Tre interviste a Wu Ming, dicembre 2002 - giugno 2003
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"Si comincia con l'Autore, e si finisce con l'Autorità"
Intervista a Wu Ming 1 a cura di Ugo Giansiracusa, www.girodivite.it, dicembre 2002
Leggendo la vostra dichiarazione d'intenti sembrerebbe che l'attività di narratore sia da associare ad un qualsiasi altro mestiere. E sembra anche che il progetto Wu Ming sia, di per se, una struttura "commerciale" sia pur di nicchia e sia pur diversa. E' realmente così?
Se per "commerciale" intendi dire che, in quanto artigiani, ci poniamo il problema di vendere i nostri manufatti, l'epiteto è corretto anche se suona strano per via dell'uso che ne è stato fatto in decenni di anatemi contro i "venduti" veri e presunti. Ad ogni modo, non definirei la nostra attività "di nicchia": siamo tra gli scrittori italiani che vendono di più, in Italia e in giro per il mondo. Quanto al "diversa", è senz'altro diversa la rappresentazione che abbiamo di noi stessi: rifiutiamo la proprietà intellettuale, rifiutiamo le mitologie correnti sull'Autore, quindi siamo contrari a più o meno tutte le "normali" strategie di marketing. Pur accedendo di riffa o di raffa ai media ufficiali (ma senza apparire in tivù né posare per fotografie), tendiamo a costruire e mantenere reti alternative e il più possibile autonome, di rapporto diretto tra scrittori e lettori, fino a relativizzare questa distinzione, a instaurare dinamiche di interazione comunitaria tra gli uni e gli altri: moltissime persone partecipano alla nostra newsletter e al miglioramento/aggiornamento del nostro sito; insieme a diversi lettori abbiamo scritto il romanzo Ti chiamerò Russell...
Essere narratori di mestiere significa confrontarsi con il mercato culturale, che senza giri di parole, è sempre più il mercato tout court. Le posizioni che il progetto Wu Ming ha preso in proposito sono abbastanza chiare e radicali - ad esempio il rifiuto del copyright e della propietà intellettuale - eppure viene da chiedere se non sia già di per se una posizione di compromesso?
Senz'altro. Siamo contro la "purezza" inconcludente. Siamo per i compromessi onorevoli, quelli che noi imponiamo alla controparte, ogni volta guadagnando centimetri. Qui ci sarebbe da fare il famoso "discorso dei centimetri" di Al Pacino in "Ogni maledetta domenica", o quello di Gramsci sulla "egemonia" e la "guerra di posizione"... I nostri editori sono scesi a compromessi con noi accettando la dicitura copyleft, accettando la nostra partecipazione al processo produttivo dell'oggetto-libro (facciamo noi le copertine, Cinzia Di Celmo è a tutti gli effetti parte del collettivo), accettando le nostre strategia di marketing eterodosse... Se ci fossimo fatti dei problemi a, per così dire, "sporcarci le mani", tu non avresti mai potuto leggere niente di nostro.
Quali sono gli elementi dell'industria culturale che rifiutate categoricamente?
L'industria culturale come la intendiamo oggi ha già iniziato il proprio declino. Vista la rapidità degli eventi, se ti dicessi quali elementi vorremmo cambiare o riformare rischierei di fare considerazioni di retroguardia. Internet, la "pirateria", il copyleft, la formazione di comunità autogestionarie che si riappropriano delle tecnologie per la ri/produzione della cultura... Tutto questo sta già sconvolgendo il quadro. Si tratta di accompagnare questo processo, premendo dall'interno e dall'esterno, sburocratizzando, "disintermediando", degerarchizzando, espropriando.
Nella "Dichiarazione dei diritti (e doveri) del narratore" si citano i griot, i bardi e gli aedi come forme di quella necessità, di ogni società, di avere degli uomini (o donne) capaci di tramandare e raccontare storie, la necessità di avere nei narratori di sè stessi e della propria cultura. Eppure, nelle intenzioni del progetto Wu Ming, c'è il distacco da quell'aurea di sacralità e di unicità che queste figure hanno sempre rappresentato per i loro contemporanei e per gli altri membri della società. E' realmente possibile arrivare a considerare il narratore come un semplice artigiano o lo scontro con un sistema culturale profondamente radicato lo rende impossibile?
