Il viaggio di Dydo

Favole, apologhi ed elzeviri di Wu Ming 2 da Genova alla guerra
(giugno-ottobre 2001)


Dydo abitava il pianeta più vasto della Federazione. Eppure, al banchetto dei Grandi Pianeti non lo avevano invitato. Avrebbero discusso i problemi della galassia. Problemi nati dalle loro stesse soluzioni. E senza che nessuno gliel’avesse chiesto.
Dydo non poteva restare zitto.
Ma siccome per farsi sentire avrebbe dovuto gridare, molti dissero che voleva solo fare casino.
E siccome da piccolo aveva schiacciato una formica, in tutta la Federazione comparvero foto di lui e della formica e la scritta intermittente: “ Dydo: un pazzo sanguinario”. Nessuno sembrava ricordare con quali violenze i GP terrorizzassero la galassia e nemmeno l’esercito in armi che occupava Cimafo per proteggere il loro banchetto.
E siccome Dydo voleva organizzare una festa di tutti i non invitati, dissero che voleva solo divertirsi.
E siccome a pochi interessava davvero cosa pensasse e cosa lo spingesse a quel lungo viaggio, chi non aveva tempo di ascoltarlo, stabilì che Dydo era un “antiplanetario”, e rispose dicendo che la Federazione aveva senz’altro dei difetti, ma anche tanti vantaggi per gli esseri viventi della galassia. Dydo non lo negava: chiedeva solo di parlare di quei difetti.
E tutti gli opinionisti da cortile, che accendono il megafono per i problemi della galassia solo in occasione di grandi catastrofi, e per il resto passano il tempo a pulirsi l’ombelico, accusarono Dydo di aver alzato la voce solo in occasione del GP, e di aver taciuto per gli altri quattrocentonovantanove giorni dell’anno galattico. In realtà, Dydo non aveva mai smesso di parlare. Loro, distratti dall’ombelico, avevano disattivato le orecchie.
E siccome Dydo cercava in tutti i modi di dire la sua e di farsi sentire, dissero che era malato di protagonismo, un egocentrico interessato solo a mettersi in mostra.
Molti gli dissero che andare a Cimafo non serviva. Che niente sarebbe cambiato. Che, che, che. E poi c’era da sporcarsi il vestito, da sgualcire il gilet.
Dydo rispose che non pensava di cambiare il mondo in un giorno solo.
Ma che bastava un giorno per perdere la dignità.
E nonostante gli eserciti, la formica, gli opinionisti da cortile e gli amici con il gilet nuovo, mise nello zaino molta rabbia, molte idee e partì senza esitazioni.


***


Nuotare nello spazio fino a Cimafo, sede del raduno dei Grandi Pianeti, era una vera impresa. Ma Dydo non poteva permettersi l’astrobattello, né tanto meno un costosissimo teletrasporto, e non aveva scelta. Partito per tempo, superati gli asteroidi Boylo dopo solo una settimana, con ampie bracciate puntava dritto su un globo biancastro. Poznode? Forse. Da qualche ora gli riusciva difficile orientare la cartina. Quando la guida intergalattica lo informò che Poznode era nota per il colore verde smeraldo, decise di cercare qualcuno e chiedere. Passarono alcune ore. Alla fine, seduta su un tappeto di lamiera, Dydo riconobbe la sagoma di un poznodiano.
- Scusi, un’informazione… - classica frase imparata a scuola. Forse non troppo bene, perché l’altro non diede cenno di risposta.
- Io…capisci quello che dico?
Il poznodiano annuì.
- Ottimo…Volevo solo sapere se vado bene per Poznode – e indicò il pianeta con un dito – E’ quello?
Il poznodiano annuì ancora.
- Ah, molto bene, credevo di essermi perso – doveva ricordarsi di aggiornare la guida – Beh, grazie, buona giornata!
Il poznodiano salutò con un gesto. Dydo non si intendeva di usanze poz, ma insomma, non spiccicare parola gli sembrava piuttosto maleducato.
- Ehi, ti hanno tagliato la lingua?
Il poznodiano srotolò tra le labbra un metro buono di carne nera.
- E allora? Ti sto antipatico? Ho detto qualcosa che non va?
Il poznodiano frugò nella bisaccia da viaggio ed estrasse un oggetto molto antico, un libro. Lo porse a Dydo e gli fece cenno di sfogliarlo. Era un vocabolario inglese basic – poz moderno.
Dydo lo aprì. La prima pagina era piena di timbri. Uno per ogni definizione.
Dydo guardò meglio. Aabrul, n : Fuoco. Sopra, inchiostro rosso: Marchio Reg. 245 – PNA Assicurazioni. Abbaj, a : nervoso. Brevetto 675 – Istituto di Psichiatria “N.Kos”.
Sfogliò ancora. Ogni parola, un timbro. Migliaia di timbri e poche, sterili eccezioni.
Toccò a Dydo non riuscire a parlare.
Il poznodiano con ampi cenni gli fece capire di tenersi il dizionario.
Sotto la fila scura degli occhi si allungò uno strano sorriso:
- Cimafo! – disse – Cimafo!

