/Giap/ #6, IVa serie - Le vie dei canti d'Europa - 29 maggio 2003
1- Le vie dei canti d'Europa - di Wu Ming 4:
(La canzone di Palos; La canzone di Cork; La canzone di Istanbul)
2- Erebu - di Wu Ming 2
3- News su wumingfoundation.com (in diverse lingue)
4- Calendario presentazioni Giap! giugno 2003
5- L'attacco di un certo giornale a Vitaliano Ravagli
6- Sul racconto Open Source: botta e risposta tra un giapster e Wu Ming 2
7- Solidarietà a Radio Onda d'Urto di Brescia
1---------------------------------------
LE VIE DEI CANTI D'EUROPA
di Wu Ming 4
Pubblicato su L'Unità di sabato 24 maggio 2003
La canzone di Palos
Questo viaggio potrebbe iniziare con un "C'era una volta...", per collocarsi nel tempo del mito, o, come direbbe un aborigeno australiano, nel tempo dei sogni.
E' la storia di un viaggio "cantato", che comincia a Palos, una porta rovesciata che non si apre verso l'oceano, ma verso la terra, nel lembo estremo del continente inesplorato.
Palos, in una regione chiamata Landa-hauts, da un popolo migrante che nella notte dei tempi raggiunse questo luogo: i Visigoti. Landa-hauts, Al-Andalus, l'avrebbero ribattezzata i nuovi migranti conquistatori che venivano dalle montagne azzurre oltre il braccio di mare a sud.
La prima tappa è una città su un fiume, capitale di uno dei regni più floridi della storia. Córdoba, patria di sovrani illuminati e di grandi intellettuali, dove nacque e visse uno dei più grandi filosofi del Medioevo. Si chiamava Abu al-Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Rushd, meglio conosciuto come Averroè.
La sua interpretazione di Aristotele, di cui venne considerato per secoli il commentatore, fece nascere una scuola, l'averroismo, e i suoi testi vennero tradotti in latino e ricopiati nei monasteri di tutto il continente. L'averroismo sosteneva l'unicità dell'intelletto per tutto il genere umano, negava l'immortalità dell'anima individuale a favore dell'immortalità del mondo, rivendicava l'autosufficienza della filosofia in merito alla felicità terrena dell'uomo.
Averroè era iberico, di origine araba, musulmano, libero pensatore. Morì a Marrakesh nel 1198.
Al suo fianco, immortalato in una statua nel quartiere giudaico di Córdoba, si staglia un altro grande pensatore. Abu 'Imran Musà ben Maymun, meglio noto come Mosè Maimonide. Maimonide era un iberico, arabo, di religione ebraica, bilingue, libero pensatore. I suoi testi vennero tradotti in latino e ne consegnarono il pensiero alla storia del continente. è ritenuto il più importante pensatore ebraico del Medioevo. Morì in Egitto nel 1204, dopo essere stato medico personale della famiglia di Saladino.
Le moschee di Córdoba, trasformate in cattedrali, o meglio, incredibile fusione architettonica di due mondi, sono il simbolo di un phylum ideologicamente spezzato, che è possibile ricostruire studiando la storia del pensiero e della cultura.
Ma il viaggio è appena cominciato. Dobbiamo percorrere molti chilometri verso nord-est per raggiungere una grande città , affacciata sul Mare Nostro. Gli abitanti ci raccontano un'altra storia. Quella di un nobile condottiero africano, Amilcare Barca, che giunse dalla Tunisia e fondò una colonia a cui diede il proprio nome: Barcelona. Era il 230 a.C. Il nipote di Amilcare Barca, Annibale, attraversò la penisola iberica con un'armata al seguito, per minacciare il più potente impero di tutti i tempi.
Seguendo la canzone di Annibale, che immaginiamo scandita dal passo degli elefanti, proseguiremo il nostro viaggio.
Per giungere a una terza, grande, città: Massilia. Anche qui incontreremo migranti, e stavolta le etnie, gli idiomi, le culture, le musiche, saranno innumerevoli e così intrecciate da rendere impossibile distinguerli. Marsiglia, fondata nel 600 a.C. da marinai greci provenienti dalla colonia di Focea, in Asia Minore. Una colonia asiatica.
Da allora il meticciato non ha mai smesso di produrre e riprodursi. Furono i pirati saraceni a insegnare ai provenzali che dalla corteccia di sughero si potevano ricavare tappi per le bottiglie. Invenzione che i viticoltori locali seppero bene come mettere a frutto.
Per proseguire il nostro viaggio chiederemo in prestito la canzone di un reparto di miliziani repubblicani, per marciare "in difesa della patria", laddove patria significa ovunque si piantino le tende, dovunque ci porti la canzone. E la canzone, non a caso, ci porta a Nizza.
Lì, nell'anno 2000, si svolse un vertice, che varò la Carta dei diritti europea. In quell'occasione le Tute bianche italiane cercarono di portare nella cittadina francese quelli che credevano dovessero essere i primi tre articoli della Carta. Quei tre striscioni furono fermati a Ventimiglia insieme ai manifestanti. Recitavano pressappoco così:
I) Sono cittadini europei tutti coloro che, da qualunque parte del mondo provengano, hanno scelto di vivere e dimorare sul territorio europeo.
II) Tutti i cittadini europei, indipendentemente dal lavoro che svolgono, hanno diritto ad un reddito che consenta di condurre un'esistenza libera e dignitosa.
III) L'Europa ripudia e contrasta la guerra, senza condizioni, in ogni parte del mondo.
Inevitabilmente la canzone prosegue verso Genova, fino a Piazza Alimonda. Non tanto per commemorare i martiri. Eleggeremmo quel luogo a punto archimedico, come il buco nero dentro il quale si è provato a far sprofondare il movimento globale.