Sulla sacralità dei narratori e degli sciamani si aprirebbe un contenzioso di etnologia e antropologia comparata che in questa sede mi pare inaffrontabile. Basti dire che esistono diverse leggende in cui le comunità, insoddisfatte dell'operato dei loro sciamani, li "rimuovono dall'incarico". Ovviamente noi crediamo sia possibile considerare il narratore come un artigiano, a dire il vero diversi narratori si sono considerati o tuttora si considerano "onesti mestieranti" (moltissimi autori di narrativa di genere hanno usato locuzioni simili a questa per descriversi), diciamo che noi abbiamo fatto un passo in avanti, mettendo su una vera e propria bottega artigiana. Quanto all'aura dei prodotti culturali, come insegna Benjamin, non è nelle nostre "intenzioni", è già un dato di fatto da diverse decadi, per via delle tecnologia che hanno permesso la riproducibilità dell'opera d'arte.
In fondo, per molti, l'essere artisti non è che un grado alto dell'artigianato... che è sempre artigianato ma con un "valore aggiunto" che rende il simbiotico forma/contenuto un qualcosa di unico, grazie al lavoro che vi viene prodotto dall'individuo, artista o artigiano che si voglia chiamare.
Punto fondamentale del processo di elaborazione del progetto Wu Ming è la progressiva smaterializzazione del culto della personalità dell'artista. Tant'è che wu ming nel dialetto mandarino della lingua cinese significa proprio "nessun nome". Eppure sembra inconcepibile, date quelle che sono le nostre basi culturali, non pensare alla funzione dell'autore come ci è stata insegnata. Anche solo pensando al lavoro di elaborazione mentale che esso svolge. Di scelte di materiali, di stile, di forme, di contenuti etc. etc. Il narratore non è comunque autore?Certamente sì, ma il punto è che non è (non dovrebbe concepirsi in quanto) Autore. In quella maiuscola reverenziale (che c'è e pesa anche se non la si scrive e non la si può pronunciare) risiede il problema. E' la stessa maiuscola che stabilisce d'arbitrio la differenza tra le arti e l'Arte, tra l'artista e l'artigiano. Sostanzialmente, gli autori dovrebbero tirarsela di meno, e capire che non sono affatto esseri fuori del comune, anzi, sono "dentro il comune", nel regno di ciò che è condiviso da una società. Come ha scritto Stewart Home: "Si comincia con l'Autore, e si finisce con l'Autorità". Noi pensiamo che partendo dagli autori (al plurale e senza la maiuscola) si arrivi tutt'al più all'autorevolezza, quel punto in cui esiste sì un "valore aggiunto" (quello di un lavoro fatto bene) ma non c'è alcun tipo di imposizione né di coercizione.
Ho sempre pensato che uno degli impulsi fondamentali dello scrivere/narrare fosse la necessità della comunicazione. Avere voglia di dire qualcosa a qualcuno. A chi parla Wu Ming e cosa sta dicendo? Da dove nasce, in voi, questo bisogno di comunicare?
E' lo stesso bisogno di comunicare di qualunque altro essere umano, non esiste umanità senza il racconto e la condivisione di storie. Abbiamo la smisurata ambizione di voler parlare all'elemento umano che delle storie si nutre, quindi non abbiamo un target preciso. Il nostro lavoro ha come riferimento la comunità umana che, come ha scritto Wu Ming 5, "è il nostro ghetto di riferimento". Quanto a quello che diciamo, direi che tutte le nostre storie hanno un comune denominatore: la lotta per affermare la dignità (individuale e collettiva).
C'è la tentazione di credere che le possibilità di comunicare, con i nuovi mezzi, siano pressochè illimitate. Eppure al dato pratico ci si scontra con un sistema dove la comunicazione (e la narrazione come processo comunicativo) sono molto difficili, almeno su larga scala. Una situazione in cui i fatti vengono spesso mistificati, elaborati, trasformati o, paradossalmente, in cui la proliferazione esponenziale delle informazioni le rende quasi inutilizzabili. Una situazione in cui l'esperienza della narrazione sarebbe fondamentale per la sua funzione di svelamento del reale e delle sue dinamiche. Il progetto Wu Ming è una risposta praticabile a questa realtà?
