Anzi: quante sono *pensate* per durare più di tanto?”
Questo brano mi lascia alquanto perplesso.
Io dico che le costruzioni degli ultimi due secoli hanno molta più speranza di sopravvivere di quelle precedenti.
Certo che le capanne c’hanno una longevità.
Io direi di andare a vedere l’ultimo film di Woody Allen, così, giusto per avere un altro punto di vista (spassionato) sul passato.
“Riuscire a ricostruire un particolare dispositivo elettronico di lettura delle schede perforate, per contro, non ci darebbe mai la certezza di aver svelato un intero codice”
Sulla base di cosa lo dici?
“Equivarrebbe alla pretesa di risalire alla forma di un palazzo ricavandola non da frammenti di un progetto, o dalle sue rovine, ma dallo studio degli altri palazzi della stessa città. E magari si tratta del Guggenheim di Bilbao.”
Sulla base di cosa lo dici?
Io dico che potrebbe non essere esattamente così: nel caso delle schede perforate probabilmente manca o viene assai meno la componente artistica, la componente arbitraria.
@eulerCM
Piramidi. Notre Dame. Tiahuanaco. Partenone. Reggia di Venaria. Micene. Macchu Picchu. Tutta roba che ha più di due secoli. A tua scelta.
Le Twin Towers, invece.
E’ intrigante e vale la pena dare un’occhiata al caso della macchina di Anticitera: link alla pagina di Wikipedia eng.
Mi permettete un romanticismo. Nel 1999/2000 la storia d’amore con la mia compagna, durata 12 anni, e’ nata e si e’ sviluppata grazie alle email. Al tempo ebbi l’idea di salvare parte di quella corrispondenza in .txt su floppy…li ho casualmente ritrovati questa estate. La fortuna ha voluto che da appassionato di informatica mi sia tenuto un vecchio pentium II con lettore. Me lo sono ripreso, rimesso in funzione, installato il mio bel linux e opla’… le email di un amore sono risaltate fuori per magia con un’emozione incredibile. tutta questa papardella per dire che si’, la velocità con cui e’ cambiato tutto negli ultimi anni, è stupefacente, ma continuiamo ad avere fiducia nell’uomo e nella sua mania di conservare tutto. Al mondo, ci sara’ sempre qualcuno che avrà conservato il modo di leggere un file vecchio anche di anni…
La questione che è emersa qui in questi ultimi due giorni è interessante e vorrei provare ad allargarne le maglie.
Partiamo da quello che mi pare aver individuato come il nucleo problematico più “caldo” attorno al quale stiamo discutendo: la conservazione della cultura e il ruolo della digitalizzazione in relazione a questa necessità.
Proviamo a fare una piccola genealogia del concetto e domandiamoci: quando e in relazione a cosa nasce il concetto di conservazione di un bene culturale (e della cultura in generale)?
Il concetto moderno di conservazione (quello a cui mi pare si stia facendo riferimento qui) della cultura nasce all’incirca nell’ottocento (non avendo ora sottomano le fonti a cui faccio riferimento le cronologie in questo commento saranno necessariamente approssimative, di questo mi scuso in anticipo e accetto qualsiasi garbata puntualizzazione ;) ) in relazione alla comparsa del museo moderno e all’affermarsi degli stati nazionali.
Il museo e, dunque, il concetto moderno di conservazione nascevano come esigenza legata all’affermarsi di un’identità nazionale di cui dovevano costituire l’archivio e la testimonianza.
In precedenza il problema del recupero e della conservazione delle vestigia del passato era ben poco avvertito (l’esempio più scontato e banale è quello del Colosseo usato per secoli come riserva di materiale edile nella crescita urbanistica della città di Roma) o presentava caratteristiche diverse (la dimensione di “esercizio spirituale” che distingue la pratica dei copisti medioevali). Non a caso, quello che ci è giunto dal passato non è che una minuscola parte di quello che chiamiamo “patrimonio culturale”, il resto si è consumato per ragioni contingenti, politiche e tecnologiche.
In relazione al concetto moderno di conservazione lo sviluppo tecnologico ha sempre agito in direzione contraria a questo consumo inevitabile degli artefatti umani, nel tentativo di rallentarlo o addirittura negarlo.
Tale aspirazione ha trasformato la fisionomia dei luoghi della conservazione: il museo e la biblioteca. Questi luoghi, presentano una parte visibile, espositiva, dove gli oggetti possono essere fruiti, e una parte invisibile, di stoccaggio, dove trovano posto tutti quegli oggetti che devono essere conservati ma non sono abbastanza rilevanti da dover essere esposti.
L’archivio diventa dunque, nel regime della conservazione totale, un magazzino ad alto contenuto tecnologico. Tuttavia, nonostante i numerosi progressi nelle tecnologie di conservazione, il consumo degli oggetti sembra essere inarrestabile (il concetto è messo in immagini in maniera straordinaria da Alain Resnais in Toute la memoire du monde http://www.youtube.com/watch?v=HJQoiSPauFU).
Si stima infatti che solo le piramidi supereranno indenni, fatte salvi eventuali eventi catastrofici, il terzo millennio.
Il problema, dunque, è prima di tutto teorico e solo in seguito tecnologico (per quanto questo aspetto ponga problemi rilevanti che più sopra sono stati individuati efficacemente) e concerne l’elaborazione di un concetto di archivio che permetta di comprendere al suo interno l’oblio e il consumo come elementi costitutivi di una dialettica della conservazione, superando l’idea di un archivio come “spazio di stoccaggio” inerte.
Foucault ne L’archeologia del sapere ha dato un contributo importante in direzione dello sviluppo di un concetto di archivio concepito in questi termini. Per il filosofo francese, l’archivio è fin da subito lavoro sull’archivio, capitalizzazione narrativa di esso, genealogia (il metodo genealogico, in Foucault, consiste nell’individuazione delle relazioni che costituiscono un discorso e ne determinano l’efficacia politica).
Nell’ambito di una cultura digitale, che dell’archivio (database) fa una delle sue forme privilegiate, il problema è allora quello di costruire gli strumenti di intervento più efficaci, piuttosto che quello di ambire alla creazione di iSpazi di stoccaggio, inevitabilmente soggetti a un’obsolescenza che è in un certo modo costitutiva (è Ricoeur, se non sbaglio, a porre l’oblio come momento costitutivo della memoria e dunque fondamento di possibilità del ricordo e della testimonianza, giacché una memoria che si sforzi di ricordare ogni cosa è già in partenza una memoria bloccata e dunque inefficace).
Quanto alla possibilità di comprensione degli odierni digitali supporti della cultura in una prospettiva di lunga durata, a cui fa riferimento Wu Ming 1, la questione ruota intorno alla possibilità di concepire o meno linee di continuità nell’evoluzione antropologica e culturale della civiltà. A mio avviso, ora come ora, mi pare più probabile che nel futuro saranno proprio i libri e i tradizionali supporti della cultura a risultare estranei e misteriosi (fatti naturalmente salvi eventi in grado di produrre una cesura netta negli alberi evolutivi della civiltà umana) o almeno così mi pare guardando immagini come queste: http://www.youtube.com/watch?v=OI5WN35k5jY
Nella speranza di aver contribuito, chiedo perdono per l’alluvione di parole
Team Digital Preservation
http://youtu.be/pbBa6Oam7-w
http://www.youtube.com/user/wepreserve#g/u
(non ho ancora letto tutti i commenti, ritornero’ con piu’ calma)
“Il problema, dunque, è prima di tutto teorico e solo in seguito tecnologico (per quanto questo aspetto ponga problemi rilevanti che più sopra sono stati individuati efficacemente) e concerne l’elaborazione di un concetto di archivio che permetta di comprendere al suo interno l’oblio e il consumo come elementi costitutivi di una dialettica della conservazione, superando l’idea di un archivio come “spazio di stoccaggio” inerte.”
Sono totalmente d’accordo.
Detto in altre parole, una domanda fondamentale è: Cosa dobbiamo ricordare, cosa dobbiamo conservare?
“Quanto alla possibilità di comprensione degli odierni digitali supporti della cultura in una prospettiva di lunga durata, a cui fa riferimento Wu Ming 1, la questione ruota intorno alla possibilità di concepire o meno linee di continuità nell’evoluzione antropologica e culturale della civiltà.”