Neoliberismo o fantascienza?


***


Alla seconda settimana di navigazione, Dydo era ormai prossimo al confine di Yzo, uno degli otto Grandi Pianeti, i cui rappresentanti si sarebbero riuniti a Cimafo per discutere i problemi della Galassia.
Durante una sosta, gli si avvicinò un temibile Robot Piazzista per proporgli l’ultimo modello di mutande Mexi.
- Grazie, non ne ho bisogno – rispose Dydo con un candido sorriso.
- Errore! – gracchiò il piazzista – Il Primo Comandamento della Nuova Fede Intergalattica impone di accettare qualsiasi acquisto, a meno che il rifiuto non sia strettamente necessario. “Al caval Mercato non si guarda in bocca”, come dice il proverbio. Ecco, sono 400 scudi.
- E’ troppo caro! – protestò Dydo
- Errore! – strillò ancora il robot – Rifiuto non strettamente necessario. Non puoi discriminare un prodotto in base al prezzo. Ecco, sono 450 scudi.
Dydo allungò una mano sulle mutande e subito la ritirò:
- Ahi, pizzicano! Di cosa sono fatte?
- Errore! Materiale segreto. Comunque, non puoi rifiutare l’acquisto per via del prurito. Nessuno ha dimostrato che è nocivo per la salute. Anzi, secondo alcuni stimola la circolazione. Eventuali reclami devono essere rivolti alla ditta Mexi. Ecco, sono 500 scudi.
Quando capì che non c’era niente da fare e che non poteva proseguire senza acquistare le mutande, Dydo si rassegnò. Il prezzo era salito a 700 scudi. Unica alternativa per farsi rimborsare: dimostrare che le mutande erano oggettivamente dannose.
La ditta Mexi si trovava su Yzo. Dydo riprese a nuotare.
Alla dogana, una guardia lo bloccò con tentacoli meccanici:
- Alt! Mostra il tuo Documento di Utilità per Yzo.
- Non ce l’ho. Sono solo di passaggio.
- Allora non puoi entrare. Secondo Comandamento della NFI: Solo chi è strettamente necessario a un Pianeta può abitarlo.
- Davvero? – domandò Dydo incredulo – E i bambini allora?
- Niente bambini. Sono inutili. E l’ultimo adulto è morto tre mesi fa.
I sospetti di molti risultavano confermati.
Su Yzo ‘vivevano’ solo robot.


***


Ultimi sette giorni di viaggio. Il più era fatto. Poteva permettersi di rallentare. Poteva permettersi di dormire.

La prima notte, Dydo sognò. Al risveglio, non ricordava bene. Forse macchie di colori e sfumature. Forse immagini più precise dissolte alla luce del giorno. Interrogò a lungo il cervello, ma non ne ottenne nulla. Nuotò molto più a lungo del solito.

La seconda notte, sognò un vecchio. Il vecchio era seduto di fronte a una leva. Ogni volta che l’azionava, si spegneva una stella, una galassia moriva. Una folla, tutt’intorno, stava a guardare. Dydo gridava: “Fermati!”. Qualcuno gridava: “Silenzio!”. Il vecchio tirava la leva.

