[In occasione dello Hobbit Day, nell’anno di uscita del primo film ispirato a Lo Hobbit, pubblichiamo il testo di un intervento tenuto alcuni anni fa a un convegno internazionale della Tolkien Society. L’autrice, Ty Rosenthal, è una fan neozelandese di J.R.R. Tolkien, che partendo dall’intuizione di più celebri studiosi (Hammond e Scull) sostiene – immagini e citazioni alla mano – una tesi molto interessante ma poco approfondita dalle nostre parti. Vale a dire l’influenza diretta che William Morris, la pittura dei Pre-Raffaeliti e il movimento Arts and Crafts esercitarono su Tolkien, sulla sua visione estetica e narrativa.
In Italia non ci si è impegnati granché a indagare il legame tra Tolkien e una delle poche fonti di ispirazione letteraria da lui esplicitamente riconosciute: William Morris (forse, ipotizziamo, a causa dell’irriducibilità di questa figura ai parametri politico-culturali nostrani). Ty Rosenthal lo fa con la semplicità della lettrice amatoriale, andando a leggere i testi e soprattutto considerando Tolkien anche come artista figurativo e come calligrafo.
Ci sembra un buon modo di festeggiare il compleanno di Bilbo e Frodo Baggins, quello di incoraggiare un punto di vista diverso su Tolkien, sulla sua formazione artistica, inserendone l’opera in un phylum culturale in buona parte ancora da indagare.]
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Immaginario della Terra di Mezzo e filosofia dell’arte manuale
di Ty Rosenthal*
1. Introduzione
Nel 1971, in una lettera indirizzata a un’amica, Tolkien raccontò questo aneddoto:
«Qualche anno fa a Oxford ricevetti la visita di un uomo il cui nome ho dimenticato […]. Era rimasto molto colpito dallo strano modo per cui molti vecchi quadri gli sembravano essere stati disegnati appositamente per illustrare Il Signore degli Anelli molto prima che io l’avessi scritto. Aveva portato con sé una o due di queste riproduzioni. Penso che inizialmente volesse semplicemente scoprire se la mia immaginazione si era ispirata a questi quadri, come era già successo per altre opere letterarie. Quando fu ovvio che, a meno che io non stessi mentendo, non avevo mai visto prima quei dipinti e che anzi non ero un esperto di arte pittorica, restò in silenzio. Mi accorsi che mi stava guardando fisso. Improvvisamente disse: ‘Naturalmente Lei non crederà di aver scritto il libro tutto da solo?’. Tale e quale Gandalf!»[1]
Tolkien rispose al suo visitatore: “No, credo proprio di no”. Tuttavia è sorprendente vedere come J.R.R. Tolkien, che era un artista dilettante piuttosto dotato, non si considerasse colto in ambito artistico, né ispirato dall’arte – anche se in almeno un caso un personaggio, Gandalf, venne ispirato da un quadro [2]. Riferendosi a quell’impacciato incontro, Tolkien usa l’espressione specifica “arte pittorica”. Se la stessa domanda gli fosse stata fatta a proposito di un tipo diverso di ispirazione artistica, avrebbe potuto rispondere di sì. Perché tanto nella sua arte quanto nell’approccio filosofico all’arte, all’artigianato, e alla creatività, Tolkien era evidentemente influenzato dal movimento Arts and Crafts inglese.
L’immagine che coglie la quintessenza del legame tra Tolkien e l’Arts and Crafts è una delle illustrazioni per Lo Hobbit, che rappresenta Bilbo, ritratto come una piccola figura a cavallo di un barile, mentre viene trasportato attraverso un paesaggio fluviale fatto d’acqua che scorre e alberi stilizzati. Nell’uso della linea, del colore, nella resa del paesaggio, questo interessante dipinto attinge direttamente dalle stilizzazioni dell’Arts and Crafts.
Tuttavia non è questa l’immagine che ha ispirato la presente ricerca. Quel dipinto mostra gli effetti di una certa influenza su Tolkien; non mostra come tale influenza ha avuto luogo.
La prossima sequenza di tre immagini, molto simili nello stile e collegate al movimento Arts and Crafts, dimostra in maniera nitida il percorso di questa influenza. La prima è una pagina di ghirigori casuali niente meno che dalla mano del grande William Morris:
Confrontiamola con questo foglio di modelli per le esercitazioni degli studenti inglesi di disegno artistico:
Trent’anni dopo, lo stile di decorazione botanica dell’Arts and Crafts era talmente consolidato che immagini stilizzate di questo tipo erano un esercizio artistico per ragazzi, sotto l’egida del London School Board, dovunque sventolasse l’Union Jack. Da bambino, Tolkien ricevette la sua prima educazione artistica negli anni Novanta del XIX secolo. Più tardi, da adulto, disegnava ancora nello stesso stile, come si evince da questa busta:
Cento anni dopo i ghirigori di Morris, almeno un artista dimostrava ancora l’influenza dei giorni di scuola tardo-vittoriani con i suoi schizzi di piante stilizzate e simmetriche. Qui l’arte casuale di Tolkien non è copiata da qualcos’altro: si possono osservare gli spunti creativi propri di Tolkien e un po’ della sua scrittura elfica. Ma i paralleli visivi tra i ghirigori di Tolkien e quelli di Morris sono evidenti, e sono collegati tra loro dal London School Board e dall’enorme influenza di Morris sulla cultura inglese in generale e su Tolkien in particolare, i quali hanno fatto da ponte. Questo insieme d’immagini è ciò che ha ispirato la mia ricerca e questa trattazione.
Prima di un’ulteriore analisi, vorrei far notare che ogni discussione sull’arte di Tolkien ha un debito con i suoi allievi e studiosi Wayne Hammond e Christina Scull, e con il loro libro J.R.R. Tolkien: Artist and Illustrator. Il loro precedente lavoro ha messo a nostra disposizione la sfera della produzione artistica di Tolkien, e la loro lungimiranza nell’includere certe immagini ha reso possibile questo progetto di ricerca. Loro discutevano il legame tra Tolkien e il movimento Arts and Crafts; l’obiettivo di questa trattazione è di costruire su quelle fondamenta, entrando nei particolari.
2. Sul movimento Arts and Crafts inglese
Il movimento Arts and Crafts inglese fu un insieme di influenze artistiche, architettoniche e filosofiche. Lo scrittore Steven Adams nota:
«Esso incorporò un’ampia varietà di artisti, scrittori, artigiani e di donne… alcuni dei suoi precursori erano profondamente conservatori e guardavano con nostalgia al passato medievale, mentre altri erano socialisti e ardenti riformatori» [7].
Tra loro c’erano protestanti, cattolici, e artisti che andavano dai pittori ai vasai. Il movimento compì il suo ciclo, dall’inizio alla fine, tra il 1860 e i tardi anni Trenta del Novecento. In quell’arco di tempo impattò con lo sviluppo della produzione manifatturiera, il suffragio femminile, e i cambiamenti di idee sul ruolo dell’arte e sulla natura in una società industrializzata.
I semi dell’Arts and Crafts vennero piantati nella prima età vittoriana, tra il 1830 e il 1860, da architetti gotici, come Augustus Pugin [8]. Quegli architetti ritenevano che l’architettura medievale fosse molto superiore agli edifici della loro epoca. I loro alleati, inclusi autori come Thomas Carlyle e John Ruskin, contestavano il fatto che il design vittoriano era prodotto usando le macchine, e secondo loro questo annullava l’aspetto umano e la “dignità creativa” della maestria artigiana [9]. Con il loro volgersi indietro e idealizzare le opere preindustriali, costoro stabilivano un’affinità artistica con i Pre-Raffaeliti. Questi erano un gruppo di artisti che rifiutava le convenzioni accademiche, classiche, incarnate dalla pittura di Raffaello. Si sforzavano invece di creare opere che avessero un valore emozionale e simbolico [10]. Ai loro inizi, i Pre-Raffaeliti erano un gruppo di sette membri, con base a Londra, e che avrebbe poi incluso William Morris.
Durante la sua vita, William Morris dominò benevolmente il movimento Arts and Crafts inglese; oggi il suo nome è quasi un sinonimo dello stile Arts and Crafts. Tolkien stesso avrebbe forse desiderato un’educazione come quella di Morris, nell’abbraccio di una famiglia benestante e affettuosa che assecondava gli interessi medievalisti del figlio. Il padre di Morris aveva perfino fatto costruire una piccola armatura completa per lui in modo che potesse andarsene all’avventura per i cortili di casa in groppa a un pony! [11] In quanto giovane agiato, Morris ebbe il tempo e i mezzi per incontrare i Pre-Raffaeliti.
I Pre-Raffaeliti diedero vita a una pittura e a una poesia profondamente romantiche. Spesso le loro opere esprimevano ideali di bellezza, i quali ispirarono o entrarono in sintonia con il movimento Arts and Crafts. Quei lavori includevano temi del folklore inglese, spesso collegandoli alla mitologia greco-romana, il ciclo di Re Artù e l’immaginario fatato/pre-cristiano, oppure illustravano le opere di Shakespeare. Favorivano anche la rappresentazione della spiritualità, sia quella pagano-mitologica sia quella cristiana [12]. La ricca, romantica combinazione di temi, come la bellezza femminile e il rapimento spirituale, è ben evidente nella poesia di Dante Rossetti The Blessed Damozel, che in seguito egli accompagnò con un dipinto [13].
Morris aderì al movimento Pre-Raffaelita insieme alla sua giovane moglie, Jane Burden. Burden era un’artista di merito, specializzata in tessuti e ricami, che avrebbe dato un contributo significativo alle produzioni tessili dell’Arts and Crafts. E’ ricordata soprattutto per la sua folgorante bellezza e per essere stata la musa di suo marito e la modella preferita di Dante Rossetti [14]. Nel 1860, William e Jane si trasferirono nella romantica Red House. La casa era stata commissionata dai Morris, e decorata con temi ideati da loro e dai loro amici. Questa incantevole dimora ideale era concepita per essere un rifugio dai malanni dell’ipercinetica società moderna. Fu tra le mura della Red House che iniziò davvero il movimento Arts and Crafts inglese.
All’inizio Morris e i suoi sodali erano una piccola compagnia, concepita come una comunità di “lavoratori delle belle arti”. Lavorando con una varietà di mezzi, il loro intento era quello di ritagliarsi un ruolo nella riforma delle arti decorative. Grazie al loro stile medievalista e alla loro miscela di radicalismo e conservatorismo, molte delle loro prime commissioni vennero dalle chiese. Lentamente ma inesorabilmente, i loro bellissimi progetti acquistarono sempre più ammiratori e committenti.
La nostalgia medievale dell’Arts and Crafts si diffuse per reazione alle trasformazioni portate in Inghilterra dall’industrializzazione e dall’espansione coloniale. L’emigrazione e il lavoro industriale stavano cambiando per sempre il volto del proletariato, con un grande spostamento di persone dalle campagne alle città, soprattutto verso i quartieri poveri. La vita quotidiana di molti veniva stritolata nella macchina della produzione industriale. Il libro di George Orwell La Strada per Wigan Pier fornisce un’evocativa, ancorché tarda, visione di quel tipo di vita. Per coloro che potevano permettersi di coglierlo, c’era un aspetto affascinante nei prodotti del lavoro industriale. Qualsiasi cosa fosse nuova per tecnologia e fabbricazione divenne popolare. Si pubblicizzavano gli alimenti pretrattati. I nuovi sviluppi della chimica e della metallurgia instillavano poco alla volta cambiamenti nel vestiario delle donne, rendendo l’acciaio abbastanza economico da essere usato nei corsetti e nelle crinoline, e producendo vividi coloranti d’anilina, soprattutto tonalità di porpora, per rendere i vestiti più brillanti. La Grande Esibizione dell’Industria di Tutte le Nazioni del 1851, al Crystal Palace di vetro-acciaio di Londra, celebrò le virtù e i prodotti dell’industrializzazione vittoriana. Fuochi d’artificio, marchingegni a batterie, fontane, telai meccanici, macchine falciatrici, e la meraviglia architettonica del Palazzo stesso incantarono le folle. La volta di vetro del Palazzo, che racchiudeva un albero, era essa stessa un’immagine del trionfo della tecnologia sulla natura [15].
