da "La Stampa" di venerdì 8 marzo 2002:

 

Cary Grant, il "comunista ideale" liberatore d'Italia
Si facevano chiamare Luther Blissett, ora hanno cambiato nome. Firmandosi Wu Ming hanno scritto il romanzo "54" per raccontare mezzo secolo di storia patria

Pierluigi Battista

E' cambiato il nome del marchio. Il collettivo dei cinque che aveva firmato con lo pseudonimo collettivo Luther Blissett il "western teologico" Q adesso, con accorta operazione di marketing editorial-letterario, si chiama Wu Ming. In compenso non è cambiato l'editore, che è Einaudi, e la collana, quella di "Stile Libero". Ma il romanzo dello pseudo-Wu Ming 54, che sarà tra pochi giorni in libreria, si segnala per aver mandato definitivamente in soffitta l'idea (o il pregiudizio, o lo stereotipo) che la giovane e meno giovane narrativa italiana sia tutta ripiegata nella contemplazione narcisisticamente compiaciuta dei propri dolori ombelicali o che, come più volte ha sarcasticamente notato Alberto Arbasino, sia attratta esclusivamente dai pensieri confusamente elaborati nei pressi del proprio lavandino. In 54 ci si cimenta con la storia italiana, con i decenni cruciali della nuova Italia post-fascista e uscita devastata da una guerra feroce. E vengono costruiti personaggi, e ricamate trame, a partire dalle atmosfere, dai nodi irrisolti, dagli irriducibili contrasti che hanno impregnato di sé il carattere italiano nel corso degli ultimi cinquant'anni.
Escono dalla naftalina del dimenticatoio le vicissitudini di Trieste contesa dalla giovane democrazia italiana e il regime titoista in Jugoslavia. Per la verità, questa formulazione verrebbe orgogliosamente respinta dagli autori del libro, perché culturalmente poco propensi a giudicare con grande entusiasmo la "democrazia" italiana e con la giusta severità il comunismo di Tito. Degli orrendi massacri che ne accompagnarono l'espansione ad Ovest, delle mutilazioni territoriali italiane sancite da quel Trattato di pace così vigorosamente criticato a suo tempo da Benedetto Croce, del regime repressivo che ne scaturì vien detto e ricordato poco o nulla. Giusto la menzione del lager titino di Goli Otok dove venivano rinchiusi, dopo la rottura con Stalin, i comunisti "cominformisti" (ma narrativamente ne avevano già scritto Giampaolo Pansa e Susanna Tamaro, quest'ultima guadagnandosi la nomea di "anticomunista"). E anche la ricostruzione dettagliata dei pretesti che portarono l'Unione Sovietica di Stalin a rompere con Tito, trascinandosi dietro di sé il sostegno docile dei partiti comunisti d'occidente, quello italiano compreso.
Viene ricostruita l'atmosfera politica italiana anche sul versante della spy story. Per la verità, quel clima di mene e intrighi, di operazioni coperte e di attività paralegali è la sostanza stessa dell'invenzione narrativa di 54. I personaggi che ne emergono sono raccontati con minuzia psicologica e precisione descrittiva (si vede che il collettivo di lavoro ha un'ottima consuetudine con la lingua italiana, anche nella sfida con costruzioni linguistiche complesse e non banali). E resta anche l'inopinata ma riuscitissima inclusione nel romanzo di Cary Grant, un po' forzatamente assurto a simbolo di un ipotetico futuro liberato (la "società senza classi"), icona di un imprecisato comunismo ideale contrapposto a quello reale, dove il povero e sventurato "Uomo Nuovo" è inesorabilmente costretto ad indossare "braghe infilate in stivali di cuoio alti due piedi, per marciare al passo dell'oca").
Certo, la benzina fantastica di un romanzo si nutre di risvolti oscuri, di aspetti della vita privata e pubblica immersi nell'ombra e nell'oscurità, di intrecci non tutti riconducibili alla piatta visibilità del reale. E 54 non può derogare a questa legge. Anche se non si può non notare come questa indagine del profondo e dell'oscuro, se applicato alla ricostruzione di un periodo cruciale della storia italiana, rischia di finire in un polpettone storiografico-dietrologico in cui tutto si tiene sì, ma in modo distorto e allucinato. Come se le trame collegate a una gigantesca partita di cocaina [in realtà è una piccola partita di eroina, N.d.R.] possa sostituire passioni e pensieri reali delle parti in lotta, come se davvero una centrale occulta, e immaginata come onnipotente e tenebrosa [arduo capire di cosa stia parlando, N.d.R.], possa plasmare la storia come un romanziere riesce a plasmare una trama gigantesca. Difetto certamente compensato dalla prova provata che la narrativa italiana si rivolge di nuovo al passato e alla storia per darsi spessore e forza. E per sancire la fine, forse irreversibile, dell'era narrativa dell'ombelico.