E siccome non ci sono riusciti, la canzone di Genova non sarebbe triste, sarebbe un pezzo di De Andrè suonato su un ritmo punk rock, che racconta di chi non può più essere con noi, ma anche della moltitudine che corse a salvare la pelle di tanti altri e li fece uscire dalla trappola. è la canzone di un salvataggio e di una riscossa.
La canzone di Cork
La seconda canzone inizia sullo scenario di una grade carestia, nel 1848, che decima la popolazione di un'isola e la costringe ad andarsene. L'isola è l'Irlanda e la città da cui partire è Cork. Su quelle coste, nel 1588, dopo la sconfitta, approdarono le navi superstiti dell'Invencible Armada, la flotta del re di Spagna. La storia vuole che alcuni di loro non se ne andassero più. E anche se avevano nomi cristiani, nelle loro vene scorreva anche il sangue di Averroè.
Chiederemo in prestito la canzone di Michael Collins, per spingerci fino a Dublino, dove nell'anno 1916 gli irlandesi insorsero contro il potere coloniale inglese e diedero avvio alla lotta d'indipendenza. "Una terribile bellezza è nata", scrisse il poeta Yeats. Per proseguire poi fino a Belfast, città occupata, città d'intifada e di guerriglia, ma in cui oggi si cerca di uscire dagli incubi per riappropriarsi di un futuro possibile.
Dovremmo poi attraversare lo stretto e approdare a Liverpool, ascoltare i racconti degli operai, soffermarci un istante davanti a una cantina in cui nella notte dei tempi quattro giovani che non sapevano suonare diedero l'assalto al cielo della cultura pop e lo squarciarono, e poi proseguire nel cuore dell'isola maggiore.
Nei pressi di Nottingham, riuscendo a ripulire un mito dalle incrostazioni del merchandising hollywoodiano, forse potremmo ancora incontrare un'allegra brigata di ribelli, guidati da un certo Robin Hood. Sarebbero le canzoni ispirate alle sue gesta, a condurci a sud, nelle contee del Kent e dell'Essex, per fondersi con la ballata di John Ball, una delle cui strofe più famose recita: "Se siamo tutti discesi da un padre e una madre, Adamo ed Eva, come fanno i signori a dire o a dimostrare che essi sono più signori di noi, se non perché ci fanno vangare e zappare la terra per poter dissipare quanto noi produciamo?"
E così giungeremmo alla città di Londra. Qui per la prima volta nella storia del continente, un popolo tagliò la testa al suo re. Era il gennaio del 1649, quando gli inglesi stabilirono che chi comanda può farlo solo in favore del popolo, mai contro. Ma noi ci sposteremo più a sud, verso i sobborghi.
Passeremo prima da una piccola chiesa, dove nel 1647 i portavoce dell'esercito rivoluzionario di Cromwell pretesero di incontrare il proprio stato maggiore. Spiegarono agli alti ufficiali che se i ceti più umili erano buoni per combattere contro il re, dovevano anche avere diritto di voto. Due anni più tardi alcuni reparti dell'esercito in partenza per l'Irlanda dove avrebbero dovuto reprimere la rivolta cattolica, si ammutinarono rifiutandosi di salpare. Ammainarono la bandiera con la croce di San Giorgio e sui loro cappelli affissero una meravigliosa coccarda verde mare. Un verde appena un poco più sbiadito di quello di Robin Hood.
Potremmo poi spostarci ancora di qualche miglio e salire sulla Collina di San Giorgio, nel Surrey, dove il 1 aprile del 1649 un gruppo di contadini comincio' a dissodare il terreno in comune, rifiutando la proprietà privata della terra e le recinzioni padronali che la rendevano inaccessibile. Per questo furono chiamati Zappatori.
Con la loro canzone sulle labbra attraverseremmo lo stretto per approdare sul continente.
La tappa successiva sarebbe Parigi, dove un altro re, che però non era più re, ma già il semplice Monsieur Capet, perse la testa, letteralmente, perché aveva venduto il suo popolo.
Della canzone di Parigi, che è un coro a mille voci, ne sceglieremmo forse una, giovane e tonante, quella di un imberbe rivoluzionario detto Louis de Saint-Just, che un giorno del 1789 disse: "E' nato un sentimento nuovo in Europa: la felicità ".
La canzone di Istanbul
La terza canzone parte da una città di confine tra due continenti. Un confine tanto rarefatto quanti sono i nomi della città stessa: Istanbul, Costantinopoli, Bisanzio.
Potrebbe essere la canzone di un ritorno, quello di un giovane cristiano, portato via dalla devçirme, la "raccolta", dei dominatori ottomani, il tributo di giovani maschi che la Bosnia pagava all'Impero turco. Giovani che venivano portati a Istanbul, convertiti, e avviati alla carriera militare, diplomatica, amministrativa. Tra XVI e XVII secolo, ben nove gran visir furono di origine bosniaca. La nostra canzone dunque parla di una compenetrazione secolare.
E ci porta a Sarajevo, per parlarci di guerra. Ma in quella città noi sceglieremmo una canzone diversa, cantata in una lingua arcaica.
Il canto dice che il termine serbo-croato "hrvat" ("croato"), non è una parola slava. Deriva dall'antico iraniano e significa "amico". La parola serbo-croata "serv" ("serbo"), deriva anch'essa da un antico termine iraniano, "charv", che unito al suffisso "-at" produce la parola "Hrvat": croato. I serbi e i croati sono la stessa cosa, ovvero due tribù slave con caste dominanti iraniane, che penetrarono nei Balcani provenienti dal nord del Caucaso.
Con la canzone degli amici dunque, muoveremmo alla volta di Budapest e di Praga. E la canzone diventerebbe quella della fine del "sogno" sovietico.
Ma non solo. A Praga, in una piccola sala da the che profuma d'antico e in cui si dice andasse a meditare Franz Kafka, ci verrebbe forse raccontata un'altra storia. Quella del rettore dell'università , Jan Hus, che un secolo prima di Lutero predicò contro la vendita delle indulgenze e l'arricchimento del clero a scapito dei ceti più poveri, e per questo fu arso sul rogo.