Nella stessa epoca in Inghilterra, la borghesia in crescita iniziava a insidiare i privilegi dell’aristocrazia e a emergere soprattutto grazie all’istruzione, alla transizione vincente verso la società industrializzata, al suo ruolo di distributrice dei beni industriali. Parte della nostalgia per la semplicità di un’epoca di fanti e signori evocata da questo cambiamento era efficacemente incanalata nella spinta coloniale dell’Impero Britannico, la quale univa la virtù del successo capitalistico propria della classe media (come quello della Compagnia delle Indie Orientali) all’idea della superiorità britannica (esemplificata nella poesia di Rudyard Kipling White Man’s Burden [16]). Tuttavia ciò provocava anche una certa inquietudine, poiché comportava un costante flusso di cibi stranieri, arte straniera, tessuti stranieri, e gente straniera. In mezzo alle lusinghe dell’impero, cosa significava ormai essere inglese?
Fu da questi presupposti che l’Arts and Crafts sviluppò le sue visioni filosofiche. Quella più comunemente citata al giorno d’oggi è, guarda caso, di William Morris: “Non abbiate nulla nelle vostre case che non riconosciate come utile o che non riteniate bello” [17]. Questa massima tanto è affascinante quanto è in grado di riassumere nitidamente la credenza dell‘Arts and Crafts che la bellezza e gli oggetti d’uso quotidiano potessero e dovessero fondersi assieme. Per Morris, una bella decorazione era una “alleanza con la natura”, e la natura, come gli uccelli, gli alberi, e la possibilità di vivere a contatto con l’ambiente, era altamente apprezzata[18]. Così come il passato. La storia, il folklore e i miti britannici, celtici e nordici, venivano osservati attraverso lenti rosa, per valorizzare l’eredità inglese e incoraggiare gli artisti in Inghilterra a cercare ispirazione nella tradizione locale [19].
Gli idealisti dell’Arts and Crafts sono forse stati i primi ad adottare l’idea che si potesse “pensare globalmente, comprare localmente”, e preferivano che i loro oggetti fossero fabbricati da artigiani locali, quando addirittura non se li costruivano da soli. I fabbricanti di tappeti del movimento Arts and Crafts accettarono di avvalersi della manodopera irlandese meno cara, solo perché era una maestranza “locale”, e così molti tappeti vennero fabbricati nel Donegal.
Incoraggiare questa forma di impiego nasceva dall’idea che praticare un’arte avrebbe elevato le qualità morali e spirituali. Le pagelle delle scuole d’arte e design in Nuova Zelanda incoraggiavano specificatamente i lavoratori e le lavoratrici ad avere cura di se stessi e a migliorare [20].
Inoltre, gli articoli della produzione Arts and Crafts dovevano essere fatti di sostanze e fibre naturali, evitando innovazioni come la celluloide, il lattice, e le tinte sintetiche [21]. Questi ideali erano applicati anche ai corpi e ai sentimenti degli artigiani, ritenendo che abiti semplici (soprattutto per le donne) e libertà emotiva avrebbero condotto alla buona salute e favorito la creatività. A livello spirituale, l’estetica Arts and Crafts era tanto in sintonia con il folklore pagano quanto indubbiamente cristiana. Entrambi gli aspetti si ritrovavano nel sentimento implicito nell’Arts and Crafts che le cose un tempo erano andate meglio.
Dal punto di vista artistico, questo medievalismo si esprimeva in stili differenti. Il revival gotico, il revival celtico, il recupero della rusticità, si sforzavano di rievocare l’Inghilterra di un’epoca più semplice, prima dell’industrializzazione e del colonialismo.
Da principio furono artisti professionisti a creare le opere Arts and Crafts. Quando però il movimento iniziò a progredire e la gente iniziò a saperne di più sul suo conto, i progetti fai-da-te ebbero una parte importante nella realizzazione della visione estetica dell’Arts and Crafts. Morris e gli altri, fornendo attrezzatura e dando lezioni, nonché attraverso alla pubblicazione dei cataloghi, consentirono ai dilettanti a casa di diventare anch’essi artisti artigiani [23]. Potendo contare sulle abilità nei lavori manuali che erano molto diffusi nell’era pre-televisiva, spesso queste opere “fatte in casa” o “amatoriali” erano indistinguibili da quelle realizzate nello studio di Morris. Le donne furono ampiamente coinvolte nell’Arts and Crafts grazie alla sua apertura, motivata dall’idea che questo tipo di lavoro artistico fosse un’occupazione appropriata per una donna e che elevasse lo spirito. Le donne divennero anche intagliatrici e orafe professioniste proprio grazie ai curricula della scuola di Arts and Crafts [24].
Il movimento Arts and Crafts inglese esercitò un’influenza evidente, ma ebbe anche successo? Lo stesso William Morris giunse a dubitare di avere raggiunto i propri obiettivi. Osservò, a ragione, che molti oggetti prodotti dal suo gruppo erano destinati solo ai benestanti, e che le masse rimanevano escluse dal piacere della loro visione [25]. Ai loro inizi, in epoca vittoriana, gli studi di produzione Arts and Crafts conseguirono solo un modesto successo commerciale. A quei tempi, lo stile e le filosofie a esso correlate erano radicali e controverse, per gli intellettuali e, in alcuni casi, perfino per quelli che volevano suscitare scandalo.
Nella sua devozione alla bellezza, all’utilità e alla storia, l’Arts and Crafts sacrificò il senso dell’umorismo. Questo lo rese un bersaglio perfetto per chi voleva fare satira sul movimento. Gli schernitori dell’epoca trovavano nuove frecce per il loro arco quando l’Arts and Crafts veniva preso di mira dagli Esteti – gente della classe medio-alta che amava l’arte perché era di moda, senza fare molte distinzioni sulla sua provenienza [26]. Oscar Wilde, in contemplazione di gigli e girasoli per trarne ispirazione, l’idea che l’arte non deve avere alcuna finalità e che la Natura non è importante, erano tutte cose tipicamente estetiche. La famosa vignetta vittoriana di George Du Maurier, The Six-Mark Teapot, rappresenta una sciocca stortura della convinzione dell’Arts and Crafts che gli oggetti d’uso quotidiano dovessero essere belli, e che qui invece hanno cominciato a essere feticizzati [27].
Il design Arts and Crafts ebbe una maggiore diffusione e venne prodotto su larga scala soprattutto nella prima metà del XX secolo, mescolato con altri stili architettonici edoardiani. (Il corrispettivo movimento Arts and Crafts americano, con il suo approccio meno idealistico all’artigianato, fu un successo commerciale). Anche se noi oggi lo consideriamo un classico, l’Arts and Crafts durò poco più che un momento. Inevitabilmente, evolse in altri stili artistici e il momento passò. In Europa i suoi spunti vennero raccolti dalle diverse diramazioni del movimento Estetico, gli spazi di Glasgow di Charles Rennie Mackintosh, l’Art Nouveau in Francia, lo Jugendstil in Austria, e gli albori del movimento Modernista e della Bauhaus [28].
Alla fine degli anni Quaranta, l’Arts and Crafts, come movimento artistico, era concluso. Ma a quel punto aveva già avuto la possibilità di imprimere il proprio sigillo su un fenomeno culturale che sarebbe giunto fino al XXI secolo: l’arte e la scrittura di J.R.R.Tolkien.
3. La vita e l’arte di Tolkien
Tolkien è famoso per i suoi scritti, ma era anche un artista completo a pieno titolo. Era modesto sui propri talenti artistici; a proposito delle illustrazioni de Lo Hobbit dichiarò:
«Non sono molto buone e potrebbero anche essere inadatte tecnicamente [29]… Sono anche molto grato nonché piacevolmente sorpreso che i disegni per Lo Hobbit possano essere utilizzati… Ora ne accludo altri 6. Ovviamente sono tutti imperfetti [30].»
Dal punto di vista artistico, il suo forte erano i paesaggi, il tratto eccellente, l’inventiva, un talento che forse oggi otterrebbe un più giusto riconoscimento, l’abilità con mappe e caratteri. Il suo più grande punto debole artistico era tutto ciò che riguardava i bipedi senzienti. Ecco come ha succintamente descritto la sua mancanza artistica: “Ho provato, ma ahimè!, riesco solo a disegnare in maniera molto imperfetta quello che posso, e non quello che vedo” [31]. Per capire la ragione di questo limite occorre prendere in esame la sua educazione artistica.
Tolkien era nato nel 1892. Nel 1896 suo padre morì, e lui, suo fratello e sua madre andarono a vivere in Inghilterra, da principio in un sobborgo semi-rurale di Birmingham. Tolkien trascorse i suoi primi anni con i nonni, e l’arte era parte integrante della storia famigliare. Humphrey Carpenter, nella sua biografia di Tolkien, nota che gli antenati di Tolkien erano stati incisori. Suo nonno poteva scrivere il Padre Nostro nella circonferenza di una moneta da sei pence usando un pennino affilato, e raccontò al giovane Tolkien l’aneddoto di quanto era stato lodato da re Guglielmo IV per il suo eccellente lavoro artistico [32]. Istruito da una madre altrettanto talentuosa, il giovane Tolkien sapeva già scrivere a cinque anni – molto bene in corsivo. Secondo Carpenter, sia Tolkien sia sua madre avevano una calligrafia “elegante e idiosincratica”. La madre di Tolkien fornì i primi elementi della sua educazione artistica, che continuò con corsi di disegno a scuola, e con i frequenti disegni realizzati per diletto durante le vacanze. Tolkien spedì disegni alla madre quando fu ricoverata in ospedale per diabete nel 1904 [33].
Allora come oggi, l’arte faceva parte dell’educazione scolastica di base. A uno studente di oggi un insegnamento del genere, con esercitazioni ed esami, sembrerebbe perfino troppo irregimentato. Alla fine dei corsi scolastici di base e dell’educazione artistica che gli avevano fornito, i punti di forza e di debolezza di Tolkien come artista erano ormai fissati. Lo dimostrano due disegni fatti da Tolkien nel 1910, all’età di diciott’anni. Il primo è uno schizzo a penna de Le Rovine dell’Abbazia di Whitby. Questo scorcio di paesaggio elegante, meditativo, è realizzato con finezza e abilità; proprio come sarà nella sua narrativa, Tolkien usa l’ombra, le allusioni a una bellezza lontana, e il peso del passato come parte integrante del disegno.
Confrontiamolo con lo schizzo a matita del porto di Whitby, realizzato da Tolkien durante la stessa estate. Questo pezzo è abbastanza ben riuscito – finché l’osservatore non nota i tentativi di aggiungere alcuni bambini in mezzo alla strada. Le piccole figure sono così abbozzate e sgraziate da sembrare fuori posto. Un po’ di tempo in studio con modelli in carne e ossa avrebbe potuto correggere questa mancanza, ma all’epoca questo non faceva parte dell’educazione al disegno di un giovane rispettabile. Invece, agli studenti venivano presentati calchi in gesso di parti anatomiche neutre, come nasi e braccia. L’esercitazione consisteva nella sommatoria delle parti invece che nel cogliere l’insieme, come gli studenti stessi erano soliti rimarcare.
