Versione integrale dell'intervista-fiume di Wu Ming 1 alla rivista Arranca e al giornale Jungle World, Berlino, in un parco del quartiere Kreuzberg, 13 ottobre 2001. Intervista e trascrizione di Stefania Maffeis.
Partiamo dalla struttura di "Q”, dalle sue parti e dai luoghi e mezzi della rivolta narrata: nella prima parte, con la rivolta dei contadini a Frankenhausen abbiamo ad es. l’invenzione del volantino; poi a Muenster troviamo lo spettacolo; ad Anversa, con la truffa ai danni dei banchieri Fugger, abbiamo la conoscenza dei rapporti economici di potere; fino ad arrivare al libro "Il Beneficio di Cristo”, attorno alla cui diffusione e circolazione si costruisce la pratica sovversiva. La struttura del libro racconta anche la storia della sua produzione, della vostra prassi politica e dei vostri rapporti con il movimento italiano. Vorrei che mi raccontassi questa storia...
Va precisato che "Q” è stato scritto tra il ’95 e il ’98, quindi prima delle Tute Bianche e del movimento "antiglobalizzazione”. Tutta questa allegoria riscontrata dentro il romanzo sul movimento in realtà è un effetto di prospettiva, per il fatto che il romanzo è uscito pochi mesi prima della battaglia di Seattle e quindi chi lo leggeva era calato all’interno di quel tipo di realtà e della sensazione provocata dall’irruzione del movimento sul palcoscenico pubblico. Chi leggeva ha trovato dentro al romanzo riferimenti che gli sembravano diretti e che in realtà diretti non sono.
Lì si racconta una stagione di rivolte. Di fatto ogni stagione di rivolte riecheggia tutte quelle precedenti e successive. La nostra idea della narrazione storica consiste nell'isolare istanti precisi in cui tutto sembra possibile ed esaminare a 360° questo infinito arco di possibilità. In quei 30 anni, dal 1525 (l’inizio della guerra dei contadini) al 1555 (la pace di Augusta tra protestanti e cattolici) sono state sperimentate praticamente tutte le strade della trasformazione sociale. Ogni tipo di strategia e di tattica è stata messa in campo e noi abbiamo voluto farle attraversare tutte dal protagonista. Questo protagonista è una specie di sintesi di diversi personaggi storici trovati nelle cronache, infatti gran parte delle personalità che assume sono personaggi realmente esistiti. L’arbitrarietà della scelta stava nel fingere che tutti quei nomi che trovavamo fossero la stessa persona che cambiava identità. Cosa che però non era infrequente all’epoca, perché non esistenva alcun modo di verificare l’identità, non esistevano la fotografia e i documenti personali. Lo stesso Eloi, l’animatore della comunità proto-hippy di Anversa dell’epoca, usava altri nomi e altri usavano il suo nome in modo da confondere l’Inquisizione.
La cosa interessante di quei trent’anni è che, nonostante fosse il primo tentativo di rivoluzione moderna, conteneva già in sé tutto quello che sarebbe successo in seguito, ogni tipo di tentativo, dalla parola d’ordine di Mao delle "campagne che devono circondare le città", molto Muentzeriana, all’emergere di un nuovo legame sociale, quindi della figura del proletario. In alcune città conquistate dai contadini si è cercata una comunione di beni simile a quella teorizzata qualche secolo dopo dai primi pensatori socialisti utopisti: Fourier, Owen, Saint Simon. Poi c’è il tentativo leninista, il putsch a Muenster la cui degenerazione riecheggia la Cambogia di Pol Pot, uno stalinismo portato alle sue estreme conseguenze fino a diventare una specie di Armageddon, lo scontro tra la mentalità borghese e la moralità proletaria.
Poi c’è la via più interessante, e credo si capisca leggendo il romanzo che secondo noi quello è il momento più alto, anche di teorizzazione della pratica antagonista del conflitto, che è quella di Eloi ad Anversa, che riesce a costruire un legame comunitario molto forte, e ha la comprensione più avanzata delle dinamiche sociali ed economiche dell’epoca. Non a caso abbiamo fatto dire a lui delle cose contenute nel I Libro de Il Capitale di Marx. Era molto avanzato il suo discorso sul convertire i ricchi mercanti in modo da fargli sciogliere i cordoni della borsa. La truffa ai Fugger l’abbiamo in realtà inventata noi, ma non è inverosimile che questo tipo di idee fossero balenate nella testa di questa comunità loista, perché i presupposti c’erano tutti.
Dopo Muenster il nostro protagonista finisce con gli Armati della spada, che sono un gruppo prototerrorista, le cui pratiche, per chi le legge sono sinistramente simili a quelle che abbiamo conosciuto in Italia con il partito guerriglia di Senzani, questa costola delle Brigate Rosse che a un certo punto diventa una scheggia impazzita; o in Perù con Sendero Luminoso. Sono dinamiche di fughe in avanti che però non sono fughe in avanti, sono fughe verso il nulla, verso la follia.
Dopo la fine dell'esperienza loista per mano dell'Inquisizione, il nostro protagonista finisce nella cosidetta risacca, quella che in italia si definisce "il Riflusso", la riscoperta del privato; e lo ritroviamo a Basilea, dove ha rinunciato a qualunque ipotesi di riprendere la lotta, però vede in questo commercio clandestino o semiclandestino di libri (alcuni dei quali messi all’indice) un’occasione per seminare zizzania, spargere dissenso e anche per consumare una sua vendetta privata. Qui abbiamo un riecheggiare di pratiche nostre, del Luther Blissett Project: la deriva identitaria, l’uso dei falsi, la costruzione di un personaggio virtuale, che è Tiziano, che in realtà abbiamo trovato nelle cronache. Queste cose sono state scoperte da Prosperi e Ginzburg nello studiare lo stranissimo caso del "Beneficio di Cristo”, un libro in realtà assolutamente innocuo, che dava una visione annacquata del calvinismo ad uso dei cattolici più aperti, e che tutto a un tratto conosce un vero e proprio processo di semiosi infinita, di deriva ermeneutica, per cui dentro ci si vede di tutto, un po’ come si vede di tutto in Q, anche robe a cui noi non avevamo pensato. Del resto su questo i decostruzionisti hanno ragione, una volta terminato il testo non appartiene più all’autore. Sicuramente il "Beneficio di Cristo” non apparteneva più a frate Benedetto Fontanini da Mantova, perché ad un certo punto ha iniziato ad avere interpretazioni di stampo anabattista, assolutamente campate in aria. E quindi è un vero e proprio mistero la storia della distribuzione di questo libro, la circolazione, l’influenza che ha avuto. A un certo punto Carafa l’ha fatto circolare volontariamente in modo da usarlo come strumento di ricatto. Questa è la conclusione a cui siamo arrivati leggendo gli strani giri che ha fatto questo libro. Anche il fatto che nella confessione di Pietro Manelfi manca quella famosa pagina che noi abbiamo cercato di ricostruire. E' un esempio di mitopioesi, appunto di produzione di mito, che, questo sì, rimanda volontariamente a quello che è stata una pratica nostra nel Luther Blissett Project: l’uso dei miti, delle leggende mertopolitane, della reputazione infinitamente ricostruibile e decostruibile di un personaggio immaginario che però compie azioni vere, quindi l’astratto che produce il concreto. Questa è forse l’unica cosa che abbiamo messo dentro intenzionalmente. Per il resto di intenzionale ci sono alcuni personaggi di Muenster che sono caricature di personaggi nostri amici: Jan di Leida è un nostro amico che si chiama Riccardo Paccosi, un attore [e regista teatrale]; Frate Pioppo nella terza parte è un nostro amico, un poeta che si chiama Alberto Rizzi, che compare anche come Carabiniere in Asce di guerra e che compare in tutti i nostri romanzi; anche in 54 compare come poeta irredentista triestino. In realtà per noi infilare riferimenti a persone che conosciamo e a cose che abbiamo fatto noi è stato un divertissement e l’approccio non è stato sistematico, non c’era un piano, come invece molti hanno pensato. L’ultima frase del romanzo era anche una strizzata d’occhio, per dire: in questo libro verrà vista molta intenzionalità, in realtà "Non si prosegua l’azione secondo un piano” significa: questo libro trasformatelo pure in una cassetta degli attrezzi, vedete un po’ voi cosa ci trovate dentro senza approcci prestabiliti.
