NANDROPAUSA #3bis - Le recensioni dei giapsters - 29 gennaio 2003



1. Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo (commenti di TDL, Claudio, Damiana Maria, Fab + una glossa di Angelo N.)
2. Educazione di una canaglia di Edward Bunker (commento di Elisabetta)
3. La banda Bellini di Marco Philopat (commenti di Anna Luisa, C., Luca, Synner)
4. Le grandi speranze di Harry Fabian (articolo di Wu Ming 5)
5. A proposito di Ti chiamerò Russell, romanzo totale (testo di Wu Ming 2)



GIANCARLO DE CATALDO, ROMANZO CRIMINALE (EINAUDI STILE LIBERO BIG, TORINO 2002)

[...Tieni conto che essendo stata pensata come recensione ci sono una serie di cose che dopo tutto quello che avete scritto voi, di fattura sicuramente migliore di questa, può essere tolta. Fai tu, prendi, stacca, rimonta, falla a pezzi, rimandamela indietro se ti fa cagare. Stai bene, T.]

Su una cosa non è lecito avere dubbi: questo intricato, denso, incredibile romanzo di Giancarlo De Cataldo, diventerà, se non lo è già, il libro-culto per quei lettori che cercavano affannosamente, nei cataloghi delle case editrici e tra gli scaffali delle librerie, una risposta italiana alla letteratura di James Ellroy.
Un altro fiore all'occhiello per la Big di Einaudi Stile libero, sotto-collana che ha indovinato tutti i colpi, o quasi.
De Cataldo ha sporcato più volte i panni letterari nel fondo limaccioso e torbido di un rigagnolo romano. Dalle parti della Magliana. Il risultato? Una potente e babelica sinfonia in cui si mischiano il siciliano allusivo degli uomini d'onore, il romanaccio di coloro che sfacciatamente hanno assaltato il firmamento criminale della Capitale e il napoletano barocco che copre tradimenti, raggiri ed infedeltà.
Romanzo criminale vive nelle sue opzioni espressive, esorcizzando con meticolosa attenzione il fantasma della caricatura. Alla scuola di queste 628 pagine dovrebbero andare a ripassare quegli scrittori che di recente hanno praticato una via dialettale alla letteratura. Per primi i "disertori" che un paio di anni fa dicevano di bazzicare la "frontiera" di una nuova narrativa meridionale.
Dovendo scegliere tra gli asettici laboratori di una presunta Letteratura, con l'iniziale maiuscola, e il marciapiede del "genere", preferiamo, a dispetto di tutti i pregiudizi inconfessabili ma ben radicati, il secondo.
Noi continuiamo a stare col Libanese.
Certo, c'è del grottesco in Romanzo criminale, ma è il "buffo" della strada, dell'idioma popolare, delle brillanti sintesi di chi è abituato a non dover dire mai più dello stretto necessario. In certi posti, si sa, la vita di un uomo è legata al filo di un'informazione.
Scongiurata - in un purgante e salvifico bagno di crudeltà, cinismo e interesse - l'edulcorata e melensa retorica generazionale, De Cataldo dà corpo alle inquietudini di un'epoca. Ai "delicati" anni Settanta, che se li prendi male fanno tanto "abbiamo provato e abbiamo perso" e prenderli bene è estremamente difficile.
Attraverso il ribaltamento sfacciato dei punti di vista si svolge la storia di un gruppo di intraprendenti malavitosi. In parallelo corre la Storia di un decennio. Dal rapimento Moro all'inizio degli anni Novanta, passando per la strage alla stazione di Bologna e le allegre passeggiate degli uomini dei servizi segreti sul luogo del macello.
Nelle spericolate curve di quest'intreccio il lettore si trova calato nei panni di fascisti, poliziotti e banditi. E va anche detto, senza pudore e convenienze, che fino a un certo punto ti ci affezioni pure.
Le prospettive tradizionali, più consone e rassicuranti, quella del compagno brigatista "che sbaglia", del compagno braccato e sfigato, del compagno in galera, diventano le variabili di un disegno entropico. Di un algoritmo, sostanzialmente anarchico, le cui meccaniche ben oliate finiscono per incepparsi.
Nessun grande Vecchio può prevedere tutto, nessun Piano è veramente perfetto, gli esiti sono imprevedibili e neanche la mente più lucida può anticipare il gioco di evoluzioni imponderabili.
Prima di Romanzo criminale eravamo lì a ritmare, con una mano sui testicoli, il triste finale de Gli invisibili: "vedere dove sono dove siete quando eravamo mille diecimila centomila non è possibile che fuori non c'è più nessuno non è possibile che non sento più niente". Oggi, mentre le porte dell'ascensore si chiudono alle spalle del segugio inflessibile, che crede di essere il potere, godiamo per quella "piccola, dolorosa fitta in fondo al cuore" del dottor Scialoja.
Alla fine il modo per liberarsi degli sbirri e dir loro addio è stato raccontato. E nella maniera più irriverente e beffarda, perché Nicola Scialoja pensa di aver vinto e invece ha perso. Tutto.
Ci voleva un magistrato? A quanto pare...
Il resto è storia di oggi.