Da dove viene l’influenza dell’Arts and Crafts su Tolkien? Al tempo in cui Tolkien era un ragazzo e poi un giovanotto, l’Arts and Crafts era entrato nel suo periodo tardo, quello di maggiore diffusione commerciale; le sue tracce erano ovunque. Senz’altro un’importante origine dell’influenza dell’Arts and Crafts sul giovane Tolkien può essere rintracciata nei libri che amava. I volumi di Fairy Stories di Andrew Lang, che Tolkien apprezzava [36], erano una miniera di influenze artistiche romantiche e pre-raffaelite, e Tolkien si imbatté senz’altro nei lavori di Walter Crane e di Kate Greenaway [N.d.T.: Entrambi membri del movimento A&C inglese: Walter Crane (1845-1915), allievo di W. Morris, pioniere dello stile Liberty, famoso illustratore di libri per bambini, realizzatore di manifesti e disegni per tappezzeria e carta da parati. Catherine “Kate” Greenaway (1846-1901), celebre poetessa per l’infanzia, illustratrice di libri per ragazzi e realizzatrice di exlibris].
Le case edoardiane non erano soggette al rapido ricambio della società consumistica di oggi. Gli oggetti che entravano in casa, soprattutto nelle residenze modeste, erano probabilmente destinati a rimanerci per un pezzo. Questo valeva non solo per il patrimonio di libri per l’infanzia vittoriani, ma anche per l’arredamento e i ricami. Nelle storie ambientate nella Terra di Mezzo, Tolkien mostra un’originale sensibilità per i ricami, i lavori di cucito e di tappezzeria. Míriel, Melian e Lúthien, con i loro ricami e tessiture, sono l’equivalente femminile dei talentuosi fabbri di Tolkien: Fëanor, Celebrinbor e il nano Telchar. Questo apprezzamento derivava probabilmente dall’ambiente in cui era cresciuto, dove il lavoro di ricamo era presente e tenuto in considerazione.
Un altro collegamento tra Tolkien e il movimento Arts and Crafts è la miscela di medievalismo, amore per la natura e per il mondo vegetale, e la conseguente avversione per l’industrialismo. I sentimenti di Tolkien, acquisiti durante la giovinezza nella campagna inglese, si protrassero per tutto il corso della sua vita.
Il suo incontro più importante con un’opera legata all’Arts and Crafts avvenne nel 1914. Tolkien vinse un concorso letterario che aveva in palio un premio di cinque sterline. Usò il denaro per comprare alcuni libri di William Morris – la traduzione della Volgsungsaga e il romanzo storico The House of the Wolfings. Il contenuto letterario di quest’ultimo, un racconto immaginario del viaggio dei Goti attraverso l’Europa, determinò l’enorme influenza del celebre scrittore su Tolkien [37]. Se queste opere nella loro forma stampata avessero avuto qualche somiglianza con i lavori calligrafici di Morris o con le opere della sua rinomata e sontuosa casa editrice artistica Kelmscott Press, allora potrebbero avere lasciato un segno sull’opera di Tolkien anche in un altro senso. Ma la Kelmscott Press non pubblicò The House of the Wolfings, sicché questa rimane una congettura.
4. Il design dell’Arts and Crafts classico e le opere di Tolkien
A un confronto diretto, molta dell’arte di Tolkien risulta evidentemente influenzata dal movimento Arts and Crafts. Uno degli esempi più evidenti sono i disegni di Tolkien per gli stemmi nobiliari degli Elfi. I quadrati e i tondi stilizzati, simili a mandala, sono raccolti in un’illustrazione incompiuta. Sono quasi identici, nella forma e nello stile, agli esercizi di disegno per studenti nella tradizione dell’Arts and Crafts inglese, che venivano insegnati utilizzando i metodi della London School of Art.
Una delle illustrazioni di Tolkien più conosciute, L’ingresso di Bag End disegnato per Lo Hobbit, ci fornisce l’esempio dell’interno di un’abitazione della Terra di Mezzo come l’immaginava Tolkien. Con le sue linee curve, il contrasto tra il legno lavorato e l’intonaco, il pavimento piastrellato, questo vestibolo è sorprendentemente simile al corridoio della Red House di Morris, nella distribuzione del colore, nella lavorazione delle pareti, e anche negli elementi tondeggianti [40].
L’Ingresso di Bag End è uno dei pochi disegni di interni eseguiti da Tolkien. In quel caso disegnò un insolito elemento decorativo, in parte forse come tentativo di rendere un modello, ma forse anche di cogliere un luogo immaginario. Uno dei suoi disegni geometrici è conservato con il titolo Tappeto Nùmenoreano. L’uso del colore e il ripetersi delle volute e dei rombi, ancora una volta rimanda allo stile Arts and Crafts, in questo caso nel campo della tappezzeria. I tappeti di William Morris mostravano elementi simili, benché, concepiti per essere tessuti a mano, avessero un disegno più semplice. (Molti disegni di tappeti del periodo Arts and Crafts vennero resi più lineari e ottimizzati nel passaggio dalla progettazione artistica alla produzione del tappeto).
Tolkien eseguì altri disegni per cogliere la realtà del suo luogo immaginario, riservando particolare cura all’illustrazione dei suoi manoscritti, una cosa che facevano anche i membri del movimento Arts and Crafts, e che al giorno d’oggi è ancora un passatempo popolare per chi ha l’hobby del Medioevo. I più noti lavori di calligrafia di Tolkien furono realizzati abbastanza tardi nella sua vita, e sono rivelatori di una buona consapevolezza sia come artista sia come scrittore, tanto che le sue idee e i suoi disegni meritano che si dedichi loro più tempo e che si entri maggiormente nel dettaglio. Alcuni di questi lavori, come la scrittura di Dangweth Pengolodh: La Risposta di Pengolod, sono realizzati in inglese [43]. Nel merito, questo lavoro è coerente con la storia del testo che contiene, immaginata da Tolkien, cioè la testimonianza della discussione tra un Elfo e un uomo mortale, con quest’ultimo che ritorna nella Terra di Mezzo. Nella logica immaginaria della Terra di Mezzo, un manoscritto del genere potrebbe davvero essere esistito in inglese [44]. Altri pezzi, come ad esempio la lettera scritta in elfico da Re Aragorn per Samwise [45], sono quasi del tutto fantastici, collocati interamente nella Terra di Mezzo e inaccessibili a chiunque non sia un fervente studioso dei linguaggi immaginari di Tolkien. Questa lettera regge il confronto con alcuni dei lavori prodotti dalla Kelmscott Press di William Morris. In molti casi (specialmente nel romanzo di Morris The Glittering Plain) i manoscritti della Kelmscott erano talmente ricoperti di decorazioni che si faticava a leggerli, a considerarli come qualcosa di diverso da oggetti artistici; eppure questo grande sfarzo accresceva l’idea che il testo potesse essere una vera cronaca dei giorni incantati di un tempo antico. La Kelmscott Press produsse una fastosa edizione del Beowulf, che Tolkien potrebbe avere visto, o della quale potrebbe perfino avere posseduto una copia.
5. Arte e creatività nella Terra di Mezzo
La filosofia dell’Arts and Crafts, proprio come la sua arte, coincide con quella della Terra di Mezzo di Tolkien. L’autore e il movimento condividono molte caratteristiche: la vicinanza alla natura, la valorizzazione del folklore, e l’apprezzamento per i lavori raffinati di artigianato.
Come l’Arts and Crafts, Tolkien esaltava gli artigiani. Nei suoi scritti ambientati nella Terra di Mezzo elogia soprattutto le cose belle realizzate dagli Elfi, seguite da quelle dei Nani, ma rende l’abilità artigiana un attributo anche degli Hobbit e dei migliori tra gli Uomini mortali. Nel Signore degli Anelli, il dono di Galadriel alla Compagnia [46] esemplifica l’adagio “utile è bello” [beautiful and useful, N.d.T.]. Quando gli Hobbit si trovano nei guai, quel dono porta loro soccorso, a volte in modi inaspettati – come quando Sam usa la corda di hithlain per legare Gollum, o quando Pipino lascia la sua spilla elfica come segnale per Aragorn. Quando la spilla di Pipino, con la sua scintillante bellezza, cattura lo sguardo in mezzo al fango dove sono passati gli orchi, realizza il proprio scopo. Le virtù della corda di hithlain sono più sottili. La corda viene descritta come “robusta, serica al tatto, di colore grigio come i mantelli elfici” [47]. A questo oggetto d’artigianato è concessa una menzione speciale, e Samwise ha uno scambio particolarmente cordiale con un elfo a proposito della corda di hithlain, dove emerge che la fabbricazione di corde è qualcosa che lui e gli Elfi hanno in comune.
I doni più persistentemente utili, ancorché in modo gentile, sono i mantelli elfici, i quali incorporano l’idea di Tolkien della “funzione subcreativa” [48] che si esprime nella creatività materiale. Quei mantelli nascondono coloro che li indossano agli occhi di chi li circonda; una qualità che mantiene gli hobbit celati agli orchi in più di un’occasione.
Sarebbe stato difficile precisarne il colore: grigia, sembrava, del colore del vespro tra gli alberi; eppure muovendola, o cambiando luce, era verde come foglie ombreggiate, o marrone come di notte un campo a maggese, o argento brunito come acqua al lume di stelle. […]
“Sono questi dei mantelli magici?”, domandò Pipino, guardandoli meravigliato.
“Non so cosa tu intenda dire”, rispose il capo degli Elfi. […] Sono beninteso vesti elfiche, se è questo che volevi sapere. Foglia e ramo, acqua e pietra; hanno il colore e lo splendore di tutto ciò che ci circonda, immerso nel crepuscolo della nostra Lòrien adorata. In ogni cosa che facciamo noi infondiamo le immagini di tutto quel che amiamo. [49].
In senso più generale, Tolkien mostra la sua ammirazione per l’artigianato inserendolo sempre al culmine di bellezza delle sue civiltà. A Valinor, gli Elfi sono scalpellini, intagliatori di gemme, costruttori di barche, e le loro mogli sono abili tessitrici e ricamatrici. Menegroth è un prodigio di architettura nanesca e di arti elfiche, ornato dagli arazzi tessuti da Melian. Più tardi, quando si piange la caduta di Nùmenor, c’è una menzione speciale dei “suoi gioielli e le sue tele, i dipinti e le sculture” [50]. Ne Lo Hobbit, i Nani ricordano i giorni di Erebor prima dell’avvento del drago dicendo: “Il più povero di noi aveva denaro da prestare e da spendere, e agio di costruire cose belle per il solo piacere di farlo” [51]. E dopo l’abbattimento di Sauron, Minas Tirith viene ricostruita con una combinazione di arte e natura: “…La Città fu resa più bella di quanto non fosse mai stata, persino nei giorni della sua prima gloria; fu empita di alberi e di fontane, e i suoi cancelli forgiati in acciaio e in mithril, e le sue strade pavimentate di marmo bianco; e la Gente della Montagna vi lavorò, e la Gente del Bosco fu felice di andarvi” [52]. Nella Terra di Mezzo, sia il paradiso originario sia i lietofine offrono alla gente l’opportunità e il tempo di essere creativa.