Il terzo sogno lo fece di giorno, appisolato su un asteroide. Stessa scena. Il vecchio, la leva, la folla.

Questa volta Dydo si buttò sul vecchio. Gli spezzò il polso. Metà della folla applaudì. L’altra metà scese dagli spalti per linciarlo. Gridavano: “Non si picchiano gli anziani!”. Gli fecero molto male.

Sdraiato sul pannello di un satellite, Dydo fece il quarto sogno: Era da solo col vecchio. Il vecchio diceva: “Basta litigare! Mettiamoci d’accordo. Non ti piace come mi vesto? La prossima volta posso mettermi un kimono, okay? Oppure, non so: facciamo tirare la leva a un fanciullo bendato, simbolo dell’innocenza. No? Un povero fanciullo africano? Nemmeno? D’accordo, ultima offerta: prima che io abbassi la leva, ti concedo dieci secondi per spiegare come mai non sei d’accordo. Che ne dici?”

Due gironi prima della meta, Dydo sognò per la quinta volta. Il vecchio, la leva, la folla. Lui si buttava ma veniva travolto da un quintale di fango e letame.

Il sesto sogno lo mise di buon umore. Solita scena. Ma insieme a lui gridava: “Fermati!” anche metà della folla. Gli altri sbraitavano: “Silenzio!”, ma non riuscivano a farsi sentire. Dydo si lanciava, e invece del polso del vecchio, spezzava la leva. Tutti restavano ammutoliti. Il camion del letame sprofondava sotto il peso del carico.

Il settimo sogno lo fece ad occhi aperti: Era a Cimafo. Non era solo. Una moltitudine sognava con lui.


***


Caro Paolo, cari lettori di “Sabato Sera”,

vi chiedo scusa: per quattro settimane ho raccontato la favola di Dydo e della Riunione dei Grandi Pianeti e adesso, al momento di scrivere il finale, mi mancano le parole.

Forse tra qualche mese troveremo metafore e allegorie potenti per raccontare l’abisso di Genova. Oggi no. Oggi chi ha visto e sentito ha solo un compito. Dire: io ho visto. Io ho sentito. Con la consapevolezza che, troppe volte, la verità è l’inciampo di chi la pronuncia, trasformata in follia, derisa da molti.

Non so bene da dove cominciare, andrò in ordine sparso. E se qualcuno ha nostalgia delle favole, è libero di credere che quel che segue sia solo fantasia. Io ho sentito. Io ho visto.

Ho sentito parlare dei rigidi controlli delle forze dell’ordine. Ebbene: da Bologna al campeggio di Genova nessuno ha guardato il mio bagaglio. Poteva esserci un mitra. O meglio: in mezzo a noi poteva esserci qualcuno con un mitra. La polizia non se n’è preoccupata. Perché?

Ho visto caricare sulle navi centinaia di greci ‘pericolosi’, rispediti a casa senza nemmeno guardargli un documento. A Genova, intanto, i veri teppisti devastavano la città senza che nessuno riuscisse a fermarli.

Ho sentito molti genovesi raccontare di Tute Nere che scendono da un blindato dei Carabinieri e parlottano amabilmente col maresciallo. Mi è rimasto il dubbio. Poi ho visto le immagini registrate.

Venerdì ho parlato con un giornalista olandese. Aveva appena intervistato due tedeschi del Black Bloc. Ammettevano senza problemi di aver devastato banche e assicurazioni. Sostenevano però che auto distrutte, cassonetti bruciati, gente picchiata, cortei pacifici usati come scudi non erano opera loro ma di teppisti infiltrati, guidati ed eccitati dalle forze dell’ordine. Quella sera stessa ripartivano per la Germania.

Sabato ho visto gruppi né di anarchici, né di Blacks, ricorrere alla violenza, dopo il chiaro invito di venerdì: chi spacca tutto e usa le spranghe, ha il via libera. I cortei pacifici, no.