Il progetto Wu Ming da solo certamente no, la risposta praticabile - anzi, praticata - è in quello a cui il progetto Wu Ming allude costantemente: la mitopoiesi, quel processo in cui un'intera comunità si fa carico dell'elaborazione e dell'imposizione dal basso di un immaginario (fatto anche e soprattutto di storie) che cambia lo stato di cose presenti. Assistiamo già allo scontro di due universi, da un lato c'è l'universo della comunicazione piramidale e di massa, dall'altra c'è quello delle comunità che si federano in networks alternativi capillari. E' in questa "capillarità" il segreto dell'inestirpabilità di certe pratiche, come appunto la "pirateria". Puoi ostruire una grossa arteria ma coi capillari c'è poco da fare, sono completamente innervati nella carne del mondo, e portano sangue fresco ai tessuti culturali.
Che ruolo hanno, in generale, i mezzi di comunicazione nella formazione di una "coscienza" e qual'è, a vostro avviso, questo ruolo nella situazione italiana attuale?
La "coscienza" dipende interamente dai mezzi di comunicazione, in ogni senso, ma i mezzi di comunicazione non sono solo i media elettronici, la definizione include tutta la sfera del linguaggio e dei segni in generale: il corpo è un mezzo di comunicazione (anzi, è tanti mezzi di comunicazione, che vengono studiati dalla neurofisiologia e dalla biologia dei comportamenti); lo spazio intorno a noi è un mezzo di comunicazione; i mezzi di trasporto sono mezzi di comunicazione; la velocità stessa è un mezzo di comunicazione (sul contenuto di quest'ultima frase Paul Virilio ha costruito la nuova scienza che definisce "dromologia")... Tutto questo, non solo la TV e i giornali, influisce sulla formazione della "coscienza" (che poi, come diceva Henri Laborit, è l'insieme dei nostri automatismi culturali, quindi in realtà è "inconscia"). Ma la "coscienza" non viene affatto condizionata in maniera univoca, bensì in maniera contraddittoria, polisemica, caotica... Si creano continuamente nuovi spazi e nuove occasioni per la lotta contro il nemico o per la fuga creatrice.
Dichiarate che Wu Ming è una "impresa politica autonoma". Di conseguenza, in quanto politici, non vi astraete dal reale ma cercate di lavorarlo anche con interventi che esulano la pura narrazione per incanalarsi verso processi di divulgazione di tematiche non direttamente collegate al vostro lavoro di narratori. Dunque una coabitazione del "cittadino" come membro della comunità e del "narratore" come portavoce delle istanze della comunità stessa?
Non c'è niente che esuli dalla narrazione, e non esiste narrazione "pura". Tutte le posizioni che prendiamo, tutto ciò di cui ci occupiamo è direttamente collegato al nostro lavoro di narrazione, che è sempre "spuria" perché si nutre di tutto, attinge alle fonti più disparate, cerca di realizzare sintesi - per quanto precarie - tra le varie suggestioni che troviamo nell'aria. Abbiamo più volte descritto noi stessi come "spugne", assorbiamo ciò che ci circonda e in qualche modo lo utilizziamo per le nostre narrazioni. Anche il nostro essere "cittadini" finisce nelle nostre narrazioni.
Per concludere, come usa dire una delle icone dell'immaginario collettivo: si faccia una domanda e si dia una risposta...
Che ore sono? Più o meno l'una e trenta.
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Conversazione con Wu Ming
di Davide L. Malesi, dal n.1 della rivista "Origine", febbraio 2003
Avete scritto che "le storie sono asce di guerra da disseppellire". La considerate un'affermazione programmatica, con una valenza anche politica, o semplicemente una verità?
Chiaramente solo le storie sepolte possono essere disseppellite, quindi se è una verità è comunque una verità parziale che non va generalizzata indebitamente. Diciamo che è la nostra dichiarazione di poetica, il nostro lavoro consiste nel ripescare storie dai fondali della Storia, allo scopo di ri-raccontarle, ri-caricarle. Per farlo usiamo tutti gli strumenti, gli stilemi, i sotto-generi, dal reportage investigativo alla fantascienza ucronica, dal romanzo sociale al romanzo di spionaggio.