Le chiavi di lettura del romanzo non sono intenzionalmente date, però il romanzo nasce anche dall’esperienza e dalle azioni politiche che avete fatto a Bologna, come Luther Blissett prima e dall’uscita di "Q” come Wu Ming. Raccontami della posizione di Wu Ming rispetto al Bologna Social Forum e alle Tute Bianche...
Le Tute Bianche sono state molto influenzate dal tipo di lavoro e sperimentazione sui media e sui miti che è stato fatto nei cinque anni precedenti all’esplosione del movimento.
Diciamo che in realtà ci sono stati tre precorsi paralleli. Uno è stato il Luther Blissett Project, durato dal ’94 al ’99 e preparato da esperienze precedenti, da quella che durante l’occupazione della facoltà di lettere di Bologna, nel '90, si chiamava "Ala dura e creativa”, perché i giornali dicevano che da una parte c’erano i duri e dall’altra i creativi, allora era nato una specie di ufficio Agitazione e Propaganda che voleva unificare i due approcci. Da quella esperienza sono nate alcune radio autogestite e poi un collettivo che si chiamava "Transmaniacon”, che si è fuso con un gruppo uscito dal "liceo Galvani”, storico liceo della città, che si chiamava "River Phoenix”. Questi due gruppi hanno aderito al Luther Blissett Project che stava nascendo a livello nazionale e internazionale. Il secondo filone è stata un’evoluzione dei centri sociali italiani, soprattutto nel nord Italia, che ha portato alla "Carta di Milano”, una specie di "costituzione" dei centri sociali che uscivano dal ghetto e dal resistenzialismo degli anni ’80 - primi anni ’90, abbracciando una serie di tematiche illuminate dallo Zapatismo: la costituzione di libere federazioni di comunità, un processo che parte dal basso e che parla di autonomie piuttosto che di presa del potere statale, quindi di un legame sociale che si basa anche sulle differenze territoriali piuttosto che di rivoluzione. Un pensiero che porta direttamente alla fine dell’immaginario da sfida all’ "Ok Corral”, al film Western tra noi e i poliziotti, che tenga conto del fatto che fuori da questo immaginario esiste un’ intera società civile. Anziché un discorso pregiudizialmente antiistituzionale ("noi con lo stato borghese non parliamo”) si è sviluppato un discorso molto più sottile di "infiltrazione" delle istituzioni locali territoriali, di apertura di un dialogo che però non fosse subalterno, con cui si riuscisse a conquistare nuovo terreno per pratiche antagoniste. Questa è una cosa che è stata rimproverata molto, ma è quella che ha fatto uscire di fatto dalle riserve indiane un’area politica e sociale che secondo me arriva nelle sue estensioni almeno a 50.000 persone, le ha fatte uscire da una cultura che è stata giudicata perdente, cioè quella solamente resistenziale, "spranga e sanpietrino”, le ha fatte uscire dall'autismo: "io non parlo con questo, non parlo con quell’altro, non parlo con quello”, alla fine non parlavi più con nessuno, invece si è inaugurata una fase in cui si parlava senza pregiudizi con molta più gente.
Le Tute Bianche si sono trasformate all’interno di questo nuovo contesto. Nel ’94 avevano fatto il loro debutto (turbolento) come servizio d’ordine del Leoncavallo. All’inizio la tuta bianca era l’uniforme del servizio d’ordine del Leoncavallo; pian piano si è cominciato ad utilizzarla come metafora del nuovo lavoro "flessibile", "precario", "intermittente", "postfordista", "postindustriale", "atipico". Le tute bianche non sono le tute blu, quelle degli operai tradizionali. Siccome il bianco è la somma di tutti i colori, allora era stata presa come allegoria di diversità: non c’è più solo la tuta blu ma ci sono tutti i colori, che invece di stare uno a fianco all’altro e basta come nell’arcobaleno, si fondono e diventano il bianco che si ottiene facendo ruotare il disco cromatico. Poi c’era anche un riferimento al passamontagna zapatista, che non lo si mette per nascondersi, ma lo si mette per farsi vedere, e in più lo si mette per poterselo un giorno togliere, lo si mette perché altri se lo mettano. Anche la tuta bianca era così, [si diceva:] più persone se lo metteranno meglio sarà, e quando molte persone la indosseranno noi potremo toglierla. Quindi la tuta bianca non era un' uniforme, anche se era partita come tale. La si è utilizzata per fare dei blitz, per fare controinformazione, si sono occupate le agenzie di lavoro interinale, si sono fatte azioni di massa contro i centri di detenzione amministrativa per migranti, azioni davanti alle basi Nato durante i bombardamenti in Kosovo. Pian piano le tute bianche sono diventate questa specie di esercito-non esercito, questa moltitudine di soggetti, che hanno portato un po’ di riflessioni e di esperimenti sui media su un terreno più popular. Alcune esperienze, come quelle del LBP, che [malgrado loro] erano state ancora di avanguardia, praticate da poche centinaia di persone, si è cominciato a praticarle in diverse decine di migliaia, e mi riferisco soprattutto all’uso dei media. Questo significa non limitarsi a dire "i giornalisti mentono”, ma cercare di pilotare le loro menzogne, offrendogli già dei miti, precostituendo già il terreno sul quale loro distorceranno quello che si fa, in modo da telecomandare questa distorsione, usare determinati termini perché arrivano sulle pagine dei giornali producendo spiazzamenti di senso. Questa cosa era molto evidente subito prima di Genova, quando i commentatori parlavano della "moltitudine", che fino a qualche tempo prima era un concetto che Negri trova nell’Etica di Spinoza e tutto a un tratto tutti miracolosamente capivano che cosa voleva dire senza aver letto Spinoza né Negri, cioè che non c’è più la massa che "fa blocco" ma la moltitudine, dove anche se le persone sono tutte assieme si colgono le differenze, e queste differenze lavorano l’una con l’altra, non vengono annullate nella massa. Questa cosa è stata percepita anche dai giornalisti più retrogradi, perfino Alberoni ha scritto una roba sul passaggio dalla massa alla moltitudine. Questo è stato accompagnato da pratiche originali dello stare in piazza che superavano in avanti la distinzione tra violenza e non violenza. Ormai questa cosa la sanno tutti: le protezioni, gli scudi, la formazione a testuggine, ecc. Però anche quello è stata una specie di beffa, l’invenzione di una pratica spiazzante come quella che era stata fatta nel LBP, tralaltro il debito con il LBP è stato esplicitamente riconosciuto da Casarini al discorso alla commissione parlamentare.
Questi due filoni paralleli non sarebbero stati in grado di comunicare tra loro efficacemente, nonostante provenissero tutti e due dall’Autonomia, nonostante fossero due fughe dall’area dell’autonomia, se non ci fosse stata l’influenza dello zapatismo. Lo zapatismo ha dimostrato che le cose si possono fare concretamente e che non ti devi preoccupare solo di essere il più radicale possibile ma di essere efficace nella tua comunicazione. L’incredibile cosa che hanno fatto nella notte del capodanno '94 gli zapatisti occupando San Cristobal de las Casas e dicendo che quell’occupazione era in reazione a un oscuro trattato del libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico (il Nafta) di cui quasi nessuno aveva sentito parlare fino a che questi indios semianalfabeti non l’hanno tirato fuori, è stato un coup de théatre incredibile che ha messo in moto energie, perché era chiaro fin da subito che non si trattava della classica guerriglia terzomondista, che non gliene fregava un cazzo di conquistare il palazzo del governo, ma che era una specie di ponte gettato al resto del mondo: ognuno, con le sue modalità, nella sua parte del pianeta dovrebbe agire coordinandosi e partendo dalle stesse parole d’ordine, "per la dignità”, "contro il neoliberismo”, "per le autonomie”, ecc. Questa cosa è stata molto potente, ci sono stati due incontri intercontinentali, uno in Messico, uno in Spagna, a metà degli anni Novanta, che hanno permesso a molti soggetti diversi di comunicare tra loro, e tra questi c’erano anche le persone che poi hanno scritto la Carta di Milano e persone che stavano nel LBP. L’uso dei miti che fanno gli zapatisti era fin da subito molto simile a quello che si voleva mettere in campo nel LBP, nel senso che si andavano a costruire miti che non si cristallizzassero e che non diventassero autonomi e alienanti, ma rimanessero costantemente manipolabili dalla comunità che li esprimeva: riferimenti alle comunità Maya senza però rivendicare il retaggio ancestrale identitario dei Maya, che non avrebbe senso; un uso molto variopinto e divertente dei miti Maya traslato nelle favole che racconta Marcos, che sono molto efficaci dal punto di vista comunicativo e sono forse la forma di controinformazione migliore per quella parte del mondo; poi questo uso di Marcos come personaggio: non è un leader, è il sub comandante, perché i comandanti sono tutti indios e lui è bianco, in più è subcomandante perché il vero comandante in campo rimane Zapata. Qui, la cosa interessante che collega con Blissett, è che secondo l’immaginario delle classi subalterne messicane Zapata è ancora vivo, anche se a quest’ora avrebbe, non so, 110 anni? Però Zapata è vivo, Zapata cavalca ancora e un giorno ritornerà, anche se razionalmente lo sanno tutti che è morto. Quindi quando c’è stata l’insurgencia, il levantamiento, l’occupazione di San Cristobal de las Casas, loro facendo riferimento a questo mito di Zapata che tornerà hanno "sfondato", hanno veramente bucato lo schermo.