A corollario di tutta questa virtù artigiana, ci sono anche vizi creativi; la ricerca spasmodica del potere attraverso gli oggetti creati, e la bramosia di quegli oggetti. Il male inizia quando l’arte e i tesori vengono celati. Ai personaggi positivi, gli Elfi donano gemme e Bilbo dispone del suo patrimonio con generosità alla fine delle sue avventure. Di contro, l’accumulazione dei Silmaril da parte di Fëanor porta all’egoismo che alla fine condurrà alla morte dei Due Alberi di Valinor. Egli rifiuta di cedere le sue creazioni perché vengano distrutte così che la loro luce possa portare i Due Alberi di nuovo in vita. Il Vala malvagio Morgoth allora ruba i gioielli, scatenando una lunga, amara, e in definitiva inutile guerra [53].
Questo tema è ripreso con maggiore raffinatezza nella concezione tolkieniana degli Anelli del Potere. Coloro che cadono sotto l’influsso dell’Unico Anello inevitabilmente lo trovano un oggetto meraviglioso, la sua bellezza e il suo potere sono egualmente allettanti. Ci sono motivi ulteriori per cui gli Anelli del Potere sono segnati negativamente fin dall’inizio dai loro creatori. Lo scopo per cui Sauron crea l’Unico Anello è il controllo puro. Quanto agli Elfi che lo aiutarono, Tolkien ha descritto il modo in cui andarono oltre i limiti della creatività “buona”, oltrepassando la linea sottile tra arte e tecnologia: “Il particolare ‘desiderio’ degli Elfi di Eregion – una ‘allegoria’, se si vuole, del loro amore per la macchina, e per i marchingegni tecnologici…” [54]. Con gli Anelli che protraggono la vita, essi aspirano ad andare oltre i limiti della natura e del destino mortale nella Terra di Mezzo; nella lettera citata, Tolkien fa notare che il potere malvagio e distorto che ne risulta è il sottoprodotto tossico di questo tentativo, l’equivalente dell’inquinamento industriale. Come i filosofi dell’Arts and Crafts amanti della natura, Tolkien odiava l’industria e i suoi effetti “disumanizzanti”. Sublimare le passioni industriali con la bellezza le rende seducenti, e ancora più nocive, al contrario di quanto fanno gli abietti simboli del male che Tolkien ci mostra con i macchinari di Isengard ne Le Due Torri, e con il mulino meccanizzato di Ted Sabbioso ne Il Ritorno del Re. Nella Terra di Mezzo, l’Arte non può salvare l’Industria.
Per sconfiggere l’accumulazione e l’industria, nella Terra di Mezzo tolkieniana, la soluzione è un generoso ritorno alla natura. In una sorta di parabola ecologica [55], Isengard viene distrutta dai pastori d’alberi, gli Ent, e dal popolo degli alberi, gli Ucorni, come se uno dei manifesti di design di William Morris prendesse vita per compiere una vendetta. Oggetti preziosi e lavori d’artigianato danno il loro meglio quando vengono dati via. I gentili hobbit istituzionalizzano questo principio con la pratica di donare i mathom, gli oggetti belli che continuano a circolare all’infinito come regali. In un frangente assai più grave, Tom Bombadil, ne La Compagnia dell’Anello, si confronta con il tesoro accumulato dallo spettro dei tumuli. “Comandò loro [i tesori] di restare lì, ‘liberi di essere presi da chiunque, bestie, uccelli, Uomini o Elfi, e ogni gentile creatura’: questo era infatti il modo per rompere l’incantesimo del Tumulo e allontanare per sempre i freddi e tetri Spettri” [56]. Bilbo, allo stesso modo, dà via buona parte del tesoro del drago e del bottino dei troll che ha ottenuto, affermando di sentire che esso non gli è mai appartenuto veramente, e più avanti cede molti dei suoi averi quando lascia la Contea, dimostrando uno slancio socialista che i progressisti dell’Arts and Crafts avrebbero apprezzato. La circolazione e il libero dono di oggetti preziosi, che rendono la bellezza disponibile per molti, riecheggia gli obiettivi delle imprese Arts and Crafts (alcune delle quali operavano in costante perdita finanziaria) [57].
Un episodio de La Compagnia dell’Anello tiene assieme questi tre temi: la virtù creativa, la nocività dell’accumulazione e dell’industria, e il potere che nasce dal maneggiare cose belle. Durante la scena della consegna dei doni a Lothlòrien, Galadriel chiede a Gimli cosa vorrebbe da lei come regalo, ed egli, colpito dal suo splendore, chiede un capello della sua chioma, da custodire gelosamente in ricordo della sua amicizia e bellezza. Galadriel glielo concede, e gli elargisce anche l’augurio che l’oro fluisca dalle sue mani, senza mai ottenere il dominio su di lui [58]. Anche questo destino riecheggia gli ideali dell’Arts and Crafts di devozione alla bellezza più che al profitto industriale. E’ coerente che ciò sia concesso da un personaggio femminile il quale, con la sua veste bianca e i suoi capelli fluenti, potrebbe essere stato modellato su una bellezza pre-raffaelita.
6. Albero, Foglia e Conclusione
Una delle immagini che appare più spesso negli scritti di Tolkien è quella di un bellissimo albero dal significato simbolico. Ci sono Laurelin e Telperion, gli alberi che un tempo illuminarono la terra dei Valar; c’è l’Albero Bianco Galathion con i suoi rampolli, che indica la continuazione della linea dinastica di Elendil; c’è il mallorn che cresce e fiorisce nella Contea; e l’Albero perfetto idealizzato da Niggle, che può esistere solo in un allegorico aldilà. Questo Albero compare anche nel lavoro artistico di Tolkien.
«Tra le mie ‘carte’ ho più di una versione dell’albero mitologico che salta sempre fuori regolarmente in quei momenti in cui mi sento portato a riprodurre campioni […] l’albero porta oltre a foglie di varie forme anche molti fiori, piccoli e grandi che alludono alle poesie e alle leggende [59]»
Gli alberi che ispirarono a Tolkien questa visione potevano trovarsi in natura così come nell’arte del suo tempo. Perché immagini di alberi ricorrono più volte nel design Arts and Crafts. Tendaggi, ricami e motivi decorativi ripetono questa immagine, a volte in modi che sembrano combaciare con le stesse visualizzazioni di Tolkien.
Qui sopra sono messi a confronto il disegno di un tappeto di C.F. Voysey che rappresenta un albero elaborato, e lo schizzo di un albero eseguito da Tolkien. Entrambi condividono linee curve, foglie e fiori diversi. L’albero di Tolkien è più vario. Il titolo del disegno è L’Albero di Anarion, ma evoca facilmente l’albero presente in un altro suo scritto, il racconto Foglia di Niggle. In questa storia, un artista immagina un grande e glorioso albero, senza riuscire mai a coglierlo interamente con la propria pittura, a causa del continuo procrastinare e delle distrazioni che giungono dal mondo esterno. Dopo il metaforico “viaggio della morte” [62], nella parte extra-terrena della vicenda, Niggle arriva in un luogo dove il suo Albero, l’Albero che aveva immaginato, esiste davvero. Contemplando la sua visualizzazione artistica fattasi realtà, Niggle esclama: “E’ un dono!”
Si tratta di un momento struggente che ci spinge a riconsiderare il modo in cui guardiamo all’arte di Tolkien. Il racconto Foglia di Niggle, con il suo protagonista talentuoso ma limitato e rimandatario, viene spesso interpretato come una metafora della relazione di Tolkien con la scrittura. Tuttavia può riguardare anche la relazione di Tolkien con il proprio lavoro artistico. Come Tolkien disse di se stesso, il talento artistico di Niggle non è all’altezza delle sue visioni: “Niggle faceva il pittore. Non aveva molto successo […]. Aveva messo mano a parecchi quadri, gran parte dei quali troppo vasti e ambiziosi per le sue capacità [63]”. In questa storia allegorica, dopo svariate prove e tribolazioni, Niggle viene ricompensato con l’esperienza di ritrovarsi in un mondo dove la pittura che egli avrebbe voluto realizzare di più, quella di un grande albero, carico di frutti e di uccelli, è divenuta reale. Ancora di più: il luogo dove si trova l’Albero combina assieme la realtà di un paesaggio con il fascino di un fondale dipinto. “Si poteva andare avanti e avanti, e trovare un paese intero in un giardino, o magari in un quadro”. La cosa migliore per Niggle è che in questo luogo sperimenta l’ideale di “paradiso creativo” espresso da Tolkien, dal momento che questo paesaggio richiede da parte sua ulteriori rifiniture creative e che lo completi, insieme al suo amico Parish. Così, quando Parish arriva, i due si mettono a lavorare in coppia. In questo si sente l’eco delle comunità creative dei Pre-Raffaeliti e delle imprese ispirate ai princìpi dell’Arts and Crafts. E quando infine Niggle è pronto per partire, già ci si aspetta un ulteriore contributo creativo dalla moglie di Parish, quando sarà il suo turno di arrivare. I due uomini hanno immaginato gli alberi e le foreste e i giardini, ma la casa attende il tocco di lei. “Penso che mia moglie sarà in grado di migliorarla ancora”, dice Parish [64]. C’è qualche dubbio su quale stile di design Tolkien immaginava lei avrebbe usato?
Quelli di noi che apprezzano la creatività di Tolkien in tutte le sue forme possono guardare con gratitudine al movimento Arts and Crafts come parte di ciò che sospinse e diede forza a Tolkien, per quanto egli possa avere considerato il proprio lavoro artistico più come una foglia di Niggle che come l’Albero completo di Niggle.
Note
1. H. Carpenter, The Letters of J.R.R. Tolkien, Houghton Mifflin Co., 1995. Letter 133. [J.R.R.Tolkien, La Realtà in Trasparenza – Lettere, a cura di H. Carpenter, Bompiani, Milano, 2001, lettera 328, p. 464]
2. http://www.tolkiensociety.org/news/gandalf-painting.html . The Tolkien Society.
3. W.G. Hammond, Ch. Scull, J.R.R. Tolkien: Artist and Illustrator, Harper & Collins Publishers, London, 1995.
4. G. Naylor, ed. William Morris By Himself: Designs and Writings, MacDonald Orbis, London, 1998.
5. A. Calhoun, The Arts and Crafts Movement in New Zealand, 1870-1940. Auckland University Press, Auckland, 2000.
6. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
7. S. Adams, The Arts and Crafts Movement, Apple Press Ltd, Baldock, 1987.
8. Ibidem.
9. Ibidem.
10. S.F. Cooper, Pre-Raphaelite Art in the Victoria and Albert Museum, V&A Publications, London, 2003.
11. L. Parry, ed., William Morris, Philip Wilson Publishers Limited, London, 1996.
12. S.F. Cooper, op. cit., 2003.
13. http://eir.library.utoronto.ca/rpo/display/poem1763.html, University of Toronto.
14. G. Naylor, op. cit., 1998.
15. http://www.ric.edu/rpotter/cryspal.html, Rice University.
16. “Take up the White Man’s burden / Send forth the best ye breed / Go bind your sons to exile / To serve your captives’ need; / To wait in heavy harness, / On fluttered folk and wild / Your new-caught, sullen peoples, / Half-devil and half-child.” Dalla poesia White Man’s Burden, Rudyard Kipling, 1899. [Trad.: “Addossatevi il fardello del Bianco / Mandate i migliori della vostra razza / Andate, costringete i vostri figli all’esilio / Per servire ai bisogni dei sottoposti; / Per custodire in pesante assetto / Gente irrequieta e sfrenata / Popoli truci, da poco soggetti, / Mezzo demoni e mezzo bambini.”]
