INDICE /GIAP/ #10

-1- aggiornamenti wumingfoundation.com

-2- buffa stroncatura di *Q* trovata in rete

-3- recensione di *Libera Baku Ora* da Blow Up n.25, giugno 2000

-4- luglio: Semana Negra a Gijon


1.

Da pochi giorni, accessibile dalla homepage, è on line la sezione in inglese del nostro sito. Per cause di forza maggiore è un pò più scarna di quella italiana, ma si arricchirà col tempo. Nei prossimi mesi realizzeremo anche la sezione in spagnolo, da mettere on line in coincidenza con l'edizione Grijalbo di Q.

Abbiamo anche inserito nuovi links a siti interessanti, sia nella sotto-sezione "a colpo d'occhio"

<http://www.wumingfoundation.com/italiano/links2.htm> sia in quella commentata <http://www.wumingfoundation.com/italiano/guidalink2.html>. Man mano che le aggiungeremo, sarà un pulsantino java ad annunciare le nuove pagine di links. Nuovi links verranno inseriti a fine giugno.


2. 

http://utenti.tripod.it/Q/main.html

"Spreco di sprechi ha detto Kohelet, spreco di sprechi il tutto è spreco"

Così suona il secondo versetto del primo capitolo dell'Ecclesiaste, Kohelet o Qohelet che scriver si voglia. È meglio noto come "vanità di vanità", ma la bella traduzione di Erri De Luca mi sembra più adeguata a quanto sto per trattare: uno spreco di quasi seicentocinquanta pagine, che ha comportato da parte mia un ancora maggiore spreco di tempo e di pazienza nel leggerlo. L'opera in questione, "Q", ha sollevato ultimamente un polverone nel panorama letterario italiano (ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto quest'ultimo sia asfittico) sia per l'argomento trattato, la Riforma, sia per il nome dell'autore, Luther Blissett. Ripercorrere la storia di Luther Blissett non è necessario in questo contesto: basti ricordare che sotto questa denominazione agisce un numero imprecisato di persone, non necessariamente legate fra loro, che da alcuni anni a questa parte sono impegnate in campi disparati, dalla controinformazione alla pubblicazione di opere varie. La costante delle loro azioni è sempre e comunque l'anonimato: non sappiamo chi si celi sotto il nome di Luther Blissett nelle varie occasioni in cui compare.

Desta quindi stupore che si sappia perfettamente chi sia l'autore, anzi gli autori, di "Q": da mesi la stampa non fa che inondarci di notizie, al punto che non solo ne conosciamo i nomi, ma anche il luogo di nascita, l'età, l'occupazione (ci attendiamo a questo punto altre succose rivelazioni sui colori, le pietanze e gli hobbies preferiti dai quattro giovani scrittori, pronti a compiere il grande salto per divenire la boy band della letteratura nazionale). Il tutto condito da una lunga intervista a "Repubblica", in cui i suddetti autori, a loro dire nel pieno rispetto dello spirito lutherblissettiano, hanno dato risposte rigorosamente a quattro voci: un magnifico esempio di intervista

polifonica a cappella. Peccato per loro che non basti a coprire l'evidenza: i quattro di "Q" con Luther Blissett non hanno nulla a che fare.

Quanto all'argomento, non si può negare che si tratti di una novità: fra operine dozzinali a base di chitarristi usciti dal gruppo e ragazzini che trucidano la famiglia per una marca di shampoo, un libro che tratta le vicende della Riforma nordeuropea e italiana non poteva non suscitare un entusiasmo diffuso e una grande curiosità. Sulla stampa si sono affastellati, con alcune eccezioni, commenti più laudativi e incensanti di un sermone funerario (fra i quali, duole dirlo, l'articolo pubblicato con gran risalto da Adriano Prosperi sul "Corriere della Sera", dal quale però si evince che il suo autore NON ha letto "Q"). L'importanza e l'originalità del tema (in ambito italiano, beninteso) non

bastano però a fare di un libro un buon libro. E "Q" è tutt'altro che un buon libro: anzi, è uno dei peggiori che mi sia capitato di leggere, pessimo per lo stile, pessimo per le inesattezze e banalità storiche, pessimo soprattutto per la boria che trasuda da ogni pagina (gli autori sanno di compiere un'operazione "colta" e, nonostante il falso piglio giovanilista a base di gergo e parolacce, non si trattengono dal buttarlo in faccia al lettore una riga sì e una sì).