C’è questa specie di barzelletta che racconta Marcos che serve a infondere fiducia nelle persone. Racconta di una comunità autonoma zapatista in un villaggio, che ha sempre costantemente sulla testa gli elicotteri governativi, tipo noi a Genova. A un certo punto un ragazzino prende un bastone e comincia a rotearlo in senso contrario a quello in cui ruotano le eliche degli elicotteri e dopo un po’ gli elicotteri se ne vanno. Allora tutti rimangono stupiti e chiedono a questo ragazzino: "ma come hai fatto, è magia?”, "No”, dice il ragazzino, "è tecnologia Maya”. Come a dire tutto si può fare, con quello che hai a disposizione. Questo era il terzo filone.
Le tute bianche sono arrivate come punto di convergenza di questi tre filoni, di cui il terzo è probabilmente quello più importante, infatti si faceva riferimento [un po' pomposamente] a "comunità metropolitane zapatiste europee", parlando dei centri sociali del nordest italiano.
Si può dire che questa storia ha avuto il suo culmine a Genova?
Si, un culmine, un punto di svolta, forse anche un punto di arresto. Una catastrofe nel senso della fisica. René Thom, lo scienziato della "teoria delle catastrofi", usa la parola catastrofe per dire un’improvvisa discontinuità, anzi, lo spazio, la topologia creata da un’improvvisa discontinuità. Genova da questo punto di vista è stata una catastrofe e il crollo delle torri gemelle di New York è stata la seconda. Quindi ora ci troviamo in uno spazio completamente cambiato, dobbiamo ancora mappare questa topologia.
Che lavoro avete fatto voi di Wu Ming dopo queste due catastrofi?
La nostra preoccupazione era quella della tecnologia Maya, nel senso che subito dopo Genova abbiamo scritto alcune cose per far capire che era una catastrofe nel senso che ho appena detto e non nel senso classico, per non creare sconforto, perché comunque da Genova sono venuti fuori segnali molto positivi, come il fatto che 300.000 persone siano venute a salvarci il culo. Noi avevamo invocato la moltitudine, è come se avessimo usato il bastone da rabdomante e avessimo cercato, "qua c’è la moltitudine!", col bastone che vibrava. A un certo punto il bastone ha vibrato tanto che ci siamo fatti male al braccio, ci ha slogato il polso, perché la moltitudine è arrivata tanto repentinamente da mettere in crisi gli equilibri, creando anche reazioni isteriche nello stato, sconquassi, e quindi questa cosa ci ha slogato il polso, ma è comunque positivo che la moltitudine sia arrivata.
In che senso la moltitudine è arrivata sabato all’improvviso e inaspettatamente?
Noi nelle settimane precedenti avevamo sempre pensato: "arriverà un sacco di gente, 100.000 persone", e quello era il numero che riuscivamo a immaginare, anche perché tra le manifestazioni del movimento la più grossa è stata a Quebec City e ce n'erano 70.000, quindi era inimmaginabile quadruplicare quella cifra. Quello che è successo è che la sera di venerdì [20 luglio] il presidente della republica Ciampi e il presidente del consiglio Berlusconi hanno fatto un appello a reti unificate in televisione, chiedendo alla gente di non andare a Genova il giorno dopo per non complicare il lavoro delle forze dell'ordine. Il lavoro delle forze dell'ordine consisteva nell'ammazzare la gente, avevano appena ucciso Carlo Giuliani. In più i Ds, che tra mille polemiche avevano annunciato che sarebbero venuti a Genova e avevano già affittato i pullman, quando è morto Carlo Giuliani hanno ritirato l'adesione. C'è stata la reazione di gente che si è incazzata vedendo le due massime autorità dello stato italiano a invitare la gente a non esprimere il proprio diritto a manifestare, in flagrante violazione della costituzione e non solo. Dopo che è morta una persona io non ho il diritto di andare a manifestare per questo assassinio di stato? E poi la base, gli iscritti ai Ds - che è un partito in pieno subbuglio, dove in questo momento c'è una lotta tra fazioni interne e la base è in rivolta - hanno mandato affanculo i loro dirigenti e sono venuti a Genova con mezzi propri, come singoli individui e non in rapprensentanza del loro partito. Questo ha fatto sì che sabato ci fosse veramente una moltitudine sterminata. Credo di non aver mai visto una manifestazione così grande in Italia a cui non aderisse il sindacato (ci sono state manifestazioni di più di un milione di persone in Italia, ma quando la CGIL funzionava a pieno regime, quindi c'erano tutti gli operai). E dentro c'era veramente di tutto: dai cattolici ai satanisti, dalle suore laiche ai centri sociali, dagli anarcoinsurrezionalisti agli operai iscritti al sindacato, dalla base dei Ds a monaci zen giapponesi. C'è stata l'elaborazione di un vero e proprio cervello collettivo perché tutta questa gente sapeva benissimo che se non fossero venuti a fare numero a Genova, le persone che erano già lì sabato sarebbero state massacrate, ci sarebbe stata una vera e propria "tonnara" (non so se in Germania si sa come si pesca il tonno, lo si incanala in un labirinto di reti e poi tutti i pescatori man mano che lui passa lo colspiscono finché lui non muore). La città sarebbe stata un gigantesco labirinto di reti e inferriate (i "muri della vergogna"), e ci sarebbe stata una caccia all'uomo per i vicoli; le persone già presenti a Genova erano comunque tante, più di 40.000, però 40.000 persone non sono 300.000. Io credo che quella sia stata la cosa più positiva di Genova, quello che è successo tra venerdì sera e sabato mattina, quando sono arrivati tutti i treni speciali, le automobili, gente che è arrivata con ogni tipo di mezzi, mancavano solo i dirigibili e i velocipedi, credo. Noi abbiamo ragionato soprattutto su questo perché tendiamo a ragionare su quello che c'è di positivo, per poi costruire qualcosa. Però abbiamo anche parlato degli errori di valutazione, perché indubbiamente ce ne sono stati. Nessuno aveva messo in conto una reazione così spropositata da parte delle forze dell'ordine. C'è gente che aveva fondato l'Autonomia negli anni ’70 che non aveva mai assistito a una carica così violenta.
Cosa significa quindi, di nuovo, la catastrofe di Genova?
