da "Zero in condotta - quindicinale di Bologna", anno VII, n.143, venerdì
1 marzo 2002:
Wu Ming, 54, Einaudi 2002
Anno 1945: 365 giorni indimenticabili, 12 mesi equamente abitati dalla guerra
e dalla pace, dall’apice tecnico-scientifico della prima, con le esplosioni
atomiche su Hiroshima e Nagasaki, e dall’illusoria riscoperta della
seconda, con la cessazione del conflitto planetario. 1945: fine dell’apocalisse;
ciò che è venuto dopo si chiama “pace”, “ricostruzione”,
e poi “anni 50”, “boom economico”. Eppure, la convenzionalità
storiografica, quel senso comune che manda a memoria le date, non è
neutra, tanto meno neutrale, e le cesure del flusso storico, quei discriminanti
che fissano i “prima” e i “dopo”, vanno accuratamente
verificate. 54, il nuovo romanzo dell’autore collettivo Wu Ming, di
prossima uscita nelle librerie, è proprio la verifica narrativa di
un limite storico, la disinvolta messa in crisi di una rappresentazione
consolidata, la sottile interrogazione rivolta ad una definizione: quella
di “dopoguerra”. Il 54 è il riflesso del 45, identiche
le cifre, con la differenza che, come nelle immagini speculari, esse sono
ribaltate.
Anno
1954: nello specchio della storia gli eserciti sono diventati polizie
militari, ma l’immagine disgustosa delle divise è sempre la
stessa; gli ordigni atomici non esplodono più sulle città,
bensì negli angoli più remoti del pianeta, ma la scena
di morte non è cambiata, si è solo dislocata nella concreta
possibilità di un inverno nucleare.
1954: la guerra continua, il conflitto si è allontanato
dal fronte, ma basta superare la prima duna per accorgersi che la lotta
prosegue. Lo scontro è quello spettacolare tra chi si è
spartito il globo a Yalta; non solo: è anche quello, meno coreografico,
di chi, fin dalla nascita, ha dovuto sempre combattere per tirare avanti,
e per quel conflitto non ci sono né coesistenze pacifiche né
tregue possibili. La guerra è quella dei tanti eretici che non hanno
saputo stare a guardare e quando hanno agito lo hanno fatto dalla parte
sbagliata. È la guerra di Vittorio Capponi, soldato italiano ammutinatosi
sul fronte jugoslavo nel 1943, esule rivoluzionario nei Balcani di Tito
ed esponente di una fazione non allineata alla politica del Maresciallo,
ma è anche la guerra di Robespierre, il figlio più giovane
di Vittorio, comunista inquieto nella Bologna del 54, Telemaco emiliano
alla ricerca del padre, ballerino provetto, stile Cary Grant, ostinatamente
impegnato a riappropriarsi di un futuro che gli è negato, anche
a costo di doversi scontrare con il potente Odoacre Montroni, medico
e mandarino della federazione bolognese del PCI. Dalla stessa parte del
fronte, gomito a gomito con Vittorio e Robespierre Capponi, strisciano
nella medesima trincea, inzuppandosi dello stesso fango, quello riservato
agli “ultimi” della Storia, il gangster italoamericano Stefano Zollo ed
il picciotto Salvatore Pagano, figura dipinta con i colori di un’ironia
irresistibile. Steve “Cemento” Zollo ha deciso di fregare un ricco capitalista,
di rifilare il pacco ad uno dei tanti potenti e per portare a termine
il piano deve trovare lo sfuggente “Mr.” McGuffin, personaggio che “parla”
soltanto per eloquenti ed insoliti monologhi. Ma l’uomo da stangare
è un individuo pericoloso, molto più pericoloso dei banchieri
Fugger truffati da Gert in Q, è don Salvatore Lucania,
passato alla storia con il nome di Lucky Luciano.