Poiché, come già detto, la lettura di questo ipertrofico Bignami di storia cinquecentesca in salsa

hollywoodiana-veterosettantasettina ha già causato un notevole spreco di tempo e pazienza da parte mia, rinuncio all'ulteriore spreco che mi costerebbe il passare al pettine fitto un'opera che strabocca di errori ed orrori, limitandomi a segnalare alcune perle. In particolare, per lo stile è eloquente e rappresentativo del resto, già all'inizio, la scena del bivacco dei lanzi dopo la battaglia di Frankenhausen, due paginette che traboccano di espressioni quali "merda santa" (manca solo "fottuto bastardo" à la Chuck Norris per restituire appieno l'atmosfera da film americano maltradotto); per non parlare poi dei numerosi pezzi in versione similteatrale, che sembrano usciti dalla penna di qualche collettivo di recitazione "off" in un giorno di cattiva digestione, e che vorrebbero essere originali ma non hanno altro effetto che rendere ancora più rozzo e slegato l'intero libro (a meno che per elemento stilistico coesivo non si voglia considerare il turpiloquio).

Dal punto di vista storico, mi è impossibile sorvolare sulla lunga parte ambientata in una Muenster che pare uscita da Genteviaggi (con il suo "fascino particolare, vicoli stretti, case scure" e l'immancabile "dedalo di vie"), e le cui vicende e personaggi si presentano come una rimasticatura malfatta e ipercaricata di uno dei capitoli centrali (sarà un caso che questa sezione è centrale e assai lunga anche in "Q"?) di un libro, opera di una famosa scrittrice, dedicato più o meno allo stesso argomento. Detta scrittrice aveva impiegato oltre vent'anni per documentarsi sulla

materia: gli autori di "Q" hanno ritenuto evidentemente inopportuno imitare cotanto zelo, e si sono limitati a copiare, perdipiù male. Riguardo la parte dedicata ad Anversa, mi limito a osservare che non riesce a restituire nemmeno la pallida immagine della temperie culturale, politica, artistica e religiosa che animava la città brabantina, all'epoca il più importante porto europeo. Strazio assoluto quella italiana, con abbondanza di quei bei tocchi di colore (la storia d'amore con la non più giovane ma fascinosa nobildonna, l'ebraismo esibito che fa tanto chic) che fanno pensare a una riduzione televisiva di un romanzo di qualche pronipotina di Barbara Cartland in versione lagunare - Delta del Po. Quanto al finale ambientato a Istanbul, col protagonista a succhiare dal narghilè manco fosse un trisavolo fricchettone di Dennis Hopper, merita un solo aggettivo: risibile. 

E non è che la crosta di questo pasticcio indigesto: affondando il coltello per raggiungerne il ripieno si sente arrivare una zaffata di rimasticature rancide, di ingredienti coperti di una muffa ventennale legati da una salsetta vetero-anarco-pseudosinistrorsa ma con sapienti tocchi nouvelle cuisine presi pari pari da qualche puntata di X-files. Pur riconoscendo che l'ardita operazione "Sofri&Pinelli meet Mulder&Scully" non manca di un'apprezzabile vena comica (ahimé, del tutto involontaria), mi domando cosa abbia a che fare tutto ciò con la Riforma. Del coacervo di questioni politiche, economiche e teologiche - queste ultime vengono ovviamente appena toccate nel romanzo: si sa che gli argomenti di fede non vanno più di moda, e chi mai ha voglia di questi tempi di andare a

ricontrollare che differenza passa fra la transustanziazione e la consustanziazione - che animarono questo fenomeno, in "Q" non si trova che un'eco sbiadita e soprattutto malfatta, sacrificata a una trama che gli autori vorrebbero ricca di colpi di scena ma che per farraginosità e pura noia fa concorrenza nell'effetto a un flacone di ansiolitici. Il romanzo può però vantare rispetto a questi ultimi un indubbio vantaggio: quello di non causare assuefazione. Difficile infatti che si senta il bisogno di rileggerlo una volta finito: vista però la spropositata lunghezza, garantisce numerose notti di profondo sonno.

Mi è giunta ultimamente voce che i Quattro di Q, nell'ennesima intervista concessa in occasione delle finali per un noto premio letterario, hanno dichiarato che la loro opera, causa l'opposizione dell'avverso e geloso mondo letterario nostrano, non avrebbe ottenuto la vittoria nonostante fosse di gran lunga migliore de "Il nome della Rosa". Vorrei far notare ai petulanti giovin signori che, perlomeno, Umberto Eco conosceva a perfezione l'argomento che trattava, ed è riuscito a far convivere senza iati visibili e forzature di stile Bernardo di Chiaravalle e Conan Doyle; in pratica, tutto quanto loro non sono stati in grado di fare. 

Suggerisco quindi, nel caso volessero ritentare o quantomeno crearsi a posteriori un minimo di erudizione sull'argomento che hanno così maltrattato, di procurarsi e studiare con attenzione le opere del catalogo Claudiana e dei rari esperti del settore (un nome su tutti, Anna Morisi Guerra), onde evitare gli errori più marchiani.