Alcuni dei suoi seguaci, operai, artigiani, contadini, salirono su una montagna, che ribattezzarono monte Tabor, proclamarono il sacerdozio universale e l'eguaglianza degli uomini. Dando inizio a una rivoluzione che, con alterne vicende non si sarebbe più fermata.
Nella primavera del 1521, proprio a Praga, Thomas Müntzer predicò le sue teorie più forti, che scavalcavano quelle di Lutero e incendiavano gli animi dei ceti più umili, dando avvio al primo tentativo di rivoluzione moderna.
Camminando per le strade della città , potremmo imbatterci in un muro scrostato che lascia intravedere una vecchia scritta satirica, vergata dagli studenti della stessa università di Hus, nel 1968: "Fino all'ultimo con l'Unione Sovietica... ma non un secondo di più!!!"
32 anni dopo, in una limpida giornata di settembre, cortei provenienti da mezzo mondo hanno cinto d'assedio il vertice del WTO e della Banca Mondiale, segnando una tappa della nascita di un nuovo movimento. Anche in quel caso incontrarono i carri armati. Anche in quel caso ci fu battaglia. Ma quelle idee, che avevano attraversato i secoli, sono tornate ad aggirarsi per il continente.
Passando di canzone in canzone, di strofa in strofa, provenienti da tre vie diverse, potremmo dunque ritrovarci in un casuale epicentro del continente. Una città medievale costruita nella seconda metà del XX secolo. Legoland in scala 1:1. Norimberga.
Qui il vento non porterebbe canzoni, ma echi lontani di masse che marciano al passo dell'oca e adunate oceaniche davanti a un caporale imbianchino. La città cancellata dalle bombe e ricostruita tale e quale. Forse l'emblema stesso della rimozione. L'atto che la sancì fu un processo, finto anche quello, perché i vincitori che avevano già schiacciato i vinti potessero marcare giuridicamente la propria vittoria e inaugurare nuove stagioni d'eccidio.
Tuttavia il principio che guidava quei giudici era quello di bandire di diritto i crimini contro l'umanità dalla storia. Un principio interessante, sicuramente attuale.
Tre ipotetici viaggiatori, giunti fino lì, ognuno con il suo repertorio di canzoni, si sorprenderebbero a pensare che il tribunale più legittimo è proprio quello della storia. La storia che è sempre fatta dal basso, dalla moltitudine di comprimari in costante movimento. E che è davanti a questo tribunale che vorrebbero vedere processati i criminali di guerra: siano essi vinti o vincitori.
Con questa consapevolezza, con questa determinazione, con questa nuova canzone, riprenderebbero il cammino, lungo le vie dei canti d'Europa.
2-----------------------
EREBU
di Wu Ming 2
Quando ho fatto le elementari io, una ventina d'anni fa, ti insegnavano la geografia come un Guinness dei primati. La montagna più alta, il fiume più lungo, la capitale del. Oggi dicono che è sbagliato, che era nozionismo, ma a me non dispiaceva. C'era solo un problema: l'Europa.
Prendi la montagna più alta, il Monte Bianco. Imparavi a memoria quanto misurava. Imparavi che la vetta stava in Italia, la piantassero i francesi con le rivendicazioni. Imparavi il nome del primo scalatore che era salito in cima. Poi arrivava il tuo compagno di banco, col gigantesco atlante dell'Encyclopaedia Britannica e ti faceva vedere la classifica della montagne più alte. Categoria "Europe": Bianco al quarto posto. Incredibile. Primo Elbrus, su Caucasus USSR, secondo Dykh-tau, ancora Caucasus, terzo Kazbek, sempre Caucasus. Tutti sui cinquemila e passa metri. Com'è che nessuno ti aveva mai parlato di questo Caucaso? Stavano tutti a perdere tempo con gli Urali, per decidere se l'accento andava lì, oppure là, oppure come "utensili", che si poteva dire in tutti e due i modi, e intanto non si accorgevano di questo buco, in fondo alla cartina d'Europa, che spesso manco ci arrivava, fino al Caucaso.
E se il Caucaso era in Europa, anche il Mar Caspio doveva esserci, almeno una sponda, e allora altro che Ladoga e Onega, era quello il lago più grande del continente, e lascia perdere che qualcuno diceva che non era valido, perché il Caspio era un po' salato e si chiamava mare.
Stessa musica con le città , argomento già di per sé delicato per la questione degli agglomerati urbani, che gonfiavano Parigi da due milioni di abitanti almeno fino a nove. Saltava fuori uno e ti diceva che la città più grande d'Europa era Istanbul, che stava in Turchia, cioè in Asia, ma in realtà era quasi tutta nel pezzo europeo. E comunque seconda c'era Mosca, te l'eri dimenticata? Russia europea, otto milioni di abitanti.
E per i fiumi, ancora a litigare, tra chi diceva Danubio e chi voleva il Volga, che in effetti stava di qua dagli Urali, sopra il Caucasus, e si buttava pure nel Mar Caspio.
Per gli altri continenti, niente di tutto questo: Rio delle Amazzoni e Aconcagua, Kylimangiaro e lago Vittoria, Fiume Azzurro ed Everest. Tutto liscio, nessuna contestazione.
Ma non sarà, per caso, che quest'Europa non è proprio un continente? Oh, bella - dice - E che è allora?
Assillato dai dubbi, nell'intervallo provavi a raffreddare il cervello con l'album di figurine, ma anche lì, il delirio. Per la Coppa Uefa, l'Inter andava a giocare a Trebisonda, sul Mar Nero, parte asiatica della Turchia. Israele intanto faceva le eliminatorie dei mondiali insieme alle squadre europee e il Maccabi Tel Aviv, nel basket, rompeva le ossa a greci e spagnoli.