La catastrofe è che in questo nuovo spazio creato dalla discontinuità di Genova noi dobbiamo imparare a muoverci in una maniera completamente diversa, però sapendo che non ripartiamo da zero, ripartiamo da quelle 300.000 persone. Catastrofe e discontinuità anche nel senso che le tute bianche hanno verificato che la loro tecnica di piazza, efficacissima tra il ’98/’99 e Genova, in questo nuovo scenario non è più sufficiente a tutelare le persone, che infatti si sono dovute difendere ricorrendo a ogni tipo di pratica possibile: dalla barricata, al lancio del sanpietrino, allo spargersi in piccoli gruppi. È successo veramente di tutto in via Tolemaide, erano come una ventina di cortei frullati insieme, perché c'era gente che aveva pratiche completamente diverse. Si era trovata una pratica comune, però nel momento in cui questa pratica viene messa in crisi, ognuno ricorre al proprio patrimonio personale, al modo di stare in piazza che ha depositato nel cervello, nelle braccia e nelle gambe. Una cosa che non era stata calcolata era l'operato dei Carabinieri, che hanno sconvolto completamente le prevedibilità, caricando il corteo in un punto nel quale era ancora autorizzato. Il corteo partito dallo stadio Carlini era autorizzato fino all'inizio della zona rossa, però è stato caricato mezzo chilometro prima dell'inizio della zona rossa, ed è stato caricato a freddo - senza alcuna provocazione da parte dei manifestanti - dai Carabinieri, in modo da creare problemi alla Polizia. Una cosa difficile da spiegare al di fuori dall'Italia è l'eterna rivalità, addirittura spesso guerra, tra polizia militare e polizia civile, che si è acuita in questi ultimi anni perché i vertici della polizia di stato sono stati scelti dal governo di centro sinistra, mentre i carabinieri sono tradizionalmente di estrema destra: sono sempre stati al servizio di ogni colpo di stato, sono stati il baluardo del fascismo durante il ventennio, sono stati quelli che hanno represso il brigantaggio immediatamente dopo l'unità d'italia, sono sempre stati al servizio dei settori più reazionari dello stato dall'unità d'Italia in avanti. Del resto erano nati come guardia personale di Carlo Alberto negli anni venti del XIX° secolo e il loro compito era proteggere il sovrano dal malcontento popolare, quindi hanno quell'imprimatur lì, è quello il loro scopo, proteggere sempre e comunque l'ordine costituito contro la cittadinanza. Quello che è successo a Genova è perfettamente coerente con la loro funzione, solo che stavolta sono stati particolarmente zelanti, tanto da sparare in faccia a un ragazzo di 23 anni e massacrare a gruppi di venti delle ragazzine di 15 anni, le scene le hanno viste tutti, credo.
Avete riflettuto sul cambamento dello scenario del potere dopo Genova ma soprattutto dopo l’11 settembre?
Sì. Non è uno scenario del tutto nuovo, nel senso che quello che chiamiamo l'Impero c'era già, semplicemente in questo momento c'è una lotta tra componenti interne all'Impero. L'Impero non è solo gli Stati Uniti. Bisogna chiarire che noi non usiamo più il concetto classico di "imperialismo", perché l'imperialismo era legato ancora allo stato nazionale, che oggi è completamente bypassato. L'Impero è un'articolazione di poteri planetaria, anche contradditoria al suo interno. È una dinamica più che uno stato di cose, e ha [avuto] come ideologia propulsiva il neoliberismo, come veri attori di tutto ciò che succede le grandi multinazionali, come organi legislativi le istituzioni nate a Breton Woods, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che però ancora facevano riferimento alle Nazioni Unite. L'innovazione degli ultimi anni è stata la creazione del WTO, che non fa alcun riferimento alla carta delle Nazioni Unite, ha una completa autonomia legislativa ed è semplicemente una commissione creata dalle multinazionali per favorire lo sfruttamento della forza lavoro e della natura. L'Impero ha come capisaldi queste organizzazioni e come braccio militare la Nato, la Seato, etc. che sono i gendarmi del pianeta e proteggono gli interessi di queste corporations. Gli Stati Uniti sicuramente sono il punto del pianeta dove si raggruma più potere, però non sono l'Impero, perché sicuramente dell'Impero fanno parte anche le classi dirigenti e le élites dei paesi poveri. La novità di questo quadro è che oggi c'è molto nord del mondo a sud, molto sud del mondo a nord e la configurazione è completamente a macchie di leopardo. Sicuramente gli Stati Uniti, sia come gendarme planetario sia come terra d'origine di molte di queste corporations - e anche come sede di molte di queste istituzioni sovranazionali - è il punto cardine dell'Impero, però non è lo stato nazione nordamericano che conquista nuovi mercati, perché quello sarebbe ancora imperialismo classico.
Chi ha fatto l'attentato alle Twin Towers sicuramente ha voluto colpire uno dei "cuori" simbolici dell'Impero. In una certa misura si può dire che le tre capitali dell'Impero sono New York per l'economia e la finanza, Washington per la politica e l'esercito e Los Angeles (Hollywood) per la propaganda, lo spettacolo, la fabbricazione di miti che permettono all'Impero di governare il pianeta. Sono state colpite tutte e tre contemporaneamente. È stata colpita New York fisicamente, nelle Twin Towers c'erano le sedi di un sacco di enti, multinazionali, ecc. ed è a pochi passi da Wall Street, che ha dovuto chiudere. Poi è stato colpito il Pentagono e non c'è neanche bisogno di spiegare. Poi è stata colpita Hollywood, perché chi ha pensato questa mossa lo ha fatto anche allo scopo di necrotizzare un intero genere cinematografico, quello dell'action movie catastrofico, da True Lies a Die Hard ad Armageddon a Godzilla a The Siege, che è forse quello più profetico su quanto è successo a settembre, in modo da mettere in crisi la macchina della produzione del consenso e l'immaginario collettivo statunitense, che infatti in questo momento è in crisi: c'è questa paranoia dell'antrace, della guerra batteriologica. Colpire le Twin Towers è stato un colpo da maestro, da ogni punto di vista, il che non significa appoggiare quello che è stato fatto. Però da un punto di vista di teoria dei giochi e di arte della guerra è stato un colpo incredibile. Tuttavia, sotto quelle macerie non c'è rimasto l'Impero, perché comunque anche chi ha colpito le Twin Towers fa parte dell'Impero. Nella costituzione materiale di questo Impero ci sono tutte quelle organizzazioni di capitalismo illegale, di crimine legalizzato, di mafia finanziaria, di transazioni occulte, di deposito di denaro nelle banche di paradisi fiscali come le isole Cayman, il Liechtenstein e la Svizzera, di riciclaggio di denaro sporco. Tutto questo non è una "anomalia" dell'Impero, è una delle macchine propulsive del neoliberismo. Allora al Qaeda, questa organizzazione che fa più o meno capo ad Osama bin Laden, è in tutto e per tutto una mafia, un'organizzazione capitalista che ha un piede nella legalità e uno fuori, al pari di moltissime altre. È una vera e propria multinazionale e fa parte dell'Impero, anche perché è stata foraggiata dalla Cia per anni, Osama bin Laden è stato uomo degli americani, e poi perché molti fondi di bin Laden, ad es., erano gestiti dalla Deutsche Bank. Le speculazioni finanziarie fatte a Wall Street subito dopo le Twin Towers prima che la borsa chiudesse sono inconfondibilmente tagrate al Qaeda, probabilmente la famiglia Bush e la famiglia bin Laden avevano obbligazioni, azioni e interessi nelle stesse ditte e avevano soldi depositati nelle stesse banche. Quindi Osama bin Laden non è un nemico dell'Impero, è una cosca dell'Impero che sta combattendo con un'altra cosca, questa è una guerra tra mafie. Io credo che quello che sta succedendo sia una naturale evoluzione delle dinamiche con cui è nato l'Impero: è nato in maniera conflittuale, con molte contraddizioni al suo interno, perché non esiste un governo mondiale, e quindi non c'è un arbitrato tra le varie forze in campo, tutto è lasciato in mano al prevaricante uso della forza. Il mito neoliberista del mercato come "mano invisibile" che regola tutto automaticamente in realtà non è vero, perché la mano invisibile ha bisogno di un pugno di ferro, molto visibile, che è la Nato. In questo momento due pugni di ferro si stanno scontrando l'uno con l'altro ai danni delle popolazioni civili e ai danni di tutti noi, ai danni della ricchezza del pianeta. Questa è una discontinuità dal punto di vista dell'immaginario ma credo sia molto in continuità con quello che l'Impero è sempre stato da quando ha iniziato a formarsi, durante la Guerra nel Golfo. Ha dieci anni di vita, è ancora un bambino, un bambino a dieci anni fa un sacco di cazzate, e questo è un bambino abbastanza problematico. Il fatto però che il neolibersimo spazzi via tutti gli ammortizzatori sociali, le garanzie e il welfare fa sì che questo bambino che sta spaccando tutto in casa non abbia una baby sitter, non abbia una balia o un'assistente sociale, non c'è nessuno a cui affidarlo. E la Nato è il suo giocattolo, in questo momento, è il fucile-giocattolo con cui si ammazzano davvero delle persone. In realtà se ci fosse una forza in grado di dare due ceffoni a questo bambino…
Può esserlo il movimento?