TDL

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Dopo pagina 628, ho continuato il romanzo su Internet tra dossier, sentenze, articoli di giornale. Volevo vederli negli occhi, se c'erano, Il Libanese, Dandi, Il Nero. Li ho trovati. Non tutti, non chi mi interessava di più, perché in verità io cercavo lo sguardo di Patrizia, ma di lei, madame Bovary dagli occhi di ghiaccio, in rete solo qualche impalpabile allusione.
Interrogavo i motori di ricerca con le frasi più assurde, come uno che va dall'oracolo con la furia di un allupato di siti porno. Niente.
L'effetto collaterale è stato positivo: mi sono passate davanti tutte quelle vicende trascorse mentre io mangiavo latte e biscotti a merenda, guardavo bimbumbam e facevo i compiti... Er Negro, Renatino, Carminati, Mancini, Abbruciati, Moretti...i nomi "veri"!
Ma "veri" dde ché, poi? E' questo che conta?
La questione della corrispondenza alla realtà può essere irrilevante. La potenza del racconto non è di verificare i fatti o di stabilire corrispondenze con la realtà, ma di ri-crearli. Quei fatti non sono "veri" perchériferiti a una serie di accadimenti. Sono "veri" perché' diventano tali, perché istituiscono una linea di coerenza (mitopoiesi?).
Quello che ho apprezzato molto di Romanzo Criminale è che non lascia il minimo sapore di indignazione o amarezza, ma genera controllo, potere, sulle vicende narrate, mette in mano strumenti utili per lavorare a ulteriori storie. Mi ha fatto sentire un po' come il "Vecchio", in grado di giocare.
Siamo dunque condannati a credere "vere" solo le storie coerenti, che filano bene?
Sì e no. Sì perché l'abbiamo fatto sempre. No perché queste storie devono essere argomentate. Il mio pregiudizio, per quanto puerile e tautologico, è che la storia più coerentemente argomentata, che ha senso, è sempre quella più attendibile e riscontrabile.
Se cerchiamo come sono andate le cose nella "Storia ufficiale", per come lo stato ce l'ha raccontata, troviamo paradossi, lati oscuri, voragini: ogni ricostruzione su queste sole basi non può essere coerente senza cadere nella banalità, nel "tanto è tutto un magna magna", nell'indignazione, appunto (e come dice Marco Paolini, l'indignazione in Italia dura meno dell'orgasmo).
Tutte le volte che questa banalità si è perpetuata, non ha fatto altro che ricreare la Storia Ufficiale: essa è mitica, non riscontrabile, ogni tentativo di svelarla è propaganda o terrorismo. O ci credi o no.
Le storie, al contrario, sono il campo magnetico che ha origine da quei paradossi, sono il lavoro faticoso e senza fine di chi li esplora e racconta, sono quello che "la certezza del diritto" (o del mercato) non ha le palle (o il tempo o i soldi o la voglia) per tirar fuori.
Così De Cataldo mette le mani nel fango, dissoda in profondità, con pazienza, fa leva con intelligenza sulla sua posizione di giudice, semina bene e noi tutti ne raccogliamo frutti copiosi.
A questo punto non c'è neanche da preoccuparsi se un romanziere (o peggio, un giudice!) si mette a fare il mestiere dello Storico.
Raccontare è forse un esclusiva? Casomai c'è da chiedersi quanti sono gli storici (e i giudici, e quant'altri) che non si sono ancora messi a scrivere!
Buon 2003 Wu Ming, e che sia per tutti un anno fertile di storie