Fortunatamente, in quei giorni d'innocenza, nulla potevamo sapere della rete Europa Cinemas, il network di sale cinematografiche nato per sostenere i film europei. Ci avrebbe solo confuso le idee. Prima di ogni proiezione, mini-sigla con elenco animato delle città coinvolte. Avete presente? Stokholm, Ramallah, Il Cairo, Damasco. Papà, ma Damasco non stava in Siria? Sarà mica Europa, la Siria. Con tutto che Bush non vede l'ora di bombardare anche lì...
Vabbe', fine della ricreazione. Mettevi da parte geografia, tiravi fuori epica. Il mito di Europa.
Questa Europa era un bellissima fanciulla bruna, sorella di Cadmo, il fenicio che portò l'alfabeto a Mileto. Aspetta un attimo. Se non sbaglio i Fenici stavano dalle parti del Libano e facevano le navi coi cedri. Vuoi vedere che Europa era la sorella di un libanese, e nemmeno lei si capisce bene se era europea oppure no? Forse allora questa sorella è nata dopo, quando Cadmo e famiglia si sono trasferiti a Mileto. Che a ben guardare sta sulle coste della Turchia, in Asia.
Che c'entra? - ti dice il libro di storia nell'ora successiva - quella, ancora nel V secolo la consideravano Europa. C'era la Grecia, c'erano le colonie della Ionia, e il punto più a Ovest era l'Adriatico. Tutto il resto, barbari. Dunque Mileto era in Europa. E a Mileto sbocciava la filosofia di Talete, Anassimandro, Anassimene. Una roba nostra, europea. Il primo dei tre, diventò una star per aver previsto un'eclisse. Aveva usato i calcoli di alcuni astronomi della Mesopotamia, ma non lo disse a nessuno. Secondo lui, tutto l'universo, sotto sotto, era fatto d'acqua. Anassimene no, preferiva l'aria. Anassimandro - uno che brevettava sotto banco invenzioni babilonesi - diceva che la sostanza di tutto era l' apeiron, l'infinito. Aspetta: uno dice l'aria, l'altro l'acqua, com'è che il terzo tira fuori l'infinito e non, che so, il fuoco, la terra, il legno?
Il professor Giovanni Semerano risponde che il termine apeiron non significa infinito, ma deriva dall'accadico eperu, arabo 'afr, ebraico biblico 'afar, che vuol dire polvere, l'innumerevole sabbia del deserto, ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai. Tutto è fatto di polvere, niente di strano. E questi Greci - giapponesi dell'antichità - non si accontentavano di calcoli e brevetti. Ai vicini della Mesopotamia, rubavano pure le parole. A proposito di parole: sempre in accadico ce n'e' una, erebu, che significa occidente.
E sì, pare che Europa venga proprio da lì - altro che Grecia - perché per le genti della Mesopotamia, l'Europa era il Far West. E insieme al nome, vengono da lì la matematica (anche il teorema di Pitagora pare non fosse proprio suo), l'astrologia, la medicina, le parole della filosofia e strumenti musicali come la lira dei lirici greci (kinura, in greco e kinnaru, accadico).
Tempo fa ho visto un servizio televisivo sull'Iraq, l'antica Mesopotamia. Lo definiva: "culla della civiltà islamica nel VII secolo". D'accordo, ma se invece avesse detto, "utero e placenta della civiltà europea"? Sarebbe stato più difficile bombardare Baghdad?
Forse no. Alcuni governi d'Europa, in quel caso, avevano rispolverato un antico dualismo caro ai Greci, sfruttato e riproposto fin dai tempi delle guerre persiane. La democrazia, la libertà , l'autonomia dell'Europa contro la tirannide, la schiavitù, il dispotismo asiatico.
I greci - eccelsi nello spionaggio industriale, ma tutt'altro che stupidi - se n'erano accorti presto di quanto fosse difficile tracciare un confine geografico tra loro, gli europei, e gli altri, gli asiatici. Come la fanciulla Europa aveva fatto di tutto per sottrarsi al corteggiamento di Zeus, così il nuovo continente sfuggiva tra le dita. Servivano concetti e idee per puntellarne l'identità .
Per un po' di tempo, la distinzione tra cittadini europei e sudditi asiatici, rimase buona. Poi arrivò Alessandro Magno e stiracchiò fino all'Indo il limite orientale dei suoi domini. A quel punto, che senso aveva distinguere asiatici ed europei, visto che condividevano lo stesso sovrano? E poiché il concetto di Europa era sfuggente, una volta svuotato finì per svanire di nuovo, lasciando spazio a dicotomie più ampie e significative.
Romano contro barbaro, ad esempio. Senza distinzioni se nascevi a Tagaste in Africa, come Sant'Agostino, o a Massilia, in Gallia. Purché non fosse oltre il Danubio, nella barbarica Pannonia, cioè Ungheria, cioè Europa.
Cristiano contro pagano, dopo il crollo dell'Impero. E Federico Chabod ci ricorda le parole di Paolo Orosio, che nel V secolo dopo Cristo ringraziava Dio per le invasioni barbariche, che avevano permesso a nuove popolazioni di conoscere la Buona Novella e farsi battezzare. Non male come monito, per chi vorrebbe chiudere i lucchetti alla fortezza Europa ed esportare democrazia oltre confine. Se vuoi comunicare con qualcuno, almeno invitalo a cena.
Infine, cristiano romano contro cristiano d'Oriente, dopo lo scisma. Franco contro bizantino, semplice e schietto contro complesso e infido, una contrapposizione che sopravvive nella lingua. Una contrapposizione che riporta in auge l'Europa, avversaria di Bisanzio, nella vicina Asia, e di un'Africa ormai musulmana. Cristiani d'Occidente ed Europei finiscono per identificarsi.
Ma la sovrapposizione tra confini ideologici e territoriali genera mostri e assurdità , così la Grecia, che un tempo chiamava sé stessa Europa, finisce ora dall'altra parte, in attesa che arrivino gli Ottomani a sequestrarla definitivamente, fuori dal continente che aveva tenuto a battesimo.
