/Giap/ #18 - La battaglia di Praga - 29 settembre 2000
 


Carri armati a Praga

di Wu-Ming-Sì

28 settembre 2000. Stando alle notizie circolate tra la giornata di ieri e la notte scorsa, mentre scrivo queste righe, a Praga la polizia di Havel ha dato inizio alla rappresaglia. Dopo la partenza delle “brigate internazionali” lo stile delle autorità di pubblica sicurezza ceche è tornato quello di una volta (probabilmente quello di sempre): le voci che viaggiano in rete parlano di quasi novecento arresti, irruzioni, pestaggi e stupri nelle celle, ossa rotte, defenestrazioni, io stesso ho assistito a un arresto di massa nella notte di martedì 26. I partiti della destra hanno già chiesto un’interpellanza parlamentare per ottenere leggi emergenziali e più potere alla polizia (più di così!?). 

Ladies and gentlemen, benvenuti nel capitalismo reale.

1. Random

Non ero mai stato a Praga. Fino a tre giorni fa associavo quella città ai rifugiati politici comunisti del ’49, all’invasione sovietica del ’68 e al crollo dei regimi stalinisti nell’89. Nada màs.

Tra il 24 e il 27 settembre 2000 ho visto sfilare un corteo internazionale anti-capitalista; i cingolati presidiare le strade; barricate in fiamme; elicotteri col faro direzionale “all’americana” che sorvolavano il centro in continuazione; ho visto utilizzare tutto, ma veramente tutto per costruire protezioni corporali e gommoni (la gommapiuma dei materassi del campeggio, cuscini, palloncini colorati, cartelli, pezzi di tenda); ho visto la prima fila di tute bianche italiane avanzare contro la polizia, prima con i gommoni, poi a mani nude, o con pistole ad acqua e scudi ricavati dai coperchi della spazzatura; padovani dall’aria truce gridare “democracia! democracia!”; un tizio di Bopal venuto lì da solo con il suo striscione personale; un uomo nudo in cima a un palo, con una banconota da un dollaro infilata sull’uccello e due nelle orecchie (l’ho rincontrato la sera: si era rivestito, ma aveva ancora le banconote nelle orecchie); don Vitaliano, parroco di Sant’Angelo a Scala (AV), davanti a tutti, sorridente e serafico alla facciaccia (di merda) di Pio Laghi, Biffi, Wojtyla e tutti gli altri; un ragazzo con un cartello legato davanti a mo’ di protezione improvvisata, con su scritto “Luther Blissett is here”; una signora sulla sessantina che mi ha chiesto se ero del Resto del Carlino; uno spagnolo con una bandiera rossa legata a mantello, incordonato con me, che mi ha chiesto se ero comunista; dei tizi di non so quale confessione, tutti vestiti di arancione dal turbante alle scarpe; un gruppo di turchi che tirava di scherma con la polizia (bastoni contro manganelli); Fabian Tompsett, un vecchio amico londinese che non vedevo da anni; un McDonald completamente devastato; giovani cechi sbattuti contro le camionette e ammanettati, a poche centinaia di metri dal luogo in cui arse vivo Jan Palac; un ragazzo americano urlare al megafono: “La città è nostra!”; e molto, molto altro ancora.

2. “Buoni” e “cattivi”

Ho chiesto a un basco che ha lavorato molti anni come operatore sociale in Brasile cosa ne pensava dell’enorme diversificazione del movimento post-Seattle. Mi ha detto che anche durante la guerra civile spagnola arrivarono brigate di volontari da tutti i paesi e che la diversità comporta dei problemi, ma non si può che vederla come una ricchezza: la globalizzazione capitalistica riguarda tutti, è ovvio che ci si trovi in mezzo alla gente più differente. Dai cristiani sociali agli Autonomen, dagli anarchici spagnoli ai freakettoni americani, dalle tute bianche ai buddisti, dai sindacalisti ai punk, dai pacifisti non-violenti ai lanciatori di molotov, dagli animalisti ai trotzkysti.