Claudio

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ok, cari wumings,
è un po' che sono abbonata alle vostre newsletter, e approfitto oggi per rispondere dicendo la mia sul libro Romanzo Criminale di De Cataldo.
Dopo questa pietosa introduzione adatta a una rubrica poco meno elevata di una "posta del cuore", espleterò le mie funzioni di giapster, cercando di utilizzare un linguaggio consono alla vostra rubrica (so che sa di presa per il culo, ma di mestiere io sono consulente informatica, non pretendete mica che sappia anche scrivere in italiano!)
Completata l'introduzione, affrontiamo l'argomento. Io sono romana, nata e vissuta a Roma, e ben conscia del clima e del linguaggio che fa parte integrante di questa città.
Non sono però a conoscenza (se non in maniera molto marginale) del mondo che descrive (mia madre ringrazia), nonostante la mia infanzia sia stata vissuta in un quartiere marginale, popolare e piuttosto criminale come il Pigneto degli anni '70.
L'impressione che si ha a leggere il libro, è quella che probabilmente anche il De Cataldo conosce lo stesso mondo in maniera marginale, se non attraverso incartamenti vari, memorie personali e giornalistiche.
Ma la grandezza di questo libro secondo il mio parere risiede nel fatto che l'autore, oltre ad avere il coraggio di raccontare le stratificazioni che si erano create con le interferenze e le connivenze tra stragismo, servizi segreti deviati e non, criminalità comune, mafia e terrorismo, (non è stato il primo, né sarà l'ultimo a farlo), riesce però a farlo in maniera semplice e intuibile, tratteggiando in poche righe il clima di quegli anni.
Questo, più una certa gaddiana rimembranza ritrovabile nella spontaneità delle parole e delle frasi dei protagonisti, sommata a una certa descrizione di situazioni e ambienti romani di pasoliniana memoria, lo rende un libro assolutamente da leggere, in particolar modo apprezzabile a chi, come me, ha la città eterna nel sangue e nel cuore.
A tutto questo vorrei aggiungere la notevole considerazione che l'autore esprime per alcuni caratteri femminili di notevole personalità (Patrizia, ad esempio, ma anche Roberta, la donna del Freddo), che me lo fanno apprezzare ancora di più.
Grazie, si ha bisogno anche di libri come questi, per non sentirci soli, certe volte, ad andare avanti.

...Hasta la victoria, Damiana Maria


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Ho ricevuto in dono Romanzo Criminale per Natale, da parte della mia ex. Dico subito che rientra nella mia top ten dei libri letti nel 2002, e che lo rileggerò per farlo entrare anche in quella del 2003. Alcune cose che mi hanno colpito della lettura: Il linguaggio. I personaggi "parlano" con voci credibili, il dialetto è presente in maniera non fastidiosa (non mi esalta la letteratura dialettale, se ha come fine una recensione sulla stampa locale, se scade nel folkloristico, e quindi odio le storie che ogni tanto prevedono un verbo o un sostantivo dialettale) questa scelta è sicuramente apprezzabile. Un esempio cinematografico: mi ricorda i protagonisti de Gli Spietati di Eastwood, che parlavano rigorosamente con l'imperfetto. Le situazioni. Il Freddo che ammazza l'amico, la fine del Libanese, le azioni della banda sono raccontate in maniera impeccabile. Il Nero, ammetto di aver sorriso quando gli hanno sparato, ma anche lui ha una coerenza che te lo fa rimanere in testa (sembra D** P***!). I protagonisti. Dei gran bastardi, dei fascisti. Se li incontrassi personalmente [ovviamente si ipotizza e basta :-)] non esiterei ad agire di spranga, ma letti in questo modo ti restano attaccati. Una mia amica ha ricevuto lo stesso regalo dal fratello, e prima di finirlo mi diceva "ma lo ammazzano il Dandi, che lo odio?" [...] Questo per dire che un romanzo di cui puoi parlare con un'amica, senza rovinarle il finale, aspettando che lei ci arrivi per poter discutere ancora su quello che si è appena finito di leggere, se non è un gran romanzo ... Lascio per ultima una considerazione: il Libanese muore troppo presto, e il Nero, che non ne ha il carisma, instaura un rapporto che comunque non rende come quello esistente tra il Freddo e il Libanese. La compagna del Freddo mi sembra poco credibile, non so neanche io perché, ma sono piccolissimi appunti a una storia incredibile e consigliatissima.
A presto, fab.

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Vi prego Flamini no, non consigliatelo... Flamini ne Il partito del golpe (testo per altri versi fondamentale) ha scritto cose da brividi sulle Br, il superclan e soprattutto Toni Negri.

