Da: Terre
di Mezzo - Il giornale di strada, n. 127, agosto/settembre 2005, pag.
16: a cura di Davide Musso Senza i racconti scordatevi i legami sociali. Anzi, è proprio il racconto "l'attività sociale per eccellenza": senza giri di parole il collettivo di scrittori bolognesi "Wu Ming" spiega a "Terre di mezzo" cosa pensa dell'Italia di oggi, letteraria e non. Famosi per i romanzi scritti "a dieci mani" (alcuni dei quali tradotti in diverse lingue) ma anche per le iniziative fuori dal comune (come la possibilità di scaricare i libri gratuitamente da Internet), i Wu Ming dispensano preziosi consigli di lettura e suggeriscono a un piccolo editore come "Terre" che esordisce a settembre con la nuova collana di narrativa, come organizzarsi per resistere. Intervista via e-mail e risposte, anche qui, rigorosamente collettive. Cosa significa fare letteratura oggi in un Paese come l'Italia, che legge pochissimo, che scivola sempre più verso un'ignoranza globale e "catodica"? Per prima cosa va detto che noi non facciamo "letteratura": noi raccontiamo storie, e lo facciamo con ogni mezzo necessario: i libri, la voce, il cinema, il teatro, il giornalismo, se ci sarà possibile anche i videogames, i giochi di ruolo, il sudoku (!). Nessuna società, per quanto in crisi si trovi, può fare a meno del raccontare, dei cantastorie. Senza racconto, non esiste legame sociale. Gran parte di quel che apprendiamo ogni giorno e ci serve per vivere arriva a noi in forma di narrazione: news, film, sceneggiati, libri, aneddoti sull'autobus, lezioni scolastiche, storielle da bar, barzellette, rapporti di polizia, verbali di riunioni, constatazioni amichevoli di incidenti... Cambiano (a volte degenerano) le modalità e la qualità del raccontare, ma il racconto rimane, è l'attività sociale per eccellenza, il linguaggio umano è nato quando le cose da comunicare sono diventate troppo complesse per esprimerle con un grugnito, quando cioè l'esperienza accumulata dalla comunità ha reso necessario il racconto. Nell'Italia di oggi, c'è più che mai bisogno di qualcuno che racconti: racconti il Paese, racconti di un legame sociale messo a dura prova, o magari racconti di altro, ma se si coraggiano e si spengono le voci dei cantastorie, allora non c'è più speranza. Ha senso che un piccolo editore come "Terre di mezzo" provi a farsi spazio in un mondo come quello editoriale, dove di spazio ce n'è pochissimo, risucchiato com'è dai grandi gruppi editoriali che monopolizzano il mercato? Certo, ma bisogna avere fantasia. Occorre saper combattere la guerriglia. Bisogna saper adottare strategie e tattiche per ottenere il massimo con un budget limitato. Il "libero mercato" è una fandonia, non è mai esistito: non c'è speranza che un libro pubblicato da un piccolo editore, per quanto buono o addirittura buonissimo, arrivi da solo nelle palle degli occhi di chi lo leggerà e lo amerà. Per farsi spazio, occorre creare canali alternativi. Se per queste opere le grandi catene di librerie sono una partita persa (troppa competizione sugli scaffali, tempi bulimici che divorano le chances di farsi vedere, personale poco o zero competente), occorre inventarsi altro. I piccoli editori devono aiutare i piccoli librai a resistere, organizzando presso di loro le presentazioni dei libri che pubblicano. I piccoli editori devono aiutarsi tra loro, sviluppare la "coopetizione" (collaborazione tra concorrenti). I piccoli editori devono cavalcare l'innovazione: a minore massa corporea corrispondono migliori riflessi. I piccoli editori devono abbracciare la filosofia del copyleft, non devono temere la rete, il file sharing, i download gratuiti. Anzi, devono usare tutto questo. La rete offre l'opportunità di aumentare a dismisura il passaparola intorno ai libri (se i libri valgono, beninteso). Se l'oggetto-libro è curato, se vale la pena possederlo o regalarlo, verrà comprato e regalato comunque. I piccoli editori, inoltre, dovrebbero considerare il valore aggiunto (in termini di immagine, soprattutto) del pubblicare su carta riciclata al 100% e sbiancata senza uso di cloro, e più in generale prendere parte a qualunque iniziativa punti a ridurre l'impatto ambientale del produrre libri. Cosa significa fare letteratura "sociale"? Chi scrive non può né potrà mai