Sono completamente d’accordo.
Molto dipende dalla possibilità o meno che si torni a “far la guerra con le pietre”.
La storia è fatta di fratture, discontinuità culturali, rotture dell’episteme, entropia.
Lo si vede studiando l’evoluzione delle lingue: oggi nessuna delle lingue europee di duemila anni fa è parlata nella vita quotidiana, e duemila anni sono un lasso di tempo ridicolo. Ergo, nessuna delle lingue che parliamo oggi sarà viva tra duemila anni. Se la specie umana avrà fortuna, esisteranno studiosi e specialisti in grado di comprenderle, ma nessun popolo le parlerà. Se invece la specie non avrà fortuna, nihil.
Lo si capisce se ci pensiamo nella lunga durata: presto o tardi la nostra civiltà crollerà, questo è certo. *Tutte* le civiltà che possiamo nominare sono crollate: sumera, babilonese, egiziana, ittita, minoica, etrusca, celtica, classica greco-romana, vichinga, olmeca, tolteca, azteca, maya, inca, austronesiana… Di alcune di queste non decifreremo mai i codici, non scopriremo mai i segreti.
Ed esistono mondi più antichi di quelli, di cui ci sono rimaste solo poche suppellettili. Non abbiamo la minima idea di quali divinità adorasse l’uomo di Cro-Magnon. Che canzoni cantavano i maglemosiani? Non sappiamo che cultura avessero i nostri antenati che per decine di migliaia di anni convissero con i Neanderthal.
Davvero qualcuno pensa che tra quindici-ventimila anni le nostre suppellettili saranno più intelligibili ai posteri di quanto un cerchio megalitico è intelligibile a noi?
E le civiltà antiche avevano mezzi di distruzione e autodistruzione che ci muovono al sorriso, se li paragoniamo a quelli odierni.
Insomma, io sono sicuro che sul lungo periodo si produrranno forti discontinuità.
Chiunque si ritenga rivoluzionario deve lavorare come può perché i cambiamenti e le discontinuità siano in direzione del meglio anziché della catastrofe. Da qui il discorso su come tramandare il più possibile, di come gettare oltre i secoli e i millenni quel che abbiamo creato (o meglio: una selezione di quanto riteniamo meritorio).
Pensare che tutto andrà avanti in modo lineare, indefinitamente, è un’illusione e deriva da un eccessivo schiacciamento sul presente. Ripeto: bisogna pensare la lunga durata, come fanno gli archeologi.
Per di più, sono convinto che alcuni crolli dell’edificio, alcune cesure storiche siano già dietro l’angolo.
@Wu Ming 1: d’accordo con te quando sottolinei che la storia è fatta di fratture, discontinuità e entropia. Nella chiusa dell’intervento ho usato, a sproposito, il termine “linee evolutive” per comodità.
Infatti poco dopo lo sostituisco con il termine “alberi evolutivi”, che pur con i suoi limiti è più pertinente (sui problemi legati alla rappresentazione dei processi storici ed evolutivi consiglio la visione di questo intervento di Telmo Pievani: http://bidieffe.net/bdf-3-4-telmo-pievani-non-di-soli-geni-le-molteplici-sorgenti-di-variazione-nella-teoria-dell’evoluzione-oggi/).
Spero di essere stato chiaro nel precedente commento sul fatto che la necessità di tramandare la memoria è certamente prioritaria, ma, a mio avviso, questa non deve diventare ansia da conservazione di tutto a tutti i costi, quanto, piuttosto, lavoro sull’archivio nei termini e nei modi indicati da Foucault.
Intervengo in merito dei recenti commenti di Mauro e quello di WM1 che avete linkato stamattina su twitter.
La questione è molto curiosa e personalmente la trovo interessante. Ho anche linkato la discussione ad un amico – nickname: nedanfor – e abbiamo discusso al riguardo. Ecco noi crediamo che pur avendo uno sguardo “distopico”, il problema della discontinuità (per lo meno dal punto di vista del sapere archiviato) che ipotizzate, non sarebbe così drastico.
Per iniziare si può pensare ai formatti liberi. Di primo acchito viene da pensare che siano la soluzione, poiché come tali sono “aperti” e quindi per decifrarli basta avere il codice libero che ci permetta di farlo. E per “libero” si intende un codice senza brevetti e ostacoli vari.
Diciamo che se un giorno un archeologo dovesse trovare tutte le opere dei Wu Ming in formato .DOC, per leggerle gli basterebbe avere un programma che possa aprirle. Se dovesse trovarle in .ODT (che è lo *standard* open controparte del .DOC) gli basterebbe avere il codice libero, per creare il suo proprio programma e poterlo leggere.
Io credo che sarebbe più “facile” trovare la Stele di Rosetta di un .ODT (il suo codice libero) che quella di un .DOC. (non c’è, esiste il programma già compilato, confezionato in .exe)
Tuttavia, non è vero. Poiché esiste quello che nel mondo informatico chiamano reverse engineering. La tecnica che consiste nel risalire al codice per decifrare i formatti o i file senza avere un briciolo di informazione e/o manuale.
Tanto per farvi un esempio. Già oggi molta gente, senza documentazione, solo con la propria esperienza, ha scritto dei driver liberi per le schede video nVidia (chiamati nouveau) senza avere nessun supporto da parte dell’azienda. Neanche un fottuto manuale che spiegasse le basi di funzionamento del microchip e neppure ingenti fondi. Tuttavia sono arrivati a livelli discreti. Certo, se uno installa i driver forniti dalla casa madre la scheda funziona con le massime prestazioni, con i driver liberi ancora non raggiunge la massima prestazione, ma funziona più che decentemente.
http://it.wikipedia.org/wiki/Ingegneria_inversa
Questo per dire che in futuro, il reverse engeneering dovrebbe permettere di superare il problema di un formato illeggibile.
ah, merda. si scrive formati. se potete correggete e togliete questo messaggio. Scusate :)
Mi fa piacere “scoprire” che le cose che ho scritto non sono completamente campate in aria, come a volte può capitare qualcuno voglia lasciar intendere.
@eulerCM
per quel che conta, io non penso che siano campate in aria le cose che scrivi o che scrivono altri (più o meno ci stiamo dividendo in due correnti). Penso solo che richiedano molto, molto ottimismo nel presente e nel futuro.
@santiago, sul reverse engineering
A parte che tra duemila anni uno potrebbe anche avere la botta di culo di trovare le specifiche del formato doc nelle rovine sepolte di Redmond. Anche la stele di Rosetta fu una botta di culo: gli scavi di un cantiere edile. Ma il problema secondo me non è quello.
Premesso che vorrei saper dire quelle cose lì come fa @wm1, e premesso che in sostanza sono esattamente quelle che penso, per quel poco che so di archeologia e studi del passato non mi pare che i processi di “reverse engineering” siano esattamente la regola per capire come sono andate le cose.
Il meccanismo di Anticitera è una splendida, affascinante eccezione, ma il come e il perché della gran parte di ciò che ci è pervenuto senza una documentazione esplicita oggi possiamo solo supporlo. E questo non soltanto per le epoche preistoriche, quindi prive di scrittura, ma anche ad esempio per la storia e l’archeologia egizi: la documentazione abbonda ma è autoreferenziale, dà per scontati i presupposti e non ci racconta quello che vorremmo. Magari tramanda cronologie dettagliatissime di faraoni immaginari, ma non sembra interessata a spiegare se stessa ad altri, come invece fecero greci e romani.
Credo che un esempio di reverse engineering potrebbe essere partire da un menhir bretone di 300 tonnellate (una vecchia locomotiva come questa http://it.wikipedia.org/wiki/Locomotiva_FS_E.636 ne pesa un centinaio) caduto e spezzato, sicuramente anteriore all’epoca romana (si suppone risalente circa al 4000 a.C.), sicuramente proveniente da parecchi chilometri di distanza, e con i mezzi che si pensano disponibili a quell’epoca rifare lo scavo e il trasporto e rimetterlo in piedi, e in tal modo forse capire qualcosa del come e del perché. Ma questo non ci è dato, se non a livello di varie ipotesi nessuna delle quali risolutiva (il menhir è questo: http://fr.wikipedia.org/wiki/Grand_menhir_bris%C3%A9_d%27Er_Grah).
