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Ecco l’agosto che solve e scinde (Un po’ di news)

In attesa della seconda parte del “flusso di coscienza” di WM1 sugli Yo Yo Mundi (e ovviamente non solo), alcune novità e segnalazioni per chiudere il mese di luglio. In agosto Giap non si fermerà, ma i post si faranno più radi.

Qui una lunga e densa intervista a Wu Ming 2 su Il sentiero degli dei, ambiente e territorio, la lotta No Tav e molto altro.

A proposito di No Tav, ecco una mini-riflessione fresca fresca (fatta al volo stamane su Twitter), dopo il successo della marcia da Giaglione a Chiomonte, che ha segnato un “cambio di passo”, spiazzando politici, media asserviti e forze dell’ordine. Cose molto simili le ha scritte Carta, in modo meno aforistico.

Qui un’intervista radiofonica a Wu Ming 1 su Anatra all’arancia meccanica, trasmessa da Radio Beckwith un paio di settimane fa.

Aiuto, ce sta  lu diavulu ‘n televisiuni!

Pochi giorni fa, su “Saturno” – inserto culturale de Il Fatto quotidiano, diretto da  Riccardo Chiaberge, uno che anni fa scrisse di noi: “Dura Ming! Non dura, non possono durare!”, recentemente ha informato ridacchiando i suoi lettori che Anatra all’arancia meccanica era “un flop” (13.000 copie vendute in tre mesi e miglior successo di critica della nostra carriera) e nel settembre scorso se l’è presa con Gad Lerner perché aveva ospitato all’Infedele il malvagio Toni Negri, brrrrrrrr! – su “Saturno”, dicevamo, un tizio ci ha tirati in ballo in una polemica mal condotta, scrivendo cose a dir poco inesatte sul nostro conto.
Nei commenti in calce al post, per conto dell’intero collettivo, WM1 – come ha scritto su Twitter eFFe della rivista on line Finzioni – “si leva gli schiaffi dalla faccia”.
Non è nostra intenzione ri-intervenire in quello spazio.

Su All About Jazz, una bella recensione di Altai, l’album degli Skinshout + Xabier Iriondo, possibile colonna sonora del romanzo da cui prende il titolo. Dettagli e ascolti qui.

Al diavolo la “concordia nazionale”! Lo spettro di Bruno #Fanciullacci su Twitter

Questa sera, in Piazza Tasso a Firenze, gli antifascisti ricorderanno il partigiano Bruno Fanciullacci, morto a ventiquattro anni il 17 luglio 1944, dopo tre giorni di torture per mano della “Banda Carità”, tra le pareti della famigerata”Villa Triste”.
Per non essere costretto a rivelare i nomi dei compagni, Fanciullacci si gettò da una finestra, le mani legate dietro la schiena. Morì per le conseguenze della caduta e per le rivoltellate degli sgherri di Mario Carità.
Mentre il capoluogo toscano renderà onore a un “bastardo senza storia” (come Valerio Gentili chiama gli antifascisti “scomodi”, eroi dalle storie spigolose, personaggi il cui ricordo è poco duttile e dunque inadatto ai “santini”), il volto di Bruno Fanciullacci apparirà come “avatar” in molti profili di Twitter (e di altri social network).
A dire il vero, sta già succedendo. Da venerdì pomeriggio è in corso un piccolo evento, ibrido di commemorazione, campagna d’opinione ed esperimento di “ingegneria inversa” sul dispositivo-Twitter. Mentre scriviamo, poco meno di un centinaio di persone ha modificato il proprio profilo, sostituendo l’avatar con la foto più conosciuta di Fanciullacci [in alto a destra]. L’intenzione è di esporla come vessillo fino a domenica notte, ovvero fino al termine della serata fiorentina (qui i dettagli). Prosegui la lettura ›

E’ solo questione di tempi, ovvero: torna in libreria il generale Giap!