17. I. Anscombe, Ch. Gere, Arts and Crafts in Britain and America, Academy Editions, London, 1978.
18. S. Adams, op. cit., 1987.
19. I. Anscombe, Ch. Gere, op. cit., 1978.
20. A. Calhoun, op. cit., 2000.
21. G. Naylor, op. cit., 1998.
22. S.F. Cooper, op. cit., 2003.
23. I. Anscombe, Ch. Gere, op. cit., 1978.
24. A. Calhoun, op. cit., 2000.
25. G. Naylor, op. cit., 1998.
26. S. Adams, op. cit., 1987.
27. Ibidem. Didascalia della vignetta:
“AESTHETIC BRIDEGROOM: It is quite consummate, is it not?”
INTENSE BRIDE: “It is, indeed! Oh, Algernon, let us live up to it!”
[MARITO ESTETA: – E’ piuttosto consumata, non trovi?
MOGLIE SENSIBILE: – Lo è, davvero! Oh, Algernon, fa che ne siamo degni!]
28. Adams, op. cit., 1987.
29. H. Carpenter, La Realtà in Trasparenza, op. cit.., Lettera 9, p. 19-20.
30. Ibidem, Lettera 10, p. 20-21.
31. Ibidem, Lettera 151, p. 211.
32. H. Carpenter, J.R.R.Tolkien: A Biography, Harper & Collins Publishers, London, 1977, p. 14. [H. Carpenter, J.R.R.Tolkien – La biografia, Fanucci Editore, Roma, 2002, p. 44.]
33. Ibidem.
34. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
35. Ibidem.
36. H. Carpenter, op. cit., 1977 (Biography)
37. Ibidem.
38. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
39. NZ AC
40. S. Adams, op. cit., 1987
41. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
42. M. Haslam, Arts and Crafts Carpets, Rizzoli International Publications, Inc., New York, 1991.
43. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
44. Tolkien, J.R.R., The Book of Lost Tales 1, Harper & Collins Publishers, London, 1982. [J.R.R.Tolkien, Racconti Ritrovati – Parte I, Bompiani, Milano, 2000].
45. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
46. “Farewell to Lorien,” Tolkien, J.R.R., The Fellowship of the Ring (FOTR), Ballantine Books, London, 1954. [“Addio a Lorién”, in La Compagnia dell’Anello, Bompiani, Milano, 2005, p. 477].
47. Ibidem.
48. H. Carpenter, op. cit.,1977, Letter 131: “Their Magic is Art, delivered from many of its human limitations…And its object is Art not Power, subcreation not domination….By the making of gems the subcreative function of the elves is chiefly symbolized…”. [J.R.R.Tolkien, La Realtà in Trasparenza, op. cit., Lettera 131: “La loro ‘magia’ è Arte, libera da molte delle sue limitazioni umane… E il suo obiettivo è l’Arte, non il Potere, la sub-creazione, non il dominio… La creazione delle gemme simboleggia al massimo grado la funzione sub-creativa degli elfi”.]
49. “Addio a Lorién” in La Compagnia dell’Anello, op. cit., p. 480
50. J.R.R. Tolkien, The Silmarillion, edited by Christopher Tolkien, Ballantine Books, London, 1977. [J.R.R.Tolkien, Il Silmarillion, Bompiani, Milano, 2000.]
51 J.R.R. Tolkien, The Hobbit, New York, NY; Harper & Collins publishers reprint of George Allen and Unwin 1937 edition, with all illustrations and cover by J.R.R. Tolkien. [J.R.R.Tolkien, Lo Hobbit, Bompiani, Milano, 2012, p. 31.]
52. “The Steward and the King”, in J.R.R. Tolkien, The Return of the King (ROTK). London, UK, Ballantine Books, 1955. [J.R.R.Tolkien, “Il Sovrintendente e il Re”, in Il Ritorno del Re, Bompiani, Milano, 2005, p. 284.]
53. J.R.R. Tolkien, The Silmarillion, op. cit.
54. H. Carpenter, op. cit., Lettera 153.
55. Eco-parabola della distruzione di Isengard?
56. “Nebbia sui Tumulilande”, in La Compagnia dell’Anello, op. cit., p. 212.
57. L. Parry, op. cit., 1996.
58. “Addio a Lorién”, op. cit.
59. H. Carpenter, op. cit., Lettera 253.
60. M. Haslam, op. cit., 1991.
61. W.G. Hammond, Ch. Scull, op. cit., 1995
62. H. Carpenter, op. cit., 1977 (Biography)
63. J.R.R. Tolkien, Tales from the Perilous Realm, Harper & Collins Publishers, London, 1997. [J.R.R.Tolkien, “Foglia di Niggle”, in Albero e Foglia, Bompiani, Milano, 2000, p. 108]
64. Ibidem, [p. 133.]
Bibliografia aggiuntiva:
– E.Z., Karlin, Jewelry & Metalwork in the Arts and Crafts Tradition, Schiffer Publishing Ltd., Atglen, PA, 1993.
– A. Lang, ed., illustrations H.J. Ford, H.J. The Crimson Fairy Book. New York, NY: Dover Publications reprint of Longmans, Green and Company, 1903 edition.
– Ch. Smith, The Lord of the Rings: Weapons and Warfare, HarperCollins Publishers, London, 2003. *A book published to accompany the Return of the King movie release in 2003.
– S.O. Thompson, American Book Design and William Morris, R.K. Bowker Company, London, 1977.
*Nota biografica:
Ty Rosenthal è da sempre una fan di Tolkien. Il suo testo precedente, del 2003, Warm Beds are Good: Sex and Libido in Tolkien’s Writing, ha ricevuto il Mithril Award per il fan writing come miglior saggio critico, ed è stato pubblicato sul numero 42 del giornale della Tolkien Society “Mallorn”. Il Movimento Arts and Crafts e J.R.R.Tolkien è il testo della conferenza che ha tenuto alla Aston University di Birmingham nel 2005, in occasione del convegno internazionale organizzato dalla Tolkien Society per i cinquant’anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli.
Bene! Appena posso me lo leggo.
Come disse qualcuno: ‘Morris was a giant’ :-))
grazie per questo bellissimo post. conosco poco Tolkien, ma l’articolazione fra arts and crafts e l’imagery delle sue storie suona interessantissima.
ho una domanda pero’: quanto ‘immaginazione naturale e in particolare vegetale e la pratica del disegno a ispirazione floreale è mediata da arts and crafts (via o meno l’educazione formale scolastica) e quanto segue più linearmente dalle convenzioni figurative implicite nella pratica botanica o comunque ‘erborizzante’ del frequentatore abituale dell’orto botanico di oxford, e, alla fine, del ‘semplice’ camminatore colto di campagna inglese?
(una ricerca flashrandom che ho appena fatto ha prodotto una sola eventuale referenza: ‘the plants of middle-earth: botany and sub-creation’, di dinah hazell. lo conoscete?)
non so dire per Tolkien ma per arts and crafts suggerisco di dare un’occhiata a Problemi di stile di A. Riegl dove si descrive la nascita e la (lenta) trasformazione della decorazione floreale (compreso l’arabesco) dalla ‘palmetta’ greca e ogni sua possibile combinazione di volute
riegl, giusto!
solo che, merda, non ce l’ho, e non ho granché accesso a biblioteche per ora. :(
@ dzzz
Quel libro l’ho sentito nominare, ma non lo conosco.
Quanto alla tua domanda, credo che in realtà non abbia una risposta netta. In realtà l’affinità “botanica” tra Tolkien e l’A&C non è soltanto stilistica, ma in generale, anche se Ronsenthal non approfondisce questo aspetto, riguarda l’importanza della natura e del mondo vegetale per la vita umana. Insomma potrei dirti che non è solo questione di educazione artistica, né di frequentazione dell’orto botanico di Oxford o di passeggiate sulle limitrofe “hills”, ma soprattutto di un’idea d’ambiente, di una sorta di proto-ambientalismo umanista che accomuna movimento artistico e autore.
si’, penso di capire che intendi, anche se per la mia percezione di arts and crafts, e più ancora di morris, è più sensato vedere il baricentro del movimento più vicino al polo opposto dello spettro natura-artificio, anche e proprio perché antiumanisticamente, post-modernamente, mette lo spettro in loop (e da qui del resto, per me, l’interesse del vostro annoying post, bellissimo perché sorprendente, perché allettante e apparentemente plausibile, e che pero’ a me non mi suona giusto :P).
ma in realtà menzionando la pratica botanica ‘colta’ del camminatore di campagna inglese non pensavo tanto alle piante quanto ai nomi: non tanto alla nominazione come esito di una routine descrittiva prescritta dalle scienze naturali (e inchiodata alla pratica figurativa connessa), quanto al tentativo di abitare e anzi ampliare e moltiplicare le tensioni fra le cose e i nomi (invece di eliminarle), che è al principio delle scienze classificatorie moderne (della botanica come della linguistica, intendo), e il cui corrispettivo in termini di rappresentazione figurativa di astrattissimi ‘tratti differenziali’ (di piante o di lingue, reali o immaginarie che entrambe siano) è tutt’altro che ovvio.
ouf, spero che dal mio stilaccio involuto di prima di andare a letto si capisca qualcosa di questo commento.
provo più lapidariamente: un’altra ricerca flashrandom ha prodotto questo link –
http://www.scilogs.com/ieditor/and-now-we-have-the-parting-of-names/ –
in cui tale henry gee sostiene che linneo, “by systematizing names, … exposed the same tension between names and things named that intrigued philologist Tolkien”.
nightnight
@ dzzz
Forse dovresti spiegare perché la tesi della Rosenthal non ti suona giusta, così capisco anch’io, che non conosco moltissimo di Arts and Crafts.
A me pare che sì, un movimento intitolato alle arti e ai mestieri metta l’accento sull’artificio, sulla trasformazione del mondo circostante all’essere umano. Ma mette anche – e soprattutto – l’accento sulle modalità di tale trasformazione, ed è qui che la cosa si fa interessante. Può darsi che gli/le artsandcrftsmen/women non fossero così “naturalisti” come si rischia di farli apparire, ma in realtà nemmeno Tolkien lo era. Non esaltava cioè la Natura in sé e per sé, ma un’idea di natura, di paesaggio, di ambiente, in cui la presenza e l’azione umana erano senz’altro parte in causa. Gli Elfi sono abitanti di boschi e vallate, ma anche abilissimi orafi; gli Hobbit sono agricoltori, nonché artigiani e giardinieri; i Nani sono minatori, ma anche intagliatori e architetti. Eccetera. Oggi diremmo che ciò che accomuna A&C e Tolkien è una certa critica all’industrialismo nel senso più ampio possibile, a partire dalla separazione tra arte e manifattura, attraverso la scomparsa dell’artigianato, ovvero del fattore qualitativo umano nella produzione.
[A titolo informativo: pochi giorni fa, al convegno tolkieniano che si è tenuto al Trinity College di Dublino, l’intervento del prof. Karl Kinsella del Keble College di Oxford, intitolato “A Preference for Round Windows: Architectural Description in Lord of the Rings”, ha riguardato proprio le affinità tra la ricerca architettonica dell’A&C e le illustrazioni di Tolkien: pare quindi che il sentiero aperto da Hammond e Scull, e seguito da Rosenthal, si stia allargando].
Venendo alla questione “botanica”, credo proprio che tu abbia ragione: la mania classificatorio-enciclopedica non c’entra nulla. Per Tolkien è questione di “abitare e anzi ampliare e moltiplicare le tensioni fra le cose e i nomi (invece di eliminarle)”. Ha ragione da vendere Gee, quando scrive che “much of the ‘mythic depth’ in Tolkien’s work – and, arguably, one reason for its enduring appeal – comes from Tolkien’s knowing playfulness on the central tension of nomenclature.” Ed è una cosa che nessun critico letterario riesce a cogliere, perché riguarda la natura e la storia presenti “dentro” le parole e la costruzione di mondi attraverso i loro intrinseci significati.