Il vostro primo romanzo, Q, è ambientato nell'Europa del Cinquecento. Quanta ricerca è necessaria per scrivere un libro del genere, e renderlo vivo, credibile?Basti dire che per scriverlo ci abbiamo messo tre anni, e il primo anno non abbiamo scritto una riga, abbiamo studiato, preso appunti e ancora studiato e ancora preso appunti. Abbiamo letto decine e decine di libri presi in prestito all'istituto di scienze religiose di Bologna.
La scrittura romanzata di avvenimenti storici realmente accaduti presuppone certosine ricerche tra documenti e pubblicazioni. Come si decide dove e quando infiltrare la finzione romanzesca?
Immagino che ciascun autore abbia un proprio metodo, una propria visione, e che - se l'autore non esagera con la serialità e non feticizza il metodo trasformandolo in una meccanica dello scrivere - tale metodo e tale visione cambino di libro in libro. Noi in genere lavoriamo sulle coincidenze, sulle cose-che-suonano-strane, sulla creazione di "strane prossimità", come dice Bachtin parlando di Rabelais: "unire ciò che è diviso, dividere ciò che è unito". Il rapporto tra realtà storica e finzione speculativa nasce automaticamente da queste collisioni di nomi, date, eventi.
Qualcuno ha detto che la definizione di "romanzo storico" non ha molto senso, eppure è un'etichetta che piace molto al pubblico. Sotto questa etichetta, sono usciti e continuano a uscire libri che raccontano un passato che sa un po' di cartone. Evidentemente c'è gente che, nel bene e nel male, li compra. Pensate che un romanzo come Q possa dare un segnale diverso, incoraggiare il pubblico a migliorare la qualità della proprie letture?
A noi non piace molto la definizione di "romanzo storico" perché vuol dire tutto e niente, la si applica un po' così, alla cazzo... Per la "Tetralogia di Los Angeles" [di James Ellroy, N.d.R.] nessuno scomoda quella definizione eppure c'è più documentazione e capacità di rievocare che in un qualunque libro di Valerio Manfredi o di altri autori di "romanzi storici". Quanto alla questione della qualità delle letture, se si intende che il "romanzo storico" dovrebbe essere più... "autoriale" e meno "di genere", non siamo d'accordo. C'è comunque più qualità e onestà nel succitato Manfredi che in molti "Autori", di certo ci sentiamo più vicini a Manfredi (sia Valerio sia Gianfranco) che a quel tizio della Scuola Holden...
D: C'è qualcosa che vi piace, dell'attuale panorama letterario italiano?Moltissime cose, crediamo che la letteratura italiana stia vivendo una fase esaltante, in cui finalmente si supera la distinzione ideologica reazionaria tra letteratura "alta" e letteratura "bassa". Evangelisti scrive cose eccellenti, Carlotto idem, De Cataldo con Romanzo criminale ha piantato nel suolo una pietra miliare, poi Lucarelli, Dazieri, Philopat, Simona Vinci...
E qualcosa che proprio non sopportate?
L'intimismo, lo psicologismo, la letteratura della "crisi di una generazione"...
Riccardo Pedrini, la più recente "recluta" di Wu Ming, ha scritto un romanzo che si potrebbe definire "di fantascienza", Havana Glam. Un tempo, con scrittori come Ray Bradbury, Kurt Vonnegut, Philip K. Dick, la fantascienza era un genere letterario portatore di messaggi "forti", un modo di immaginare futuri possibili che facessero riflettere il lettore sul presente. Oggi, non trovate che questa tendenza sia andata un po’ persa?
Va innanzitutto sfatato un equivoco: Riccardo non è entrato dopo in noi, è a tutti gli effetti un fondatore di Wu Ming.
Quanto alla fantascienza, dalla New Wave degli anni Sessanta (ma anche da prima) è sempre esistito un filone deviante, non strettamente futurologico, di distopia-del-presente (pensa a Ballard), come è esistito un filone satirico, uno rivolto alla descrizione di "passati possibili" che poi si è evoluto nell'esperimento "steampunk" (il cyberpunk a vapore)... In ogni caso, credo che "progettare futuri che cadono a pezzi" sia tuttora un sano esercizio intellettuale.
I vostri romanzi sono il contributo dell'immaginazione, e del lavoro, di un gruppo di cinque persone. Come scegliete un tema, una trama, come create i personaggi e la storia? Il tutto nasce da un dibattito collettivo, o vi dividete i compiti tra di voi?