Giovedì ho visto una pioggia torrenziale cadere su Genova e trasformare ogni dormitorio coperto in un rifugio. Sabato, in uno di questi dormitori, i manganelli hanno sfasciato decine di teste. Motivo: presunti teppisti si trovavano là dentro. A dimostrazione che i pacifici coprivano i violenti. C’erano zaini pieni di spranghe, bottiglie, coltelli. Le spranghe, non so: lì accanto c’era un cantiere. I coltelli, se andate a un campo scout ne trovate decine: multiuso svizzeri e Opinel.

Ho visto un centro stampa devastato dalla polizia. Computer sventrati, videocassette sequestrate. Perché?

Ho visto lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo contro un’ambulanza. Ho visto manganellate su un medico. Su una ragazza a braccia alzate.

Ho sentito che viene accusato di omicidio un ragazzo di vent’anni, catapultato a Genova da una città del Sud, munito di pistola, proiettili e della certezza di fare il proprio dovere. In altri casi si accusano anche i mandanti dell’omicidio.

Ho sentito parlare con insistenza di una ragazza morta. Forse investita da un blindato, forse raggiunta da una pallottola vagante, forse presa di mira. Poi, più nulla. Dove ritroveremo il corpo? In mare? All’appello, mancano tanti altri.

Soprattutto: Ho visto una folla mai vista, enorme, pacifica, chiedere a otto politici di piantarla con le loro riunioni da Signori del Mondo piene solo di sfarzo e di menzogne.

E ho sentito che gli stessi otto hanno invece tanta voglia di rivedersi. Come se niente fosse. In Canada, tra un anno.


***


Lettera data in Genova, il giorno 28 di luglio 2001


Agli eminentissimi Signori della Terra,


Signori onorandissimi,

come da Voi richiesto, mi accingo a soppesare successi ed errori dell’operazione genovese e a illustrare, dacché lo domandate, la mia modesta opinione circa le cose future, grato per l’eventualità che m’offrite, d’esserVi utile.
Come già Vi dissi, non è stato difficile lasciare campo aperto ai violenti, aizzarli anche, per giustificare l’uso della forza. I giovani ultras nazisti del pallone si sono ben comportati e meritano gratifica. Allo stesso modo, ringrazierei i signori della scorsa legislatura, ché senza Quarta Arma e Comparto Sicurezza la gestione militare e senza mediazioni dell’ordine sarebbe stata più ardua.
Abbiamo però sottovalutato alcune situazioni: in primis, la vasta presenza di fotografi e telecamere. Poi, la capacità di controllo dei ribelli: nella giornata di sabato si prevedeva che un numero ben più elevato si lasciasse andare a gesti violenti, dopo quanto accaduto il giorno prima. Ancora: la vastissima partecipazione al corteo del 21, quando invece, grazie alle parole del Presidente Ciampi e del maggior partito d’opposizione, si sperava in qualcosa di più ridotto, dunque più violento, con meno testimoni, più facile da annientare. Infine, nel dare carta bianca alle milizie, promettendo copertura, non si tenne in conto il livello di abiezione che esse possono raggiungere in simili frangenti, qualora si sentano protette. Senza quest’ultimo errore, non avremmo avuto le piazze di nuovo piene il giorno 24, cosa che ha ridato fiducia e compattezza ai rivoltosi.
L’importante, comunque, è che pochi abbiano capito che Genova non è né un episodio isolato né un evento ‘italiano’ e che si tratta invece di una prova generale di come, nel Nuovo Ordine Mondiale, dev’essere gestita la protesta. Controlla o Reprimi.
A questo punto occorrono difesa e contrattacco: far cadere qualche ‘mela marcia’; coprire la strategia bellica ammettendo alcuni eccessi; confinare l’orrore tra le mura delle Diaz e di Bolzaneto; colpire la fazione più fastidiosa, gli Imbianchini, col benestare della sinistra, alla quale gli stessi hanno dato spesso da pensare. Alcuni membri dell’opposizione già indicano questa strada suggerendo che spranghe e scudi, pari sono. Sperano forse, in tal modo, di fagocitare la fazione moderata dei ribelli e trarne nuova linfa vitale. Non li ostacolerei e anzi, se la commissione da loro richiesta, servisse a inventare connivenze tra Imbianchini e Beccamorti, la istituirei senz’altro, in cambio di qualche favore.

Raccomandandomi sempre alla protezione delle Vostre Signorie, bacio le mani umilmente.