Credo che quel basco avesse ragione. Basta non dimenticare che la guerra civile spagnola è stata una sconfitta proprio perché le diversità, in quell’occasione, divennero conflitto interno. Uno scenario che non è possibile ignorare.

La battaglia di Praga è stata una vittoria e proprio per questo il governo ceco ne sta facendo pagare caro il prezzo agli ultimi manifestanti rimasti. 

Ma gli “stili” messi in campo sono stati di due tipi molto diversi. Non è solo il manicheismo a cui i media sembrano essere approdati da un po’ di tempo a questa parte (distinguendo tra “buoni” e “cattivi”) che mi fa dire questo. La differenza è stata lampante per chiunque fosse là. Anche per questo è stato importante dividere il corteo in tre tronconi, per assecondare gli stili e le pratiche differenti dei vari gruppi. Il black-block che è sfociato nella guerriglia urbana non ha rispettato l’accordo generale sottoscritto da tutti i partecipanti al coordinamento della protesta, ha scelto la via delle molotov e ne ha pagato le conseguenze. Resto convinto che nell’attuale contingenza storica sia una strada inutile e fondamentalmente controproducente, ma finché i sostenitori dell’old style barricadero fanno i “loro” cortei, per i fatti loro, non ho niente da obiettare. L’importante è che ognuno sia libero di assumersi i rischi che vuole e che costoro non pretendano di monopolizzare il corteo in cui mi trovo io [per altro qualcuno, timidamente, ci ha provato, lanciando sassi e bastoni, ma è stato immediatamente individuato e scacciato]. 

Ancora diverso è quello che è successo durante la serata. Mentre si consumavano gli ultimi strascichi del riot pomeridiano, alcune decine di ragazzi cechi hanno preso d’assalto un McDonald distruggendolo, hanno rotto le vetrine di un Kentuky Fried Chicken e di un’agenzia americana, lungo piazza San Venceslao. Ma invece di filarsela alla svelta, sono rimasti lì ad aspettare che la polizia arrivasse in forze. Errore fatale. Addirittura ho assistito a un assurdo fronteggiamento in una traversa della piazza, con due cordoni di poliziotti all’interno e i manifestanti all’esterno, sui due lati. Di lì a poco sono arrivati una decina di cellulari e un paio di pullman di poliziotti, che li hanno circondati e arrestati. Su quello che hanno subito in centrale corrono voci agghiaccianti. Da quel momento la polizia ha dato inizio alla rappresaglia indiscriminata che ha portato ai novecento arresti attuali (probabilmente destinati a crescere).

3. Contenuti

La battaglia di Praga è stata una vittoria perché il movimento post-Seattle ha dimostrato di essere in ottimo stato di forma. Lo ha dimostrato sul campo, più che nei giorni precedenti la manifestazione. La disorganizzazione e il caos (non solo linguistico) dei preparativi lasciava pensare il peggio. Forse anche questo è un segnale positivo: nel momento cruciale la gente c’è ed è determinata. Ma c’è almeno una questione sostanziale che andrebbe affrontata: quella dei contenuti della protesta. Purtroppo l’estrema diversificazione del movimento rende difficile articolare un discorso approfondito e tanto meno unitario. Credo che il problema che sarà necessario porsi da adesso in avanti sia proprio quello di come far passare messaggi radicali e “sostanziali” in occasione dei futuri happening. I media si sono dimostrati meno scadenti del solito nel riportare gli eventi: anche questa è una novità di cui varrebbe la pena approfittare.