Di lì a poco, con le conquiste e i missionari, il concetto di "cristiano" si allarga di nuovo, troppo per sostenere l'idea di Europa e darle consistenza. Arrivano umanesimo, rinascimento e illuminismo: da Machiavelli a Voltaire serpeggia il bisogno di una nuova concezione, questa volta laica, dell'Europa e dei suoi cittadini. Un bisogno che è giunto fino a noi.
Dimostrando che davvero - senza volere scomodare i geografi - l'Europa è un mito, un'idea, prima ancora che un continente. Nella scuola di oggi, moderna e aggiornata, non bisognerebbe studiarla più nelle ore di Geografia - lì può fare tutt'uno con l'Asia. Piuttosto, è un argomento da Studi Sociali, una materia nuova, molto all'avanguardia, talmente all'avanguardia che nessun bambino di otto anni è ancora riuscito a spiegare di che cosa si tratti.
Un buon insegnante di questa materia, potrebbe partire dicendo che ci sono tante Europe.
C'e' quella dell'euro, del rapporto deficit/PIL, dei cittadini Schengen contro extracomunitari, come una volta si era Romani contro barbari, cristiani contro pagani, franchi contro bizantini.
Poi c'è l'Europa delle Coppe sportive. L'Europa del cinema. L'Europa che si respira a Parigi, Berlino e Madrid nei quartieri melting pot di Barbés, Kreuzberg, Lavapiés. Luoghi di esperimenti sociali e di conflitti, di dialogo e coltellate. Luoghi dove una nuova Europa, con fatica, sta cercando di sbocciare e di definirsi. E poi l'Europa di Firenze, 9 novembre 2002, all'immenso raduno del Social Forum, che è anche l'Europa contro la guerra permanente, continente diviso nelle scelte dei governi, compatto nella stragrande maggioranza dell'opinione pubblica.
Il bello dell'Europa, infatti, è che il mito non è mai riuscito a solidificarsi, a darsi una volta per tutte, a imporre la sua voce su quella degli uomini. Non è mai riuscito ad affrancarsi dalle inquietudini di un'epoca, dalle esigenze della politica, dalla riflessione dei filosofi.
Risultato: nessuno può richiamarsi a un'antica origine perduta, a una Tradizione, a una Gioventù Europea, a un territorio preciso - topografico e ideologico - con confini da difendere e purezze da preservare. Chiunque ci provi è destinato al ridicolo. Ciò significa che Europa è un mito ancora fecondo, utile, capace di abbracciare i nostri desideri e le nostre voci. Ciò significa che ci si deve sporcare le mani col fango di questo mito, senza temere che qualcuno ce lo strappi di mano per plasmare la statua del nazionalismo europeo o le mura di una Fortezza militare ed economica.
Grazie alla sua storia, alle sue vicissitudini. alla sua posizione geografica, "Europa" può diventare un concetto, una visione politica e sociale, un progetto di comunità umana ampio e condiviso, che allude a un territorio ma supera e demolisce la stessa idea di territorio, patria, nazione.
Non sarà facile, ma vale la pena tentare.
3----------------------
Sul sito abbiamo inaugurato una sezione speciale dedicata a "Giap"":
http://www.wumingfoundation.com/italiano/antologiap/antologiap.html
"Dean Martin Had A Hard On", un racconto di Wu Ming 1 scaricabile gratis, in fondo a questa pagina;
http://www.wumingfoundation.com/italiano/downloads.shtml
L'edizione in inglese di Q sta andando molto bene, la rassegna stampa è consultabile qui:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/rassegna/Qreviews.html
Molti nuovi testi tradotti in spagnolo e portoghese, rispettivamente:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/spanish_directo.htm
http://www.wumingfoundation.com/italiano/portugues_direto.html
4----------------------
[Mentre chiudiamo questo numero, ci giunge la notizia che, a una sola settimana dall'uscita, Giap! è al n.9 della classifica narrativa italiana della Demoskopea]
GIAP! - PRESENTAZIONI DEL MESE DI GIUGNO
4 GIUGNO - Mezzago (MI) "Bloom", via E. Curiel 39,
tel. 039/623853, http://www.bloomnet.org
12 GIUGNO - Ferrara
h.18:30, libreria "Mel Bookstore", piazza Trento e Trieste Palazzo San Crispino
tel. 0532.241604 melferrara@melbookstore.it
19 GIUGNO - Bologna
h. 18:30 libreria "Mel Bookstore",
via Rizzoli, 18
tel. 051.220310 melbologna@melbookstore.it
20 GIUGNO - Mestrino (PD)
Biblioteca comunale,
Piazza 4 Novembre 30
tel. 049/9003357, mestrino.biblioteca@libero.it
22 GIUGNO - Verona
h.21:30 Circolo ARCI Malacarne
via S. Vitale 14
tel. 045/8015203
sonicbenny@yahoo.com
27 GIUGNO - Mendrisio (Svizzera)
Spazio culturale autogestito "La Colonia"
lemox@ticino.com
5-----------------------
Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Comunicato stampa
"LE GUERRE DI VITALIANO" E GLI SFARFALLAMENTI DI "LIBERO"
Il giornalismo trash, come quello praticato dal quotidiano di Vittorio Feltri, può non piacere a tanti. Dobbiamo però ammettere che riesce anche a farti divertire, soprattutto quando infila uno dietro l'altro strafalcioni clamorosi, avvenimenti fantasiosi e allarmismi inesistenti.
Confessiamo che ci siamo sganasciati dalle risate radiografando il numero di Libero di domenica 18 maggio che in prima pagina sparava un allarmistico titolo "Uccidere un fascista? Si deve fare" e poi dedicava addirittura editoriale, servizio, cronache e commenti che riempivano l'intera terza pagina alla proiezione a Roma del video "Le guerre di Vitaliano. Il vietcong romagnolo".