Siamo come un collettivo di free jazz, improvvisiamo collettivamente tutto il tempo, nelle fasi "calde" del lavoro ci vediamo praticamente tutti i giorni e ci raccontiamo a vicenda le varie sottotrame, improvvisandole ma basandoci su una grande mole di appunti presi da ciascuno durante la fase delle ricerche. A furia di sparare cazzate, la trama emerge, poi la sistemiamo in una scaletta, poi in una specie di "trattamento", infine cominciamo a scrivere dividendoci i capitoli ma continuando a farli ruotare di modo che ciascuno possa emendare i capitoli degli altri.
Per qualche motivo va sempre a finire che, per focalizzare su una questione, si divide il mondo in due come una pera. Secondo voi, chi ha diviso in due la pera della letteratura tra scrittori italiani e stranieri ha avuto ragione a non dividerla a metà?
Non saprei. Noi, per dire, non facciamo "letteratura italiana", facciamo letteratura scritta in italiano.
Gli scrittori italiani hanno le carte in regola per confrontarsi gli altri?
Questo è un dato di fatto. Manfredi spopola in tutto il mondo, Evangelisti lo trovi tradotto in ogni pertugio linguistico, Lucarelli è pubblicato nella Série Noire di Gallimard, idem tutti gli autori citati nelle altre risposte, noi compresi.
Il protagonista di Q si unisce ad un certo numero di rivolte, partecipa ad un esperimento di governo demagogico a sfondo religioso-utopistico, organizza una frode internazionale ai danni della banca Fugger, diventa socio nella gestione di un bordello a Venezia. Non credo si possa definire la sua storia in una sola parola, ma di sicuro si può definire il suo opposto: il minimalismo. La lettura di Asce di guerra e 54 conferma questa impressione. Siete d'accordo?
Sì, possiamo usare senza timori la parola "massimalismo". Ci piace spararle grosse.
I vostri progetti per il prossimo futuro?
Ad aprile Einaudi pubblicherà Giap!, un'antologia di nostri saggi e racconti a cura di Tommaso De Lorenzis.
Stiamo lavorando a due sceneggiature cinematografiche, e altre sono all'orizzonte. Tre di noi stanno scrivendo romanzi solisti, e stiamo cominciando il brainstorm per il prossimo romanzo collettivo.
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Intervista a Wu Ming a cura di Giuseppe Iannozzi
pubblicata su Carmilla on line il 18 giugno 2003
Giap!: qualcuno si interroga, qualcuno non ha ben capito, qualcuno fa finta di ignorare Giap!, poi c’è chi si ritrae imbarazzato ed evita di dire la sua: ora vi chiedo, ingenuamente, ma Giap! per chi è stato scritto?
Per quella che - "rubando" e modificando un'espressione cara a Paco Ignacio Taibo II° - abbiamo chiamato la "repubblica democratica dei lettori", quella che abbiamo incontrato in questi anni in giro per l'Italia e non solo, quella con cui teniamo tentacolari contatti giornalieri tramite il sito e la newsletter, quella che interferisce positivamente col nostro modo di scrivere e di narrare offrendoci continuamente nuovi spunti, dubbi, motivi di trionfo o di perplessità, filamenti di storie, echi di conversazioni lontane nel tempo... Di tutto questo forniamo sintesi temporanee, precarie, è quello il lavoro del narratore, del cantastorie, secondo noi: essere il nocchiero al centro della bufera popolare, stare al centro dei flussi di informazione e immaginazione, setacciare l'aria e l'elettrosmog, operare da "riduttore di complessità". Con "Giap!", idea proposta a Tommaso de Lorenzis (o Lorenzo De Tommasis?) dal nostro amico Giangi, abbiamo inteso fornire una primissima sintesi delle sintesi, tracciare un percorso tra i mille appunti di lavoro decollati dai nostri cassetti dacché esiste la nostra band. "Giap!" consente alla "repubblica democratica dei lettori" di trarre un sunto del lavoro fatto sinora insieme a noi, e indica le direzioni lungo le quali ci muoveremo tutti insieme, continuando a raccontare storie.