4. La disobbedienza civile “all’italiana”

Praga è stata la definitiva consacrazione internazionale di quella che ormai viene definita all’interno del movimento “disobbedienza civile all’italiana”. Per la prima volta il drappello che apriva il corteo giallo era composto da tute bianche multinazionali (italiani, spagnoli e finlandesi). Parlare di eroismo non è certo nelle mie corde, ma la prima fila di tute bianche, attrezzata alla bell’e meglio con quello che erano riusciti a costruire in campeggio la notte prima, ha avuto un comportamento ineccepibile. Per sette-otto volte sono andati avanti con i gommoni (sfasciati e forati quasi subito), con scudi improvvisati, con bastoni (ben poco efficaci contro i robocops superbardati), perfino con palloncini colorati, anche a mani nude. 

Credo però che Praga abbia anche sancito l’inevitabilità di un cambiamento di strategia. Occorrono nuove idee geniali, occorre pensare anche a qualcos’altro, perché, detta come va detta, ormai la tecnica è stata sgamata e non si può riproporre la stessa pratica sempre uguale all’infinito. Non è tanto questione di efficacia militare: nessuno può pensare di sfondare un blocco fatto coi blindati. Penso piuttosto alla necessità di coinvolgere il resto del corteo, quelli che restano dietro, i quali, non vedendo niente e non sapendo cosa succede davanti, finiscono col rompersi i coglioni e prendere altre vie. E’ ovvio che non tutti se la sentono di andare in prima fila. Chi lo ha fatto già alcune volte sa più o meno cosa aspettarsi, sa cosa rischia ed è disposto a farlo. Ma gli altri? E’ un problema che si era già presentato a Bologna e che a Praga, con migliaia di persone dietro, si è riproposto in maniera lampante. Bisogna escogitare qualcos’altro. Anche chi non tiene la testa del corteo, anche chi non vuole o non riesce a stare davanti, deve poter partecipare in qualche modo al blocco. Per quello che ho visto, credo che tutti debbano fare uno sforzo di inventiva e tirare fuori delle forme di coinvolgimento alternative. Il rischio grosso è che quello delle tute bianche diventi un copione troppo uguale a se stesso e – alla lunga – meno politicamente accattivante, meno mediaticamente efficace, di quanto sia stato finora. Una bella sfida per i prossimi appuntamenti.

5. Dopo di noi

Tornando ai rispettivi paesi d’origine ci siamo lasciati dietro i cechi che erano con noi nelle giornate praghesi. Che ne sarà di loro? I giornalisti se ne sono andati insieme alle “brigate internazionali” e le elezioni in Jugoslavia hanno già monopolizzato lo spazio dedicato all’Europa dell’Est sui quotidiani e sui telegiornali. Soltanto in rete è possibile essere aggiornati su quanto sta succedendo a Praga. Quello che non hanno potuto fare a noi, lo stanno facendo a quelli che sono rimasti. Anche questa è una situazione nuova per il movimento post-Seattle. Per la prima volta l’happening contro il neo-liberismo si è tenuto in un paese che non ha bisogno di salvare le apparenze democratiche: la differenza salta agli occhi, la stanno vivendo i cechi sulla propria pelle. Non credo sia possibile stare a guardare mentre gente come noi viene massacrata nelle celle, stuprata, torturata. Dopo di noi non può esserci il deserto. Occorre far circolare le informazioni, divulgarle, ridestare l’attenzione dei media su quanto sta accadendo in un paese che tra qualche anno dovrebbe entrare nell’Unione Europea. 

Per una volta Wu-Ming si appella agli abbonati a Giap, perché si muovano in questo senso. Collegatevi ai siti di Indymedia ( http://indymedia.org , http://praha.indymedia.org, http://italy.indymedia.org) e  troverete disponibili aggiornamenti, resoconti, cifre e anche i numeri di telefono e fax della Presidenza della Repubblica Ceca, ai quali inviare messaggi di protesta per la brutalità della repressione e la violazione dei diritti umani in corso nelle carceri e nelle centrali di polizia di Praga. In varie città italiane si stanno organizzando iniziative di protesta e manifestazioni. Per favore, divulgate le informazioni con ogni mezzo in vostro possesso.

Benvenuti nel capitalismo reale…

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