Detto questo, è fuori di dubbio che l’arte del camminatore campestre praticata da Tolkien & soci unita allo studio filologico della toponomastica ha fornito un’infinità di spunti per le sue storie.
Scusate se mi intrometto ma non riesco a capire cosa intendiate con “abitare e anzi ampliare e moltiplicare le tensioni fra le cose e i nomi invece di eliminarle”??
Mi sembra un discorso davvero affascinante, come tra l’altro lo é il discorso sul rapporto tra arts and crafts e Tolkien , ma non colgo questa frase
@ dis-pater
Be’, posso dirti come la intendo io quella frase. Però non riesco a farlo in maniera sintetica, abbi pazienza.
Per Tolkien le parole non sono strumenti atti a nominare e indicare il mondo circostante, tipo etichette. Per lui le parole sono storie, e i nomi delle cose coincidono in un certo senso con esse, poiché senza nomi, senza linguaggio, e senza storie non si darebbero nemmeno le cose nella nostra coscienza. Le parole danno significato alle cose e quindi forniscono loro una consistenza. Ma giacché il linguaggio e le cose sono in costante divenire, anche la loro relazione muta senza sosta. Fissare il linguaggio è un’illusione, quindi anche catalogare il mondo, in un certo senso, lo è. Ciò che si può fare è invece raccontarlo, tenendo presente che il racconto si trasformerà anch’esso. [Qui non la faccio lunga, perché non sono un linguista, ma la teoria del linguaggio che Tolkien faceva propria era quella di Barfield, espressa in Poetic Diction, a sua volta imparentata con quella di Cassirer in Linguaggio e Mito, e forse si potrebbe ipotizzare anche una vaga influenza di Austin]. Luoghi, eventi, esseri, possiedono dunque un nome unico che – almeno in origine – dice/racconta molto più di quello che il linguaggio scientifico moderno può fare.
Verlyn Flieger – una di quelle studiose di Tolkien da citare quando si vuole andare sul sicuro – sostiene che un’esemplificazione narrativa di questa idea di JRRT è la lingua entese. Ecco cosa dice Barlbalbero agli Hobbit quando gli viene chiesto come si chiama: “Innanzi tutto ci vorrebbe troppo tempo: il mio nome cresce costantemente, e io ho vissuto molto, molto a lungo, perciò il mio nome è come una storia. I nomi propri narrano le vicende delle cose a cui appartengono, nella mia lingua, che voi chiamereste Vecchio Entese. E’ una lingua stupenda, ma per dire una cosa qualsiasi s’impiega un’infinità di tempo, perché noi preferiamo non dire una cosa, se non vale la pena di perdere molto molto tempo per dirla e ascoltarla”. (SdA, libro III, cap. IV).
La traduzione in entese della parola “colle”, ad esempio, è “a-lalla-lalla-rumba-kamanda-lin-or-burumë“, che significa: “la cosa sulla quale ci troviamo, dove io sto in piedi nelle belle mattinate a pensare al sole, e all’erba oltre il bosco, e ai cavalli, e alle nubi, e allo svolgersi del mondo” (Ibidem.) Ovviamente in questo si legge la critica alla frettolosità dei tempi moderni, ma anche all’impoverimento del linguaggio e alla perdita delle sue specificità e sfumature in favore di una certa standardizzazione enciclopedica.
Non so se sono riuscito a spiegarmi, ma in sostanza bisognerebbe immaginarsi Tolkien che passeggia per la campagna inglese, seguendo il filo di ricostruzioni toponomastiche e geo-linguistiche, come un aborigeno percorrerebbe il bush australiano sulle vie dei canti… Va be’, questa è un po’ una forzatura, ma era per chiudere con un’immagine buffa.
“Fissare il linguaggio è un’illusione.”
Viene in mente quello che scrive Borges a proposito degli idiomi dell’emisfero boreale del pianeta Tlön, dove “il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi. Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro-rotondo, o aranciato-tenue-dell’altoceleste, o qualsiasi altro aggregato.”
E aggiunge: “Nella letteratura di questo emisfero abbondano gli oggetti ideali, convocati e disciolti in un istante secondo le necessità poetiche […]: il colore del giorno nascente e il grido remoto di un uccello; il sole e l’acqua contro il petto del nuotatore, il vago rosa tremulo che si vede con gli occhi chiusi. […] Il processo è praticamente infinito. Vi sono poemi famosi composti d’una sola, enorme parola.” (Finzioni, 1941)
Per Borges (e Tolkien?) non è soltanto sbagliata la teoria del linguaggio come etichettatura, ovvero corrispondenza fissa nome-oggetto – poiché mille immagini poetiche e mille storie diverse si possono connettere allo stesso oggetto – ma viceversa, ciò che consideriamo un oggetto è determinato dai nomi che usiamo, e dunque il linguaggio poetico ha il compito di scovare, creare e individuare migliaia di oggetti sempre nuovi, perché dopo tutto “il reale non è che un caso particolare” (Paul Valery, 1941)
Grazie per il chiarimento sei stato illuminante, in effetti questa teoria non mi é del tutto nuova, anche se non capisco dove l’ho già sentita…
@ Wu Ming 2
Non avevo pensato all’analogia con Tlön, ma in effetti è azzeccata.
La Flieger definisce l’entese un linguaggio “agglutinante”.
Ma non è il solo linguaggio tolkieniano ad avere caratteristiche simili. Un caso esemplare è quello del nome elfico del Bosco d’Oro. Nel Signore degli Anelli viene spesso chiamato “Lórien“, cioè “sogno” (ed è anche il nome proprio del Vala dei sogni), che è già la forma contratta di “Lothlórien“, cioè “Fiordisogno”. In elfico più antico però è detto “Laurelindórenan“, cioè “terra della valle dell’oro cantante”. E a sua volta si tratta di una riduzione; se infatti si risale ancora più a ritroso il processo di impoverimento/standardizzazione linguistica, si incontra la forma primitiva del nome del luogo, che è in effetti una sorta di verso poetico allitterante: “Laurelindórenan indelorendor malinornélion ornemalin“. Il cui senso è all’incirca questo: “La valle dove gli alberi immersi in una luce dorata cantano musicalmente, una terra di musica e di sogni; ci sono lì alberi gialli, è una terra di alberi gialli” (Lettera 230).
Chissà perché quando certe cose le teorizza/narra Borges è un fine intellettuale, mentre se lo fa Tolkien resta sempre il fortunato autore di un “monnezzone” fantasy… :-)
ciao. sono stata sconnessa per un po’, scusa(te) che sono sparita a metà discussione.
allora, su a&c e natura-artificio. ho riletto il post, provo a riprendere il filo di quello che volevo dire quando insistevo sull’anima “artificiale” di arts&crafts, anche se temo un po’, visto che non sono una tecnica, e che per di più ne ho solo ricordi sparsi e lontani, un’impressione generale che mi è rimasta, e quindi sicuramente posso dire grosse cazzate.
insomma, non c’è dubbio che in a&f è fondamentale un senso della natura molto meno mediato di quello che mobilitavano i pittori accademici e mainstream in genere dell’epoca (tutti i ‘raffaeliti’, per intenderci, nel senso di rossetti-hunt-millais ecc.), e probabilmente si puo’ sostenere che alla base di questo c’è il forte modello estetico romantico e preromantico del sublime naturale (come opposto al modello estetico prevalente in epoca preromantica del bello come ‘artificio’, come prodotto di una pratica – attenzione – artistica E artigianale, teorizzato (da artisti e critici) come paradigma della pratica delle belle arti già nel 500, e poi formalizzato dalla filosofia estetica due secoli dopo (per esempio da shaftesbury, burke, e infine kant) proprio perché era possibile ormai vederlo riflessivamente, proprio perché il paradigma era ormai declinante.
detto questo, secondo me in arts&crafts la connessione ‘profonda’ al senso della natura si ferma qui: non va oltre quello che era un tratto comune romantico da almeno oltre un secolo, al punto d’essere diventato ormai del tutto convenzionale (in senso linguistico intendo, indipendentemente da quanto fosse ‘genuina’ l’emozione che lo sosteneva o l’accompagnava). e questa ‘convenzionalità’ della descrizione dell’elemento naturale, per me, è evidentissima – e del resto era esplicita – nei preraffaeliti, nel senso che questi hanno lavorato per sostituire una descrizione della natura ‘convenzionalmente’ romantica a quella diciamo ‘artificialista’ che era convenzionale per i ‘raffaeliti’ ( cioé a quella, grosso modo, rinascimentale e post-rinascimentale).
quanto a morris poi, questa che nei preraffaeliti è una ‘tensione’ (nel senso in cui ne abbiamo parlato a proposito di tolkien – e infatti metterlo in relazione coi preraffaeliti mi sembra meno non-pertinente che avvicinarlo a a&c), a me sembra che lui, morris, ‘interpretandoli’ (secondo me downright usandoli) l’abbia irrigidita in vera opposizione fra arte rinascimentale e arte medievalista, e questo per proporre il medievalismo come controparadigma estetico (secondo me assurdamente, o comunque non capisco la logica dell’operazione) in un momento in cui perfino la sua versione artchitettonica, il neogotico – che probabilmente è stata la più coerente e influente fra le varie rinascite artistiche medievaliste – era già fuori fase, e questo in gran parte perché aveva già del tutto perso senso sociale e politico.
e questo sfasamento probabilmente è vero di tutto arts&crafts, ma nel caso di morris secondo me il passaggio è particolarmente chiaro.
per essere brutale (e grossolana, e bastarda): morris è un socialista romantico middle-class che idealizza e feticizza il ‘carpenter’s shop’ come icona euforica del lavoro preindustriale immaginato (da chi per appartenenza di classe non l’ha mai conosciuto) come azione paziente, inarrestabile e senza fatica, analoga alla crescita naturale (e romanticamente ‘sublime’, come questa, e in quanto tale topica; morris infatti non è stato il primo socialista romantico ingenuo/feticista dell’artigianato né l’ultimo).
intendo, come tanti socialisti dell’epoca morris ha completamente ‘missed’ (o feticisticamente ignorato perché per il feticcio non pertinente) la natura e il senso sociale (e la fenomenologia, e l’etica, ecc.) del lavoro industriale e del paradigma estetico ad esso coeso (in senso sintattico) o comunque che questo paradigma implicava. e questa cecità o questo rifiuto, secondo me, distruggono qualsiasi potenziale rivoluzionario della descrizione della natura in a&c (rivoluzionario nel senso del suggerimento di un nuovo paradigma etico-estetico in relazione alla natura, come mi sembra implicaste voi nel post), proprio perché tutto il movimento ha escluso-eluso fin dal principio il problema della ri-produzione di massa (=da parte delle masse), o comunque in grossi numeri degli oggetti che produceva, e quindi qualsiasi possibilità concreta di generalizzazione della pratica quotidiana di produzione artigianale degli oggetti d’uso che teorizzava. non è un caso infatti che fossero edizioni numerate, pezzi d’asta-da museo; e che lo fossero già nella red house, e già prima di essere costruiti, già in fase di progetto, o anche già prima ancora, nella ‘distinzione’ (nel senso di bourdieu) del desiderio middleclass di morris che li desidera, non li trova e quindi li commissiona.
ora, non dico che altre soluzioni non fossero possibili, che a&c fosse doomed come produttore di tratti di un possibile paradigma postrinascimentale della natura e della pratica artistica. non so, di nuovo, ho solo ricordi sparsi-immagini isolate dei propri miei passaggi mentali a riguardo, ma per esempio gente come behrens e van de velde, e poi sicuramente il gruppone bauhaus (che fra l’altro un tempo adoravo) si puo’ dire che di a&c abbiano tentato una seconda versione: aggiornata, alternativa, ‘migliorata’, e politicamente e concettualmente aware (o che almeno tenta di esserlo).