Sono centinaia gli altri esempi possibili, anche più recenti (in America Latina si sprecano, e potrebbero essere molto più vicini a noi: la preistoria è relativa).
A me sembra ottimistico pensare che se tra soli due millenni si trovasse un tablet in fondo al mare o sotto un metro di torba qualcuno potrebbe immaginarne la funzione. Forse con uno smartphone andrebbe un po’ meglio, ma da lì a ottenere anche solo una pallida idea del nostro sapere odierno ce ne passa.
Inoltre il reverse engineering di Anticitera è basato sulla meccanica, quello di uno smartphone sull’elettronica. La meccanica è sempre quella ed è autoesplicativa, l’elettrotecnica è macroscopica e deducibile con relativa facilità, ma l’elettronica oggi si basa su presupposti che forse non ci stiamo preoccupando di tramandare, come gli egizi. Anzi la preoccupazione sembra esattamente quella opposta: nascondere il più possibile.
Provate a chiedere a un meccanico d’auto o a un tecnico di ascensori la differenza, da una ventina d’anni a questa parte.
Tramanderemo sicuramente più veleni che cultura.
Dunque,
Vorrei fare una premessa tardiva. Il commento che ho fatto è stato scritto avendo svolto una lettura dal commento di Mauro Vanetti in poi. Ovvero, dal punto in cui è stato linkato da Twitter. E per questo chiedo scusa. A mia discolpa posso dire che non avendo tantissimo tempo a disposizione, mi ero limitato soltanto ad una lettura veloce della parte “sopra”. Solo dopo il commento di eulerCM ho letto più attentamente e mi sono reso conto che avevate parlato di reverse engineering già prima.
Quello che inizio a notare solo ora è che l’ipotesi si basa sul fatto che un domani, un’archeologo potrebbe trovare un hard disk e potrebbe non capire o intuire che quell’oggetto contiene dell’informazione. Allora sì, questo è un grosso problema e va al di là del formato in cui l’informazione è contenuta.
Penso che se trovassero un tablet, chiuso e arrugginito, e riconoscessero in esso la sua funzione, allora il reverse engineering farebbe il resto. (fermo restando, questo è importante, che nell’evoluzione “tecnologica” non ci fosse stato un regresso tale da spingere l’umanità ad usare una tecnologia più semplice di quelle che usiamo oggi)
Se invece dovessero trovare un tablet, chiuso e arrugginito, e vedessero in esso un pezzo di ferro o di un materiale sconosciuto, senza capire qual’era la sua funzione, allora sì, sono cazzi. (mi sembra che l’ipotesi iniziale di WM1 fosse questa, correggetemi se sbaglio)
Vorrei ribadire, comunque, che mi trovo d’accordo nel dire che il reverse engineering non sia così “complesso”. Non sono un esperto, quindi potrei sbagliare, ma mi baso su gli esempi, come quello dei driver Noveau e altri casi nel mondo open source. Progetti spesso nati senza ingenti somme di denaro e mezzi.
Poi la pianto: giuro! :-)
Un brillante esempio di reverse engineering in ambito di cose antiche, in particolare mitologia: http://en.wikipedia.org/wiki/Hamlet%27s_Mill
Ingegno: enorme. Risultato: inapplicabile.
Hai fatto un ottimo esempio.
A parte che non c’entra praticamente niente con quello di cui stiamo parlando, ma hai tirato fuori proprio dalle ragnatele un’opera di cui l’umanità a malapena ne conosce l’esistenza :D
Si tratta di una famosa opera di quella che possiamo chiamare pseudoscienza.
Anche se non era questo l’obiettivo dell’autore, purtroppo per lui la qualità è quella.
pero’ scusate, internet e’ i protocolli, piu’ i supporti materiali (hard disk, cavi, satelliti, modem, personal computer, tablet, ecc.), piu’ l’ energia che serve a mandare avanti la baracca, piu’ le persone in carne ed ossa che curano i contenuti, aggiornano il software ecc., piu’ un sistema economico-industriale e un’ organizzazione del lavoro in grado di produrre su grande scala i dispositivi di cui sopra.
se uno solo di questi aspetti va in crisi, va in crisi anche internet. e se internet collassa, non sara’ mai possibile rianimarla. sarebbe come rimettere il dentifricio nel tubetto. e’ una questione di entropia nel senso tecnico del termine.
sara’ possibile costruire una nuova internet ispirandosi a quella vecchia, questo si’, come fanno i paleontologi quando ricostruiscono il dinosauro a partire da due vertebre e dal cranio. ma ricostruire i *contenuti* della vecchia internet, che sono ipertesti dinamici, a partire da qualche hard disk o da tanti hard disk ritrovati dagli archeologi del futuro, sarebbe oggettivamente impossibile. sarebbe come ricostruire il pensiero di un uomo avendo a disposizione il suo cervello conservato magari perfettamente, ma morto.
dire questo non significa affatto sottovalutare le enormi possibilita’ di archiviazione e di consultazione che ci sta offrendo internet. significa solo ridimensionare le proprie aspettative rispetto a una presunta eternita’ di internet.
@Tuco
“dire questo non significa affatto sottovalutare le enormi possibilita’ di archiviazione e di consultazione che ci sta offrendo internet. significa solo ridimensionare le proprie aspettative rispetto a una presunta eternita’ di internet.”
Su questo ti do ragione, personalmente non ho mai avuto la sensazione che internet sia “eterno”. È pur sempre collegato a materiali fisici, server, cavi, segnali wi-fi ecc…
è per questo motivo che dare il premio Nobel per la Pace ad un mezzo/luogo virtuale, ad una macchina (al di là degli usi vari che gli si possano dare) per me era una cavolata.
Tanto per fare un’esempio, se domani per un qualche motivo a Google andassero a puttane i server, e dovesse perdere tutti o il 50% degli account, con conseguente perdita dei dati, ci sarebbe una bella paranoia di massa da parte di gente – e ne conosco tanta – che ha “tutto” quello che fa in rete concentrato suo account google. Dalle mail, alle password salvate in una bozza, alle foto, ecc, ecc. Basta poco per demolire il mito di interne eterno e a quel punto non ci sarebbe reversing engineering che tenga.
Tempo fa tenevo i miei dati, password o cose importanti in una chiavetta. Ora non so dove sia finita. Magari un domani la trova un’archeologo va a capire :D
Perché, le persone che vincono il premio Nobel non muoiono?
Allah è grande.
@ eulerCM
nelle ultime 24 ore hai avuto un richiamo troll e – in privato – un richiamo spam.
Continua così e tra non molto avrai un richiamo calz int’al cul.
Per insulti (proferiti a latere) agli altri partecipanti a questa discussione, eulerCM è stato bannato da Giap e bloccato dal nostro “seguito” su Twitter.
La discussione e l’argomento mi sembrano molto interessanti, per questo desidererei dare la mia impressione da archeologo sull’ipotesi che tra mille anni i nostri discendenti possano o meno capire la funzione di tablet, iphone et alia. Suggerirei di non aver troppa fiducia e di non schiacciare sul presente la nostra percezione della conoscenza e della tecnica umana. Il meccanismo di Anticitera (peraltro un esempio isolato nel panorama archeologico) non deve assolutamente essere preso come paragone per l’intera cultura materiale dell’antichità, che è sì in gran parte nota, ma che ha un grado tecnologico praticamente inesistente rispetto alla società contemporanea. È facile immaginare gli archeologi del futuro alle prese con i mille ingranaggi che compongono televisioni, lavatrici, auto, pc, e i fiumi di ipotesi che verranno formulati e che saranno probabilmente lontani anni luce dalla realtà. Quindi temo che un tablet tra mille anni rischi seriamente di essere interpretato come uno specchio un po’ più elaborato, fino a quando una nuova scoperta non porterà a formulare ipotesi che vadano nella giusta direzione. Vorrei ricordare, in merito alla possibilità di riconoscere in automatico i segni del passato, che ancora in età moderna i frammenti ceramici che ogni tanto comparivano dal sottosuolo in prossimità di insediamenti od abitati erano ritenuti come frutti generati dalla terra in particolari condizioni e in certi momenti dell’anno, mica come indizi della presenza degli antichi!
