Succede in Emilia-Romagna. Succede nella regione italiana più colpita dalla crisi climatica. Quella delle alluvioni, delle frane, della siccità. Al secondo posto dopo il Veneto per l’incremento del consumo di suolo nel 2024. Succede che venga rispolverato il progetto di un grande bacino artificiale nell’Alta Val d’Enza, tra le province di Parma e Reggio Emilia, con l’obiettivo di regolare il flusso d’acqua del torrente, distruggendo il suo ecosistema.
Nel tardo autunno del 2023, Wu Ming 2 ha risposto alla chiamata dell’Università Verde di Reggio Emilia e delle associazioni ambientaliste del territorio, desiderose di suscitare quantomeno un dibattito su un’opera così impattante e anacronistica. Fin dai primi incontri è nata l’idea di realizzare un documentario, con il regista Alessandro Scillitani, da finanziare attraverso un crowdunding. Intanto, partivano i primi sopralluoghi, le prime riprese e i primi abbozzi di testo, grazie alla collaborazione scientifica di Daniele Bigi e Duilio Cangiari. Nonostante sia difficile avere dubbi sull’insensatezza della diga, si è cercato il più possibile di suscitare interrogativi, perché le proiezioni diventino un’occasione per discutere, non solo della Val d’Enza, ma più in generale di come affrontare il cambiamento del clima, evitando di puntare su “soluzioni” desitinate solo ad aggravarlo: le classiche pezze peggiori del buco.
Qui di seguito, pubblichiamo il testo scritto da Wu Ming 2, la cui lettura è alla base della voce off che accompagna le immagini, insieme a molte interviste sul campo e con persone esperte di clima e territorio.
L’appuntamento per l’anteprima è lunedì 3 febbraio, alle ore 21, al cinema AlCorso di Reggio Emilia, in Corso Garibaldi, 14.Seguiranno altre proiezioni che segnaleremo nel nostro calendario. Gli inviti sono già tanti: chi ha interesse a organizzare una serata, si faccia avanti in fretta!
La valle ferita
di Wu Ming 2
A chi non conosce l’Alta Valle dell’Enza, il dibattito sulla diga di Vetto – se costruirla o meno, quanto alta, in che punto – potrebbe sembrare una questione locale, da cortile di casa, di quelle che appassionano solo il vicinato, ma lontane dagli occhi, sono lontane dal cuore.
Invece, pur abitando a più di cento chilometri di distanza, appena mi è arrivata notizia di cosa bolle in pentola da quelle parti, ho voluto vedere con i miei occhi i luoghi che finirebbero sott’acqua, il piccolo borgo di Atticola, che scomparirebbe per sempre, e sono andato a cercarmi mappe, vecchi articoli di giornale, dati e grafici aggiornati.
Stiamo parlando, infatti, di un piano che detiene un record nazionale, che coinvolge un prodotto italiano esportato in tutto il mondo, che pone interrogativi di portata planetaria. Sarebbe un delitto lasciare che se ne occupi soltanto chi vive tra Parma e Reggio Emilia, le due province separate dal torrente.
Per raccontare questa storia, trovare l’inizio è piuttosto facile.
Era il 1860, e ancora non esisteva il Regno d’Italia, quando Giuseppe Carlo Grisanti presentò la sua proposta per un bacino artificiale, che raccogliesse le acque dell’Enza, poco più a sud del borgo di Vetto, nell’Appennino reggiano. Tre anni dopo, il «serbatoio Grisanti» ottenne il via libera dal ministero, ma non se ne fece nulla. Il regime fascista promise di realizzarlo e sprofondò prima di riuscirci. Se ne riparlò nel Dopoguerra, senza successo. Quindi negli anni Sessanta, stesso risultato. Infine, nell’88, si iniziò a costruire «il taglione», cioè lo zoccolo della diga che avrebbe trattenuto un invaso da cento milioni di metri cubi, secondo le stime dell’ingegner Marcello. Il cantiere però fu bloccato e partì una lunga stagione di ricorsi. Il Tar di Parma, il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione si pronunciarono contro la grande opera, giudicandola sproporzionata rispetto ai bisogni, incompatibile con i vincoli ambientali e troppo pericolosa per un territorio in zona sismica 2, interessato da una faglia attiva.
Centosessantatré anni di fallimenti, ecco il primato, nel Paese dove l’Incompiuto è lo stile architettonico più diffuso: c’è chi sostiene che proprio questo record dimostrerebbe quanto è buona l’idea, capace di resistere tanto a lungo, e chi invece la considera una proposta sterile, bocciata dalla Storia.
Ma la Storia, nel frattempo, ci ha messo di fronte a un cambiamento epocale, la crisi climatica, e la diga di Vetto non è più soltanto un futuro invecchiato, che ispira ripulsa o nostalgia: è un catalogo dei dilemmi da sciogliere se vogliamo vivere in pace con l’acqua.