..No. Al momento no, anche se quello che sta succedendo è una paradossale vittoria rovesciata del movimento, perché la crisi, la recessione che già era partita, è una crisi di legittimità del neoliberismo e questa legittimità è stata contestata anche e soprattutto dal movimento. Ad esempio la" new economy": prima di Seattle si prevedeva ci sarebbe stato un boom trentennale basato sui titoli teconologici del NASDAQ. Da Seattle in poi la credibilità [di queste previsioni] è stata erosa e questa è una vittoria del movimento, a cui si cerca di rispondere con la militarizzazione e la guerra. In realtà ci sono in campo molte forze, e il quadro è molto contradditorio, però le linee di tendenza si capiscono, se uno le vuole vedere.
Consideriamo ora il vostro libro "Nemici dello Stato", scritto nel ’99, che propone una ricostruzione storica del passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo in Italia, dagli anni ’70 agli anni ’90, e ricerca le strutture e le strategie dell'emergenza: l'individuazione dei nemici dello stato, il ruolo dei media e delle politiche giuridiche. Come andrebbe avanti questa storia se si considerassero i recenti avvenimenti?
Il vero titolo del libro all'inizio era "Lo stato postmoderno di polizia"poi si è giudicato che era poco commerciale e assieme a Sergio Bianchi delle edizioni di Derive Approdi si è deciso di trasformarlo in "Nemici dello stato"che aveva un po' più appeal. Però il primo titolo faceva capire di cosa si stava parlando. Negri e Hardt nel loro "Il lavoro di Dioniso" individuavano le caratteristiche dello stato postmoderno e della relativa teoria giuridica. Lo stato postmoderno è uno stato "leggero", espressione che usano i teorici neoliberali, è uno stato che taglia la spesa pubblica e il welfare e in questo modo si libera di alcune propaggini in modo da gestire semplicemente la libera razzia da parte del mercato e del capitale e la repressione di eventuali reazioni che partissero dalla società civile. Il fatto che uno stato più diventa "leggero" più diventa autoritario è un apparente paradosso, ma in realtà è così, nel senso che se tu rimuovi gli ammortizzatori sociali e le garanzie e la relativa mediazione del conflitto, ogni conflitto diventa potenzialmente eversivo, e quindi l'unico modo per regolarlo è usare la forza, o meccanismi di controllo, disciplinamento e repressione. Lo stato postmoderno negli ultimi trent'anni ha elaborato non solo una propria dottrina giuridica, che rimuove completamente la figura del lavoro [vivo] e del lavoratore dalle [interpretazioni delle] costituzioni, dal diritto e dai testi delle leggi, il che ha prodotto una serie di meccanismi che permettono di regolare il conflitto nella maniera più preventiva e repressiva possibile. Io non faccio una grossa distinzione tra prevenzione e repressione, perché sono semplicemente due momenti dello stesso processo: la prevenzione tende ad arrestare la gente prima che commetta il reato, la repressione dopo che presuntemente lo ha complesso, quindi sono in un rapporto molto dialettico e complementare. Quando userò queste parole saranno quasi intercambiabili, nonostante possa sembrare un'eresia per le dottrine penali classiche. In Italia lo stato postmoderno di polizia si è andato costruendo in una maniera molto peculiare, perché è peculiare la storia di quel paese, il quale ha avuto a che fare con un movimento di massa molto radicale e molto esteso, che coinvolgeva lavoratori, studenti, il movimento femminista, controculture alternative, circoli del proletariato giovanile, istituzioni locali, assemblee autonome nelle fabbriche, contestazioni dello stesso sindacato da parte dei lavoratori, referendum di massa su questioni di diritti civili, come il divorzio e l'aborto. C' è stato un movimento che è partito nel 1967 nell'università e ha avuto il suo boom nel ’69 nelle fabbriche, il cosiddetto Autunno Caldo, e l'onda lunga si è prolungata fino al 1978 con la vittoria referendaria sull'aborto. Sono una decina di anni, come dice Toni Negri un "lungo Sessantotto" che ha sconvolto la società civile italiana e ha scatenato una reazione. Questa si è basata sulla cosiddetta "strategia della tensione" per quel che riguarda i momenti di "lavoro sporco", e su una serie di leggi che approvate dal parlamento dal 1975 a oggi, in tutto e per tutto leggi da stato postmoderno di polizia, che limitano l'espressione del dissenso, criminalizzano un determinato tipo di pratiche inventando nuove fattispecie di reato, riformano in senso maggiormente repressivo istituzioni giudiziarie e carcerarie, differenziano il trattamento penale fino quasi a personalizzarlo sulla personalità dell'imputato e del prigioniero. Il libro analizza questo processo iniziato nel 1975 con la legge sull'ordine pubblico, la legge Reale, e proseguito fino oggi. Lo fa mettendo tutto questo nel contesto di una serie di diktat dati dal capitale internazionale ai vari stati nazionali a metà degli anni ’70. Ad esempio la parola d'ordine della "governabilità" (o della "stabilità"), che nel 1973 viene imposta dalla Commissione Trilaterale (organismo ufficioso di cui fanno parte gruppi di corporation, leader politici, politologi e sociologi, e che si propone di raccogliere e sintetizzare il punto di vista più avanzato in tema di funzionamento delle società capitalistiche e prevenzione delle eventuali minacce), diceva che si trattava di rendere le società più stabili, di regolare i conflitti con tutti gli strumenti a disposizione. Chiaramente l'Italia era la società più ingovernabile e più instabile, quindi il processo è stato più duro e più doloroso. [Negli anni Settanta] abbiamo apparati dello stato che commettono vere e proprie stragi, attentati bombaroli a partire dal 1969, e poi abbiamo tutta questa serie di leggi. La ricaduta immediata sull'oggi è che questo processo in realtà non è finito, perché il problema della stabilità il capitale non l'ha ancora risolto, anzi, il mondo è sempre più instabile, lo vediamo in questi giorni. Man mano che il capitale si virtualizza, il denaro da equivalente dell'oro diventa un puro flusso di energia, elettroni che passano da un atomo all'altro (cos'altro sono le transazioni?). L'economia diventa sempre più creditizia, e "credito" significa reputazione , quindi il capitale si basa semplicemente sulla fiducia, su una legittimità che viene accordata, lo stato diventa mero strumento di un'economia sempre più virtuale e fantasmatica ed è chiaro che la società diventa sempre più instabile. Abbiamo ad esempio la borsa, che ha un funzionamento magico, alchemico, che non ha nulla di razionale: se il presidente del consiglio d'amministrazione di una multinazionale ha il raffreddore può darsi che l'indice dow jones si abbassi dello 0,4 %, il che provoca scompiglio, c'è il cosiddetto effetto farfalla di cui si parla nella meteorologia. È chiaro che il problema della governabilità e della stabilità si pone sempre più drammaticamente e lo stato-nazione è diventato totalmente inadeguato a gestire da solo questo tipo di minacce, perché sono minacce globali: più globalizzi il capitale, più globalizzi lo sfruttamento, più globalizzi la devianza e la resistenza. Quindi il processo che abbiamo descritto in "Nemici dello Stato" consegnato all'editore nel gennaio ’99, in realtà è proseguito, tanto che adesso scriveremo un aggiornamento, una post-fazione alla nuova edizione, perché crediamo che sia necessario proseguire l'analisi, che però credo fosse assolutamente giusta. Molti accadimenti che ci sono stati in Italia negli ultimi anni trovano una loro spiegazione alla luce di questa analisi. Ad esempio tutta l'isteria sulla corruzione dei politici all'inizio degli anni ’90, la cosiddetta inchiesta Mani Pulite, si spiega molto bene con un tentativo da parte di settori dello stato italiano di risolvere il problema della stabilità e della governabilità, cioè tramite la "giudiziarizzazione" della politica. Chiaramente la carica di un magistrato è più stabile di quella di un politico perché un magistrato non viene eletto dal popolo, non deve rendere conto quasi a nessuno del proprio operato mentre un politico può essere trombato alle elezioni successive, ha qualcuno che contesta le sue decisioni. La decisione di un giudice può essere contestata solamente da un giudice a un livello più alto, l'equilibrio è quindi più stabile. Una parte dello stato italiano ha deciso di affidarsi alla magistratura per svecchiare un intero sistema, quindi non era uno scontro tra "onesti" e "disonesti" come lo si dipingeva, ma in tutto e per tutto uno scontro tra due gang all'interno della costituzione materiale del capitalismo italiano. Ci sono state vittorie provvisorie e rovesciamenti di fronte: oggi c'è al governo la fazione che ha subito l'offensiva giudiziaria, però nella legislatura precedente c'era stata quella che i magistrati li aveva utilizzati e scatenati. Il processo di svecchiamento c'è stato, il vecchio ceto politico del cosiddetto "Pentapartito" era ormai inadeguato alle nuove sfide e lo si è eliminato a colpi denuncie, avvisi di garanzia, processi per corruzione, processi per contiguità con la mafia. Anche lì il processo non si è ancora risolto perché il governo che è in carica adesso è molto meno stabile di quello che sembra: nonostante abbia la maggioranza parlamentare, non ha la maggioranza del paese. E' potuto andare al governo solo perché c'è una legge elettorale particolare. In realtà la maggioranza del paese ha votato contro questo governo, cosa che quest'ultimo subisce continuamente, perché il suo operato è sottoposto a un continuo scrutinio pubblico, come si è visto molto bene dopo i fatti di Genova. Per cui, nonostante in parlamento non subisca vere e proprie minacce perché l'opposizione non ha i numeri per rovesciare la situazione, sicuramente nel paese - nonostante ciò che dice Berlusconi - il governo esprime una sensibilità minoritaria, e su questo bisogna fare leva per liberarsene, direi.