[Giovedì 7 luglio torna ufficialmente in catalogo uno dei grandi testi di filosofia del conflitto (“scienza militare” sarebbe riduttivo) del XX secolo, Masse armate ed esercito regolare, scritto dal generale vietnamita e teorico marxista Vo Nguyen Giap.
Costui è l’uomo al quale, più di undici anni fa, intitolammo la nostra newsletter, che nel tempo si è evoluta fino a diventare il blog che state leggendo.
Giap è lo stratega della battaglia di Dien Bien Phu, che nel 1954 spazzò via dall’Indocina i colonialisti francesi. Abbiamo raccontato quell’evento nel nostro Asce di guerra (cap. 32) e ne abbiamo messo la notizia in bocca ai personaggi del Bar Aurora di 54 («Dien Bien Phu, ‘gnurènt! È dove i francesi hanno concentrato l’esercito. Stavolta li mandiamo a casa con la coda tra le gambe, ché il Generale Giap non è mica un baggiano, è uno che la sa fare la guerra, un eroe del popolo»).
Dopo la Francia arrivarono gli USA, con napalm e Agente Arancio. Giap si mise d’impegno a cacciare pure loro.
“Giap” è anche il nome di uno spazio occupato a Roma, nel quartiere San Lorenzo, più volte sgomberato.
La copertina del libro mostra il generale in piedi accanto a Ho Chi Mihn, “Colui che rimane sveglio quando tutti dormono”, protagonista del prologo di Asce di guerra.
Segnalare su Giap il ritorno in libreria di Giap è per noi un atto doveroso, nonché la chiusura di un cerchio. Anche perché c’è lo zampino del nostro amico e da molti anni compagno di strada Tommaso De Lorenzis: a chiudere il volume è un suo intervento intitolato «Da qui a Saigon la strada è buona», che proponiamo integralmente qui sotto. La prefazione, invece, è di Luciano Canfora.
Fidatevi di noi, ordinate il libro (presso il vostro libraio di fiducia o in rete, per esempio qui). Per il pdf della copertina completa, cliccare qui.] Prosegui la lettura ›

Son soddisfazioni. Altai, la nuova fascetta e altro

In attesa che arrivino in libreria quest’edizione economica e questa fascetta, proponiamo ai nostri lettori una lunga intervista su Altai e sul nostro modo di lavorare, realizzata alla fine del tour di presentazione del romanzo (estate 2010). Le domande sono di Marco Amici, le risposte di Wu Ming 1 (ma a un certo punto c’è un invisibile cut-up di frasi di WM4, tanto, come cantava quel tale, «I am he as you are he as you are me and we are all together»).
L’intervista – un sunto poetico-politico della nostra fase 2008-2010 – è uscita nel dicembre scorso sul n.2 della rivista di italianistica La libellula, e non era mai stata segnalata su Giap (tantomeno sul blog dedicato al romanzo, che in quel periodo era già ufficiosamente chiuso).
In calce al post, riproponiamo alcuni reperti musicali e ricordiamo alcuni appuntamenti di questa settimana. Prosegui la lettura ›

Lo sguardo sul mondo di chi cammina

[Dalla prefazione di Wu Ming 2 a L’arte del camminare. Consigli per partire con il piede giusto, di Luca Gianotti, Ediciclo, in libreria dal 19 maggio.]