Credo che Tuco, in effetti, abbia (ri)centrato il punto focale della discussione, che si stava un po’ perdendo, a proposito della riproducibilità del dispositivo tecnologico e dei suoi attributi in condizioni critiche.
Rispondendo a EulerCM, a tal proposito: mi sembra che tu non voglia focalizzare l’attenzione sulla questione chiave posta, ovvero la necessaria premessa teorica di una cesura storica vera e propria, un vuoto temporale che ricollochi la cultura dell’umanità ad un ground zero da cui dover ripartire. Un punto di cui ignoriamo reciprocamente (noi-presente e noi-futuro) le coordinate.
E’ ovvio che in condizioni ottimali la riproducibilità di un supporto può riuscire a ripristinare l’accesso alle informazioni attuali, in qualsiasi formato esse siano. Ma non abbiamo interesse a postulare condizioni ottimali (un filantropo che stocca migliaia di manuali per sistemi operativi in un gigantesco bunker antiatomico in Nevada, oppure uno sviluppo tecnologico costante), noi ora abbiamo interesse a problematizzare ad un grado limite la questione.
Considera ad esempio questo http://it.wikipedia.org/wiki/Placca_dei_Pioneer , anche in questo caso la necessità primaria, dovendo trasmettere un ristretto numero di informazioni ad una ipotetica civiltà sconosciuta, è quella di fornire un messaggio analogico che non necessiti di metaconoscenze per poter essere decifrato.
Altrimenti tanto valeva spedire un DVD blue ray.
E tieni conto che quella civiltà, nel criticizzare la questione ad un grado elevato, potrebbe benissimo essere la nostra.
Solamente Spielberg, un autore che evita di problematizzare a fondo le questioni poste nei suoi film potrebbe risolvere il tutto come in A.I..
Che poi una scheda forata possa essere letta, tra 2mila anni, correttamente da un programma perfettamente ricreato, e per contro un codice crittografico rimanere per sempre indecifrato, non cambia le coordinate del problema. Che a livello teorico rimangono immutate, pur con tutto l’ottimismo che si può nutrire verso l’ingegneria inversa.
Rimane il fatto che la vastità delle informazioni sulla nostra civiltà raccolte in un archivio di film in dvd, sepolto nella sabbia, richiederebbe un livello tecnologico e culturale molto più avanzato di quanto potrebbe richiederlo quella stessa collezione in formato VHS.
Quando Einstein disse che, pur ignorando con quali armi si sarebbe combattuta una Terza Guerra Mondiale, poteva dirsi certo che la Quarta si sarebbe combattuta con le clave, stava definendo anche lo sfondo teorico di questa nostra discussione.
Senza il quale non desterebbe altrettanto interesse.
m.
Solo per completezza d’informazione:
“Se i vostri interlocutori hanno un QI di sasso non è colpa mia”.
Questo il tweet di eulerCM (da lui cancellato per rimuovere le tracce e poter fare la vittima) che ha fatto traboccare il vaso della pazienza.
@Aless
Non so se sia stato menzionato prima, perché la discussione è veramente lunga e abbisogno di un po’ di tempo per leggerla. Tuttavia, per quanto riguarda la merce digitale c’è anche un bel problema per quanto riguarda l’archiviazione, catalogazione e soprattutto la fruizione. Cambiando i software e i supporti è sempre più difficile trovare una stabilità che tutto sommato in supporti meno “evoluti” era implicita. Se posso conservare bene le tavolette di argilla e leggerle dopo millenni (altra storia capirle), se dopo secoli posso rileggermi le lettere di una o di un’altra donna (altra storia contestualizzarne il messaggio), che ne è delle nostre stesse memorie impresse su floppy? Io ho già questo problema….
Sulla difficoltà di interpretare oggetti la cui funzione sembra palese, se proviamo a non dare niente per scontato, può essere utile la mostra “Futur antériéur” (spero gli accenti siano giusti!) svoltasi a Losanna alcuni anni fa http://www.lausanne.ch/view.asp?DocId=26510
@ Aless
bingo! :-D Il concept di quella mostra è stato tra le fonti di ispirazione per “Arzèstula”, racconto interamente costruito sulla differenza tra “futuro spicciolo” e “futuro anteriore”.
Ci sono due aspetti del dibattito che considero fondamentali:
internet si basa su tecnologie che utilizzano materiali fortemente deperibili, se non lo si mette nel caveau di una banca tra 50 anni di un computer resta solo un po’ di plastica marcia;
alcuni social network hanno un comportamento da parassiti: utilizzano delle infrastrutture condivise (pubbliche? comuni?) per far transitare i loro contenuti “privati” (riservati? proprietari?).
IMHO sono questi, ad oggi, i due problemi fondamentali che possono impedire un concreto e duraturo attivismo digitale.
Secondo me Arzèstula costituisce un racconto molto istruttivo sulle possibili dinamiche di disgregazione di una civiltà e propone suggestioni valide, ad esempio, nell’analisi della tarda antichità. Uno tra i tanti: i mutamenti geografici e la nuova gerarchia tra i centri abitati cui si accenna, se non ricordo male, nel dialogo tra la protagonista e il carabiniere
@ elettra
rispetto ad altre epoche, la nostra compensa la quantità spropositata di testi prodotti con la fragilità degli stessi…temo che per molte opere si prospettino in futuro tempi duri e vicende avventurose come quelle di tanti codici medievali o di tante iscrizioni romane, al di là del supporto su cui sono scritte…in fondo, potrebbe nascere tra qualche secolo una nuova disciplina per decodificare i supporto digitali, così come secoli fa nacquero l’epigrafia o la diplomatica
Questo post continua ad arricchirsi di commenti interessanti. Ecco le mie opinioni su alcuni temi.
“Da qui il discorso su come tramandare il più possibile, di come gettare oltre i secoli e i millenni quel che abbiamo creato (o meglio: una selezione di quanto riteniamo meritorio).”
Mi viene in mente la riscrittura della storia di “1984”. Tra 1000 anni il tedesco potrebbe essere una “lingua morta”, e l’Opera Omnia di Marx in originale potrebbe essere incomprensibile. Forse tra 1000 anni ci saranno solo opere di Marx tradotte in cinese, ma completamente riscritte da impiegati FoxConn, per celebrare le lodi del sistema capitalistico.
Come usare Internet per tramandare ciò che “deve” essere tramandato? La tecnologia cambia, i problemi sono sempre gli stessi. Mi viene in mente anche la “Poetica” di Aristotele ne “Il nome della rosa”.
Nell’immediato, io mi concentrerei sul file sharing, che mi sembra un buon sistema per tramandare memoria (libri, film, musica). Finchè c’è qualcosa da tramandare, e finchè ci permetteranno di farlo. Certo, se la “Poetica” di Aristotele è stata distrutta, nessuno potrà più tramandarla, nè copiandola su pergamena nè salvandola su hard disk.
“Facebook”.
Facebook può essere un buon sistema per scambiarsi messaggi e diffondere idee in tempo reale, ma per il resto va evitato come la peste. Anni fa Facebook ha cancellato da un giorno all’altro il profilo di un giornalista che aveva migliaia di lettori, e aveva pubblicato centinaia di post. Ora il giornalista pubblica su un blog WordPress (“La Rana”, “Rassegna stanca”).
Più in generale, Facebook contiene dei sistemi di controllo semantico in grado di bloccare qualunque messaggio che contenga parole “pericolose”. Molto peggio del “Grande Fratello”.
“La contingenza di Internet”.
E’ vero, Internet è implementato con strumenti fisici (reti, cavi, computer). Ma le informazioni memorizzate su Internet (documenti, film ,musica) sono in qualche modo trascendenti. E i supporti (hard disk ecc.) si evolvono con la tecnologia. Finchè Internet sarà “vivo” (cioè finchè si evolverà con la tecnologia, e finchè ci sarà qualcuno che convertirà i documenti da conservare da vecchi a nuovi formati), potrà servire a tramandare informazione e cultura. Che tipo di cultura? Questo sta a noi deciderlo.