Il libro è stato curato da Tommaso De Lorenzis: tre anni di articoli, racconti, interventi, interviste. In tre anni molta della nostra storia è cambiata: è giusto dire che la società è rimasta ferma all’anno 2000? Io credo che la nostra società si è adoperata per portare avanti la conoscenza ma solo in ambito tecnico, mentre poco o nulla è stato fatto per migliorare la qualità della vita sociale, culturale e intellettuale. Giap!offre delle risposte o delle soluzioni?
Raccontare serve a porre (molte) domande e dare (qualche) risposta usando vicende emblematiche: i sogni interpretati da Giuseppe, le mille e una storie di Sheherazade, le parabole raccontate da Gesù, le storielle zen, le favole studiate da Propp, i casi di cui Freud scrive i resoconti, i miti degli eroi studiati da Campbell, le biografie trasformate in ballate popolari: le tappe di una vita o di tante vite, messe una in fila all'altra, contengono archetipi, memi, nuclei di riflessione esistenziale in forma di "Che fare?", cosa farà Pollicino, cosa faranno Hansel e Gretel, con che trucco Robin Hood parteciperà al torneo di tiro con l'arco? Questo è un sapere che non si riduce alla Tecnica (codesto spauracchio di molte filosofie novecentesche) ma alle "tecniche" che chiunque può padroneggiare per raccontare bene. Una vita che abbia qualità è una vita dove ci si raccontino storie, con il raccontare e l'ascoltare storie acquista un senso e un contesto qualunque vicissitudine della tua vita.
Come si è orizzontato Tommaso De Lorenzis per riunire il materiale di Giap!?
Il suo è stato un corpo-a-corpo con ciascun numero di Giap, più di un centinaio di numeri dal 2000 a oggi. Se li è riletti tutti di fila, ha isolato alcuni grumi tematici più consistenti, ne ha fatto una griglia di sezioni che è stata modificata molte volte: "Giap!" è un libro che, nel suo farsi, è stato parecchio incalzato dagli eventi. La selezione è cambiate diverse volte, testi si aggiungevano o si volatilizzavano... Il lavoro di selezione è durato un anno e mezzo. Dopodiché Tommaso ha scritto l'introduzione.
Controinformazione e no copyright. Le storie sono di tutti, "le leggi che regolano la proprietà intellettuale rappresentano la camicia di forza, repressiva e anacronistica, paradossale e inefficace, alla produzione di intelligenza, alla cooperazione e allo scambio di risorse e saperi come open source, sorgente aperta e a disposizione dello sviluppo della comunità". In questo contesto Giap! apre nuove strade verso la cultura e la sua diffusione a tutti i livelli, ma io sono scettico: il povero intellettuale o artista che sia, come farà a vivere del suo lavoro?
Noi viviamo del nostro lavoro. La maggiore circolazione del sapere non dissipa bensì aumenta la ricchezza sociale e, di conseguenza, anche quella di cui ciascuno di noi può godere. Molti programmatori di GNU/Linux vivono del proprio lavoro. I nostri libri vendono di più, non di meno, per il fatto di essere liberamente riproducibili. Ciò che funziona è il passaparola. La "pirateria" non fa che aumentare la popolarità di un artista o di un intellettuale, il "plagio" è necessario perché le idee fecondino il maggior numero di teste possibile, così si alza il livello di comprensione generale, e ciò fornisce nuovi spunti all'intellettuale, che produrrà le sue sintesi partendo da un contesto migliore.
Giap! è anche memoria politica e sociale: si parla delle contestazioni contro il G8, della morte di Carlo Giuliani, dei movimenti pacifisti. Che senso ha contestare se la contestazione si limita a schiamazzi in piazza e a bandiere lasciate al vento come moda sventolata? Recentemente Giovanni Lindo Ferretti ha detto: "La pace non è una soluzione, è una parte enorme della questione. La condizione umana è contingente, determinata da una serie infinita di problemi. Non accettare il fatto che il mondo vive una serie infinita di cambiamenti incredibili e veloci, urlare Pace!, Pace! in un tempo in cui molto intorno a noi è guerra, è come urlare Sanità! Sanità! in una corsia d’ospedale. Tutti noi vorremmo vivere in pace, tutti noi vorremmo essere sani: non sempre è possibile, non sempre è plausibile, non sempre ce la fai." E la vostra posizione in merito, qual è?