Solo negli ultimi quattro anni, le abbiamo davvero viste tutte: borghi dell’Appennino assetati in pieno autunno, vendemmie d’inizio agosto, invasioni di cimici e cavallette, siccità infinite, città sommerse dalle alluvioni, frane a centinaia, montagne senza un dito di neve in pieno inverno, banchi di mucillagine più estesi delle spiagge, il mare che risale nei fiumi per chilometri.
Oggi, molto più di ieri, chi si propone di creare dal nulla un lago di oltre quattro chilometri quadrati mette il dito in queste piaghe: per curarle o per aggravarle, ormai non esistono mezze misure. E infatti, la diga di Vetto viene definita obsoleta o irrinunciabile, necessaria o inefficiente, sicura o rischiosa.
Il primo problema che dovrebbe risolvere è quello più ovvio: il bisogno d’acqua. Trattenendola quando è abbondante, evitando che finisca tutta nel Po, e infine in mare, la si avrebbe lì, a portata di mano, quando il torrente è secco e dal cielo non scende una goccia. La si potrebbe pompare fino ai rubinetti della case, e soprattutto nei canali della grande pianura, per un’agricoltura che ha sempre più sete e per gli allevamenti del Parmigiano Reggiano. Mentre scende a valle, potrebbe produrre energia elettrica, e il lago attirerebbe un turismo di barche a vela, selfie su Instagram e pedalò.
Ma a rendere meno idilliaco il quadro, mi gronda in testa una pioggia di domande.
Anzitutto: quanto tempo ci vorrebbe per costruire la diga, colmare l’invaso e mettere tutto il sistema a regime? Qualcuno dice: trent’anni. Ma supponiamo pure che siano solo dieci. La crisi climatica non aspetta. Nell’immediato, bisognerebbe comunque fare qualcos’altro, scoprendo, magari, che qualcosa è già abbastanza.
Ad esempio, evitare gli sprechi. Migliorare le tecniche d’irrigazione, renderle più efficienti. Trattenere l’acqua, sì, ma nella rete di tubi e canali, aggiustando le perdite. Che senso avrebbe, altrimenti, conservarne di più per continuare a sciuparla? Favorire la ricarica delle falde acquifere, immagazzinarla in bacini più piccoli, nelle vecchie cave e nelle aree dismesse. Ridurre le coltivazioni che richiedono un’annaffiatura costante, e adeguare l’agricoltura ai nuovi scenari. Se per mettere in tavola verdura, frutta, cereali, uova, carni e formaggi manomettiamo l’ambiente oltre misura, non usciremo mai dalla crisi climatica, ma ci toccherà adattarci, ogni volta, a catastrofi peggiori.
Questi rimedi sarebbero una cura sufficiente? Non è detto, ma per avere una risposta, varrebbe la pena di investirci anche solo un decimo dei 200 milioni di euro che si spenderebbero per costruire la diga.
L’alternativa, del resto, sarebbe la totale modifica degli ecosistemi di un lungo tratto della val d’Enza. Piante, alberi, sassi, animali, terreni franosi, fragili equilibri di mondi verrebbero sommersi per sempre, spazzati via, sostituiti da tutt’altri processi, temperature, livelli di umidità, evaporazioni. Possibile che la soluzione ai problemi della crisi climatica, innescata dallo stravolgimento dell’ambiente, passi da un’opera che stravolge l’ambiente, distruggendo gli stessi habitat che permettono di ricaricare le falde acquifere e di ridurre l’impatto degli eventi estremi?
E anche a fronte dei benefici previsti, cosa dovremmo scrivere alla voce «costi»? Quanto vale un ecosistema? Lo si può davvero mettere sulla bilancia? Ed è giusto che a farlo sia una sola specie, l’homo sapiens, quando laggiù, in riva al torrente, e sulle pendici verdeggianti della gola, abitano milioni di esseri diversi, che verrebbero cancellati come uno sgorbio sul libro della vita?
C’è chi si sentirebbe più tranquillo se almeno gli umani coinvolti nella scelta non fossero soltanto quelli col metro, la bilancia e il pallottoliere in mano, i cosiddetti “tecnici”, o gli imprenditori, ma quante più persone possibili, proprio perché la decisione non dipende soltanto dai valori che si calcolano, ma anche da quelli che si hanno, cioè le idee che nutrono le nostre azioni, e che cambiano al cambiare degli individui.