chiamarsi fuori dalla società in cui vive. Nessuno può farlo. L'individualismo non esiste, è un'allucinazione, un voler-essere che non ha attinenza con la realtà. L'essere umano non potrebbe nemmeno esistere senza la vita associata, senza l'aiuto dei suoi simili, a cominciare dal primo cerchio concentrico, la coppia bimbo-madre. L'essere umano, al contrario di altri mammiferi, nasce senza pelliccia, con la vista offuscata e totalmente incapace di ambulare. Se non ci fosse la famiglia ad aiutarlo, sostentarlo e farlo crescere, non sopravviverebbe un giorno. L'essere umano è "animale sociale", come diceva quel tale. "Letteratura sociale" è dunque una tautologia: non esiste nulla di non-sociale. Certo, esiste una letteratura del narcisismo autoriale, dell'egocentrismo espressivo, dell'autocontemplazione, del disgusto per le relazioni con altri umani... Ma anche quella è letteratura sociale: è la letteratura di chi preferirebbe non riconoscere alcunché ai suoi simili e non dover dare un contributo alla comunità intorno. C'è addirittura chi crede che questa sia LA letteratura. Credano quel che vogliono, noi abbiamo un altro approccio. Appunto, noi siamo cantastorie. Tra i Paesi che, nel bene e nel male, dominano culturalmente l'Occidente ci sono gli Stati Uniti. Quali sono secondo voi gli autori Usa da tenere d'occhio e perché? Con Stephen King in semi-ritiro (almeno così dice lui) dopo aver concluso "La torre nera", James Ellroy che da tempo sembra concentrarsi più sull'esasperazione degli stilemi che sul costruire storie, ed Elmore Leonard che ha ormai ottant'anni, diremmo che la triade dei nostri autori statunitensi preferiti è ormai "vecchia guardia". Poi c'è Ursula K. Le Guin, anche lei ultraottantenne. Patricia Highsmith è morta. Il romanzo neo-borghese non ci titilla granché. Per il resto, leggiamo molta più narrativa italiana, europea e latino-americana. E in altri Paesi del mondo? Ci sono voci letterarie - magari snobbate dai grandi editori - che invece andrebbero ascoltate? Da noi si pubblica ben poco, quasi nulla, di letteratura africana. Se non fosse per Iperborea, non sapremmo nulla degli autori scandinavi. L'Europa orientale, da quando non c'è più la voga "dissident-chic" per oggettiva mancanza di regimi-babau, è una nebulosa insondabile. Non può mancare l'Italia: autori e temi da seguire nel nostro Paese. In Italia la situazione è florida, negli ultimi dieci anni c'è stata una deflagrazione di storie, storie raccontate da autori che non temevano di usare temi e stilemi del "genere". Pietre miliari sono, secondo noi: la serie del "Metallo urlante" di Evangelisti ("Metallo urlante", "Black Flag" e "Antracite", corredata dall'ultimo romanzo "Noi saremo tutto"); "Romanzo criminale" di Giancarlo De Cataldo; i romanzi storici di Andrea Camilleri (non quelli con Montalbano); la "trilogia dei decenni" di Marco Philopat ("Costretti a sanguinare", "La banda Bellini" e "I viaggi di Mel"); i romanzi di Massimo Carlotto esterni alla serie dell'Alligatore ("Le irregolari", "Arrivederci amore ciao" e "L'oscura immensità della morte"). Per ora ci fermiamo qui, ma ce ne sarebbero molti altri. All'appiattimento culturale italiano potrebbe contribuire anche una decisione dell'Unione Europea che costringe le biblioteche pubbliche a far pagare il prestito dei libri. Cosa pensate della questione? Invitiamo tutti gli autori e gli editori a fare come noialtri, cioè includere nei loro libri questa dicitura: "L'autore difende la gratuità del prestito bibliotecario ed è contrario a norme o direttive che, monetizzando tale servizio, limitino l'accesso alla cultura. L'autore e l'editore rinunciano a riscuotere eventuali royalties derivanti dal prestito bibliotecario di quest'opera". Se tutti gli autori si dicono contrari, ai bibliotecari sarà più facile ricorrere alla disobbedienza civile. La vostra letteratura è no copyright, i vostri libri si possono scaricare dal vostro sito. Però pubblicate per un grande editore. Spiegate il senso di un'operazione del genere. Pubblichiamo per grandi editori perché è la nostra strategia fin dalla seconda metà degli anni Novanta (spostare l'accento dalla miriade di attentati nella giungla alle offensive in stile Dien Bien Phu), e perché campiamo di royalties: più vendiamo