Angelo



EDWARD BUNKER, EDUCAZIONE DI CANAGLIA, EINAUDI STILE LIBERO BIG, TORINO 2002

Ho appena finito di leggere/divorare Educazione di una canaglia del grande Bunker.
L'ho conosciuto con Come una bestia feroce: un'illuminazione, e adesso questa autobiografia. Il merito delle biografie - e questa non fa eccezione - è che alimentano il rapporto affettivo che si crea con gli autori più vicini: per sensibilità, per l'abilità nel creare le storie, perché catturano, perché non ti fanno dormire finché non finisci il libro e poi ci fai l'alba.
E così prima di tutto io ho ritrovato un po' più da vicino, con meno schermi (ma non nudo, nella misura in cui la letteratura e la parola sono un mezzo), un autore che mi aveva incuriosito e che mi era piaciuto particolarmente. E poi, bisogna leggerlo, certo c'è meno "storia" che in un romanzo, ma mi sento assolutamente di consigliarne la lettura. Per la descrizioni delle prigioni californiane negli anni '50 e '60: la loro popolazione, il sistema di valori al loro interno, come fare a uscirne vivi e in buona salute mentale.
Poi sono interessanti i riferimenti sociali, le notizie sugli scontri razziali...
Un altro punto a favore del libro è la simpatia del suo autore, e uso volontariamente un termine "basso" e poco adatto a una recensione - seppure informale -, ma il tono scelto da Bunker è anche questo: si mette lì e ti racconta come è andata. Come è andata che fuggiva da tutti i riformatori e le case per bambini dove lo mettevano, come è andata quando ha organizzato i vari colpi, come è andata che poi ha fatto lo scrittore.
Con un linguaggio nitido, mai eccessivo, "preciso".

Elisabetta


MARCO PHILOPAT, LA BANDA BELLINI, SHAKE, MILANO 2002

L'eleganza e lo stile simili a quelli di un lupo di mare: scuro il maglione a collo alto, morbidi i pantaloni di velluto color whisky.
Siede, a proprio agio, accanto al bancone del bar.
Il colorito che accende il volto è l'effetto della mistura alcolica sorseggiata lentamente.
E' un narratore di storie a getto continuo.
Mi è apparso così, la prima volta, Andrea Bellini.

In preda a un fervore bulimico postnatalizio, ho trascorso i primi giorni di questo nuovo anno DIVORANDO La Banda Bellini, ultima fatica di Marco Philopat per le edizioni Shake.
Fonti attendibilissime mi informano che la prima presentazione del libro, avvenuta alcuni mesi fa presso lo storico bar Rattazzo di Milano, sia stata un vero e proprio evento.
Pare che nel corso della serata, almeno duecento copie del "romanzo" siano andate via come pane appena sfornato.
Si dice che dalle sette di sera, fino all'una di notte, l'afflusso di gente dentro il suddetto locale sia stato ininterrotto.
Sembra sia stata segnalata la presenza di persone che dagli anni '70 circa... non erano più state avvistate :-))

Per una notte, le gesta della "Banda del Casoretto",innaffiate da alcolici ad alta gradazione e accompagnate da... polenta e salsiccia (il sig. Rattazzo - sublime cuoco di poche parole - predilige la prassi alla teoria) hanno riscaldato gli animi e vanificato le insidie dell'imminente inverno meneghino.
Wu Ming, tramite Nandropausa,ha parlato con sottigliezza di questo libro di cui ogni pagina è degna di nota e citazione.
Mi limiterò ad aggiungere solo qualche riga a mo' di breve postilla.
L'episodio descritto a pag. 27 mi è stato narrato dallo stesso Bellini.
Stando alla versione orale,il finale della storia presenterebbe una piccola variante rispetto a ciò che è riportato nel libro.
Si tratta del racconto relativo alle sterline fuori corso (causa della cattura di alcuni esponenti della X MAS) consegnate dal comando fascista agli esecutori di una spedizione antibritannica.
In realtà, fin dall'inizio, la missione fu considerata suicida dagli stessi servizi segreti italiani: nessuno avrebbe utilizzato quei soldi in quanto nessuno si sarebbe salvato. Questo e non la negligenza dei funzionari fascisti, il vero motivo della consegna di denaro "scaduto".
E invece....

Infine, tanto di cappello a M. Philopat per avere scelto di narrare le gesta di Bellini e C. con una prosa asciutta che conserva l'immediatezza del parlato: uno stile narrativo godibilissimo che arriva dritto dritto allo stomaco e al cuore.

Anna Luisa.

P.S. Oltre a resoconti di mirabili mazzate, questo libro contiene una lucida analisi relativa a suddivisioni e contrasti nati all' interno dei movimenti ( stagione'68 - '77 ) della sinistra extraparlamentare; spaccature spesso dovute all'incessante riemergere di certe "attitudini staliniste" che purtroppo sembrano non passare mai di moda.