@EulerCM
“Perché, le persone che vincono il premio Nobel non muoiono?
Allah è grande.”
No. I vincitori del premio Nobel muoiono. Proprio perché – come hai già accennato prima – sono persone.
E oltre a ciò, internet: a) non è libero; b) non è democratico, c) è un luogo/mezzo e come tale, se mai, neutrale; più tutto un discorso legato all’uso che gli si dà, nonché le sue origini e/o costi che comporta.
rispondo perché siccome sei in una mia lista di tw, ho visto che hai sollevato la questione nel recente tweet: «“Internet non merita il Nobel perché può saltare”. Mia risposta: “Perché i premi Nobel non muoiono?” @riccardowired»
E non volevo che le parole che ho scritto prima venissero banalizzate.
Comunque da parte mia niente rancori. Tra l’altro spero/ritengo che questo tweet non sia riferito a me: “se i vostri amici hanno il QI di un sasso non è colpa mia.”
Perché mica sono amico dei wu ming. Figuriamoci. Io, diventare amico di un manipolo di pazzi che si firmano tutti con lo stesso nick. Per carità. Odio l’anonimato.
Anonimoconiglio.
@Aless
Trovo interessante quel che hai scritto, non sapevo dei frammenti ceramici che confondevano con dei frutti. :D
Però avrei una domanda. Pensi che se un giorno trovassero un tablet, e “scoprissero” che non è soltanto uno specchio, o per qualche ragione dovessero risalire alla sua “funzione”, allora a quel punto il reverse engineering farebbe il resto? io trovo di sì. Però ecco trovo che il problema principale sia che non lo confondano con uno specchio. :D
Ripesco un articolo di Christiam Raimo e lo condivido qui, per chi non l’avesse ancora letto:
Facebook e i Signori Grigi.
Momo, Zuckerberg, il pluslavoro relazionale e il reddito di consumo.
http://www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/facebook-e-i-signori-grigi
Ragazzi, non interpellate il tizio, qui non lo facciamo più entrare quindi non può rispondervi. Ha avuto quel che cercava, i suoi due quarti d’ora di celebrità (uno qui, uno su Twitter, che sta diventando un posto di merda anche grazie a quelli come lui). Può ritenersi soddisfatto: in due mesi e mezzo di discussione tra oltre un centinaio di persone delle più varie opinioni, è l’unico che è riuscito a farsi bannare.
Vorrei portare qui la problematica relativa al significante: ovvero, se anche tra 1000 anni riusciremo ad “aprire” un file salvato su uno qualsiasi dei supporti digitali che usiamo ora saremo ancora in grado di leggere i segni in esso contenuto? E quindi ad interpretarne il relativo significato? Qui sta il problema oltre a quello della volatilità dei supporti. Voglio però portare un po’ di ottimismo e, da epigrafista, considerare che, tanto per fare un esempio, l’alfabeto latino – e i relativi segni/grafemi – pur essendosi modificati, si sono tramandati e sono sempre gli stessi da almeno 2300 anni e ancora oggi simao in grado di leggerli ed interpretarli.
Provo con un esempio “a breve”, senza scomodare le pur utili riflessioni sui millenni: la rivista Diario, in cui si trovavano belle inchieste di Deaglio, Barbacetto su Sole e Baleno etc.
Ebbene, prima di cessare le pubblicazioni produsse un cd-rom con il full-text di tutti gli articoli.
Se, per ragioni di spazio, una biblioteca si fosse disfatta del cartaceo, per tenere solo il formato digitale, si troverebbe entro 20 anni (forse prima) a un oggetto illeggibile.
O c’è qualcuno che può assicurarmi che nel 2030 ci saranno i cd-rom?
Bene, quel cd è protetto, non duplicabile e non trasferibile. Non solo serve un pirata per craccarlo e trasferirlo, servirebbero leggi che, per ora, impediscono alle istituzioni di preservare il materiale in altri formati. Le mediateche che riversano i vhs in dvd lo fanno a loro rischio e pericolo.
Le biblioteche che hanno optato per il digital-only di Diario perderanno l’intera collezione, mentre resterà il cartaceo ancora per alcuni secoli.
http://www.youtube.com/watch?v=iwPj0qgvfIs
Stampa: alcuni secoli; microfilm: un secolo; floppy: alcuni decenni; cd:? tablet:? La velocità dello spostamento di supporti sta aumentando in maniera geometrica. Non demonizziamo nulla, ma stiamo in campana: il problema della perdita di memoria c’è tutto. E l’immaginare una “memoria collettiva di rete” è ancora molto al di là da venire. Almeno finché esisterà il copyright così come lo conosciamo…
Siamo in grado di leggerli sicuramente…ma l’interpretazione è comunque frutto del presente e del contesto di chi interpreta. In tal senso cerco sempre di tenere a mente le Sei lezioni sulla storia di Carr (http://en.wikipedia.org/wiki/What_Is_History%3F) e il concetto di saperi situati e rizomatici di Donna Haraway.
Ritornando all’archeologia, mi dicevano che rinvenire un corpo femminile con un coltello o uno maschile ne cambiava radicalmente l’interpretazione dell’uso fino a qualche anno fa. Insomma, la non-neutralità del sapere è questione applicabile non solo a monte (quando viene prodotto) ma anche a valle (quando viene recepito). Imho.
Effettivamente rileggendomi qualcosa a ritroso mi sono resa conto di aver ripetuto solo un po’ di cose. Spero di non fare il bis or ora!
@errico bresci: “l’alfabeto latino – e i relativi segni/grafemi – pur essendosi modificati, si sono tramandati e sono sempre gli stessi da almeno 2300 anni e ancora oggi siamo in grado di leggerli ed interpretarli.”
solo una piccola nota: questo è possibile perché gli umanisti hanno preso a scrivere con la carolingia minuscola, pensando erroneamente che fosse di epoca romana. Altrimenti ora useremmo tutti una qualche forma di gotico e i caratteri latini ci sembrerebbero tanto strani quanto il greco… insomma, solo per culo!
Il Mahābhārata e il Rāmāyaṇa di Vālmīki si sono tramandati piuttosto bene almeno dal IV secolo a.C fino ad oggi, e per la maggior parte del loro percorso storico la trasmissione è stata completamente *orale*. (e non sono due paginette eh)
Questo a dire che la migliore preservazione è la comunicazione, è la manutenzione in vita (e non in vitro) dei dati, riutilizzandoli, commentandoli, citandoli, cantandoli.
Per questo i vari lavori sugli OpenArchives sono fondamentali, nella misura in cui aprono archivi sepolti, li rendono fonti per la discussione, per la creazione di nuove opere.
Il primo fattore per ricercare un archivio è infatti *sapere che esiste*. E la maggior parte delle informazioni sull’esistenza degli elementi dell’antichità ci sono state date dalla loro citazioni in opere più recenti, dal loro essere state riutilizzate. Risalire alle fonti è poi il compito dei ricercatori, balzo dopo balzo.
La miglior garanzia di preservazione di un’informazione, è dunque raccontare che esiste. E forse raccontarlo nei romanzi, nell’epica e nel mito, ancor meglio.
La citazione a fasi successive è anche ciò che destina all’oblio la marea di inutilità che viene prodotta quotidianamente.
Poi, una volta che si sa che esite la fonte, si pone il problema di trovarla, e poi una volta trovata, di interpretare il suo linguaggio e la sua codifica. Ma, al riguardo, almeno due buone cose sono state fatte per il futuro della nostra conoscenza: Unicode, e XML(html);
il primo uno straordinario e stranamente riuscito sforzo per la codifica dei caratteri (vederlo stampato è una meraviglia che consiglio: http://www.typografie.de/Our-Books/Typography/Johannes-Bergerhausen_Siri-Poarangan/Decodeunicode::1409.html), il secondo un linguaggio che conoscete tutti, comprensibile tanto dagli umani che dalle macchine, abbastanza autoesplicativo (a differenza delle schede perforate)
Ecco, con queste tre cose (persone, codifica, linguaggio) forse possiamo superare un po’ di ere. Sempre che rimanga, pressato sotto la torba, un piccolo manuale cartaceo di istruzioni su come assemblare un PC FAT32
Il dovere però è quello di trasmettere le informazioni sulle informazioni, non smettere di raccontarle, e di impedire che la conoscenza sia in vitro e accessibile a pochi (che poi si estingueranno e non trasmetteranno una cippa)
@andrea 10/12/2011 at 9:22 pm
La strada che tu indichi mi sembra quella giusta.