Apprenderanno così, fra l'altro, che l'interpretazione da loro adoperata della guerra dei contadini è vecchia di trenta e passa anni (trattavasi infatti non di servi della gleba, ma di piccoli possidenti che non ci tenevano granché a passare a un'economia globale), che i riformatori erano tutt'altro che figure da operetta (ma figurarsi se Melantone si faceva mettere i piedi in testa!), e soprattutto che la vicenda di Muenster su cui loro hanno ricamato in stile pulp-pecoreccio si basa sulla versione, ovviamente negativa e il più possibile infangante, fornita dalla parte avversa - e chi vuol dare una controinterpretazione della storia non avrebbe fatto male a tentare una ricostruzione dalla parte degli anabattisti, invece di stare a pescare nel torbido manco fosse un pennivendolo di "Cronaca vera".

Suggerisco altresì attente letture e riletture di qualche manuale di grammatica e stilistica, nonché di svariati classici della letteratura italiana e non, visto che appetto a loro Aldo Nove fa la figura di De Roberto.

Suggerisco infine a ciascuno di loro quanto, ne "Il pendolo di Foucault" del già citato Umberto Eco, Diotallevi suggeriva ad Aglié: ma gavte la nata. Ovvero, togliti il tappo, onde far uscire da orifizio apposito l'aria in eccesso. 

Tutto ciò con la speranza che la prossima volta scrivano qualcosa alla loro portata (magari su chitarristi dispersi o assassini da sali da bagno?) e la pubblichino, da soli o in gruppo, senza usare un nome che non gli compete e che gli ha fornito fin troppa e immeritata pubblicità.

(Martin Luther Blissett)



3.

da "Blow Up" n.25, giugno 2000, pag. 59, rubrica "Scritture":

LIBERA BAKU ORA

Riccardo Pedrini

Derive/Approdi, pag.336, lire 26.000

"Caratteristica gloriosa di ogni macchina desiderante è l'autoagonismo, l'essere votata alla distruzione." In queste prime 14 parole è racchiusa tutta la filosofia del romanzo di Riccardo Pedrini, già guerriero da palco coi Nabat e oggi felice scrittore (questa dovrebbe essere la sua terza fatica, dopo una storia del punk bolognese e un saggio sulle arti marziali orientali). Allora perché leggere il libro e non limitarsi a quella prima frase? La risposta è semplice, perché quella frase racchiude il senso ma non la storia di *Libera Baku Ora*. Storia che è fin troppo ricca, ambientata in una Bologna capitale - con strade come via Fidel Castro, via Claudio Lolli, via Franco Berardi e un quartiere popolare R. Prodi - e in una Baku periferia degradata dell'opulenza. Fra queste due città, in scenari da *Guerrieri della notte*, si muove una cellula formata da esseri collegati "empaticamente", una macchina da combattimento praticamente invincibile. Ma i particolari gustosi (e piccanti) non finiscono qui, ché (citando Pedrini) sono "tanti quanto i granelli di sabbia del Gange": un'ipotetica forma di potere a suo modo orwelliana; il Ku Klux Klan che ha abbandonato il razzismo e governa gli Stati Uniti; Toni Negri dissidente e ostaggio nelle mani del regime; il revival della drum & bass e la cerebro (musica prodotta utilizzando campionamenti da parti ritmiche del punk hardcore e i cui fan vengono chiamati cerebrolesi); una popolazione divisa in lavoratori e persone inutili, le quali percepiscono pur tuttavia uno stipendio; pogrom antitossici e droghe "positive" legalizzate... *Libera Baku ora* nasconde - mascherata dietro al romanzo di fantascienza ed esposta con una scrittura che travalica il gergo ristretto della propria tribù per andare ad abbracciare l'ottica delle filosofie orientali (che Pedrini, maestro di pugilato tradizionale thailandese, sicuramente frequenta) - la rilettura creativa dei fatti e dei personaggi che ci hanno accompagnato negli ultimi anni del millennio, ed è atroce constatare che, nonostante gli empatogeni e le alterazioni della realtà, nulla è cambiato e nulla è destinato a cambiare in una società in cui è obbligatorio vivere fisicamente ma che ti annulla intellettualmente. Pedrini, con un estro degno di Philip K. Dick, narra questo trasformismo conservatore condito di guerre etiche e etniche, dove una "enne" non fa la differenza, e di crimini contro l'umanità, che scandalizzano tutti, o contro il singolo individuo, che non scandalizzano mai nessuno. (Etero Genio)


4.

Dal 7 al 17 luglio p.v., una delegazione di wu-ming prenderà parte alla Semana Negra di Gijon (Asturie, Spagna nord-occidentale), prestigioso festival internazionale della letteratura poliziesca e d'avventura, organizzato ogni anno da Paco Ignacio Taibo II° et alii. In quell'occasione, presenteremo in anteprima assoluta (in realtà esce a ottobre, ma è un pre-lancio) l'edizione spagnola di *Q*. Copriremo l'evento riempiendo di appunti i nostri taccuini, e confezioneremo un reportage a esclusiva fruizione degli iscritti e delle iscritte a /Giap/.

Bologna NO OECD, 13/6: we will have a real cool time tonight... :-)