di Perez Gallo.
Foto di Martina Verona.
Era il 4 gennaio 1991, quando in via Casini, al Pilastro, quartiere operaio di Bologna, tre giovani carabinieri caddero sotto i colpi della banda della Uno Bianca, un gruppo di criminali, quasi tutti poliziotti, con simpatie politiche di estrema destra. Le tre vittime si trovavano a pattugliare la zona perché, qualche giorno prima, qualcuno aveva provato a dar fuoco a una scuola dismessa, usata come ricovero da circa trecento extracomunitari. L’omicidio – senza un movente chiaro – divenne subito un caso nazionale, il simbolo più vivido non solo di una vicenda misteriosa, ma anche della fine dell’eccezionalità bolognese, un modello sociale che pure era in crisi, almeno dal 1977. Una fine testimoniata anche, pochi giorni prima, da un’altra efferata strage della stessa banda, quella contro il campo sinti di via Gobetti: una strage gratuita, una strage “no profit” e razzista. Una strage a cui la cittadinanza rispose con indifferenza, perché anche allora, come oggi, rom e sinti non sono nessuno. «Anni e anni di cazzate tipo ‘isola felice’ non han fatto che danni. Bologna è solo il buco del culo del mondo», cantava in quel periodo l’Isola Posse All Star.