e più riusciamo a stare in piedi. Più i nostri libri vengono scaricati, più copie vendiamo in libreria. Il segreto sta in una parolina magica: "passaparola". Inoltre, il potenziale acquirente non compra a scatola chiusa: può scaricare e vedere se il romanzo gli sconfiffera o no, e poi decidere cosa fare. Il lettore senza il becco di un quattrino può leggere gratis. Il lettore a cui sta sui cosiddetti l'editore per cui pubblichiamo, può accedere comunque alla nostra produzione. Notizia letta di recente: il prossimo libro di Stephen King verrà pubblicato in America da un piccolo editore: una scelta precisa dello scrittore di finanziare, di fatto, un editore di cui immagino apprezzi il progetto. Due domande: che ne pensate di una mossa del genere? E: siete disposti a pubblicare un libro con "Terre di mezzo editore"? Ne pensiamo bene, ovviamente. Del resto, noi come Wu Ming abbiamo pubblicato per editori microscopici come Bacchilega ("Ti chiamerò Russell"), editori ultraspecializzati come BD (il fumetto "La ballata del Corazza") e per un editore medio come Fanucci ("Havana Glam"). Come Luther Blissett, abbiamo pubblicato per AAA, Castelvecchi e chissà quanti altri. Terre di mezzo? Non mettiamo le mani avanti. Si vedrà. L'intellettuale americano Noam Chomsky suggerisce, al fine di scoprire che cosa sia il vero consenso in una società, di cercare proprio quelle scelte che i critici “influenti” non criticano. Qui si rivelerà il loro grado di ossequio e di obbedienza allo stato. A questo proposito dice: "Nemmeno i dibattiti più aspri costituiscono un indizio valido per pensare che i valori del consenso siano messi in discussione. Dai falchi come dalle colombe ci si può aspettare che abbiano opinioni diverse circa l' esatta natura delle tattiche vergognose, reali o immaginarie, adottate dai nemici dello stato in un determinato momento, ma la discussione si manterrà presumibilmente entro un limitato ambito fissato da premesse ideologiche". Credete che a questo livello nasca la separazione tra le voci censurabili e quelle, anche se critiche, accettabili? Quello che davvero non si può criticare in questa formazione sociale, quella turbo-capitalistica, è la proprietà in tutte le sue forme e articolazioni. Il principio di proprietà, il diritto di proprietà, la proprietà materiale, quella intellettuale... Qualunque critica, anche dura, è considerata accettabile finché non mette in discussione la proprietà. Viviamo in tempi di integralismo proprietario, proprietofilo, proprietomane. Oggi basta ricordare che in tutte le società storiche è esistita un'area di bene comune e di "pubblico dominio", o spiegare - come già fece Polanyi - che il mercato, cioè l'insieme delle dinamiche proprietogene, non può e non deve invadere tutto l'esistente, e si è già descritti come folli, criminali o folli criminali. Basti vedere tutta l'isteria sulla "pirateria", le crociate in difesa del copyright-così-come-lo-conosciamo... Di solito, i difensori della proprietà evocano scenari romantico-bucolici, il recinto che delimita il campicello, la fabbrichetta tirata su con le proprie mani, il musicista che compone con chitarra e matita nella gelida mansarda arredata alla bell'e meglio... A parte che l'espropriazione e recintazione delle terre comuni (enclosure) nell'Inghilterra di inizio Settecento fu un vero proprio atto di guerra del proto-capitalismo contro la società, quindi anche quel recinto e quel campicello andrebbero forse visti con meno indulgenza, il punto lo ha già spiegato Marx: il capitalismo monopolistico, quello dei trust, delle società anonime, delle multinazionali, dei giganteschi conglomerati, ha già emarginato e reso esiziale quel tipo di proprietà. Anzi, la boutade di Marx era che il capitalismo era il vero nemico della proprietà privata! Oggi ogni ambito della vita associata è aggredito dalle "privatizzazioni", il profitto ueber alles, e chi vuole limitare questo processo è messo alla gogna mediatica come nemico della libertà. Guai a esprimere una critica anche parziale della proprietà: diranno che vuoi lasciare la gente in mutande, rubargli l'orologio o il telefonino come un qualunque teppista di strada. Parleranno della Russia, del "libro nero del comunismo", di Stalin, di qualunque cosa possano