Le avventure di alcuni comunisti eretici si intersecano inaspettatamente
a quelle di un proletario della mafia che vuole farla finita con
una vita di merda, per trovarsi un angolo di mondo con il sole, le
belle donne ed un bar in cui sappiano shakerare un buon Manhattan. I
piani dell’intreccio si sovrappongono anche perché le rotte
del traffico della droga e quelle dell’eterodossia politica passano
per lo stesso braccio di mare e l’Adriatico, si sa, non è propriamente
un oceano. In più, i soldi fanno sempre comodo e, nel 54, conta
poco l’aver fatto la resistenza o la battaglia di porta Lame, anche
gli eroi comunisti possono finire contrabbandieri. Da quando Sergio Leone
ha spiegato come può un bandito diventare un “grande e glorioso
eroe della rivoluzione”, è possibile anche il contrario: del
resto, l’odore della polvere da sparo è uguale per tutti.
A rendere ancora più intricata la trama del romanzo
provvedono le “comparse”, perché Wu Ming, nelle vesti di regista
sornione, ribalta completamente i ruoli. L’effetto è disarmante
ed è come guardare una vecchia pellicola in bianco e nero che
racconta la storia di un barman russo trasferitosi durante la guerra
in una città del Marocco. Qui il protagonista incontra un capitano
della polizia di Vichy e ne scaturisce un intreccio animato da truffatori
rapaci, affaristi di piccolo calibro e donne di dubbia moralità.
Alla fine del film la città si rivela una inattesa Casablanca
ed il locale in cui si sviluppa la vicenda quello di un certo Rick Blaine,
interpretato da Humphrey Bogart. Sullo sfondo di 54
, infatti, si muovono sir Alfred Hitchcock, David Niven, Grace Kelly,
il patetico e volgare imperatore da operetta Bao Dai ed un impeccabile Josip
Broz, in arte Tito, mentre il principale personaggio non protagonista
è tal Archibald Alexander Leach, schizoide blissettiano, conosciuto
anche come Cary Grant. Sotto la sapiente regia di Wu Ming, i grandi
attori patiscono il riscatto delle comparse per poi finire, in
un rovesciamento spiazzante, pienamente surclassati. In tal modo, il romanzo
semina insidiosi granelli di sabbia in quel “grande ingranaggio”, apparentemente
ben oliato, che conosciamo con il nome di “storia”, mentre il proiettore
si inceppa e la sala precipita nel buio.
Se di questo libro si facesse un film, trovare attori per
le parti minori sarebbe difficilissimo. Chi se la sentirebbe di interpretare
per soli due minuti il ruolo di Grace Kelly?
Tommaso De Lorenzis
In 54 il cinema è presente esplicitamente.
Il Cary Grant del romanzo rimanda in parte al pedriniano David Bowie
di Havana Glam. La suggestione, per cui nelle vostre ultime
produzioni certe forme artistiche contribuiscono a destabilizzare alcune
“realizzazioni” novecentesche del comunismo, sembra tradire una precisa
visione del rapporto tra cultura e politica. Di che si tratta esattamente?
C'è
senz'altro attenzione, anzi amore, per la cultura pop del XX° secolo,
per il feedback che riceveva e la partecipazione che creava. La cultura
pop è stata un prerequisito di comunismo, una tappa sul percorso di
quella che Negri & Hardt chiamano la "teleologia del comune" (Marx parlava
di "gemeinwesen", l'essere comuni, la comunanza tra gli umani oggi palesatasi
nella cooperazione sociale post-fordista). "Cary Grant" e "David Bowie", in
due modi molto diversi, furono icone imposte dal basso, plasmate dai desideri
delle moltitudini. La cultura pop era più vicina al comunismo di quanto
lo fosse il cosiddetto "socialismo reale". Forse il Mao di Andy Warhol si
è rivelato più utile del Mao di "Servire il popolo". Una nostra
vecchia boutade (o boutanade , vedi tu) è che Robert
Redford sia sempre stato più a sinistra di Pajetta :-)
Napoli, Nizza, Genova, la Dalmazia sono alcune delle ambientazioni
che avete scelto. Luoghi che richiamano il miglior noir mediterraneo:
dalla Corsica di Carlotto, attraverso la Marsiglia di Izzo, fino alla
Campania di Ferrandino. Come misurate il debito che avete contratto
con la letteratura di genere?