Bisognerebbe conoscere il contesto in cui Ferretti ha inserito quella frase. Così isolata, non ci sembra granché come aforisma o apoftegma, perché non si capisce dove voglia andare a parare, e fa pensare - oltre che a un certo snobismo che del resto si confà al personaggio - a un grosso equivoco di fondo. La "pace" richiesta da chi ha manifestato nei mesi e negli anni scorsi non è una pace conservatrice, non è il "lasciatemi in pace", è una pace fortemente progressiva, vista come condizione per far procedere il mondo in una direzione diversa da quella, spaventosa, impressagli da Bush e da chi lo manovra. E' una pace fortemente costruttiva, cooperativa, fondante, è potere costituente. La richiede non chi vuole restare accucciato in casa sperando che il mondo esterno non vi penetri, ma chi è costitutivamente nel mondo esterno, per strada, ha già attivato reti sociali, ne è parte, respira con esse.
"Nessun medium annulla i precedenti, li ridefinisce. La carta ha ancora una sua funzione insostituibile. Trasformare in libro la newsletter vuol dire storicizzarla, tornare sopra alle emozioni del momento per rimeditarle..." Io sono un po’ tonto, non sempre afferro quanto mi viene spiegato. Giap! ha subito venduto benissimo, e io sono rimasto sconcertato e penso che tanti altri abbiano provato la mia stessa sorpresa: un libro vende ed è una raccolta (!) di newsletter. Storicizzare la newsletter: come è possibile un simile processo?
Tutti i nostri libri, non soltanto "Giap!", sono scaricabili gratis dal nostro sito in versione integrale, eppure sono tutti dei best-seller. Lo sconcerto prodotto da "Giap!" tra gli addetti ai lavori è maggiore perchè non si sa bene come definirlo: è saggistica? E' narrativa? E'..."varia"? Per quanto riguarda la storicizzazione, è una parola grossa, ed è un'impresa con cui si cimenteranno soprattutto altri dopo di noi. Noi abbiamo voluto offrire una sintesi ragionata, dei percorsi di lettura.
Essendo io un po’ tonto, mi è sorto un dubbio ed è questo: se io storicizzo le mie idee, forse le consegno alla storia ma faccio anche atto di svendita. Non ho le idee molto chiare... Una spiegazione circa questo punto, credo toglierebbe molti dubbi a me e a tanti altri che come me hanno fra le mani un libro vero, di carta.
"Giap!" non è una speculazione, uno di quei "Greatest Hits" che si pubblicano tra un album e il successivo per tenere in movimento il mercato, il più delle volte contenente un solo inedito che poi diventa il singolo (ma c'è ancora qualcuno che li compra, i singoli?). Tutta l'attività di Wu Ming da quando esiste converge in questa sintesi temporanea, e il lavoro di sintesi è stato un lavoro creativo a tutti gli effetti. Avere quei testi raccolti in un volume è un considerevole valore aggiunto. Un recensore ha scritto che "Giap!" è "il libro più Wu Ming dei Wu Ming". Siamo d'accordo.
I movimenti, non li ho mai compresi appieno. In questi anni ne sono sorti tanti e quasi tutti avevano delle idee da portare in piazza. Ma io ho la netta impressione che le idee siano rimaste tali e non si sono tradotte in realtà. La guerra in Iraq, ad esempio, ci ha toccato da vicino, ha smosso milioni di coscienze, ma la coscienza da sola è insignificante se è incapace di diventare atto concreto di ribellione. Oggi io vedo l’Iraq in mano ad irakeni prezzolati dagli americani, vedo l’Iraq invaso dagli americani che ne hanno fatto una loro colonia. Perché non si combatte contro questa insulsa colonizzazione con qualcosa di più di uno slogan che grida "Pace!"?
Gli ultimi movimenti mostrano al mondo delle pratiche, non delle idee. A prescindere dai giudizi che uno può esprimere, il software libero e il copyleft sono pratiche, non idee. Il "consumo critico", i boicottaggi e il "commercio equo e solidale" sono pratiche, non teorizzazioni. Il "bilancio partecipativo" è una pratica, come lo è l'obiezione fiscale, come lo è fare volontariato, fare cooperazione internazionale, corridoi umanitari, fare il missionario in Africa. La comunicazione-guerriglia è un insieme di pratiche. L'autorganizzazione attraverso le reti è una pratica. Mettere su un blog è una pratica, non una teoria. Che poi queste pratiche siano ancora insufficienti è un altro paio di maniche, ma è banale operare una reductio ad unum e presentarle come un solo slogan urlato senza criterio e senza conseguenze.