Di Genova Brignole,

Il fedele osservatore Vostro,

Q


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SORPRENDENTE NOVITA' NEL REGISTRO DEGLI INDAGATI

Anche Gesù di Nazareth era un violento

Avvisi di garanzia per cattolici e protestanti


La commissione d’indagine sulla violenza lancia un’accusa pesante e inaspettata nei confronti di Gesù di Nazareth, detto il Cristo. Sotto la maschera pacifista si nasconderebbe un pericoloso ideologo, fiancheggiatore di gruppi violenti.
Le contestazioni dei magistrati non riguardano il noto episodio della cacciata dei mercanti dal tempio (Mt 21, 12-13). Tale situazione, infatti, rientrerebbe nei limiti della ‘legittima difesa della proprietà’, che nel Nuovo Codice Penale contemplerà anche l’omicidio plurimo, purché accidentale.
Il gesto incriminato è opera di un seguace del Nazareno, che durante l’arresto del santone sguainò la spada recidendo l’orecchio al figlio del sommo sacerdote (Mc 14, 46-47). Secondo alcuni testimoni, Gesù intervenne con colpevole ritardo per fermare l’uomo e pensò di potersi scagionare riattaccando alla meglio l’orecchio del ferito (Lc 22, 51).
Per i giudici, questo episodio scaturì dal clima di tensione fomentato dallo stesso Gesù e da alcune irresponsabili affermazioni sulla necessità della lotta armata. In almeno due occasioni egli fece esplicito riferimento all’uso della spada: “Chi non ha spada venda il mantello e ne compri una” (Lc 22, 36) e “Non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10, 34).
In questo contesto, il famoso detto “Porgi l’altra guancia”, non avrebbe affatto un significato non violento. Si tratterebbe piuttosto di uno sberleffo, esplicita provocazione a proseguire la lite e picchiare più duro.
D’altra parte, sembra che la violenza facesse parte del DNA politico del Nazareno, se è vero che il Padre affermò un giorno per bocca di un portavoce: “Distruggerò uomini e bestie, abbatterò gli empi, sterminerò l’uomo dalla terra” (Sof 1, 2-3)
“La crocifissione” - concludono gli inquirenti - “fu forse un eccesso, e i diretti responsabili dovranno ora risponderne, ma un simile individuo andava comunque fermato”.


***


Si riuniscono di nuovo. A Tylpom. Non solo gli Otto Grandi Pianeti. Tutta la Galassia, questa volta, anche se qualcuno ha disertato. Discutono di una grave malattia degli esseri senzienti, lo specismo. Dydo ha controllato sull’enciclopedia: si tratta della tendenza psicologica, spesso legittimata dalla legge, a creare discriminazioni basandosi sulla presunta superiorità di una specie sulle altre.
In realtà, a Tylpom, si parla di apartheid in senso ampio: non solo verso specie diverse, indigeni, aborigeni, plutoniani, ma anche contro i cuccioli, i poveri, i deboli.
Dydo pensa al suo pianeta. E’ sotto accusa per il trattamento riservato a una popolazione nomade, i Lan. I giornali fanno grandi titoli, quando, durante le partite di lanciadisco, il pubblico imita il verso dell’elefante ogni volta che entrano in azione i Micli, una specie particolarmente obesa.
Eppure nessuno sembra scandalizzarsi, o puntare il dito, per la discriminazione di una strana categoria di esseri: gli Stranieri. Che non possono soggiornare sul pianeta se non sono ‘socialmente utili’. Che vengono rinchiusi in speciali prigioni, in attesa di essere espulsi, quando vengono trovati senza il loro Permesso di Esistere. Nessun altro, sul pianeta, può essere privato della libertà soltanto perché gli manca un documento.
Trattare gli Stranieri in modo diverso dai Cittadini non è apartheid : gli stranieri sono davvero diversi. Sono nati altrove, non qui. Sono davvero inferiori: spesso, orrore!, non hanno nemmeno un Lavoro. E poi ci sono anche profonde ragioni economiche. A Tylpom si discuterà di un pianeta, Emteo, dove la religione impone trattamenti diversi per le diverse classi sociali. L’Economia, a quanto pare, è una religione troppo potente per essere messa in discussione…
Così, mentre tutti i pianeti della galassia si incontrano per parlare di specismo, un astronave carica di uomini e donne, in fuga da un pianeta che tutti, TUTTI, considerano mostruoso, non riesce a trovare nemmeno un satellite che voglia accoglierli.
A Dydo viene in mente una canzone. L’ha ascoltata molto tempo fa, sulla Terra. Com’è che faceva?