Ormai nessuna grande opera viene realizzata sul territorio senza un processo partecipativo, di coinvolgimento della popolazione, con assemblee, laboratori ed esperti che facilitano il confronto. Ma troppo spesso si fa soltanto ciò che prescrivono le carte, un compitino, senza davvero volersi mettere in ascolto. Troppo spesso questi percorsi sono guidati e organizzati dagli stessi enti che finanziano le opere, o dagli studi che le progettano, dai gruppi che le vogliono, fortissimamente, e la partecipazione si traduce in una raccolta di suggerimenti, per fare meglio, per ridurre gli impatti, ma giammai per mettere in discussione tutta la baracca, rischiando di non fare: «Ma come, proprio adesso che ci sono i soldi, e vanno usati per questo, non per altro, ormai rinunciare sarebbe un autogol, autolesionismo, autoimmobilismo. La diga è l’unica soluzione per non sprecare l’acqua!»
Ecco, già questa è un’idea che mi suona strana: l’acqua di un torrente che scende verso valle, se non la usi in qualche modo è sprecata, non serve a niente. Mentre non è sprecata quella che si perde nei buchi della rete idrica, o che irriga un campo quando non ce n’è bisogno, perché tanto quella scende nelle falde, le ricarica, quindi è salva. Dicono lo stesso anche della neve artificiale, sparata sulle piste da sci: non è uno spreco d’acqua, anzi, è tutta economia circolare. Ci fai la neve, quella si scioglie e torna nella falda, da dove la riprendi per fare altra neve.
Sarebbe bello, se fosse così, e forse alla diga non ci penserebbe nessuno, tanto l’acqua si conserva comunque. Purtroppo, non tutta va a finire nelle falde. Molta si disperde, evapora prima, prende altre strade. E in questo, la diga non è affatto d’aiuto, tutto il contrario. L’Enza ha un grosso problema di erosione. Gli sbarramenti che già esistono lungo il fiume, trattenendo i detriti, lasciano passare un’acqua che invece di depositare nuovi sedimenti, scava le sponde, formando un vero e proprio canyon, anche in pianura, dove non dovrebbe esserci. In questo modo, il livello del torrente scende sotto il livello delle falde, che restano più in alto, e quindi l’acqua non ci arriva, non le ricarica: al contrario, l’acqua della falda fuoriesce e si perde. Una diga è un ulteriore sbarramento, il più grosso di tutti. Significa altri detriti sottratti al fiume, più a valle. Significa una ferita ancora più profonda, e già adesso è davvero spaventosa. Significa raccogliere più acqua, per sprecarne di più.
Già, raccoglierla. Ma per chi? Di quant’acqua c’è davvero bisogno? A chi ne serve così tanta, da non poterla ricavare con interventi meno invasivi di una diga? La richiesta più grande non arriva dai rubinetti, né dalle vigne, ma dall’industria del Parmigiano Reggiano. Come mai? Le mucche sono assetate? Devono bere molto per produrre molto latte? No. A essere assetati sono i prati stabili, ovvero grandi distese d’erba, spontanea o seminata, che non vengono annaffiate dall’alto, per aspersione, ma sommerse, aprendo le paratie dei canali e dei fossi, in modo che l’acqua scorra sopra la terra. Questo sistema consente di bagnare il prato anche d’inverno, quando l’acqua ferma ghiaccerebbe, e di avere, per tutto l’anno, cibo fresco per i bovini. Un cibo prezioso, perché il prato stabile ha una composizione tutta sua – leguminose, graminacee, piante che non esistono altrove – e una biodiversità molto elevata. Per questo, è un ingrediente fondamentale nella produzione del Parmigiano Reggiano, oltre a essere un elemento caratteristico del paesaggio, della cultura locale e dell’ambiente di pianura.
I prati stabili hanno bisogno di molta acqua e c’è chi dice: senza i prati stabili non si fa il Parmigiano Reggiano. Tutta quell’acqua si può avere solo con la diga. Quindi, chi non vuole la diga, non vuole il Parmigiano Reggiano. Un giro d’affari da 3 miliardi di euro.
Ma è davvero così?
In meno di mezzo secolo, la produzione di Parmigiano Reggiano è più che raddoppiata. Oltre quattro milioni di forme in un anno. Ne viene esportata quasi la metà. Quando un prodotto artigianale si trasforma in un prodotto di massa, nascono molte contraddizioni, perché i metodi artigianali non sono sostenibili su scala industriale. Succede con le nocciole, col prosecco, con gli allevamenti di vongole. E inevitabilmente ne risente la qualità, non solo del prodotto, ma di tutto l’ambiente.
Quindi mi domando: non sarà che questo aumento produttivo ha toccato e superato un limite? Non si rischia di soggiogare il territorio alle esigenze di una monocoltura? L’ISPRA ci informa che il 7% delle emissioni che alterano il clima arrivano dall’agricoltura, e che il 70% di queste è dovuto all’allevamento bovino. Non sarà, di nuovo, che il serpente si morde la coda e la sega insiste a tagliare il ramo che regge il nostro nido?