L'iniziativa, tenutasi in due circoli del PRC di Roma in collaborazione con l'Associazione Culturale Jenin e la redazione di Radio Città Aperta, ha visto la proiezione della videointervista con Vitaliano Ravagli, uno dei militanti italiani partiti nelle brigate internazionali che combatterono in Vietnam nella lotta di liberazione prima contro i francesi e poi contro gli statunitensi.
La sua storia politica e personale è diventata anche un libro (Asce di guerra) curato dall'autore collettivo Wu Ming che ha avuto un grande successo.
Nell'intervista Ravagli parla della sua vita di povero nella Romagna prima e dopo la seconda guerra mondiale, della sua rabbia nel vedere che nel dopoguerra i repubblichini e i gerarchi fascisti venivano reintegrati nei loro posti di comando mentre i poveri... rimanevano poveri.
Di fronte alla sua voglia di vendetta (tra l'altro mai realizzata e anzi frustrata dai dirigenti del PCI) Vitaliano Ravagli accolse la proposta di andare a combattere in Indocina.
Tutto qui, raccontato in dialetto romagnolo stretto intervallato da immagini di repertorio sulla lotta di liberazione in Vietnam.
Su questo gli inviati di Libero costruiscono un castello fantasioso ed esilarante.
Una caduta di stile è sicuramente quella di affidare il commento al tutto ad una signorina con "le carte non del tutto in regola" come Francesca Mambro.
Di più, Libero si inventa un presidio di AN nel quartiere di Casalbertone come gesto di protesta verso la proiezione del film quando di tale presidio nessuno dei presenti si è mai accorto né ha avuto notizia: nello stesso pomeriggio nella piazza del quartiere c'era, questo sì, un comizio elettorale dei DS, ma degli "scandalizzati" esponenti di AN... nessuna traccia.
Il giornaletto di Feltri cerca con ogni parola, con ogni implicito, con ogni non detto, di buttarla "in caciara" relativamente alla campagna elettorale e ovviamente non può che raccogliere la caduta dalle nuvole di Veltroni e Gasbarra (candidato del centro-sinistra alla presidenza della Provincia di Roma).
La massiccia "campagna di affissione" del manifesto dell'iniziativa corrisponde poi al numero "rilevante" di ben 120 manifesti in una città praticamente incartata dalla campagna elettorale.
Infine, Libero pubblica una foto del tavoletto della presidenza del circolo del PRC con il manifesto che convocava l'iniziativa ed un busto. Nella didascalia si dice che è un busto di Stalin ma è evidente anche dalla foto che si tratta di un busto di Lenin. Difficile dire se si tratta di ignoranza o di paranoie.
Insomma il giornalismo spazzatura riesce a fare due pagine su niente. Una capacità invidiabile.
Ci si può arrabbiare per questo? Noi non ci siamo riusciti, anzi, ci stiamo ancora ridendo sopra. Che dire? Vai Libero continua così, fare le rassegne stampa può avere il suo lato divertente.
Roma, 20 maggio 2003
Associazione culturale Jenin
Radio Città Aperta
Circolo PRC "Guido D'Angelo"
[Wu Ming 1:]
Era una storiella ridicola già prima dei risultati elettorali, oggi (dopo la disfatta di Moffa e dei suoi camerati) retrocede addirittura al rango di inezia.
Di una cosa sono certo: Libero ha una diffusione molto minore di quella di Giap, e anche Asce di guerra ha venduto più copie di quante riesca a piazzarne l'antifrastica testata.
Riguardo poi alla camerata Francesca Mambro che oggi, "con la mardénna såtta al nès", osa farci il predicozzo sulla violenza, mi limito a ricordare che, tra le varie eroiche imprese, agguati, esecuzioni, massacri, costei il 5 marzo 1982 ammazzò Alessandro Caravillani, 17 anni, "colpevole" unicamente di passare per caso sul luogo di una rapina mentre si recava a scuola.
Che dire alla signora Giusva che non sia già contenuto nell'immortale esortazione: "Vá ban a fèr däl pugnàtt"?
[N.B. Le traduzioni dal bolognese sono in calce a questo numero di Giap]
6----------------------
SUL PROGETTO DI RACCONTO OPEN SOURCE "LA BALLATA DEL CORAZZA"
<<Allora.
Dopo aver letto gli intenti e il progetto del Corazza, mi dico:
Il fatto che la letteratura sia frutto della collettività e non del singolo isolato "genio" è innegabile. Nessuno si siede al tavolo e scrive l'opera del secolo così , su due piedi, solo soletto. Senza richiami, senza dialogo, senza colloquio con tutti quelli che son venuti prima e tutti quelli che verranno poi. E' evidente che sia impossibile. O che il risultato scritto sarebbe una gran cagata.
Come ti dicono al liceo: se vuoi scrivere bene, leggi molto. Anche questa cosa da prof secondo me va pigliata con le molle. Più che leggere molto, occorre leggere bene. Andare in cerca dei libri, o essere pronti ad accorgersi del loro richiamo, che è poi la stessa cosa anche se un po' alla Richard Bach dei miei stivali ohinoi e il gabbiano Livingstone.
Ma lasciamo perdere e torniamo al discorso. Ecco dicevo che basta leggere le cose giuste. Ognun per sé sa quali siano, dopo un po' si regola. Certo, che sia sempre aperto anche a quello che non gli sconfiffera, ma col dovuto senso critico. E' importante farsi un gusto. Entrare in una dimensione precisa, trovare delle cose in particolare. Non so ancora se condivido l'idea che possa esserci un amore incondizionato per la letteratura... insomma, non credo che si debba giustificare tutto e trovare del buono in tutto... penso a certi scrittoracci che mi son venuti sottomano e che, per non razzistare così per sentito dire, ho letto. Poi si può dire che personalmente facciano schifo. Ma tant'è, ho deviato da quello che cercavo di dire.