Sempre in linea con i "Nemici dello stato"c'è ora questo nuovo nemico globale, il terrorismo. Si può dire che adesso si tratta di una identificazione, personalizzazione del nemico?
Sì. Ma in realtà questo sembra più un successo di Bin Laden che una strategia degli Stati Uniti. Quello che sta succedendo in questi giorni, e lo si vede guardando le Tv, è che ci sono manifestazioni antiamericane in tutti i paesi - per usare un linguaggio convenzionale - del "sud del mondo". Anche i paesi che appoggiano (o comunque non prendono le distanze) l'offensiva imperiale contro l'Afghanistan, hanno comunque opinioni pubbliche largamente schierate contro l'intervento. Ieri in piazza a Teheran c'erano decine di migliaia di persone, a Nairobi, a Peshawar, nel Pakistan e anche in paesi dove ci sono regimi arabi "moderati". In realtà quello che sta succedendo è che tutti vedono la più grande potenza militare del mondo che bombarda il paese più povero del mondo. C'è una sproporzione evidente, anche perché ci sono bombardamenti a tappeto contro un paese che non ha una contraerea, avrà sì e no due cannoni, una cosa ridicola. In più c'è una dimostrazione di ipocrisia spaventosa: mentre li bombardi gli lanci anche gli aiuti umanitari, che però vanno a finire nei campi minati, questi cercano di andarli a prendere e saltano in aria. Tutto questo è ben visibile, accade alla luce del sole, solo che molte opinioni publiche "occidentali", soprattutto quella statunitense, sono completamente narcotizzate dalla propaganda. Nei paesi dove c'è una propaganda contraria queste cose vengono sottolineate dai media in maniera molto forte. Questo va tutto a vantaggio di Bin Laden, che in qualche modo si sta costruendo una reputazione di Robin Hood del mondo islamico, nonostante sia un pezzo di merda, perché di certo non è un difensore dei poveri, è un capitalista, un multimiliardario, ha progetti di "riforma" sociale da raccapriccio, è stato un lacchè degli americani fino almeno al '97/'98, però in questo momento si sta costruendo un'aura mitica, un alone leggendario da difensore dei deboli, degli oppressi, dei bravi musulmani che vengono trasformati in vittime di una crociata. Questo chiaramente è un successo: probabilmente nel gioco dello "scontro tra civiltà" è chiaro che da un punto di vista simbolico vincono loro, perché hanno un'idea molto più forte della loro civiltà, della loro religione, mentre in Europa e negli Stati Uniti questa cosa è sentita di meno e deve essere continuamente stimolata a iniezioni di anabolizzanti e steroidi. In realtà non c'è questa contrapposizione tra oriente e occidente perché anche l'occidente ormai è pieno di oriente, è una società pienamente multiculturale, multietnica, multireligiosa, è sfuggente questa identità di occidente che ci viene proposta perché a seconda di chi la propone viene identificata con il cristianesimo (ma ormai sono società completamente laiche e secolarizzate) o con la democrazia liberale (ma sono società in cui le sedi decisionali sono sempre più remote dai cittadini e non si sa bene neanche da chi si è governati). Sennò con cosa lo vogliamo identificare? Con la razza bianca caucasoide? no, perché ormai in occidente c'è ogni tipo di etnia. In realtà l'unica vera spiegazione del termine di occidente è: le multinazionali. Mc Donald's, Coca Cola, Nike, ecc. quello è l'occidente che ci viene proposto di difendere, quindi è una cosa che non sta in piedi nemmeno a puntellarla. Perché questa cosa funzioni da cortina fumogena c'è bisogno di propaganda, di retorica patriottica , altrimenti si vedrebbe che stiamo bombardando il paese più povero del mondo per difendere il privilegio di una minoranza della popolazione del pianeta che si arroga il diritto di sfruttare una vasta maggioranza di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno. Invece Bin Laden non ha bisogno di tanti steroidi e anabolizzanti: lui non ha difficoltà a individuare degli oppressi di cui fingere di rappresentare gli interessi perché questi oppressi esistono. Mentre le tanto decantate libertà dell'occidente sono in fin dei conti un simulacro, l'oppressione di cui Bin Laden si dice interprete e vendicatore è realmente esistente, quindi nel gioco dello scontro tra civiltà vince lui, può essere solo una forza militare sproporzionata a dare l'illusione di una vittoria di Bush e dell'Impero. In realtà, dal punto di vista simbolico, l'Impero non può che perdere, ma perdendo si trascina dietro anche tutti noi, perché ormai ci ha coinvolti e a meno che non troviamo il modo di cortocircuitarla rimarremo prigionieri di questa antinomia oriente/occidente, fanatismo/civiltà, terrorismo/democrazia, una semplificazione demenziale di quello che invece sta succedendo.
Quindi su quali contenuti bisogna invece puntare per uscire da questa logica?