L’arte di camminare è un’arte visiva: la si potrebbe chiamare passoscopia. Ecco perché, seguendo i preziosi consigli del libro Luca Gianotti, L’arte del camminare [Ediciclo], non si apprendono solo i trucchi e le liturgie del viandante, ma si acquista la capacità di guardare al mondo in maniera diversa. Buono a sapersi, direte: ma in cosa consiste tanta diversità?
Esistono molti modi di viaggiare alternativi rispetto all’andare a piedi: il treno, l’auto, la bici, l’aereo. Della motocicletta non posso dire nulla, non sono competente, ma grazie all’etimologia la immagino come un ibrido tra ciclo e motore, con alcune caratteristiche del mezzo a pedali e altre dell’automobile. I centauri mi scuseranno se non è proprio così. In compenso conosco bene il treno e condivido quel che ne ha scritto Michel de Certeau: il vagone ferroviario produce nostalgia. Salgo in stazione, cerco un posto, mi accomodo. Il convoglio parte e il paesaggio si mette a scorrere in due strisce separate, come le fette di pane di un tramezzino imbottito. In mezzo, al posto del tonno e della maionese, ci sta lo scompartimento: gli altri passeggeri, il corridoio, il controllore che punzona i biglietti. Io non mi muovo, sto seduto in poltrona come se fossi al cinema, solo che lo schermo è sdoppiato e laterale: un pezzo a destra e uno a sinistra. Oltre i finestrini, anche il mondo è immobile, se si esclude la rotazione terrestre. Sta fermo, eppure lo vedo fuggire, non posso afferrarlo. Ci sfioriamo, facciamo le presentazioni, ma non c’è tempo di conoscersi: resta l’amaro in bocca delle occasioni perdute. Ecco un filare d’uva che avrei voluto assaggiare o un torrente d’acqua limpida dove sarebbe bello tuffarsi. Ecco un cantiere stradale che devasta la campagna, mentre io passo e non ne so nulla; ecco un paese arroccato su un colle, del quale non conosco nemmeno il nome. Apro il giornale, lo sfoglio e per una mezz’ora mi perdo dietro alle notizie. Ogni tanto il treno rallenta, si ferma in stazione, ma non sono io a decidere le soste. Guardo i binari, leggo le insegne degli alberghi di là dalle rotaie e se mai scopro con gli occhi un angolo interessante, è già tempo di andarsene, di ripartire. Nostalgia dell’abbandono: mi si chiudono le palpebre, dormo, sogno di camminare sulla strada bianca intravista poco fa.

Viaggiare in auto è molto diverso. Paul Virilio ha chiamato dromoscopia le immagini che si proiettano sul parabrezza, in faccia al guidatore, anche se sarebbe più corretto dire che è il guidatore a proiettarsi contro le immagini, non viceversa. Se il treno taglia il paesaggio in due fette, l’auto lo buca, ci scava dentro, lo rivolta come un guanto. Apro lo sportello, mi metto al volante, giro la chiave per avviare il motore. Parto. Ora l’orizzonte mi viene incontro alla velocità che preferisco, anche se devo tenere conto del traffico e della segnaletica. Ho gli occhi sulla strada, attento alle curve, alle altre auto, agli ostacoli che mi si possono presentare. Più che vedere, sono costretto a prevedere: l’arte del pilota consiste nella capacità di anticipare gli eventi, via via che il mondo compare sul parabrezza, si apre davanti al cofano come una gelatina e subito si richiude dietro il lunotto posteriore. Se voglio evitare incidenti, devo attribuire un valore diverso a ogni cosa che vedo. Devo stabilire una gerarchia tra gli elementi del paesaggio, in base alla loro distanza da me e alla loro consistenza. Questi platani sul ciglio della strada, contro i quali potrei andare a sbattere da un momento all’altro, sono molto più importanti per me di quella fattoria laggiù, innocua, in mezzo a un campo di girasoli. Ai primi, devo prestare un’attenzione costante, alla seconda, posso dedicare soltanto uno sguardo di sbieco. Questi ciclisti che non si tolgono di mezzo mi mettono addosso più rabbia di quelle trenta palazzine in colori geometrili, piantate come giganti cattivi sul crinale alla mia sinistra. Guidando, devo tenere il mondo a distanza di sicurezza, evitare di andargli incontro attraverso il vetro che ho di fronte. La cintura che mi attraversa il petto proprio a questo serve: a non farmi sbattere contro la realtà, mandando in pezzi la simulazione.

La bici è un mezzo di trasporto molto meno virtuale degli altri due: quando salgo in sella e pedalo, il paesaggio mi circonda, ci sto in mezzo, non è una videosequenza muta spalmata sul cristallo di un finestrino. Cionostante, la mia visuale è limitata dalla postura e dalla fatica: se voglio evitarmi fastidiosi torcicolli, non posso far girare lo sguardo oltre i 270 gradi e se devo affrontare una dura salita, difficilmente avrò occhi per qualcos’altro che non sia nei dintorni della mia ruota anteriore. Allo stesso modo, nelle discese ripide devo star concentrato sulla strada, le buche, le curve. Il rischio di andare a sbattere e rompermi la testa mi costringe – come in auto – a dividere il mondo tra ostacoli e scenografia. In compenso, posso fermarmi quando voglio, senza bisogno di stazioni o parcheggi, e cedere al desiderio di guardarmi intorno con calma. Mi basta togliere i piedi dai pedali e scendere dal sellino, ma la posizione non è delle più comode e alla lunga influisce sulla mia voglia di fare soste. Così pedalo, pedalo a lungo, e quando mi fermo, preferisco lasciare la bici, e trasformarmi da ciclista in camminatore.