Parole, parole, parole…


***


1954. L’Italia ha solo due autostrade complete: Firenze – Mare e Milano – Laghi. La Seicento deve ancora arrivare. Alcuni ragazzi già si divertono a tirare pietre dai cavalcavia. I giornali riportano la notizia con piccoli trafiletti: nessuna vittima, poche auto centrate. Anni Novanta: l’infame giochino riprende (forse non si è mai interrotto). Le pietre uccidono, e questo fa senz’altro la differenza. Pagine e pagine di analisi sociologiche sui giovani senza ideali, sul vuoto della vita in provincia, sui ‘cattivi’ videogiochi, che trasformano la morte in un puff sullo schermo…
Ancora 1954: molti articoli cercano di spiegare ai lettori “perché il tempo è impazzito”. Tra aprile e luglio, sbalzi di temperatura anche di quindici gradi tra un giorno e l’altro. Si dà la colpa agli esperimenti atomici americani nel Pacifico. Cinquant’anni dopo, le follie del tempo fanno ancora notizia, e si pensa con rammarico a quando ancora esisteva la primavera…
Abbiamo la memoria corta. Giornali e televisioni contribuiscono all’oblio, dovendo smerciare news, novità, fenomeni sorprendenti, allarmi rossi, emergenze. Che questo sia il loro mestiere, è quasi un luogo comune. Non sempre però ci si accorge delle conseguenze.
L’ultima emergenza si chiama sicurezza. Nonostante la criminalità sia diminuita costantemente dagli anni ’70 in poi. Il popolo delle villette è sul piede di guerra. Titoli grossi così sul Triangolo della Paura: un luogo dove prima c’erano cinque miliardari per chilometro quadrato, adesso ce ne sono cinquecento e, stranamente, i furti aumentano (non certo pro capite).
Agli occhi dell’ “opinione pubblica” diventa così accettabile: il proliferare di armi da fuoco, di pattugliamenti, di controlli, le ‘ronde pubbliche’, l’equazione criminalità=delinquenza, l’Assessorato alla Sicurezza, la pena di morte per i reati contro la proprietà…
Nello Stato di Allarme Generale si finisce per auspicare la sospensione di leggi costituzionali e diritti umani: privacy, libertà di circolazione, discriminazioni razziali, guerre umanitarie, presunti pedofili sbattuti in prima pagina, teste rotte per vendicare vetrine…
Poi l’allarme cessa e restano le leggi ‘speciali’, insieme al cadavere di Libertà, riverso sull’asfalto.


***


Orso-in-piedi parla:

In altri tempi eravamo felici nel nostro paese e di rado pativamo la fame, perché bipedi e quadrupedi vivevano insieme come parenti, e c’era abbondanza per tutti.
Ma nell’Inverno del Bisonte Bianco arrivarono i Wasichu. Dissero di volere soltanto un poco di terra, quel che basta a far passare le ruote di un carro. Molti di noi si opposero e furono sterminati. Altri si rassegnarono, chiedendo solo di non abbattere la Foresta delle Aquile, perché là dimoravano gli Spiriti.
Passarono poche lune, e i Wasichu scoprirono che su, presso il Madison, c’era quel metallo giallo che essi adorano e li rende pazzi e decisero di costruire una strada per raggiungerlo. Distrussero la Foresta, che gli impediva di passare. Vendettero il legname e lasciarono in piedi solo un albero.
- Ecco – dissero - per i vostri Spiriti basta e avanza. Siamo stanchi di queste superstizioni: gli Spiriti non esistono, e di certo non hanno dimora.
Accadde allora che alcuni Spiriti si accontentarono di quel poco, sopportando il rumore della strada che spaventava anche i bisonti. Altri divennero randagi e andarono ad abitare per qualche tempo nelle macchine dei Wasichu, nelle ruspe e nelle schiacciasassi. Si nutrirono di fumo e rumore e impararono a controllarle.
Nella Luna delle Foglie Cadenti le macchine puntarono sulle case dei Wasichu e le rasero al suolo.
Allora i Wasichu, per punire gli ‘Spiriti Vigliacchi’, decisero di abbattere l’unico albero rimasto. Del resto, quello spazio gli serviva. Noi spiegammo che la maggior parte degli Spiriti non viveva più lì, ma vagava senza dimora, come il coyote. Perché offendere i pochi che erano rimasti? E poi, non era tutta superstizione? Non era forse meglio distruggere le macchine?
Il discorso era semplice, ma essi non lo intesero: caricarono i fucili, bruciarono l’albero, sparsero le ceneri al vento e ci sputarono sopra.
Allora capimmo che gli ‘Spiriti Vigliacchi’ avevano trovato una nuova dimora. E i Wasichu se li sarebbero portati dentro, per sempre.