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Ho letto La banda Bellini da circa un mese: la lettura scorre eccome, ma nel complesso se dovessi consigliare la lettura di questo libro non lo farei in termini entusiastici.
E' come se mancasse qualcosa che ti tiene attaccato alla pagina.Comunque non arriverei a sconsigliarlo...
Che ne dite dell' autoproclamazione dell' autore sul retro libro (agitatore culturale)?
Sono curioso di leggere Nimier e consiglio di comprare o farsi prestare per poi non restituirlo Bunker.
A presto, buon...anno.

Luca

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Compadres, riguardo al romanzo di Philopat ecco un commentino a freddo (sia climatico sia perché fatto a distanza di qualche tempo dalla sua lettura).
Premetto che non ho mai particolarmente sopportato gli anni Settanta, li ho sempre trovati troppo cupi (di motivi ne avevano...). Almeno non ne ho mai sopportato le ricostruzioni storiche, le memorie "di chi li ha fatti", in senso politico, e mi piacerebbe che venissero definitivamente archiviati.
Ho però sempre amato le storie "popolari", quelle di chi racconta quello che faceva, dove era in quel tal momento, con chi era alla tal manifestazione, cosa stava facendo etc. Per questo motivo La Banda Bellini mi è piaciuto. Mi è piaciuto perché la loro storia è una di quelle con la esse minuscola, che però costruisce insieme alle altre la Storia con la esse maiuscola.
E' divertente, nel senso migliore del termine, leggere della "normalità" di un periodo, vedere come persone normali, come avrei potuto essere io, lo vivevano e come lo ricordano, senza sprofondare nella retorica resistenziale (anche se l'ultimissima parte sembra che ci scivoli) e senza il politically correct militonto.
Sembra di essere in un bar e sentire qualcuno parlare del suo passato (per certi aspetti, non l'età, mi ricorda molto mia nonna quando mi raccontava della resistenza).
E poi, piccolissima e immeritata punta di orgoglio, abitare a Lambrate rende il tutto ancora più sentito!
In ultimo una strana coincidenza: anche la Volante Rossa era del Casoretto.
Casualità o destino?

C.

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LA BANDA BELLINI: (MACHO) MUCCHIO SELVAGGIO
di Synner, tratto da http://www.thething.it

L'epico racconto della maschilità militante degli anni Settanta. E' La banda Bellini di Marco Philopat, romanzo che mette in scena la Milano tra il pre '68 e il '77, le gesta dei ragazzi del Casoretto, quartiere di periferia, il servizio d'ordine più efficace della città.
Un mucchio selvaggio che cavalca, ha scritto Toni Negri, "la transizione dall'operaio massa all'operaio sociale", dal conflitto di fabbrica a quello metropolitano.
E lo fa con i vestiti giusti: lunghi trench verdi e occhiali Ray Ban a goccia, stile inconfondibile, perfetto per dei cultori del western sovversivo alla Sergio Leone e Sam Peckinpah fatto non più di integri eroi alla John Waiyne ma di uomini brutti, sporchi e cattivi.

La narrazione è affidata alla voce tonante di Andrea Bellini, le cui memorie corrono come un fiume in piena, conservando tutta la potenza dell'oralità grazie al filtro sapiente e discreto di Philopat, già autore del piccolo cult Costretti a sanguinare. Romanzo sul punk 1977-84.
Nelle pagine ribollono guerriglia urbana e lacrimogeni, gioioso ardore antifascista e occupazioni, Bordiga, Clausewitz e ...dosi massicce di testosterone.

L'ormone di Andrea impazzisce quando, nel 68, cresce il tasso erotico della vita quotidiana e ragazze disinibite spiazzano i maschietti con un'inedita disponibilità al sesso che, da affare privato si fa, d'improvviso, pubblico.
E' roso d'invidia per i capetti del Movimento Studentesco, circondati da "donne scalpitanti - risolini e urletti lascivi".
Poi, quando diventa anche lui un leaderino, biondo, capelli lunghi, alto un metro e novanta, è la rivalsa e il trionfo dell'orgoglio fallico.
Ma l'irruzione del femminismo è uno shock. Rimane di stucco quando apprende che le sue compagne cominciano a vedersi in riunioni separate.
Ma di che cazzo parleranno mai in quelle riunioni? "Bevono il tè e si guardano la fika!" suggerisce il fido amico Sponta.
La prima femminista che incontra è "Clelia -una spaccacoglioni- che ha iniziato a tirare fuori 'la questione femminile' - noi stavamo parlando di tutt'altro - di scontri del servizio d'ordine dell'organizzazione - insomma roba seria - ed è saltata fuori questa intellettualina di Lc avvolta in una nuvola di patchouli a pontificare sul nulla".
Quelle che vengono dopo sono "Galline che starnazzano di identità femminile e separatismo mentre c'è da parlare di cose serie". Insomma, un fenomeno incomprensibile.
Così, quando la sua compagna porta il conflitto sotto le lenzuola e lo sottopone a tremende "vivisezioni psichiche" , "più tremenda di una dottoressa nazista", come reagiste il Bellini? Vomita e si raggomitola in posizione fetale attorno al cesso.
Ecco allora che la maschilità militante, finalmente mostrata senza alcuna ipocrisia, senza nessun velo politically correct, con esilaranti pennellate di ironia feroce, entra in una crisi irreversibile.