@tonii 10/12/2011 at 8:41 pm
Peccato per la rivista Diario: probabilmente tra 1000 anni nessuno si ricorderà di loro. Se invece avessero optato per un cd-rom non protetto e senza copyright, ora i loro articoli sarebbero in rete, e sicuramente avrebbero migliaia di lettori …
Scherzo, ovviamente: solo le opere più importanti, come giustamente scrive Andrea, possono aspirare a essere tramandate nei secoli.
A proposito, in Svizzera il download di contenuti in rete e il P2P (peer to peer) sono legali:
http://www.repubblica.it/tecnologia/2011/12/06/news/svizzera_download-26129439/
Salve a tutti.
Ho seguito con interesse la discussione e vorrei solo aggiungere alcune osservazioni.
Come è stato detto, il fattore umano è la chiave di qualunque tradizione. Già Platone si scagliava contro la scrittura: il nuovo supporto tecnologico avrebbe messo in pericolo l’uso della memoria, cioè la presenza viva del testo nella mente dei singoli e della comunità. Il problema sembra simile a quello posto un questa sede, ma in realtà la trasmissione di informazioni è diventata molto più problematica.
Da un lato, la tradizione del sapere (e in particolare penso alla scuola) è diventata “un’amnesia pianificata”, come dice George Steiner. Questo perché le informazioni si moltiplicano in modo esponenziale, mentre la capacità di acquisire conoscenze basandoci unicamente sulla nostra memoria diminuisce. è vero, ci sono Google, internet, gli hard-disk, ma come è già stato detto, prima di potersi servire di una certa informazione, è necessario sapere che esista. E questo non è scontato, per tutta una serie di ragioni (Faccio solo un esempio, le ricerche di Google sono state e sono manipolate, e non solo in Cina).
Ma se allarghiamo un po’ il discorso, è anche vero che è cambiato radicalmente il modo di produzione e fruizione dei contenuti. Fino alla rivoluzione industriale almeno, un poeta poteva esplicitamente augurarsi che la propria opera sarebbe durata per sempre, come fa Orazio (“Exegi monumentum aere prennius”) o anche Foscolo (“(…) e l’armonia / vince di mille secoli il silenzio”). Oggi, suonerebbe quantomeno anacronistico, se non proprio ridicolo o paradossale.
Questo per dire che è cambiato il nostro modo di stare nella tradizione. Si produce più testo in un giorno oggi che in tutta la storia dell’antichità, molto probabilmente, ma nessuno di noi può leggere tutto. E la maggior parte di quanto viene prodotto avrà una vita brevissima. E non è detto che tutto quello che finisce nell’oblio non valga la pena di essere salvato. Come facciamo ad esserne sicuri?
Infine, resta quanto è stato già detto. Che la solidità dei supporti digitali sia imperitura, è solo un’illusione. L’unica vera memoria è quella degli uomini, cioè la presenza viva di un testo (o qualunque altro fatto culturale) nella collettività. Una presenza condivisa, per così dire. Ma anche questa è, se non inattuale, almeno problematica.
Ciao :)
@tonii “solo una piccola nota: questo è possibile perché gli umanisti hanno preso a scrivere con la carolingia minuscola, pensando erroneamente che fosse di epoca romana. Altrimenti ora useremmo tutti una qualche forma di gotico e i caratteri latini ci sembrerebbero tanto strani quanto il greco… insomma, solo per culo!”
Non dire che è stato solo culo altrimenti questo discorso lo potremmo fare per tutto. Non sminuiamo la “scelta” che hanno fatto delle persone che hann deciso coscientemente di riprendere i caratteri della capitale romana ed usarli per scrivere. Poi valutiamo che è stata una scelta dettata da circostanze ben specifiche: Petrarca sapeva scrivere sia in gotica, sia in mercantesca ma disse che a un certo punto erano tali e tanti i virtuismi presenti nella scrittra che risultava illeggible ovvero inutile. E qui rientra in campo L’Uomo con la sua intelligenza, che gli ha permesso di capire che c’era un problema e di correggerlo rivongendosi, in questo caso, al passato: alla scrittura della capitale epigrafica latina, E perche’ gli è stato relativamente semplice? perché viveva ancor ain un mondo immerso nella scrittura latina che rimanvea scolpita fuori e dentro ogni chiesa che c’era sulla faccia della Terra. Quindi, tante grazie al Papa, anzi ai suoi scalpellini che hano continuato a tramandare la tradizione dell’epigrafia romana!
@ Santiago “Pensi che se un giorno trovassero un tablet, e “scoprissero” che non è soltanto uno specchio, o per qualche ragione dovessero risalire alla sua “funzione”, allora a quel punto il reverse engineering farebbe il resto?”
Forse sarà possibile, e sarà un problema degli archeologi del futuro, ma personalmente la ritengo una proiezione lineare del presente a cui credo poco, un “presente invecchiato” in cui la tecnologia ha progredito e consente ancora di attingere agli strumenti del passato e li interpreta per quello che sono al momento in cui sono stati prodotti. Dico una banalità, ma il processo è quello inverso, non possiamo proiettare il nostro sguardo sul futuro, saranno invece i nostri discendenti ad applicare il loro sguardo alla nostra realtà, e quindi le possibilità aperte sono infinite. Parlando di cultura materiale, lo sono proprio perché ogni oggetto della nostra vita quotidiana fuori dal proprio contesto si presta ad una gamma enorme di letture, molte delle quali ben lontane dall’effettiva realtà. Il primo esempio che mi viene in mente: tra 1000 anni sarà così agevole come lo è per noi capire la differenza tra un cellulare, un telecomando e una calcolatrice? I tablet saranno ricercati non per estrapolare i files, ma per recuperare i metalli al loro interno?
Se pensiamo al futuro prospettato in “La strada” di McCarthy, quanto è verosimile parlare di reverse engineering? E quanto andrebbe perso in un mondo come quello?
Giustamente sono stati citati i poemi indiani e l’alfabeto latino come esempi forti di produzioni culturali del passato vivi ancora oggi, ma altrettanto giustamente emerge che nel loro caso il continuum non si è mai interrotto, in una forma o in un’altra…proviamo però a soffermarci sulle migliaia di “realtà” il cui viaggio si è ad un certo punto interrotto, ad esempio la lingua etrusca, di cui leggiamo l’alfabeto ma di cui non resta nessun testo letterario: non potrebbe essere questo il destino dei nostri archivi digitali?
Scusate la lunghezza del post
Il problema è che non possiamo sapere come sarà nel futuro e se ci sarà la capacità di re-interpretare i segni del passato. Ricordate il monolite di 2001. Odissea nello spazio? Possiamo, però, se ci interessa, provare a creare degli oggetti che abbiano nella loro natura l’idea di poter durare nel tempo. Le evlozuoni teconolgiche sono processi di medio-lungo periodo, sta a noi fare in modo che ogni nuova teconlogia non brasi quella precedente, come nell’esempio dei floppy disk. O siamo irrimediabilmente persi nella’ansia da prestazione tecnologica?
@ Aless
@ errico bresci
“la lingua etrusca, di cui leggiamo l’alfabeto ma di cui non resta nessun testo letterario: non potrebbe essere questo il destino dei nostri archivi digitali?”
E’ esattamente lo scenario che ho più volte prospettato anche se, probabilmente, avendolo rappresentato in termini “tecnici” non l’ho reso altrettanto appercepibile rispetto al tuo esempio.
La matematica binaria è l’alfabeto universale che anche gli alieni che un giorno dovessero venire a farci visita *sarebbero* in grado di capire. Ma – per tutte le motivazioni precedentemente esposte – rischiamo di sotterrare, crittare, frammentare, rendere irreperibili i testi letterari. E – dando un colpo di grazia alla causa della ingegneria inversa – non avendo neanche a disposizione i nostri strumenti tecnologici (hardware e software) non sarà neanche possibile cercare di (e vai col tecnicismo) ricavare la funzione di trasferimento che permette di trasformare un testo nel suo equivalente digitale e quindi di potere tentare l’operazione inversa sui *dati* eventualmente estrapolati dai “reperti rinvenuti”. In questo scenario, l’ingegneria inversa è non impossibile, ma talmente improbabile che non la metterei neanche nel conto.