***

C’era una volta la chiacchiera da bar. Scorreva nelle bocche insieme al cappuccino, rotolava con le bocce di un biliardo, colpiva a destra e a sinistra, senza risparmiare nessuno, come la biglia impazzita del flipper. Aleggiava per qualche tempo nel locale, e poi svaniva, fatta della stessa sostanza del fumo di sigarette. Nessuno ne conservava memoria troppo a lungo: il giorno dopo si poteva rinnegare tutto quello che si era detto, smentire, gridare al fraintendimento, ma il più delle volte non ce n’era affatto bisogno.
Nella chiacchiera da bar si era tutti uguali, non contava quanto uno avesse studiato, se aveva letto i giornali oppure no, se era istruito o ignorante. In questo, si trattava dello sport più democratico del mondo: tutti potevano partecipare con le stesse chances, solo l’allenamento faceva la differenza. I criteri in voga per incoronare un campione erano diversi a seconda delle circostanze, ma si può dire che la specialità più importante, il Tour de France delle discussioni da bancone, fosse la sparata , matrimonio felice tra contenuti eccessivi ed espressioni esagerate.
C’era una volta la chiacchiera da bar. La maggior parte degli avventori sapeva bene che solo al bar, e in pochi altri posti, era possibile praticare quello sport. In altre situazioni si rischiava di essere presi per deficienti. Non tutti però erano così lucidi: alcuni si incaponivano a portare quel genere di discussione fuori dalla riserva. Non per orgoglio pellerossa o vocazione da WWF. Semplicemente, non si accorgevano della differenza. Campioni della sparata, idoli del bancone, se la prendevano molto male quando qualcuno, in tutt’altro contesto, gli tappava la bocca con un vero ragionamento. Decisero allora di risolvere la situazione: divennero una lobby, poi un club, quindi un partito. Elessero un Presidente del Consiglio, e la chiacchiera da bar, uscita dal recinto, sdoganata, divenne discorso politico, dichiarazione ufficiale, legge. Fu il doping che uccise quello sport. Nessuno aveva più bisogno di scendere al bar per ascoltare una bella sparata, bastava guardare il TG delle venti. Non si capiva più se Peppino Sciacquapalle faceva politica o parlava per parlare. Non si capiva più se il Presidente del Consiglio era seduto al bar o in Parlamento. I Campioni cominciarono ad essere presi sul serio. Si arrivò persino a supporre che esprimessero quello che pensavano. Fu la loro fine.
Quando se ne accorsero, era troppo tardi.