Per quanti omaggi le facciamo, rimane un debito inestinguibile.
In 54 , oltre a uno dei personaggi di Casino totale
di Izzo, compaiono i protagonisti del romanzo Rififì
di Le Breton, che a loro volta citano il protagonista de La
vita è uno schifo di Malet e il film Grisbì
con Jean Gabin. Compare anche (anzi, ha un ruolo fondamentale) il
protagonista de La paga del sabato di Fenoglio, il suo esperimento
noir, pubblicato postumo perché Calvino lo aveva boicottato in
quanto troppo simile a un romanzo poliziesco. Allora che dire di
Una questione privata , un vero e proprio western? Noi ci siamo
formati su quelle letture e su quel cinema. Per quanto ci si muova e si
esplorino gli oceani, il “genere” resta la Stella Polare.
Di recente, l'uscita di romanzi per alcuni versi vicini ai
vostri (es. L’ora del ritorno di Stefano Tassinari ed
Eresia pura di Adriano Petta) lascia intravedere l’emersione
di una nuova letteratura, fatta di eterodossie e irriducibili marginalità,
di partigiani e rivoluzionari, di lottatori e sconfitti. Che prospettive
immaginate per questa inedita sperimentazione letteraria?
Abbiamo sempre considerato i nostri romanzi storie di vittorie,
non di sconfitte. Nell'accezione usata da Marx quando definì
vittoriosa la Comune di Parigi, la Guerra dei Contadini si può
senz'altro definire una vittoria: indicò la tendenza e sparse
i semi di altre rivolte. Certo, in Asce di guerra si racconta la
"Resistenza tradita", ma dal punto di vista di Vitaliano Ravagli che, per
reagire al “tradimento”, diede il proprio contributo a una vittoria (innegabile,
epocale, radicalmente fondativa) sul colonialismo e l'imperialismo classico.
Havana Glam è, tra le varie cose, un romanzo sulla
resistenza della rivoluzione cubana alle pressioni e agli attacchi imperiali.
Nell'intimo, i nostri sono romanzi ottimistici, anche 54 è
un romanzo sulla redenzione , inseguita e trovata da quasi
tutti i protagonisti. Se vuoi, è lo stesso "ottimismo della ragione"
su cui si basa Impero . Quelli che citi sono romanzi pregevoli, segnali
importanti ( L'ora del ritorno lo abbiamo presentato al TPO),
ma hanno premesse e umori diversi. Più affine a noi è
La notte del Pratello di Emidio Clementi, un romanzo epico e un apologo
contro la disperazione, a suo modo profondamente marxista.
54 è anche un romanzo di stile, nel senso che
pone una non indifferente questione formale. Il lavoro sulla lingua
sembra lungo e impegnativo, l’impiego di certe forme dialettali e
lo slang anglo-napoletano confermano questo tipo di attenzione. Alla
fine il neorealismo ha prodotto qualcosa di buono oppure si tratta di
altro?
Senza dubbio c'è l'influenza della miglior "commedia
all'italiana", di sceneggiatori come Age e Scarpelli (I soliti ignoti,
L'armata Brancaleone). Rileggendo 54 con un certo distacco sentiamo
anche Beppe Fenoglio, e nei dialoghi c'è una notevole dose di
Elmore Leonard (il miglior "dialoghista" vivente. Purtroppo in traduzione
perde il 70% dell'effetto) e ovviamente rimangono i riferimenti a James
Ellroy. Il lavoro sulla lingua fu faticoso anche in Q, ma qui
il labor limae è stato molto più intenso.