ma, appunto, la loro versione è tutto questo (e quindi è bella=esteticamente solida, e quindi rivoluzionaria secondo me) perché ha fatto il salto della fede (=concettuale + affettivo) dall’artigianato al design industriale e all’architettura popolare, cioé tutti loro hanno accettato o addirittura incontrato frontalmente almeno il problema formale posto dalla produzione e del produttore industriale, e, soprattutto, non lo hanno fatto in maniera velleitaria-estrinseca (da socialisti romantici middle-class, per dire), ma politicamente, cioé prima di tutto da artisti, cioé proprio a partire dalle aporie estetiche e concettuali nel vivo della pratica artistica che non averlo fatto aveva implicato per a&c, e secondo me in particolare per morris (anche se, è chiaro, parlo bene io col senno estetico di poi, visto che da arts&crafts a behrens, de velde e bauhaus si passa dall’inghilterra alla germania, dall’800 al 900, dall’imperialismo inglese ai prodromi del nazismo, e in particolare da morris a benjamin-adorno, cioé, di fatto, a una teoria estetica che è la matrice di questa stessa ‘interpretazione’ (probabilmente delirante, idiosincratica) di a&c e morris che sto dando.
insomma, spero che si capisca quello che volevo dire, e che sia una risposta al ‘perché la tesi non mi suona giusta’.
in ogni caso, mi avete fatto rivenire voglia di andarmi a guardare arts&crafts :)
anche se magari morris lo lascio da parte >:) ).
e a proposito di tlon (a @wu ming 4 che risponde a wu ming 2 qui sopra; scusate lo metto qui perché la maledetta nidificazione a limite 3 fotte il tasto reply): del resto i suoi abitanti “giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica”
– borges, ‘tlon, uqbar, orbis tertius’ (se si è d’accordo che la filosofia del linguaggio è metafisica; a proposito di tolkien e del suo ‘mondezzone fantasy’ >:D ).
Veramente, la nidificazione è a limite 5 :-)
Conta i livelli, è solo dal sesto che non si può più replicare. E’ per non far restringere troppo la finestrella, e anche per scoraggiare batti-e-ribatti troppo prolungati, con sottodiscussioni che finirebbero per avvilupparsi in se stesse.
Che Morris e l’A&C fossero velleitari, e in un certo senso paradossalmente anche elitari, mi pare evidente. Per altro nel suo pezzo Rosenthal lo dice quando parla dell’ammissione di fallimento da parte di Morris e del fatto che alla fine i manufatti A&C rimasero oggetti di pregio per i borghesi che potevano permetterseli. Oserei dire che tutto nell’A&C e nella visione neo-medievale del borghesissimo Morris ha un gusto artificiale, astratto e volontaristico. Del resto, ci sarà un motivo se un certo tipo di socialismo venne definito “utopico” e contrapposto a quello “scientifico” di stampo marxiano, che invece pretendeva di poggiare su un’analisi storica delle condizioni materiali, dello sviluppo delle forze sociali e dei modi di produzione.
Nemmeno io credo che l’A&C possa essere ascritto ai movimenti artistico-culturali “rivoluzionari”. Al contrario, ritengo che si potrebbe definirlo un movimento “reazionario”, cioè che ha agito per reazione alle brutture della società industriale che andava strutturandosi, cercando di tornare a un passato idealizzato.
Ebbene, Tolkien – nonostante non idealizzasse un bel niente – di sicuro non era un progressista né un rivoluzionario e senza dubbio ha ambientato le sue storie in un fanta-passato preindustriale. L’ispirazione morrisiana si avverte tutta.
Aggiungo che anche la sua idea di natura era piuttosto filtrata e mediata culturalmente. Vale a dire che Tolkien amava la vegetazione in tutte le sue forme, e considerava le piante esseri viventi con una loro storia e personalità, ma il luogo più selvaggio in cui ha vissuto è un sobborgo semi-rurale di Birmingham (presso il quale sorgevano un boschetto e un acquitrino, oggi feticizzati dai fan). Il luogo in cui ha scelto di trascorrere la vita è Oxford e la natura che frequentava, come ricordavamo, era quella dell’orto botanico cittadino, dei prati intorno al centro, tutt’al più delle basse colline a sud-ovest della città.
Fa un po’ ridere quando ogni tanto ci si imbatte in ritratti di Tolkien che lo dipingono come una sorta di ecologista radicale neo-primitivo. Si incazzò moltissimo quando un consigliere comunale Tory propose di far passare la nuova circonvallazione di Oxford attraverso gli storici prati del Christchurch College e usò questo esempio per spiegare a un amico perché faceva fatica a schierarsi politicamente. Del resto, aveva già limpidamente espresso questa idea nella sua narrativa, facendo enunciare a Barlbalbero un pensiero molto semplice: “Io non sono dalla parte di nessuno, perché nessuno è del tutto dalla mia parte; non so se mi spiego: nessuno più è affezionato ai boschi quanto me, neppure gli Elfi” (Le Due Torri). Ecco, si potrebbe dire che Tolkien stava dalla parte degli alberi e dei prati contro il rumore, l’asfalto, le ciminiere e i motori a scoppio.
E’ evidente dunque che la sconfitta, per così dire “politica”, accomuna Morris e Tolkien, nonostante il primo fosse socialista e il secondo conservatore. Essa era inscritta già nel loro approccio.
Al tempo stesso questi due condividono anche un enorme successo, nel senso che ciascuno di loro, in epoche diverse, ha dato vita a un fenomeno culturale che ha avuto un grande impatto sull’estetica, la letteratura, e lo stile del proprio tempo. A Morris viene riconosciuto, a Tolkien no. Ma questo è un altro paio di maniche.
Addendum: non vorrei che il mio intervento precedente suonasse liquidatorio rispetto all’A&C. Se certi limiti dell’esperienza A&C appaiono evidenti, bisogna anche considerare che certi principi e linee guida affermati in quegli anni non erano affatto sbagliati e, anzi, rappresentano uno spunto interessante. E’ pur vero che pensare a una produzione non di massa, oggi come oggi, è abbastanza utopistico, tuttavia non mi sembra affatto da scartare il recupero di un’idea di “lavoro” come impresa artigiana collettiva, come riappropriazione di sé, del rapporto tra essere umano e mondo circostante (marxianamente parlando, certo, ma del resto Morris si definì anche marxista, mi pare). Né mi pare anacronistico il ripensamento di certe modalità della produzione e del consumo. Anzi, sono discorsi quanto mai attuali.
Ciò che era utopistico e velleitario nell’A&C era pensare che si potesse ovviare all’alienazione senza modificare radicalmente il sistema di produzione capitalistico, i rapporti di forza sociali, etc. etc. Tuttavia la necessità che sta alla base di quell’esperienza era legittima e l’ipotesi interessante. Erano gli anni in cui i lavoratori iniziavano a organizzarsi, a ipotizzare la cooperazione, etc. Certo, il rischio di una sussidiarietà senza conflitto è quello di essere recuperati, che è precisamente quanto è accaduto nel corso di un secolo al glorioso movimento cooperativo. Però bisogna stare attenti a non gettare via il bambino con l’acqua sporca e soprattutto a collocare i fenomeni storici nel loro contesto.
di nuovo, scusa, rispondo al commento qui sopra e a quello qui sotto insieme, perché di nuovo in quello sotto non vedo il tasto reply (e rispondo anche a wu ming1 già che ci sono, tutto in fondo… sono un disasro, lo so, scusate).
sulla reazionarietà di a&c, si sarà capito, sono del tutto d’accordo (ma non sapevo invece che morris si fosse definito marxista; wow…), e su tolkien, bene, ora vedo meglio che la vostra posizione è sfumata quanto al suo ambientalismo (un paio di frasi di post e commenti me l’avevano fatta fraintendere).
quanto ai tratti positivi di a&c che sottolinei (“il recupero di un’idea di “lavoro” come impresa artigiana collettiva, come riappropriazione di sé, del rapporto tra essere umano e mondo circostante” , “il ripensamento di certe modalità della produzione e del consumo”, il fatto che “la necessità che sta alla base di quell’esperienza era legittima e l’ipotesi interessante”, sono stradaccordo, e proprio per questo il vostro post mi è parso molto interessante, proprio perché non ho mai veramente riflettuto su quanto tutto questo complesso, che secondo me è stato ‘tematizzato’ da bauhaus più e meglio che da qualunque altro movimento, in realtà discende in linea diretta da a&c (almeno in una delle sue linee genetiche), e – inoltre, e ancora più interessante secondo me – nel corso di solo una sessantina d’anni, da a&c e da bauhaus, degli stessi tratti ‘puramente estetici’ di questo complesso in un contesto socio-politico in mutazione brusca è stato fatto un uso sia estetico sia politico completmente diverso.
il che dà idee su come guardare a bauhaus da un lato insolito (per me almeno), e con una nuova, benvenuta dose di diffidenza antielitaria (al che, private lol ‘marxista’, di cui vi sono grata).
p.s. quanto ai commenti nidificati, ouch, tutti grigi come sono mi viene la fotofobia a contarli.. e a proposito, avete abbandonato l’ipotesi di numerare tutti i commenti in ordine cronologico (pur lasciandoli nel loro stato nidificato attuale) e di aggiungere una possibilità di scrolling che li legga in quell’ordine, magari con tendina chiudibile a piacere?
ci avevo molto sperato :'(
@ dzzz
Solo una nota: non saprei con certezza se Morris si fosse proprio definito marxista, però di sicuro frequentò Marx, e militò insieme a Eleanor Marx nella Socialist League, cercando di mediare tra le posizioni marxiste e quelle degli anarco-socialisti. Diciamo che senz’altro si sentiva parte di un phylum di pensiero comune a Marx.
@ dzzz
quando non vedi più il tasto “Reply” e senti di dover aggiungere ancora qualcosa, semplicemente replica all’ultimo commento dove appariva il tasto, come stiamo facendo proprio ora. Al sesto livello, tutti i commenti rimangono sullo stesso “meridiano”, senza più rientri.
Su ulteriori implementazioni: non siamo noi a intervenire direttamente sul versante tecnico della nidificazione, si tratta di modificare direttamente il codice e questo va oltre le nostre competenze. Lo fanno compagni che ne sanno più di noi e hanno il buon cuore di lavorare gratis et amore dei, per amicizia e condivisione. Lo fanno quindi coi loro tempi e a noi spiace “pressarli”. Bisogna avere pazienza.
bene, provo il giochino al sesto livello.
e per le nuove implementazioni, sono paziente. :)
Lo descriveva/Tto/ve molto bene “Baudelaire” in questa poesia.
Le forme materiali della natura non sono che simboli di una realtà più profonda e autentica, che si colloca al di là delle cose e dei nomi.
(un abbraccio a tutti…che avvolge…che scalda…che protegge…che ti rende liberoA)
Correspondences
Corrispondenze
Da “I fiori del male”-Les Fleurs Du Mal, 1857
La Natura è un tempio dove incerte parole
mormorano pilastri che sono vivi,
una foresta di simboli che l’uomo
attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari.
Come echi che a lungo e da lontano
tendono a un’unità profonda e buia
grande come le tenebre o la luce
i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.
Profumi freschi come la pelle d’un bambino
vellutati come l’oboe e verdi come i prati,
altri d’una corrotta, trionfante ricchezza
che tende a propagarsi senza fine- così
l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino
a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.