A meno che gli amici del Museo dell’Informatica Funzionante di Palazzolo Acreide (ai quali va la mia stima e la mia gratitudine per l’opera enormemente meritoria) non troveranno il modo di sopravvivere ai millenni… :)
http://museum.dyne.org
“sta a noi fare in modo che ogni nuova teconlogia non brasi quella precedente, come nell’esempio dei floppy disk. O siamo irrimediabilmente persi nella’ansia da prestazione tecnologica?”
Purtroppo la spinta del mercato va *sempre* in questa direzione. Se non si libera l’uomo dal feticismo del consumismo non se ne viene fuori. E si torna all’articolo alla base di questi commenti, a la “Finnegans Wake”. :)
Molto importante, secondo me, è il rapporto tra memoria e oblio. Molti commenti si sono concentrati sulla possibilità che un evento (o una serie di eventi) siano in grado di cancellare i dati attualmente esistenti, prospettando un futuro in cui non sia possibile risalire alla nostra attuale società. Molte delle cose che ho letto sono estremamente condivisibili, in particolar modo quando si raffronta l’animus con il quale l’uomo del tremila si confronterà con i nostri resti con l’animis con il quale noi ci rapportiamo alle civiltà scomparse. Dove non sono tanto d’accordo è quando si parla dei progressi tecnologici come causa di perdita di dati. L’esempio floppy/hd, per intenderci. Ecco, in questi casi, secondo me, non si tratta di perdita ma di selezione. Tutti avevamo decine, centinaia, migliaia di floppy. Quando nelle nostre case sono arrivati i masterizzatori e gli hd più capienti abbiamo proceduto ad un riversaggio di dati. Quel momento, per me ma credo per molti altri, è stato utilizzato per fare una selezione, per scegliere i dati da conservare e quelli da cestinare (a parte che sul mio pc il lettore di floppy è ancora montato e funzionante). Se si moltiplica questo momento per i miliardi di possessori di computer (senza dimenticare i miliardi che, come diceva qualcuno, non hanno nemmeno mai fatto una telefonata) si ottiene una vera e propria selezione dei dati che una civiltà ritiene degni di essere conservati e, quindi, tramandati.
Certo, l’evento traumatico tipo scomparsa dell’energia elettrica o distruzione dei server pone un altro tipo di problema, ma francamente mi pare improbabile che la nostra società non sia in grado di produrre energia elettrica in modo diverso o che i server non possano essere ripristinati. Qualcuno evocava “la strada”, un libro che ho letto ed il cui presupposto era un evento bellico, forse nucleare, che azzera la tecnologia e addirittura la natura. Beh, persino in quello scenario le conoscenze non sono azzerate e i singoli sono in grado, chi più chi meno, di accedere nuovamente alla tecnologia che hanno conosciuto (che sia un automobile o una pistola). Gli attuali supporti (CD, DVD, HD, ma anche la carta) sono deperibili, è vero, ma sono anche replicabili e credo che si possa affermare con una certa dose di sicurezza che l’Odissea ha possibilità quasi nulle di scomparire, anche considerando un periodo lunghissimo tipo 1000 o 2000 anni (anche se, per me, ha poco senso ragionare su di un periodo tanto lungo). Sono anche quasi certo che tra 1000 o 2000 anni gran parte dei dati oggi esistenti non esisterà più, ma non perché sia andata perduta, ma perché non avrà passato la “selezione”. Prendete i cables di wikileaks. Sono milioni. Ma che senso ha conservarli all’infinito? Probabilmente già tra 100 anni non ci saranno più e resteranno solo i più significativi, insieme all’informazione dell’evento wikileaks.
Un’ultima cosa sulla replicabilità. E’ vero che i dati presenit su un HD duplicati su un altro HD sono egualmente deperibili, ma è vero anche che il processo di duplicazione in sé diminuisce il rischio e aumenta la vita del dato. Se faccio una fotocopia di un manoscritto vecchio di 500 anni, avrò due fogli di carta, tecnicamente entrambi deperibili, ma probabilmente ho garantito altri 500 anni di vita alle informazioni contenute nel manoscritto. La stessa cosa per gli HD.
Una proposta:
a questa sotto-discussione su memoria, scrittura, digitalizzazione, futuro etc. (che occupa tutta la quinta schermata di commenti e potrebbe continuare) stanno partecipando persone delle più diverse provenienze e competenze: programmatori, bibliotecari, archeologi, matematici, semiologi, “pirati”, scrittori… I commenti sono molto buoni, e si sono fatti un sacco di esempi, esperimenti mentali, ipotesi.
Perché i partecipanti alla discussione (tutti oppure solo alcuni) non si mettono insieme e tentano una prima sintesi del dibattito, o almeno un riassunto dettagliato? Si potrebbe usare come testo grezzo il montaggio di tutti i commenti significativi, poi lavorarci sopra, integrare, amalgamare… Insomma, un post collettivo da pubblicare su Giap, per rendere più accessibile la discussione e portarla a un livello più alto.
Non sarebbe male se su Giap iniziassimo a pubblicare, ogni tanto, dei post scritti non da noi ma dalla community che anima il blog.
Senza fretta.
Chi ci sta? Fatemi sapere, e vi invio gli indirizzi mail dei volontari, così potete coordinarvi.
Altrimenti, sarà per un altro argomento e un’altra volta. Ma tenete conto di questa possibilità.
A me interessa. È una bella idea, e pure costruttiva. Non sono un asso a scrivere, ma se siamo in molti ci si corregge a vicenda ;)
Anche a me piace la proposta, non solo in riferimento a questa discussione.
Anche se scrivere su due post qualche stupidata non è ancora proprio uguale a essere parte della comunità che anima questo blog.
Di sicuro è una proposta interessante, io ci posso stare. Anche se è molto difficile praticare la scrittura collettiva in queste condizioni, però proviamoci
Bene, grazie! Aspetto domattina per vedere se ci sono altre adesioni, poi procedo.
Anche a me piacerebbe, e’ una buona idea e vorrei sperimentare la scrittura collettiva. L’unico mio problema e’ la disponibilita’ di tempo ridotta tra lavoro e gestione di un sito di informazione. Pero’ ci vorrei provare. Contatemi.
@WM1
Mi sembra un’ottima idea! Tra l’altro sarebbe buffo fare uno sforzo per “conservare meglio” un thread di commenti su un blog che parla proprio del conservare informazioni digitali. :-)
Gran bella idea.
Mi aggiungo anch’io.
Farò del mio meglio.
m.
Ho letto la discussione con passione. Sono un archeologo e “faccio cose” con i computer da 15 anni (a volte contemporaneamente). Pendo dal lato della scarsa fiducia nella conservazione materiale, ma trovo insoddisfacente adagiarsi su una posizione singola.
Mi è sembrata molto appropriata la segnalazione del racconto di Cory Doctorow, non tanto per l’idea che ne segue, ma perché andava nella direzione di raccontare una storia immaginando uno di questi futuri in cui le cose non funzionano più come oggi, per un evento traumatico in quel caso, o magari anche no.
Quindi, considerato che siamo qui a parlarne sul Giap di un gruppo di scrittori, è così assurdo pensare che dal dibattito nasca qualcosa di più narrativo di un post riassuntivo?
@ Stefano
io direi questo:
senz’altro, come primo passo ed esigenza basilare, ci vuole un post riassuntivo, per raccogliere gli spunti usciti in questo dibattito e condividerli anche con chi è rimasto lontano dalla “quinta schermata” :-D
Dopodiché, chi ha voglia, entusiasmo, idee, può anche proseguire la collaborazione e lanciarsi in un progetto più narrativo. Pensavi a un racconto o a una novella, immagino.
Ma nel frattempo, per il post di “sintesi” ci sei?