usare come diversivo. Intanto loro, i difensori della libertà, si appropriano di ciò che era comune, terra, acqua, aria e linguaggio, e fanno del mondo un inferno. La voce più censurata oggi è quella di chi dice che la proprietà privata deve avere dei limiti certi e invalicabili. Storicamente nelle grandi dittature la censura veniva usata nel nome del bene comune. Le commissioni di censura si arrogavano il diritto di vita o di morte sulle opere di pensiero e di arte. Oggi la censura sembra operare in modi differenti e su soggetti culturalmente più preparati, eppure continua ad esistere. Credete che la causa di ciò sia l'indifferenza del “popolo” o l'affinarsi delle tecniche coercitive del potere? Non c'è indifferenza di fronte alla censura plateale, conclamata. Perlomeno, non c'è un'indifferenza generale. E' che la censura è oggi qualcosa di viscido, di guizzante, riconoscerla e definirla è un po' come cercare di afferrare un'anguilla che si dibatte. Inoltre, il discorso a giustificazione della censura si è fatto più arzigogolato, contorto, difficile da seguire e quindi l'opinione pubblica ha dei cali d'attenzione, si lascia un po' ipnotizzare da questi verbosi prelati che ti spiegano il busillis del perché certi discorsi si dovrebbero o non si dovrebbero fare. Una volta c'era solo la questione della decenza, dell'oltraggio al pudore... Oggi, accanto al prete e alle beghine, trovi schierati lo psicologo, il sociologo, il massmediologo... Di solito costoro si fanno scudo coi bambini, come i cattivoni di certi film. La tal cosa non può andare in onda perché può turbare i bambini, il tal sito non può stare on line perché se lo vede un bambino chissà cosa succede, il tal film dev'essere vietato ai minori di 18 e quindi non può essere acquistato dalle tv perché c'è una bestemmia, o en passant si vede un cazzo moscio... Ai tempi di Luther Blissett abbiamo analizzato questa storia dei bambini come pretesto, in diversi articoli e saggi. Questa è senz'altro una delle strategie. L'altra, vecchia come il mondo, è togliere diritto di cittadinanza a opinioni giudicate "faziose", ma chissà perché il potere colpisce sempre e solo la (presunta) faziosità di chi vi si oppone, mai e poi mai la propria, che ha effetti infinitamente più nocivi, perché è scagliata dall'alto e se incontra poca resistenza da parte dell'aria cadrà a velocità impressionante. Scusa le metafore... Dice Giorgio Bocca nel suo libro Basso Impero : "La rivoluzione tecnologica ha premiato la comunicazione e danneggiato l' informazione, ha ridotto al minimo la capacità di capire e di distinguere nel mare delle notizie quelle vere da quelle false. Al termine di una giornata passata sotto il bombardamento dei media, nel frastuono e nel plagio degli annunci pubblicitari, nella confusione, ripetizione, moltiplicazione degli inviti al consumo si è inebetiti e disgustati". Secondo voi esiste una sorta di “censura tecnologica”? Come può essere combattuta? L'espressione "censura tecnologica" ci sembra impropria, o meglio, la utilizzeremmo in un altro contesto, quello del "digital divide". Di fatto, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale è esclusa dal flusso informativo perché non ha i mezzi per captarlo. Non parliamo soltanto di Internet: secondo l'ONU, il 50% della popolazione mondiale non ha mai fatto una telefonata in vita sua. Ecco, questa è "censura tecnologica". Per quanto riguarda il bombardamento informativo, sì, è una realtà, oggi siamo assaliti da dati in tale quantità da non poter trarre una sintesi. E' necessaria una "riduzione di complessità" che non banalizzi il mondo, mai come oggi abbiamo bisogno di onesti divulgatori, persone che afferrino i nodi di fondo e riassumano le questioni rendendole comprensibili. Persone che si dedichino a fare i collegamenti giusti e spiegarli, la cui militanza quotidiana consista nell'inchiesta, che tengano un archivio, che decodifichino a uso di chi non ha tempo per farlo. E invece quello che latita oggi - a parte poche gloriose eccezioni di cui infatti si parla tantissimo, tutti li indicano a dito come quando in cielo c'è l'arcobaleno - è proprio il giornalismo investigativo, serio, documentato, rigoroso. Latita la critica al potere. Pensa a come i media americani si sono sdraiati