Morris conosceva Engels ma non incontrò Marx, sua figlia sì però, come dice WM4.
‘Fallimentare’ è il giudizio che viene spesso dato dell’esperienza dell’A&C di Morris, in realtà era un limite, che riconosceva lui stesso, accorgendosi che la propria produzione e quella dei suoi sodali era apprezzata e acquistata ancora solo da chi se lo poteva permettere. La rivoluzione, da lui auspicata, avrebbe rimesso le cose a posto… Ci sono ‘lacune’ e ritrosie, ingenuità, per cui Morris sembra sfuggire ad un impegno diretto e rimanere nel vago. In realtà la sua attività politica fu molto intensa e produsse una gran quantità di articoli, conferenze, che nella pratica sfociarono in un sacco di alleanze, contrasti, sodalizi e diatribe, contro i fabiani, e contro gli anarchici – ma Morris si definì sempre un ‘comunista’. Non va confuso, a parere mio, con le narrazioni nostalgiche dei pre-raffaeliti, e si spinse politicamente più avanti di Ruskin. Andrebbe riletto ‘News from Nowhere’ (notizie da nessun luogo), lo dico a me stessa.
Ora, adesso, che l’artista, o artigiano, è fondamentalmente solo – l’utopia di partecipare a un lavoro collettivo, inserito in una comunità, senza un ‘ruolo’ privilegiato, mi sembra essere un progetto notevole. Morris ecologista o precursore della decrescita, o femminista, cozza con dei limiti temporali, ma forse rileggere la sua figura e i suoi scritti lo toglierebbe da una posizione snob che non merita (lui che odiava gli snob).
@ paola di giulio
grazie per le precisazioni. Un po’ alla volta si copre la lacuna. Serve soltanto un po’ di tempo… :-)
Intendevo lacune e ingenuità e ritrosie da parte di Morris stesso, eh.
Non sono in grado di fare precisazioni più che tanto, solo che ricordo un Morris che va anche alle dimostrazioni di piazza e che si vende la biblioteca per finanziare un movimento politico…
Io invece mi riferivo alle mie lacune :-)
Ad ogni modo credo si debba distinguere il pensiero politico di Morris e l’azione creativa dell’Arts and Crafts nel corso del tempo. Anche se Morris fu senz’altro il patrono del movimento A&C, là in mezzo c’erano personalità e idee diverse, come fa notare la stessa Rosenthal. Non intendevo quindi dare del velleitario a Morris in quanto tale. Come fa notare Hobsbawm: questa “specie di marxista diede sia un rilevante contributo teorico sia uno straordinario contributo pratico alla trasformazione sociale delle arti”. Le avanguardie artistiche del Novecento devono molto alla sua figura, direttamente o indirettamente.
Resta il fatto che un approccio non ideologico ci consente di riscoprire e recuperare gli aspetti interessanti e – perché no? – attuali del suo pensiero politico-estetico. Se si pensa poi che costui fu uno dei maggiori ispiratori dell’opera narrativa di Tolkien, si scompaginano ulteriormente le carte.
Una notizia seria per i fan e una nota amaramente ridicola per farsi due ghigne.
E’ giunta anche in Italia la notizia dell’ennesimo inedito tirato fuori dal lascito Tolkien alla Bodleian Library di Oxford. Christopher Tolkien l’ha presentato all’editore e uscirà in inglese nella prossima primavera. Si tratta di The Fall of Arthur, un poema allitterativo in inglese moderno sulla morte di Artù:
http://www.jrrtolkien.it/2012/10/08/the-fall-of-arthur-di-tolkien-uscira-in-primavera/
Dell’esistenza di questo poema si sapeva grazie all’accenno che ne fa Humphrey Carpenter nella biografia autorizzata di J.R.R.Tolkien (pag. 218-219 dell’edizione Fanucci), il quale ne riportava anche qualche verso, e agli accenni di Tolkien stesso in un paio di lettere.
La notizia offre l’occasione per far notare ancora una volta il pietoso stato della divulgazione sull’opera di Tolkien, in Italia. Da qualche tempo, il maggiore aspirante al posto di De Turris sul podio dell’autoevidenza è il dottor Paolo Gulisano (dottore nel senso di medico-chirurgo). Sulla sua pagina Wikipedia – che non cita alcuna fonte – è definito “uno dei più grandi esperti mondiali” di J.R.R.Tolkien. Ha recentemente pubblicato un libro su Lo Hobbit (recensito da Zaccuri su “l’Avvenire”) e viene spesso invitato a festival e iniziative a tema tolkieniano. Incidentalmente è anche il presidente del Centro Aiuto alla Vita di Lecco (una di quelle organizzazioni che erano in prima fila a manifestare sul caso Englaro). Ecco se uno vuole farsi un’idea di ciò che ci si permette con Tolkien dalle nostre parti, può leggersi la sua ultima intervista, pubblicata sul sito cattolico ilsussidiario.net (cercatevelo se vi va, non ho voglia di mettere il link).
Gulisano parte affermando che “in realtà non si tratta di un inedito”. Dopodiché prosegue: “Io stesso così come molti altri studiosi lo avevano potuto leggere e analizzare, in quanto custodito nella Bodleian Library di Oxford. E’ vero invece che sarà pubblicato e dunque reso pubblico per tutti dal prossimo maggio in edizione inglese”.
Ecco spiegato l’equivoco: Gulisano confonde il significato di due verbi italiani. Il pubblico può in effetti avere accesso a un testo, anche se questo non è stato edito.
Tuttavia nel caso di The Fall of Arthur non vale nemmeno questa condizione, perché il testo è sì custodito alla Bodleian Library, ma nella parte riservata, non accessibile al pubblico. Infatti nessuno studioso prima d’ora, se non forse il biografo Carpenter, ha potuto visionare questo testo in maniera approfondita, tant’è che nella letteratura secondaria su Tolkien compaiono solo sporadici accenni. Allora come può Gulisano avere letto The Fall of Arthur? I dubbi in proposito aumentano se si considera che né le risposte dell’intervistato né le domande e l’introduzione dell’intervistatore accennano al fatto che il poema in questione è incompleto. Non sarebbe il primo elemento da fornire al lettore da parte di chi ha letto il testo? Ma forse anche i più grandi esperti di Tolkien al mondo a volte scordano l’essenziale! :-)))))
Un anno dopo la disumana battaglia sul corpo della povera Eluana Englaro questo personaggio è persino stato nominato Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana da Napolitano.
Propongo di riforgiare la spada di Elendil, oppure di chiedere aiuto al buon vecchio Beorn, uno per cui la vita era davvero sacra.
C’è da dire che nell’ultimo ventennio il titolo di “Cavaliere” è stato un tantino svalutato… :-)
Più che un titolo svalutato sembra un premio per le azioni spregevoli. E’ tipo la versione nostrana del Nobel per la Pace insomma.
AAA: OT
Mentre oggi facevo un lavoro mi è venuta una curiosità che spero non sia troppo oziosa.
Ma a voi, collettivo Wu Ming, o a te, quarto cavaliere dell’ordine dei senza nome, non è mai venuto in mente di scrivere un romanzo fantasy?
A tempo perso (quale?) sto scrivendo un racconto che contiene alcuni elementi fantastici. Non credo si possa definire “fantasy”. Forse vagamente “gotico”. Però, boh, mai dire mai.
Quando lo renderai pubblico, sarò lieto di leggerlo.
[Anche se mi sarei aspettato quantomeno uno spin off del SdA con protagonista la gente di Ghân-buri-Ghân… :)]
Lo chiedevo per la solita ragione: la letteratura fantastica – l’hai ribadito anche tu, qui, più volte, parlando di Tolkien – ha grandi possibilità di aprire squarci di consapevolezza, a patto che chi ne scrive
sia devoto alla Dea Complessità. Ma trovare
fantasy o fantascienza che non sia monnezzone non è sempre facile.
Dannata Legge di Sturgeon
Curioso il tuo riferimento ai Drùedain (popolazione tra le più trascurate dai lettori di Tolkien) e soprattutto a Ghân. Giusto un’ora fa, in una situazione un po’ particolare, stavo leggendo a mio figlio una frase che pronuncia proprio lui nel Signore degli Anelli:
“E’ buio, ma non notte completa. Quando il Sole esce, noi lo sentiamo anche se è nascosto. Già sale sulle montagne a Est. Si apre il giorno nei campi del cielo”.
In Quenya la stessa cosa suona più o meno così:
“Auta i lome, aure entuluva”.
L’incontro fra i Drùedain e i Rohirrim ha sempre destato in me grande emozione: trovo molto umano l’aiuto che gli uomini Pùkel decidono di fornire, toccante il modo in cui Théoden si affida e, per finire, mi riempie di speranza il commiato di Ghân: “Vento sta cambiando!”
Curiosa coincidenza: ieri, mettendo in ordine la libreria di casa, ho scoperto di possedere un testo piuttosto noto di Daniel Pennac: un libro regalatomi da qualcuno tempo fa, ma che non ho mai letto; lo avevo proprio dimenticato. Ho aperto una pagina a caso e vi ho trovato un riferimento a Tolkien all’interno di un contesto che mi ha fatto pensare a wu ming 4 in versione padre mentre legge brani di JRRT a suo figlio: un’immagine frutto della mia fantasia, ma che oggi, stando alle parole di wu ming 4, si è magicamente autoavverata. Che cosa bizzarra.
Il brano di Pennac è questo ed è tratto da *Come un romanzo*:
“Siamo giusti: non abbiamo pensato subito di imporgli la lettura come un dovere. All’inizio abbiamo pensato solo al suo piacere. I suoi primi anni ci hanno messo in uno stato di grazia e l’assoluto stupore dinanzi a questa nuova vita ci ha conferito una sorta di genialità. Per lui siamo diventati narratori. Dal primo sbocciare in lui del linguaggio abbiamo incominciato a raccontargli delle storie. Era un talento che ignoravamo di avere. Ma il suo piacere ci ispirava, la sua felicità ci dava le ali. Per lui abbiamo moltiplicato i personaggi, concatenato gli episodi, raffinato gli accorgimenti. Come il vecchio Tolkien con i suoi nipotini, gli abbiamo inventato un mondo. Al confine fra il giorno e la notte, siamo diventati il suo romanziere”.
Spero di non scandalizzare nessuno, ma quando giocavamo a GiRSA i Wose erano le prede di caccia nei tornei a Rohan. Il sogno di tutti noi giocatori era intepretare uno Wose bardo :)
OT, ma parlando di divulgazione è successo anche questo:
http://www.nzherald.co.nz/nz/news/article.cfm?c_id=1&objectid=10844800
oppure questo:
http://www.theguardian.com.au/story/523249/little-folk-of-flores-denied-their-hobbit-status/
L’antefatto: qualche anno fa nell’isola di Flores è stata scoperta una nuova specie del genere Homo. Il nome scientifico è Homo floresiensis, ma si è rapidamente affermato nella letteratura scientifica e divulgativa il nomignolo Hobbit (l’essere in questione era piuttosto basso rispetto ai nostri standard).
La notizia: un accademico ha dovuto cambiare titolo alla conferenza su questa specie (in una università della Nuova Zelanda), perché l’uso del nome Hobbit non era autorizzato.
I due link danno versioni lievemente diverse, per cui non è chiaro se il divieto venga dai produttori di un film che sta per uscire in NZ, o direttamente dal Tolkien Estate. Visto che i giornali raramente seguono una notizia come questa per più di 2 ore mi chiedevo se avevate informazioni più accurate. Non escluderei neanche che la conferenza in questione abbia guadagnato qualcosa in termini di pubblicità. Ma prendendo la notizia per buona, mi sembra sconfortante.