***


Ci sono piedi che camminano ancora.
Altri stanno fermi, sul ciglio della strada. Non hanno ben chiaro se ne vale la pena. Devono consultare l’agenda, vedere se trovano un buco. Pensano che potrebbe piovere. Nel frattempo, parlano di pace.
Molti invece camminano. Per capire se ne vale la pena. Per trovare un momento libero. Per arrivare là in fondo, dove hanno intravisto il sole. Per capire cosa significhi pace.
Altri si sono bloccati, al margine di una linea: il confine arbitrario tra due culture, la demarcazione frettolosa tra violenti e pacifisti, la soglia di casa. Naturalmente, vogliono stare in pace.
Per fortuna esistono anche altre linee: percorsi per unire luoghi e aggirare ostacoli. Corpi e idee disobbedienti che non si stancano di attraversare Zone Rosse, al di là del Terrore e dell’uscio insanguinato dell’Occidente.
Altri si sono fermati per sbarrare il passo a chi avanza, per sfilare il manganello, per prendere la mira. Con buona pace di almeno due piedi che ora non possono più camminare.
Ma molti continuano a farlo anche per lui, per tutti. Per chi ha sparato e per chi lo ha convinto che era giusto farlo. Per chi ha troppo lavoro e per chi non ne ha affatto. Per chi vuole liberare l’economia, le merci e il denaro ma non gli uomini e le donne del pianeta.
Altri piedi si sono fermati, battendo i tacchi in attesa di un ordine: marciare su Kabul, devastare Grozny, seminare il panico a Dyarbakir, comprare o vendere azioni, licenziare qualche migliaio di persone, votare l’ennesima legge assurda. Ma tranquilli, lo fanno per la pace.
Quando lo mastichi troppo, il boccone perde sapore. Quando la usi troppo spesso, una parola perde significato. Pace. Tutti la vogliono. Alcuni piedi camminano per trovarle un senso. Non c’è pace senza diritti.
Altri piedi si alzano, ma solo per schiacciare. O per prendere a calci i dubbi. O per ballare una danza di morte.
Altri marciano compatti. Si illudono di avanzare, ma girano solo in tondo, sulle spirali della Guerra.
Ci sono piedi che ancora camminano.
Profughi da un pianeta alla deriva. Convinti che un altro mondo è possibile.
Per ora vanno ad Assisi.

Potete star certi che non si fermeranno.


***


Nel 1943 il padre di Topolino, Walt Disney, realizzò il film Vittoria tramite potenza aerea. Pagò tutto di tasca sua, conquistato dall’idea che la tecnologia aeronautica fosse in grado di trasformare il mattatoio della guerra in un’asettica sala operatoria. Il padre di questa teoria è Alexander P. de Seversky, un russo emigrato negli States dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Il film s’ispirava a un libro in cui Seversky avvertiva gli americani: non siete più al sicuro, solo la supremazia aerea vi restituirà l’isolamento perduto. Nella scena clou, l’Aquila americana piombava dall’alto sulla piovra giapponese per annientarla. Un giornalista di Time osservò che il film non mostrava mai il bersaglio della potenza aerea, i civili a terra. La pellicola propagandava un’immagine astratta della guerra, occultando le vittime di un ‘giocondo olocausto’. Il volo dell’Aquila rendeva invisibili i dettagli.
Mentre Disney girava, a Seattle nasceva il bombardiere a lungo raggio B-29. Purtroppo, l’aereo non si dimostrò abbastanza efficace nelle esercitazioni con bombardamento di precisione ad alta quota. Si decise allora di semplificare il problema dell’obiettivo. In una notte di marzo del 1945, 334 aerei partirono dalle Isole Marianne carichi di sette tonnellate ciascuno di bombe incendiarie. Destinazione: Shitamichi, il cuore di Tokyo. Un obiettivo di 25 chilometri quadrati. Migliaia di case di legno. Centomila cadaveri ardenti in sei ore. Forse l’equipaggio dei bombardieri non vide i corpi contorcersi nel fuoco, ma l’odore di carne bruciata arrivò fin lassù. La rivista Time lo definì ‘un sogno che si è avverato’. ‘Accesi in maniera adeguata, i giapponesi bruceranno come foglie ad autunno’.
Tre anni dopo Curtis LeMay, responsabile di quel massacro, dirigeva lo Strategic Air Command. Nel timbro del SAC, tre fulmini, un ramo d’ulivo e il motto ‘La pace è la nostra professione’.
LeMay è morto nel 1990. Sulla Marcia di Assisi aleggiava ancora il suo fantasma: un vero professionista.
(Informazioni desunte da: Phil Patton, Dreamland, un reportage dall’Area 51, Fanucci 2001)