Di solito l’aereo non è davvero alternativo rispetto ai passi del viandante: il più delle volte si vola lungo distanze che non si farebbero a piedi e si cammina tra luoghi che non sarebbero collegati da un areoplano. Ma non è sempre così e allora la prima cosa che andrebbe notata è che i tragitti aerei si misurano in ore e minuti, non in chilometri. Chiunque sia andato in jet da Roma a Berlino sa quanto dura il volo tra le due città, ma solo i maniaci dei dettagli si ricordano la distanza percorsa. Questo per dire quanto poco interessa lo spazio a chi viaggia in aereo: scopo del passeggero è andare dal punto A fino al punto B e poco importa se in mezzo ci sono le Alpi o soltanto nubi. Poco importa, ma quando la terra si mostra è sempre uno spettacolo, come studiare una mappa vivente. Ci sforziamo di riconoscere i paesi, le anse di un fiume, il percorso di una strada, un casolare isolato. Se abbiamo la fortuna di sedere accanto al finestrino, lo trasformiamo subito in un buco della serratura, ritagliato nell’acciaio della fusoliera. Come vecchi guardoni, scrutiamo il mondo da fuori senza essere visti, lo dominiamo dall’alto come padreterni. Siamo puro sguardo, occhi che non si sporcano le mani, piccoli geografi senza cittadinanza.

A differenza di tutti questi viaggiatori, l’artista viandante non conosce schermi, nostalgie fittizie, gerarchie visive, torcicolli, soste scomode, voyeurismi. La sua visione del mondo è la più vicina che si possa immaginare alla verità pulsante, caotica e indifferenziata della vita. Quando vuole voltarsi, si volta: per lanciare un’occhiata all’altro lato delle cose. Quando vuole fermarsi, si ferma: non ha che da interrompere il ritmo dei passi. Se vede qualcuno e vuole parlargli, deve soltanto decidere di andargli incontro. Per evitare gli ostacoli, non ha bisogno di prevederli con grande anticipo: gli basta stare attento a dove mette i piedi, ma è raro che quest’operazione gli ingombri davvero la vista. Così, mentre le gambe lo portano da un luogo all’altro, senza soluzione di continuità, il paesaggio prende forma davanti ai suoi occhi, ed è un coacervo indistinto di sfondi e dettagli: un’ape su un fiore e le colline all’orizzonte, un minerale sul sentiero e un mulino a fondovalle, la storia di quel mulino e macchie di sole nel bosco, foglie di faggio, il segno biancorosso su un tronco e il fruscio di una biscia, i nomi sulla mappa, il rombo di un’automobile, un gregge di nuvole, il pensiero di una pecora, le strofe di una canzone ripetute come un’ipnosi, le scarpe slacciate e ancora le colline, in distanza, con il loro profilo appena cambiato rispetto a un minuto prima.

Camminando, mi sono convinto che il piacere ultimo del viandante sta proprio in questo: mai come quando andiamo a piedi il nostro modo di guardare si avvicina alla realtà in dissolubile del mondo. Uno sguardo oltre lo sguardo: senza filtri, senza obiettivi, senza inquadrature. Non a caso, credo che passeggiare sia il modo di spostarsi più interessante anche per chi non vede. Ma perché la magia si sprigioni, bisogna aver appreso i segreti dell’arte. Il glaucoma del turista – che vede soltanto ciò che ha già visto in foto o nelle parole di una guida – e la cataratta del pilota – che ci tormenta anche quando non siamo al volante – sono sempre in agguato per confonderci la vista. Andare a piedi non basta, e la lentezza non è solo questione di chilometri all’ora: benvenuto a questo libro, che può curarci lo sguardo.