[su thething.it è possibile lasciare commenti su questa recensione di Synner]

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Ciao ai Wu Ming e a tutti i Giapster. Ho letto La Banda Bellini di Marco Philopat, dunque sono qui a dirvi la mia. E' un libro percorso da un senso di invincibile rabbia, quasi sia l'unico sentimento possibile per sopravvivere, sempre bene raccontato dall'autore. In questo è meraviglioso, così distante dal modo di far politica di oggi: propone lo scontro con la polizia ed i fascisti come logica principale dell'esistenza. E' questo un libro che parla un linguaggio diretto, fatto di sensazioni forti, si fa terribile e amaro nelle ultime pagine, dove qualcuno magari si aspetta il lieto fine. La Banda Bellini ci parla dentro, dritto allo stomaco, racconta del senso di appartenenza, del coraggio e dell'amicizia ("non si vince mai da soli") di un gruppo di ragazzi che ha condiviso scelte estreme. Forse c'è un po' troppo testosterone, ossia è un libro consigliato ad un pubblico maschile, ma credo faccia parte della filosofia del libro, impostato un po' come un western. Se lo trovate (io ho avuto serie difficoltà proprio a causa della distribuzione della casa editrice), leggetelo: non vi mollerà un attimo. "Caaariiicaaa..."

Cosimo


LE GRANDI SPERANZE DI HARRY FABIAN, PAPPONE E GIOCATORE
A proposito di La notte e la città di Gerald Kersh, Fanucci, Roma 2003

di Wu Ming 5


Gerald Kersh, nato nel 1911 a Teddington-on-Thames, Londra, morto in miseria a New York nel 1968, conobbe in vita gloria e successo, a differenza dell'umanità più o meno disperata di Night & The City: durante la guerra scrisse un vero best-seller, They Die With Their Boots Clean, mai tradotto nel nostro paese. Da Night & The City (1938) fu tratto un classico come I trafficanti della Notte, diretto da Jules Dassin, e un pallido remake nel 1992 con Robert de Niro e Jessica Lange.
La sua pubblicazione in Italia colma un vuoto, perché Kersh è considerato nella Perfida Albione un maestro del noir (definizione che non s'attaglia del tutto a Night & The City), assai amato tra gli altri da Michael Moorcock e Joe R. Lansdale.
Dirò subito che ci troviamo di fronte a un romanzo non così tipico, insolitamente ricco di spunti e molto ben scritto.

L
e Grandi Speranze di Harry Fabian, nullafacente, pappone, giocatore d'azzardo e would-be gangster spregevole e patetico si riducono a una: che Londra si mostri benevola, e riconosca una buona volta il suo preteso talento, far soldi senza lavorare.
Campione di un arte d'arrangiarsi tutta britannica, ossessionato dal cinema americano al punto di affettare un accento yankee e di vantare amicizie col bel mondo hollywodiano, Harry Fabian cerca l'occasione della vita.
Con Figler, figura dickensiana di "uomo d'affari" convenientemente spregevole (vivida e tagliente la descrizione del giro di denaro con cui riesce a finanziare l'"impresa"), Harry Fabian si lancia nella promozione di incontri di lotta libera. Non ce la farà: Londra si dimostrerà dura matrigna.
La pasta morale del protagonista, un debole, un violento, capace di gesti ripugnanti, è quella del perdente.
Nell'economia di La Notte e la Città, Harry Fabian gioca in apparente equilibrio con due distinte nemesi. Adam, un aspirante scultore che abbraccia riluttante la night-life della Londra anni '30 per poi riscattarsi e dedicarsi alla vocazione, e Bert, il fruttivendolo cockney cui è affidato il compito di tirare le somme della vicenda umana di Fabian, vero, indiscutibile protagonista.
"Poteva combinare qualcosa, ma era troppo presuntuoso. Aveva cervello, ma era pigro. Aveva fegato, ma non gli andava di sporcarsi le mani. E' un peccato. Prendeva per eroi la gente sbagliata." Suona come un epitaffio: la prosa di Kersh è efficace, anche se la prospettiva morale dell'autore esemplifica la preoccupazione tipicamente britannica sulla purezza della classe operaia, preoccupazione conservatrice quanto poche altre.
L'eroe cockney (impersonato da Bert, il fruttivendolo, figura che Kersh rimpiange implicitamente nel corso di tutta la vicenda) è un archetipo che incarna valori ancestrali, che è refrattario a idee di progresso o emancipazione, che è fedele a un codice d'onore e sa bene come vanno le cose del mondo (chi sta sopra e chi sta sotto, detto altrimenti) ma soprattutto non cerca di mischiare le carte in tavola, cioè di passarsi per quello che non è.
Esattamente il contrario di quello che fa Harry Fabian: dice d'essere americano, di conoscere le star, di essere autore di canzoni, di poter fare cento sterline a settimana. Harry Fabian non sta dicendo, in fondo, che di poter uscire da una condizione di soggezione sociale. Per quanto, certo, in termini rigorosamente individualistici.