Io trovo l’idea molto interessante e anche quella della “deriva narrativa” del confronto emerso nei vari commenti. Mi farebbe piacere collaborare. A tal proposito, se considerate utile la cosa, posso predisporre un wiki d’appoggio. E se i Wu Minghi reputarreso più opportuno predisporlo sul loro dominio, magari mi contattino in privato e ci si coordina in tal senso (/me che si ricorda degli esperimenti di sceneggiatura collettiva condotti via mailing list agli albori di Lazarus Ledd, a metà tra fan fiction e gioco di ruolo).
Ehm, “reputassero”, non “reputarreso”. :)
@WM1
Sì, ci sono “anche” per la sintesi. E grazie per la benevolenza.
L’idea è molto interessante…se posso contribuire…
E’ una cosa troppo interessante. Credo anche molto divertente. Non so se sono all’altezza (il QI è quello che è ;-) e non ho tantissimo tempo, ma mi piacerebbe molto almeno provarci.
Se non disturbo, ci sono.
Grazie ai WM per ospitalità e disponibilità.
Ok, direi che ci siete tutti o quasi. Dieci volontari.
Tonii, bibliotecario e sinologo, ha scritto spiegando che non ce la fa, e la sua “giustificazione” è ineccepibile: sta per andare in Cina per essere presente alla nascita della sua bimba! Congratulazioni e auguri! :-D
Tuco, ricercatore di matematica attivo sul confine nord-orientale, ha scritto spiegando che è alle prese con un corso molto impegnativo all’università.
Entrambi danno la loro benedizione al progetto.
Vi metto immantinente in contatto a latere.
Ovviamente, chiunque abbia voglia è ancora libero di aggiungersi.
Se non sono in ritardo, contate pure me.
Ho partecipato alla discuss. suggerendo un approfondimento su *populismo & web* e qualche giorno dopo ho buttato giù delle righe su ideologia e rete che sono rimasti a vegetare nel mio hardisk. Magari possono essere utili.
Let me know.
Aggiunto :-)
Ma alla fine che forma dovrà avere? Un nuovo post, a sua volta poi riaperto ai commenti? Se serve comunque anch’io una mano la do volentieri.
@ Andrea
sì, l’idea è quella. Poi, lo stile del post, il linguaggio etc. è tutto a discrezione del gruppo informale che lo scriverà.
Ti includo nella lista.
A me piacerebbe dare il mio contributo, è una discussione che mi ha appassionato molto. Spero solo di essere in grado…
Aggiunto. D’ora in poi lo do per inteso.
@thiswas “Tutti avevamo decine, centinaia, migliaia di floppy. Quando nelle nostre case sono arrivati i masterizzatori e gli hd più capienti abbiamo proceduto ad un riversaggio di dati. Quel momento, per me ma credo per molti altri, è stato utilizzato per fare una selezione, per scegliere i dati da conservare e quelli da cestinare ”
Non è mica detto, il tempo (e quindi il costo) per selezionare i dati sta crescendo man mano che crescono i dati, le foto, le informazioni.
Sulle tavole di pietra e da Gutemberg in poi non si tramandava ogni singola minuzia che ci capita nella vita, nel caso di “fratture”, per posteri potrebbe aggiungersi quello della scrematura, visto che con il sistema attuale le info più significative sono riprodotte nel maggior numero di supporti.
Aggiungo: oltre ad unicode ed xml nessuno ha citato l’http di Tim Berners Lee ed il tcp/ip.
[…] Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple. […]
siete finiti pure su Dagospia. Qualcosa deve significare, ma non riesco a capire cosa, and i try, and i try, and i try, i can’t get no….
La ripresa di questo post da parte di “Internazionale” (prima) e “Dagospia” (poi) lo sta facendo scoprire a un sacco di gente che non lo aveva ancora visto, benché sia on line da tre mesi su uno dei blog culturali più frequentati e sia stato linkato centinaia di volte. Questo è, generally speaking, un bene.
C’è però un inconveniente: arrivano persone che, dopo una letturella velocissima, cercano di lasciare commenti “inchiodati alle premesse”, rilanciando in modo rozzo questioni che in questo interminabile thread sono già state discusse ad nauseam (il dentro e il fuori etc.), o tengono un livello ancor più basso, tipo: “Non ha senso citare Marx che è un pensatore dell’Ottocento! Siamo nel XXI secolo!”
Si dà il caso che questa “obiezione” si senta ormai solo in Italia, dove il discorso pubblico – complici il berlusconismo e la ritirata epocale della sinistra storica – è regredito al neanderthalesimo politico. In tutto il mondo dura da oltre un decennio la “riscoperta” del Moro di Treviri, e sono uscite decine e decine di saggi importanti che riconsiderano la sua figura. Tanto che ormai lo citano cani e porci, anche e soprattutto economisti liberali pentiti o semi-pentiti, cfr. questa “rassegna stampa critica” compilata da Alan Woods.
Tra l’altro, quest’obiezione viene fatta solo quando si cita Marx, non quando si citano Aristotele, Platone, Kant, Nietzsche o chi altri. Come se il tempo della filosofia fosse quello della contingenza, della cronaca spicciola. Come scriveva Walter Benjamin:
«Lo stupore perché le cose che viviamo sono ‘ancora’ possibili nel ventesimo secolo non è filosofico. Non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile.»
Idem per i commenti: “Questo è un post ideologico! Le ideologie sono finite!” Anche questo è un argomento che si sente ormai solo nella derelitta Italia, perché altrove ci si rende conto da un pezzo che di rado si son viste epoche più forsennatamente ideologizzate di quella in cui il potere neoliberista aveva dichiarato la “morte delle ideologie”. Delle ideologie altrui, ovviamente, non della propria, che è invece assurta a “Pensiero Unico”. Gli storici del futuro metteranno la frase “Ce lo chiedono i mercati” sullo stesso piano degli enunciati sulla “Terrasanta da liberare”, sul “fardello dell’uomo bianco” o sul “complotto giudaico mondiale”.
Questi commenti-fotocopia sotto-argomentati, che ripetono luoghi comuni e non recano alcun contributo sensato alla discussione, noi non li sblocchiamo. Non alla sesta schermata e dopo tre mesi di confronto serrato e faticoso. Non ha senso tornare indietro e ripetere pappagallescamente fasi precedenti della discussione. Se qualcuno vuole argomentare criticamente nel merito del post o di cose scritte nel thread, ben venga, ma cerchi di andare oltre il piattume e le cazzate. Si può essere in disaccordo completo sull’importanza di Marx o sull’utilità di attualizzare certi suoi concetti, ma si faccia lo sforzo di argomentarlo, senza idiozie tipo: “Marx è uno dell’ottocento”. Spinoza è ancora più vecchio ma se qualcuno lo cita nessuno rompe il cazzo. Eraclito è ancor più vecchio, Sant’Agostino idem. Se per voi comanda l’anagrafe, andate da Justin Bieber.
@WM1
si potrebbe ricordare a lor signori che anche il motore a scoppio, l’elettricità e il treno son roba dell’800, eppure guidano, navigano su internet e sostengono l’alta velocità… per dire
per non parlare di tutta la retorica mazziniana di cui sono imbevuti i discorsi ufficiali di napolitano, che non per niente ottengono sempre apprezzamenti bipartisan.
quel che da’ fastidio di marx, e’ che marx rompe il cazzo, anche a 128 anni dalla sua morte.
[…] Il 26 settembre 2011, Wu Ming 1 pubblica su Giap (il blog del suo collettivo) Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto. Questo post ha un enorme risonanza, viene tradotto in altre tre lingue e scatena un dibattito oceanico (più di 500 commenti) diventando il post più commentato del sito. Le corde toccate sono evidentemente molto tese. […]
[…] lobby del copyright. Netwar ultimo atto?” [7] Em: “Auto-comunicazione di massa”. [8] Em: “Feticismo della merce digitale e sfruttamento nascosto: i casi Amazon e Apple” [9] “La Défense” é “a Wall Street de Paris”. O bairro está localizado no extremo […]
[…] occidentale (qui, ad esempio, trovi una dialettica molto più cazzuta del dico/non dico del NYT: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5241). Ciò nonostante, e lo affermo nella consapevolezza di apparire un tatcheriano di risulta (quale […]
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