sulla politica della Casa Bianca all'inizio della guerra in Iraq, coi giornalisti "embedded" e le conferenze-stampa addomesticate... Si sono resi conto solo tardivamente di certe cose, e solo in parte, e alcuni - come il New York Times - hanno pure chiesto scusa ai lettori, ma era troppo tardi... Un livello minimo, vitale, di controinformazione è stato garantito dai "cani da guardia" di Internet e dei blog, ma non sappiamo se la strada possa essere quella e basta, perchè spesso la controinformazione "allo stato brado" si limita a contemplare la complessità anziché cercare di ridurla, soprattutto nei periodi di crisi degenera in complottismo, un pensiero disordinato che getta tutto nel calderone, anche complotti che in teoria dovrebbero elidersi a vicenda eppure coesistono, miracoli della paranoia... La realtà si perde in un reticolo di congiure e cospirazioni, e la psicosi del "dietro le quinte" genera impotenza e una forma di inconsapevole "intelligenza col nemico", cioè col potere. Intendiamo dire che certi complottologi descrivono il potere come più forte di quel che è, e questo ha un effetto scoraggiante. No, noi crediamo in un modello di informazione che si avvalga dei contributi di professionisti e "dilettanti", senza che i primi diventino una casta sospettosa, una corporazione di persone che temono il cambiamento, e senza che i secondi si illudano di poter sostituire del tutto il giornalismo. Come è possibile essere liberi in un contesto in cui i media sono società che condividono gli interessi dei grandi gruppi che dominano i governi? Non esiste libertà dove non c'è bisogno di lottare per essa. Può sembrare un paradosso, ma intendiamo dire che la "libertà" non è un dato definitivo, stato di cose, condizione che, una volta raggiunta, non sia perfettibile e non possa essere messa in discussione. La libertà è un orizzonte verso cui tendere, non la raggiungi mai perché si sposta in avanti insieme a te. Non puoi mai dare per scontato il risultato ottenuto, non c'è mai un momento in cui puoi dire: "Ecco, adesso sono libero, non ho più bisogno di lottare". La libertà va riaffermata di continuo, bisogna sempre cercare di raggiungerla, il senso sta nell'andare avanti, non nel raggiungere la meta. Possono esserci dei blocchi, delle deviazioni, addirittura degli arretramenti, ma nessuno di essi può essere definitivo. Anche in una situazione di grande concentrazione di poteri, la lotta per la libertà continua, prosegue nelle nicchie, nelle intercapedini, le invade, le gonfia, le infiltra, le fa marcire finché non è in grado di sfondare le pareti e fa crollare un'ala dell'edificio dell'oppressione. Scusa l'allegoria... Esiste un altro fenomeno rilevante, l'autocensura, che è retaggio della concentrazione del potere e degli interessi, una problematica che non è solo un fenomeno del passato. Crede che questo stato di cose possa portare ad un' autocensura personale da parte dell'individuo? Nella vostra carrieravi sistemai chiesti se esiste un limite/compromesso? Vi siete mai autocensurati? Se per "autocensura" intendi rassegnarsi a non dire ciò che per te è importante, allora no, non ci siamo mai autocensurati. Se invece usi l'espressione in senso lato, cioè accettare che non tutto è dicibile come ti viene in mente e ha bisogno di tempo e di rielaborazione per poter essere trasmessa con efficacia, in modo non irresponsabile né autolesionistico, beh, quella si chiama "ars retorica", ed è una delle più antiche del mondo. Borges ha definito la democrazia come : "Una superstizione basata sulla statistica. Solo gli individui esistono, ammesso che esista qualcuno". Sono quindi gli individui a costruire la libertà, essa non può essere garantita da un sistema. Nemmeno da quello democratico? Borges appoggiò la dittatura militare argentina e anche quella cilena, dalla quale ricevette onorificenze e di cui cantò le lodi. Nel settembre 1976 definì Pinochet persona "eccellente, cordiale, buona". Quel "sempre ammesso che esista qualcuno" suona un po' sinistro, alla luce delle decine di migliaia di desaparecidos della cui sorte Galtieri e compagnia lercia continuarono a dirsi all'oscuro, in alcuni casi fino a negare che fossero mai scomparsi, o addirittura stati al mondo. Erano individui anche quelli, no? |