L'embrione della rivincita stilistica dei giovani della working class inglese negli anni '60 e '70 nasce qui, a ben vedere, nella fase storica e culturale precedente al secondo conflitto mondiale: Harry Fabian appartiene alla prima generazione massicciamente esposta agli influssi culturali d'oltreoceano, che considera Londra provincia e non epicentro, che per prima opera un'inversione simbolica tipica di sottoculture (mod & derivati) in cui la notte è preferibile al giorno, il taglio dell'abito è decisivo come una sentenza e la musica (il jazz, in questo caso) schiude le porte di un universo parallelo, underworld infinitamente più attraente della Londra di superficie in cui vigono vetuste regole volte a costringere i proletari a un'intollerabile invisibilità.
Siamo agli albori del narcisismo giovanile come rivendicazione e come tentativo di ricostruzione dell'ordine del mondo.
Ma a differenza di un Richard Allen, altrettanto conservatore, il giudizio di Kersh su un'emancipazione stilistica è amaramente negativo.
Joe Hawkins, il protagonista skinhead di una fortunata serie di romanzi usciti all'inizio dei '70 (non affannatevi a cercare: per quanto suoni abbastanza incredibile Richard Allen non è mai stato tradotto in Italia) tenta in fondo la stessa traiettoria di Harry Fabian, e con ciò si rende protagonista di un epos plebeo e selvaggio che affascina ancor oggi.
Di più: Joe Hawkins non è mai un personaggio propriamente negativo. Esprime la proeccupazione e la fascinazione che la bestia proletaria (rude razza pagana, direbbe qualcuno) esercita sulla middle class, con tutto il contorno di eccitazione e di voyeurismo connessi. Raramente però, nel corso di centinaia di pagine, Joe Hawkins sta simpatico a chi legge.
Harry Fabian è assolutamente disgustoso nel corso di tutto il romanzo, invece. Ricatta un uomo la cui moglie sta morendo di cancro, manda sul ring un vecchio lottatore per un ultimo match tragico e vittorioso (sono queste le pagine migliori del romanzo), è pronto a vendere Zoe, la donna che lo mantiene, perché ha promesso alla nuova fiamma di aiutarla ad aprire un night club, il Luogo della Perdizione emblematico per quella generazione.
Ma la prosa di Kersh si snoda empatica con le vicende di questo indimenticabile squallido individuo nel corso di tutto il romanzo, e ci saranno molti, come noi, a fare il tifo per lui nella partita a dadi che segnerà la sconfitta e a guardare con un certo distacco il perbenista e superstizioso ritorno di Adam, il Buono, alla vita normale, qualunque cosa questo significhi.