Già in uno studio del 2008 si è visto che il prato stabile si può irrigare anche per aspersione, ottenendo la stessa quantità e qualità di foraggio, ma risparmiando l’80% dell’acqua. Perché non investire in questa tecnologia?
Ma anche mantenendo l’irrigazione a scorrimento, basterebbe automatizzare le paratie, con un comando legato a sensori di umidità, per ottenere un risparmio superiore al 30%. Dunque? E’ proprio vero che senza diga si perderebbero i preziosissimi prati stabili?
Oltretutto, andrebbe anche ridimensionato il legame tra il prato stabile della Val d’Enza e il Parmigiano Reggiano.
Il disciplinare di produzione prevede che le vacche siano alimentate con erba solo per il 50%, e che metà di questa metà arrivi da prati polifiti, non per forza “stabili”. Questi, infatti, occupano l’8% della superficie coltivata a foraggi in provincia di Reggio Emilia. Un’estensione che dà la misura del loro reale utilizzo. Eppure, nelle manifestazioni a favore della diga, lo slogan più gettonato è proprio «No diga, No Parmigiano Reggiano.»
Questo per quanto riguarda l’irrigazione, la pianura, tutt’al più la collina, ma quali sarebbero i vantaggi della diga per i territori che la ospiterebbero? La montagna, ancora una volta, deve mettersi al servizio delle zone più produttive, come una colonia ricca di risorse, da succhiare in cambio di specchietti, o ha davvero da guadagnarci, con la nascita del grande lago?
Aumenterà il turismo, sento dire. Un paesaggio unico, la possibilità di praticare sport acquatici, le grigliate sulla riva di una gigantesca piscina… Eppure, quando ci andavo in kayak, l’alta val d’Enza mi è sempre sembrata una delle più scenografiche di tutto l’Appennino emiliano. In alcuni punti, profonda e stretta, come una montagna al contrario, dove la natura cambia man mano che scendi, e ogni livello ha la sua vegetazione, le sue rocce, i suoi profumi, una luce diversa e nuove scoperte, fino a sentirsi distanti, molto più che qualche centinaio di metri, dal mondo là sopra, dove passa l’asfalto e s’incontrano i borghi. Poi, d’improvviso, la valle si allarga, i versanti sono meno ripidi, i ciottoli del greto diventano una spiaggia, una distesa inondata di sole, col bosco alle spalle, per ripararsi all’ombra, e osservare la vita dei suoi abitanti.
Seppellire un tesoro del genere sotto un lago artificiale, con l’idea di attirare turisti, sarebbe come radere al suolo piazza San Marco per coprirla di sabbia e farci uno stabilimento balneare. Anche a San Piero, in Mugello, più di trent’anni fa, quando progettavano il lago di Bilancino dicevano che avrebbe portato una svolta turistica, e già si preparavano a fondare club nautici e di vela. Invece la svolta è arrivata grazie a un sentiero, la Via degli Dei tra Bologna e Firenze, che già esisteva, si trattava solo di segnarlo, accudirlo, parlarne in giro, stampare una mappa. Ogni anno, quel sentiero porta nei dintorni 20 mila persone in cammino. E i costi per realizzarlo, per mantenerlo agibile, sono davvero ridotti.
Dalla diga, a quanto pare, si ricaverebbe anche energia, costruendo una centrale idroelettrica. Energia pulita, che non brucia combustibili fossili, che non produce anidride carbonica e che verrebbe distribuita ai comuni della zona. Sarebbe interessante, però, sapere quanta di preciso ne verrebbe prodotta, di quest’energia carbon free, mettendo invece, sull’altro piatto della bilancia, la CO2 liberata nell’aria dall’enorme cantiere che servirebbe per innalzare la diga e la CO2 che non verrebbe più catturata dagli alberi e dalle piante, abbattuti o sommersi per lasciare spazio al grande sbarramento e al lago artificiale. Ho l’impressione che, finiti questi calcoli, quell’energia ci apparirebbe molto meno pulita di quanto ci piace pensare.
Senza fretta, ma con urgenza, è necessario tener conto di tantissimi fattori: non solo i costi, i dati, le analisi dei rischi, le tecnologie, ma anche il senso dei luoghi, la loro unicità in termini storici, biologici, culturali, non solo per noi, ma per tutte le forme di vita che li abitano e vi s’intrecciano.
Fradicio di domande, mi metto al riparo di un’unica certezza. Una verità logica, la legge di contrapposizione. Se A implica B, non B implica non A. Se questo mondo, il nostro mondo, ha prodotto la crisi climatica, per fermare la crisi climatica bisogna cambiare questo nostro mondo.
Mi auguro che la Val d’Enza, anche a distanza, ce lo confermi una volta per tutte.