Ecco dicevo appunto. La collettività. La comunità letteraria. Lungi da me l'idea che sia un' élite. Anzi, leggo spesso cose scritte da perfetti sconosciuti, che non hanno mai pubblicato uno straccio di niente, che non appartengono al circolo "ufficiale" dei leggibili. Se uno scrive bene, ce lo si gode, e che ne goda la più ampia gamma di gente possibile.
E che i libri possano essere scaricabili dalla rete è cosa buona e onesta, dati i prezzi proibitivi. Stessa roba che per la musica. Ma da qui a poter mettere le mani in pasta su tutto, ce ne passa.
Ok per questo che è il vostro progetto e che funzionate così , ma se vado a vedere la cosa da un punto di vista diverso, mi sorge qualche dubbio. Mi piacerebbe parlarne un attimo con qualcuno.
Punto primo: ci sono cose che non hanno bisogno di paternità /maternità . Ci sono, sono uscite così ed è ininfluente l'autore. Ma nemmeno vanno più di tanto cambiate. Perché ogni opera, credo, si infila tra tutte le altre, è l'effetto delle altre, ed è una base in più per le opere a venire. Come un gigantesco domino.
Ma è proprio l'opera in quanto tale, a suggerire. E non va cambiata l'opera, il suggerimento non è verso l'opera stessa. E' più aperto, apre a nuove cose. Insomma, altrimenti avremmo un unico lavoro, rimaneggiato e irriconoscibile. Una Divina Commedia che parlerebbe in terzine di cyber.
Invece lasciamola come sta, la Commedia. Voglio poter attingere proprio a quelle parole, a quel modo di dirle, a quella distanza. E i romanzi postmoderni -tanto- son figli suoi allo stesso modo. Non è un dare troppa importanza alla "proprietà" dell'opera... Tanto la Divina Commedia l'ho scritta io. Giuro, ci son certi scorci che me li han strappati dalla testa e li ho trovati lì. Oppure l'ha scritta ognuno di quelli che l'ha riscritta, e che sente sue delle parti, non è questo che mi frega. Io l'ho trovata scritta un po' dappertutto. Parlo della Commedia per dire un esempio alla base della nostra letteratura... ma lo stesso discorso vale anche per tutto il resto.
Io ho scritto anche un casino di racconti di Carver, delle poesie della Rosselli, delle immagini di Tondelli, dei pezzi di Beckett, di Leroy, di Houellebeq... ho scritto un fracco, così come tutti quelli che leggono.
E non mi cruccio di riusare certe loro parole, immagini, frasi. Semplicemente, perché non sono "loro". Non c'è possesso, non c'è merito, in letteratura.
Forse l'unico merito è quello di essere stati in ascolto al momento giusto in cui quella cosa doveva uscir fuori. Poi, io o tu non importa.
Ma rimane il fatto che la cosa-da-dire esce nel modo e nella lingua di uno preciso, che magari poi sperimenta sulla parola, gioca, inventa a modo suo. E a partire da quel suo fare, tutti gli altri fare che vengono dopo ma anche prima- sono condizionati.
Ma non c'è per questo motivo di fare robe collettive, di andare a riscrivere quello che è già scritto. E' un dare troppa importanza all'autore, cercando di spersonalizzarlo, di privarlo di identità . A che serve?
Tanto l' "io" l'ha già perso nel momento in cui si è messo giù a scrivere. S'e' già dato in pasto. Non vedo perché cavargli anche il suo stile andando a ravanare e a riscrivere. Se la cosa è migliorabile, allora che la si riscriva. Ma la riscrittura è sempre un'altra cosa... nuovo autore, nuovo mondo, eppure lo stesso.
Insomma, vorrei sapere cosa ne pensate. Grazie per l'attenzione e per lo spunto che m'avete dato a riflettere.
A presto, se mi risponderete.
Pars., 04/05/2003>>
[Wu Ming 2:]
Dunque, caro Pars, inutile dire che sono d'accordo col 99% della tua analisi.
Vorrei però concentrare l'attenzione da una parte su quell'1 che resta fuori, dall'altra sulle intenzioni del Racconto Open Source.
Buona parte del tuo discorso si basa implicitamente su una questione delicata: il concetto di opera "finita" . Per uno scrittore professionista, un'opera è finita quando la consegna all'editore. Per l'editore è finita quando viene pubblicata. Per il lettore è finita quando legge l'ultima frase. Per uno con l'hobby della scrittura è finita quando la fa leggere agli amici, o la mette nel cassetto, o la riprende in mano, dieci anni dopo, la sistema e la spedisce a una casa editrice.
Prendi Carver. I suoi racconti 'finiti' - quelli che spediva all'editore - erano molto più lunghi di come li conosciamo. Responsabile dei famosi finali sospesi alla Carver è il suo editor, un certo Gordon Lish, che tagliava intere cartelle dall'opera finita dell'autore. Migliorandola.
I grandi romanzieri dell'Ottocento che pubblicavano a puntate sui quotidiani (Zola, Balzac, Dumas, Salgari...), quasi sempre facevano uscire i primi capitoli sui supplementi domenicali senza aver "finito" le opere nella loro interezza. Erano i commenti dei lettori a far prendere una piega diversa alla narrazione, a far morire il tal personaggio, a spostare l'azione da Parigi a Bordeaux.
Quest'ultimo esempio è esattamente quello a cui ci siamo ispirati per il Racconto Open Source. Un racconto che non è "finito", perché chi l'ha scritto non è stato lì a limarlo più di tanto. Ci siamo detti: perché non provare a modificare l'idea di opera "finita"? Scrivere un racconto che non finisce quando l'autore scrive l'ultima frase, e nemmeno finisce quando compare pubblicamente, e nemmeno finisce quando qualcuno lo finisce di leggere... Più o meno come succedeva alle storie, ai racconti, ai miti prima che esistessero gli editori e il loro potere di stampare una "versione definitiva", ufficiale.
Per definizione, dunque, l'idea di opera finita non si applica a un racconto aperto, sarebbe una contraddizione.