A PROPOSITO DI TI CHIAMERO' RUSSELL, ROMANZO TOTALE di Wu Ming 2

Dal 13 gennaio scorso, dopo diverse peripezie, è finalmente disponibile la versione cartacea del Romanzo Totale 2001-2002 - Ti chiamerò Russell, a firma Wu Ming n+1, edito dalla Cooperativa Bacchilega Editore - e non si dica che pubblichiamo solo per Berlusconi... :-)
Il prezioso volumetto contiene:
- Una copertina "stile Urania" realizzata da Marco Dimitri.
- Il testo "ufficiale" del Romanzo Totale, intervallato dalle versioni "alternative" dei diversi capitoli, grazie alla mirabolante impaginazione studiata da Cinzia Di Celmo (responsabile delle copertine di Q [seconda versione], di Asce di Guerra e 54)
- Un breve commento al testo da parte di Paolo Bernardi + una postfazione di Andrea Pagani (due degli ideatori del progetto)
- Il bilancio dell'intera operazione scritto da WM2 (e riportato più sotto)
..il tutto a 6 eurini. La "vexata questio" Mondadorì avrà fatto comprendere a chi già non se n'era accorto, che case editrici come la Bacchilega non possono avvalersi di una distribuzione tentacolare.
Pertanto, chi volesse accaparrarsi il gioiello in questione, se non lo trovasse nella sua libreria di fiducia, dovrebbe insistere con il libraio (di fiducia) e chiedergli di ordinarne una copia dal sito www.bacchilegaeditore.it o meglio ancora con una e-mail a pbernardi@sabatosera.it (cosa che da Feltrinelli potrebbero rifiutarsi di fare...).
Stessa procedura devono seguire quei librai che volessero arricchire i loro scaffali con il prodotto in questione.

Nel frattempo, è stata fissata a Imola, per il 13 febbraio, una "Giornata con Russell", che prevederà incontri vari tra scuole, biblioteca e ristorante, onde presentare il progetto e parlare di letteratura on-line e altre pinzallacchere. Chi fosse interessato ai dettagli, ce li puo' chiedere direttamente o andarseli a studiare sul sito www.xaiel.it, alla sezione Romanzo Totale.
Inoltre, stiamo organizzando qualcosa di grosso per l'edizione 2003/2004, che dovrebbe tagliare il nastro di partenza intorno a ottobre. Verranno coinvolti altri "narratori professionistì" e, presumibilmente, anche altri siti.

Il testo che riportiamo qui sotto, contenuto anche nel libro, tenta di delineare alcune linee guida per i prossimi esperimenti.

Ormai a sei mesi di distanza dalla conclusione del progetto, congediamo la versione cartacea di questo Romanzo Totale con una sensazione ambivalente: da un lato, l'orgoglio per aver portato a termine l'avventura, tentando un esperimento che non ha molti precedenti nel nostro paese; dall'altro, la consapevolezza dei limiti che questo tipo di scrittura comporta e il desiderio di sperimentare quanto prima una serie di contromisure.
Nell'utilizzo della Rete risiedono con ogni probabilità tanto i pro che i contro dell'esperienza. Tra i vantaggi, la possibilità di interagire con persone distanti, di assoldare sconosciuti, di trovarsi a confronto con stili diversissimi, e di conseguenza, con una ricchezza di storie e strategie narrative.
Abbiamo detto spesso che il racconto, come ogni altra forma di creazione, ha sempre origine nell'intelligenza collettiva di una comunità. Per quanto il mondo virtuale non smetta di cambiare le nostre percezioni, resta ancora più facile dar vita a una comunità creativa se questa ha la possibilità di incontrarsi in un luogo fisico, di discutere a quattr'occhi, di ascoltare il tono di voce di ciascuno, di osservarne il modo di gesticolare, di sedersi e sorridere insieme.
Tutto questo, alla comunità del Romanzo Totale, è stato negato. Per scelta iniziale, non si è voluto nemmeno ricorrere ai surrogati dell'incontro vis à vis che la rete può offrire, a parte un Forum che non è mai stato molto frequentato.
Niente discussioni sull'andamento dell'intreccio, rarissime le indicazioni da parte nostra, molto leggero l'editing con cui si è intervenuti sul testo, per paura di snaturare la voce di ciascuno.
Il risultato, dunque, non è ancora paragonabile, per valore letterario, a esperimenti come quelli di Ricardo Montserrat, che "appronta" romanzi collettivi per la Série Noire di Gallimard, grazie a mesi di laboratorio di scrittura fianco a fianco con disoccupati, clochard, senza fissa dimora, migranti.
Si tratterà, nelle prossime edizioni, di sfruttare con consapevolezza maggiore le potenzialità del mezzo, di lavorare sodo per dar vita a una comunità virtuale vera e propria, di puntare di più su strumenti di interazione e confronto.
Di archiviare il laissez faire narrativo e consegnare il potere a una repubblica democratica di scrittori.
L'esperimento è soltanto all'inizio. La prima prova fa ben sperare, e se è servita per indicare nuove direzioni, allora ha svolto appieno il suo compito. Presto, speriamo, si potranno trarre nuove conseguenze da rinnovati tentativi.

Wu Ming 2, 05/12/2002

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Nandropausa #4 sarà pronta per giugno. La lucha sigue.


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