Si dovrebbe abbandonare l'antiamericanismo spicciolo del cazzo che invece sta affiorando in tutti i cortei: questo cantare "Yankee go home" e bruciare le bandiere americane, come se il problema fosse ancora quello dell'imperialismo americano, come se l'Unione Europea non fosse una specie di provincia semiautonoma dell'Impero, come se bin Laden stesso non facesse parte dell'Impero. In realtà le forme di azione e di mobilitazione dovrebbero essere tarate su questa semplice verità: lo scontro è tutto interno all'Impero. Allora, ad esempio, invece di fare manifestazioni per la pace e sfilate un po' fini a se stesse non sarebbe male andare a contestare la banca che gestiva i soldi di bin Laden, non sarebbe male fare iniziative dirompenti contro le banche che ogni anno fanno migliaia di transizioni legate al finanziamento di queste realtà presentate dalla propaganda come "nemiche", e che trafficano in armi. Bisognerebbe ragionare di più sull'economia, perché è quella la verità di questa società. Bisognerebbe leggere un po' di più le sezioni economiche dei giornali e un po' di meno le cazzate contenute nelle prime quindici pagine, per capire quali sono le vere tendenze. E poi da lì elaborare forme d'azione, obiettivi da colpire, discorsi con cui convincere le persone. Ad esempio, un errore che abbiamo fatto a Genova nel non prevedere una reazione così dura, è che non avevamo tenuto conto del crollo dell'economia argentina, avvenuto due settimane prima. In realtà il crollo dell'economia argentina poteva far capire che a Genova l'Impero avrebbe usato la mano pesante, per un semplice motivo: l'Argentina era il paese modello del Fondo Monetario Internazionale, quello in cui il FMI aveva sperimentato le sue politiche più radicali e che portava come un fiore all'occhiello del risanamento strutturale. In realtà in Argentina è stata distrutta qualunque garanzia sociale, qualunque welfare rimasto nonostante la dittatura, tutto è stato affidato a questa mitica "mano invisibile" del mercato. Gli "aggiustamenti strutturali" hanno provocato povertà, disoccupazione, e il crollo dell'Argentina faceva presagire che l'Impero si stava preparando a gestire col guanto di ferro una durissima crisi e recessione. In realtà nel movimento italiano alcuni l'hanno detto: Sbancor [...] aveva detto: "A Genova stiamo attenti, perché l'Argentina è crollata". Se uno non segue l'economia non è subito chiaro subito quale sia il collegamento tra le due cose, invece il collegamento è diretto. Anche su come contestare questa guerra bisognerebbe seguire di più l'economia.
Parlami del lavoro che avete fatto dopo Nemici dello stato, "Asce di guerra", e del vostro utilizzo della storia.
Noi usiamo la storia per estrarre le storie, nel senso che crediamo che la letteratura consista nel raccontare storie che abbiano un capo, una coda e un intreccio in mezzo, abbiano dei bei personaggi, coinvolgano la gente. Tutte robe che nella letteratura italiana degli ultimi vent'anni non si è fatta. Sono usciti un sacco di romanzetti giovanilisti, generazionali, minimalisti, intimisti, falsamente autobiografici, oppure autobiografici ma scritti da gente a cui non succede mai un cazzo nella vita, e quindi vite ininteressanti, passate negli ipermercati. Possono anche andare bene come ombre di documenti sociologici ma come letteratura fanno cagare. A noi piacciono la letteratura latinoamericana e Salgari, piacciono quei romanzi che ti fanno viaggiare con la mente, che ti fanno vedere belle storie di lotte, conflitti, sangue, passione, amore, merda. Un romanzo deve essere quello. In "Q"abbiamo provato a metterci la merda, l'amore, il sangue, la passione, il conflitto, il mito e l'abbiamo fatto trovando nelle cronache decine e decine di storie ed eventi incredibili, ma non c'è bisogno di andare tanto indietro nel tempo. In Italia abbiamo una cronaca nera meravigliosa, con delitti barocchi incredibili, costruzioni di emergenze che sfidano la logica e il raziocinio. Tutto a un tratto diventano nemici pubblici delle persone di cui prima si ignorava quasi del tutto l'esistenza: l'isteria sui pedofili, ma chi cazzo li aveva mai cagati i pedofili fino a metà anni novanta, poi tutto a un tratto tutti sapevano chi è un pedofilo. Ogni giorno basta aprire il giornale, io guardo una pagina di un giornale italiano e trovo almeno una cinquantina di spunti per un romanzo. Invece questa cosa non la fa nessuno, né nel cinema né nella letteratura. Anche nel cinema si sono affermati filmetti inesportabili, tutti sulla crisi dei trentenni, la crisi dei ventenni, dei quarantenni, tutte queste cagate generazionali, tutti in crisi, nessuno che reagisca a queste crisi, tutti che si crogiolano, si abbandonano, si piangono addosso, dei film di merda. Allora noi abbiamo detto no, dobbiamo fare l'esatto contrario perché la letteratura deve essere tutt'altro. Dopo Q abbiamo formato questo collettivo che in cinese mandarino vuol dire "senza nome", è il nome che viene usato per firmare i testi dei dissidenti nella Repubblica Popolare Cinese. C'è un richiamo al rifiuto del divismo letterario: uno dei problemi della letteratura contemporanea è che lo scrittore vuole fare un po' troppo il personaggio e si mette davanti al proprio libro, quindi tu compri quel libro perché l'ha scritto lui, non è che ti è simpatico lui perché ha scritto un bel libro. Noi tendiamo sempre a mandare avanti quello che scriviamo e dopo arriviamo noi, e comunque non ci facciamo fotografare, non andiamo ai talk show. L'espressione Wu Ming contiene un riferimento a questo rifiuto, ma anche un riferimento all'espressione del dissenso, all'uso delle storie da un punto di vista politico, in senso lato e in senso stretto. Quando abbiamo incontrato Vitaliano Ravagli, il protagonista di "Asce di guerra", siamo rimasti folgorati dalla sua storia. Vitaliano a metà anni ’50 si arruolò in una brigata internazionale e clandestina e andò a fare la guerriglia in Laos. Era in un gruppo che aveva il compito di scortare un convoglio di armamenti che scendeva per la catena annamitica, quella che divide il Laos dal Vietnam, lui e altri dovevano proteggere questi convogli sotto la guida di un istruttore arrivato dalla Cina, proteggerli dagli assalti sia del governo laotiano che combatteva contro la propria guerriglia (il Pathet Lao), sia dagli indigeni Hmong armati dalla Cia, con scontri a fuoco molto cruenti, dentro alla giungla tropicale dove ci si muoveva al buio perché la vegetazione era fittissima, e l'escursione termica tra sole e ombra ti lasciava letteralmente stremato. E rimasto là otto mesi, un ragazzo di 23 anni da Imola si trova tutto a un tratto dall'altra parte del pianeta, a 11.000 Km di distanza dalla Romagna, in mezzo a gente che non parla la sua lingua. Si trova a dover sparare, a doversi cagare nei pantaloni perché non c'è possibilità di fermarsi (c'erano queste marce continue ed estenuanti), mangiando pochissimo, ammalandosi. Questa storia c'era piaciuta moltissimo perché parlava di molte cose dell'Italia, della cosiddetta "resistenza tradita". Tutte le speranze di quelli che avevano combattuto contro il fascismo e l'occupazione tedesca sono andate in frantumi tra la fine degli anni ’40 e l'inizio dei ’50 grazie a una serie di provvedimenti ed epurazioni a rovescio. Anziché cacciare i fascisti dall'amminisrazione venivano cacciati gli antifascisti. C'è anche il discorso delle guerre coloniali combattute dai popoli d'Indocina, della liberazione dall'imperialismo francese. Volevamo vedere anche cosa rimaneva di tutto questo, quindi abbiamo deciso di aiutare Vitaliano a scrivere la sua autobiografia, inserendola all'interno di un romanzo. Vitaliano interagisce a distanza con un personaggio del tutto immaginario, Daniele Zani, una specie di sintesi del punto di vista di tutte le persone a cui abbiamo raccontato la storia di Vitaliano prima di metterci a scrivere: qualcuno rimaneva incredulo, qualcun altro rimaneva entusiasta, qualcun altro perplesso. Abbiamo usato questo mix di umori ed emozioni per costruire la reazione di Daniele Zani nel sentire questa storia. La parte scritta da Vitaliano va dalla sua infanzia fino a un suo viaggio a Mosca, nel ’62. E' tratta da cose che aveva già scritto lui stesso, in più l'abbiamo intervistato a lungo, per ore, sbobinando poi i suoi racconti e dividendoli in capitoli. Vitaliano è una persona incredibile, dall'aneddotica fluviale, ti ipnotizza, ti rapisce. Abbiamo trasformato queste interviste in capitoli del libro. Invece l'altra parte, con Daniele Zani, è una sorta di indagine, una ricerca di Vitaliano condotta senza sapere che il personaggio cercato si chiama Vitaliano. Coincidenze portano Zani sulla pista dei partigiani e antifascisti italiani andati a combattere all'estero dopo la fine della seconda guerra mondiale, finché in modo imprevedibile e casuale Zani non incontra Vitaliano, e si scopre che la parte di Vitaliano è in realtà il racconto che lui sta facendo a Zani. Poi c'è una terza parte, "Storia disinvolta delle guerre d'indocina": era necessario mettere l'esperienza di Vitaliano nel contesto complicatissimo delle guerre di liberazione indocinesi: soprattutto i vietnamiti si sono dovuti liberare da tre occupazioni di fila: giapponese, francese e statunitense. Trent'anni di guerra continua. Hollywood ci parla solo degli anni ’60, in una chiave inaccettabile da un punto di vista ideologico e narrativo. In realtà quelle popolazioni hanno combattuto dalla fine della 2° guerra mondiale fino alla metà degli anni ’70 e gli scontri proseguono ancora oggi, perché la guerriglia tra la tribù dei Hmong e il governo laotiano continua tutt'ora. Abbiamo voluto raccontare questa storia in una chiave strana, a metà tra la narrativa e la storiografia. In Italiano non c'era niente, quindi abbiamo ordinato libri su Amazon, abbiamo contattato reduci che avevano combattuto in Indocina. Da tutta questa mole di materiale abbiamo estratto le storie, abbiamo messo molti aneddoti, per questo la chiamiamo storia "disinvolta", perché non è una ricostruzione storiografica oggettiva, ma è molto parziale, sia per il nostro schierarci con una parte, sia per il registro linguistico che abbiamo adottato.