Certo il racconto ha un suo stile, benissimo. Ma chi l'ha prodotto ha deciso di chiedere all'intera comunità dei lettori di non fare "solo" i lettori, per una volta, ma di provare a trasformarsi in editor.
Se tu fossi il mio editor cosa suggeriresti? Taglieresti qualche frase, qualche aggettivo? Riscriveresti dei pezzi? Accentueresti delle riflessioni, ne asciugheresti delle altre? Il finale ti piace così com'è o te ne piacerebbe uno diverso?
Per i lettori di Dumas e compagnia era molto naturale scrivere commenti di questo tipo. Forse oggi s'è persa l'abitudine, non so. Forse non si ritiene giusto "aiutare" uno scrittore. Che s'arrangi, ecchecazzo. Che mi dica quando ha finito e mi faccia giudicare.
Stiamo a vedere se è davvero così.
Alla prossima,
WM2 (Giovanni)
[Pars:]
ciao wm2,
devo dire che la tua risposta mi ha abbastanza convinto, soprattutto per un fatto: la distinzione tra opera "finita" e racconto "aperto", nel senso che sono due cose separate, proprio nell'intento.
Avevo posto la domanda partendo da una generalizzazione che -ora mi è chiaro- avevo frainteso.
Mi era parso, navigucciando nel vs sito, che questa cosa della letteratura collettiva fosse proprio una vostra istanza, mentre invece evidentemente non è così. anche perchè promuovete poi anche opere di voi wm 'individuali', come quella del Pedrini, se non vado errando.
Questa cosa delle riscritture/tagli carveriani la sapevo, e ci avevo pensato un bel po'.
Fatto sta che mi pare comunque un pochino diversa: un editore, quando è in gamba sul serio, ha secondo me il piglio e quasi il "diritto" (prendi ti prego con le pinze codesta definizione-se così vogliamo chiamarla) di dire la sua. Certo, anche il lettore ce l'ha, ma è diverso.
Ad esempio, conosco un po' come si muoveva il gruppo di Transeuropa ed era proprio così. Gli autori c'avevano quasi il panico, nel portare all'editore ciò che per loro era 'finito'. poi questo, insieme al gruppo ma anche autonomamente, dava suggerimenti e faceva tagli.
Ma dev'essere così anche ora, se uno si va a leggere delle parti di De Marchi (mi pare nell'ultimo romanzo, che è stato poi preso da Rizzoli). E' come una piccola comunità, un gruppo che lavora assieme su qualcosa che il singolo propone. ci deve essere grande fiducia, stima, e comunione di gusti, questioni, intenzioni.
Quindi, su definitiva approvazione dell'autore, si dà alle stampe, considerando l'opera "finita" .
Certo, si deve partire dal presupposto di trovare buono lo spunto iniziale, il romanzo o racconto proposti... sennò chissenefrega.
Esemplare il fatto che la versione di "Cattedrale" scritta dalla Gallagher (intitolato mi pare "la pioggia ti spegne il fuoco dell'accampamento") come "controracconto" non se lo sono poi inculato più di tanto.
E dire che loro hanno anche lavorato quasi a due mani (Cathedral come titolo l'ha proposto lei). Personalmente poi, a me non è piaciuto per niente e lei la trovo piuttosto scialbetta rispetto a lui, ma questo è tutto un altro discorso.
Comunque, un racconto "aperto" nasce proprio da un punto di vista diverso.
A parte il fatto che immagino selezionerete un minimo i consigli ricevuti, partendo magari da evidenti affinità e dal vostro gusto. comunque, è un'altra cosa proprio.
Così mi sta bene e mi è più chiaro. E comunque non intendevo dire che lo scrittore non va aiutato, anzi. Credo lui stesso sappia di aver davvero bisogno di ascolto e cura.
Solo, dicevo che forse, in certi casi, occorre un uditorio preciso, piuttosto che non un referendum creativo. Ma, ribadisco, la storia è diversa se si tratta proprio di una consapevolezza non generalizzata... e se a te sembra che il tuo racconto non sia convincente del tutto, e ritieni valida l'opzione di migliorie possibili da parte di un pubblico, allora son con te, e mi pare persino una cosa interessante.
Quindi, magari se ti interessa ti farò avere un qualche suggerimento, se mi viene poi in mente.
A presto,
pars
***
Ricordiamo che il racconto "La ballata del Corazza" è scaricabile qui:
http://www.wumingfoundation.com/italiano/opensource/opensource.html
Ringraziamo chi ha già spedito commenti, proposte, riscritture, e ringraziamo quintostato.it per l'attenzione dimostrata.
Invitiamo chi non lo avesse già fatto a scaricare, leggere, interagire.
6-----------------------
Solidarietà a Radio Onda d'Urto
Con colpevole ritardo dovuto all'affastellamento di impegni dell'ultimo periodo, non abbiamo ancora espresso pubblicamente la nostra solidarietà a Radio Onda d'Urto di Brescia, i cui studi sono stati distrutti da un incendio divampato in un cantiere limitrofo. E' successo qualche settimana fa.
Un prezioso archivio di registrazioni, storie e testimonianze sul conflitto sociale degli ultimi vent'anni è oggi ridotto a un mucchietto di cenere e plastica squagliata. La radio, pur con grandi difficoltà , ha ripreso subito a trasmettere. Date un'occhiata alle foto degli studi subito dopo l'incendio, per capire quanto la trasmissione dei saperi e delle storie sia un processo da difendere dal nemico, dall'impietoso trascorrere del tempo... e anche dalla sfiga. è in corso anche una sottoscrizione. Il sito della radio è : http://www.radiondadurto.org/
---------------
Traduzioni dal bolognese:
"Con la merdina sotto il naso"
"Orsù, rècati a fare delle seghe!"
§
Iscritt* a Giap in data 29 maggio 2003: 3859
Tutti i numeri arretrati sono archiviati qui
http//www.wumingfoundation.com/italiano/Giap/numerigiap.html#ultimo