Il prossimo romanzo collettivo dei Wu Ming prenderà spunto dall'osservazione del movimento contro la guerra in Iraq: «Discutere su alcune dinamiche del movimento per la pace ci ha fatto venire molte idee. E abbiamo deciso di scrivere un western. D'altronde, nella realtà, c'è già George W.Bush che vorrebbe portare il mondo ad un "Mezzogiorno di fuoco". Noi, invece, vogliamo scartare da questa prospettiva. E circondare la carovana insieme agli indiani». Un bellissimo spunto, ma comunque uno spunto... commerciale? Sembra che la guerra, in ogni tempo, abbia prodotto spunti di riflessione politici e sociali poi tradotti in romanzi? Perché? Ed è giusto che così sia?
Da che altro prendere spunto se non dal conflitto? La realtà è conflitto, non è mai pacificata, questa intervista è conflitto, unità e lotta dei contrari, dialettiche che funzionano e dialettiche che si inceppano. E' così l'amore, è così l'odio. Le guerre sono vicissitudini umane come le carestie e le malatie, gli esodi e i nuovi insediamenti, i naufragi e le fondazioni di nuove comunità, le invenzioni e le amnesie. Un cantastorie deve cantare tutto questo o una significativa parte di esso, altrimenti la comunità ha mille modi per revocargli il "mandato".
In Giap! parlate anche del Subcomandante Marcos e dell’esercito zapatista. Nutro profonda ammirazione intellettuale e politica nei confronti del Subcomandante: esiste forse il rischio che venga idealizzato e/o strumentalizzato come è successo con Che Guevara? E da parte di chi? Dei giovani in piazza, nei centri sociali, da chi è contro perché crede sia giusto essere CONTRO? La mia profonda, immatura paura è che venga ridotto a una semplice bandiera.
Lo zapatismo è già stato strumentalizzato e banalizzato, in Italia ne circola una versione caricaturale e distorta, ad opera di alcune correnti - per fortuna, ormai marginali - del ceto politico di "movimento". Le metafore zapatiste sono diventate boli di merda in bocca a certa gente. Lo zapatismo non riguarda "l'essere contro", è una particolare e feconda articolazione del rapporto tra ribelle e comunità, è per il 90% pars construens.
Giap! è uscito nella collana "Stile libero" per Einaudi. Molti critici non sanno come “catalogarlo”. Per me non è importante sapere se è un saggio, un romanzo, una antologia o che altro. Ma volendo dare una indicazione a questi critici, cosa direste loro?
E' una raccolta di ballate, o una cassetta degli attrezzi. Ogni raccolta di ballate è, nell'atto, una cassetta degli attrezzi. Ogni cassetta degli attrezzi è, in potenza, una raccolta di ballate: ciascun utensile (cacciavite, martello, lima, sega, pialla...) può raccontare una o più storie, i graffi e i segni e le sdentellature sono come incisioni in cuneiforme su tavolette di argilla. Bisogna imparare a leggere tutto.
Infine, Giap! . In questa intervista molte sono state le mie provocazioni, ma una cosa voglio dirla ancora e questa volta senza alcun tono studiatamente polemico: "Questo libro dovrebbe essere il primo mattone per costruire una coscienza collettiva che disegni il nostro futuro." Dico giusto o sto idealizzando il vostro pensiero? E se anche vi idealizzassi, sarebbe poi così grave?
Il rischio è sempre che si instauri una relazione come quella tra John Lennon e Mark Chapman. Essere accoppato dal tuo più grande fan. No, nessuno ci idealizzi, siamo dei poveracci come tutti voi, gente che cerca di cavarsela come può.
Ci sarà un seguito a Giap!? Io, sinceramente, spero proprio di sì. E’ un libro importante, un libro che mancava e che mai era stato scritto. Sono occorsi centinaia di anni perché il collettivo Wu Ming nascesse e desse alle stampe il primo vero pratico contributo a... Dovreste dirmelo voi.
Quest'ultima domanda è molto in stile Genna... Giù la maschera, ti abbiamo scoperto!