Nella parte di Daniele Zani viene anche descritta la situazione di Bologna nel 2000, le contestazioni dei migranti, addirittura viene descritta una manifestazione delle tute bianche e il loro modo di stare in piazza. Si esemplifica qui il significato di asce di guerra, la scoperta di coni d'ombra del passato che possano essere scomodi per il presente..
Sì. Questo è il leit motiv di tutti i nostri libri, non solo di "Asce di guerra", cioè che le storie sono asce di guerra da disseppellire. Cose che sono state raccontate male o poco, che sono state censurate o sepolte molto in fretta oppure sono rimaste negli archivi a fare la polvere, noi cerchiamo di recuperarle per vedere quanto dirompenti possono ancora essere, quali insegnamenti se ne possono trarre, che tipo di emozioni sono ancora in grado di suscitare. Quasi sempre si tratta di emozioni fortissime. Il riferimento alle tute bianche è dovuto al fatto che mentre stavamo scrivendo "Asce di guerra" in Italia è scoppiato il movimento . Siccome noi c'eravamo pienamente dentro e siamo un po' come spugne (tutto ciò che ci accade intorno in qualche modo finisce dentro a quello che stiamo scrivendo), abbiamo messo anche queste scene di mobilitazione bolognese. Addirittura un capitolo l'abbiamo scritto mentre eravamo nella testuggine delle tute bianche, tutti imbottiti, con gli scudi e i caschi. C'è stato un convegno dell'OCSE a Bologna, c'è stata una mobilitazione di massa di contestazione a questo convegno, e la mattina del 14 giugno del 2000, ci siamo ritrovati con addosso la tuta bianca e tutto il resto, a fronteggiare uno schieramento antisommossa. C'è stata una pausa di un'ora, un tentativo di negoziato, la polizia ci diceva di retrocedere, noi dicevamo che volevamo avanzare. Siccome c'era un caldo pazzesco, ci siamo tolti le bardature, ci siamo seduti sui nostri caschi e abbiamo scritto il capitolo. Dopo c'è stata una carica, durante la quale naturalmente non siamo rimasti a scrivere, però abbiamo finito il capitolo la sera, quindi in tempo reale.
Raccontami della vostra operazione letteraria-politica della scrittura collettiva e del no copyright.
Sulla scrittura collettiva si può rispindere su due livelli. Uno è che in realtà la letteratura è sempre stata collettiva, non esiste narrativa individuale. Il romanzo in particolare non esisterebbe come tale senza un processo che lo ha plasmato e continuamente ritrasformato ed è un processo di cooperazione sociale. Se pensiamo ai poemi epici dell'antichità vediamo che non erano scritti da singoli ma da intere comunità, poi una persona che raccoglieva tutti i miti e le leggende, ma erano miti continuamente narrati, trasformati, gli si era data forma per generazioni. Gli altri antenati del romanzo negli ultimi secoli sono stati:
- il teatro elisabettiano, che era scritto da una collettività. Gli autori si scambiavano tra loro le storie e i personaggi, ne discutevano assieme, c'erano le prove con gli attori che suggerivano le battute, non c'era una divisione dei ruoli iperspecializzata come quella odierna tra autore, attore, pubblico. Tant'è che di molte tragedie e commedie elisabettiane abbiamo diverse versioni e quelle su cui ci basiamo sono quelle che hanno la data posteriore oppure sono sintesi, montaggi.
- il romanzo d'appendice ottocentesco, pubblicato a puntate sui giornali. Questo è l'antenato più diretto del romanzo contemporeaneo, perché si vede come il feedback dei lettori possa cambiare radicalmente un testo. C'è uno stupendo saggio di Umberto Eco a proposito de "I misteri di Parigi"di Eugène Sue, dove si vede che i lettori mandavano lettere ai giornali su cui era pubblicato, dicendo: "questo personaggio è odioso, toglilo"; oppure: "perché non sposti l'azione nella tal città", "ma quand'è che fai morire questo qui", "ma quand'è che torna quello là che dici che è partito".
Sono tutti processi collettivi. Se esistesse davvero la scrittura individuale, allora non esisterebbe il romanzo . Noi tagliamo la testa al toro: non esiste scrittura individuale.
Un'altro aspetto della risposta è: come facciamo a scrivere tutti insieme? domanda tipica. Noi rispondiamo sempre che il metodo cambia di libro in libro, a seconda delle storie che vuoi raccontare devi cambiare il metodo. La costante è che facciamo molte ricerche storiche e che prima di metterci a scrivere abbiamo già almeno il 90% della trama, scalettata e divisa per sequenze. Adesso siamo arrivati a un livello per cui sappiamo subito che stile vogliamo dare e possiamo dividerci i capitoli, poi lo si rilegge insieme. Per arrivare a questo abbiamo dovuto lavorare anni.
Rispetto al no copyright: chiaramente, poiché pensiamo che la scrittura sia sempre collettiva, viene a cadere l'idea di proprietà intellettuale di uno scritto. Noi plagiamo e "rubiamo" continuamente idee ad altri, e crediamo che altri siano liberi di farlo con le "nostre". Questa cosa la diciamo con molta onestà: siamo plagiatori come lo sono tutti. Ci sta sul cazzo invece chi dice di avere idee originali, chi riproduce il mito dell'Autore, del Genio, si appropria di idee altrui senza dire che lo ha fatto, spacciandole per proprie oppure facendoci soldi senza riconoscere il debito. Se qualcuno vuole fare i soldi con le storie che scriviamo ci deve pagare, se qualcuno lo vuole cambiarle o diffonderle gratuitamente lo può fare. Questa è la discriminante fondamentale. I nostri libri sono infinitamente riproducibili per tutti gli usi non commerciali, ad esempio se un produttore cinematografico prende le nostre storie e ci fa i soldi senza che noi vediamo una lira, questa è una politica di rapina tipicamente capitalistica in contrasto con le vere dinamiche di produzione e circolazione del sapere.
È anche nel senso della scrittura collettiva che si deve comprendere la vostra presenza nel movimento italiano?
Sì, in quanto narratori di miti noi siamo interessati ai movimenti, perché sono fucine di miti, li recuperano, li reinventano, li contengono e presuppongono, li implicano, li rimandano l'uno all'altro. Nei movimenti si trovano tutte le asce di guerra in corso di disseppellimento e si può anche aiutare a disseppellirle, perché chi sa raccontare padroneggia il mito. Esiste un uso inconsapevole del mito: ti limiti a subirlo, come la bandiera con la faccia di Che Guevara, un mito che è già dato e che tu non riplasmi. Però se si diffonde la consapevolezza di come funziona un mito e di come può essere utile, allora avrai meno icone di Che Guevara e un uso del mito più simile a quello degli zapatisti, un mito che è cambiato, è la vera espressione di una comunità che si evolve, che vive. Un mito deve essere vivo come le comunità che lo raccontano, quando si sterilizza vuol dire che anche la comunità si è fermata.