«I fabiani e gli scienziati sociali, gli scrittori e gli insegnanti videro, in modo diverso dalle generazioni precedenti, che i bambini erano persone, con identità, desideri e intelligenze. Videro che non erano né bambole, né giocattoli, né adulti in miniatura. Videro, in molti casi, che i bambini avevano bisogno di libertà, avevano bisogno non solo di imparare, e di essere buoni, ma anche di giocare e di essere selvaggi.» [Pag. 442]
Premessa: ho lasciato trascorrere i mesi prima di scrivere una recensione del romanzo di A.S. Byatt, Il libro dei bambini. Ho dovuto lasciarlo sedimentare, aspettare cosa sarebbe affiorato, quasi per selezione naturale, da un testo denso, lungo, popolato da moltissimi personaggi, le cui biografie intrecciate sono narrate attraverso un quarto di secolo.
Sì, perché se ogni romanzo è un’impresa, allora Il libro dei bambini è una di quelle da far tremare i polsi. Perfino leggerlo non è una passeggiata. E infatti forse non è come un romanzo che andrebbe letto questo tomo di settecento pagine, ma piuttosto come il racconto poetico di due generazioni di inglesi, uno spaccato di vita d’altri tempi che improvvisamente si fa vicina. E come una crudele elegia.
Che l’Inghilterra sia un posto strano è un dato di fatto. Un luogo in cui la Camera dei Lord convive con il punk rock; in cui la monarchia è un’istituzione indiscussa nonostante sia stato il primo paese dove il popolo ha tagliato la testa al re e dove oggi gli studenti tirano pietre contro la Rolls Royce dell’erede al trono… ecco, diciamo che un posto così dà quanto meno da pensare.
Il romanzo di A.S. Byatt parla indirettamente anche di questa stranezza, e lo fa scegliendo un momento specifico e un ambiente specifico nella storia sociale britannica. Le date che racchiudono la trama parlano da sole: 1895-1919. Venticinque anni, lo spazio di una generazione, che hanno cambiato la faccia dell’Europa, traghettandola dalla Belle Epoque al secolo di ferro. Prosegui la lettura ›