Su Giancarlo De Cataldo, Romanzo Criminale (Einaudi Stile Libero, 2002)
di Wu Ming (*)
Il Libanese, il Freddo, Dandi, Patrizia. Giovani, spregiudicati criminali nella Capitale avvelenata degli anni '70. Eroi della grandiosa epopea di strada narrata da Giancarlo De Cataldo in Romanzo Criminale (pubblicato in questi giorni da Einaudi Stile libero).
Nel volgere di pochi mesi a cavallo del fatidico 1978, una potente holding del crimine, nota alle cronache come "Banda della Magliana", si insedia saldamente al centro di ogni traffico illegale dell'Urbe. I suoi fondatori e capi di strada sono figli della città, delle borgate, novità assoluta nei fragili equilibri della malavita capitolina. Giovani, affamati. Guardano al futuro. E se lo vogliono mangiare, sniffare. Tutto.
Ma a differenza degli altri lupi famelici, oltre alla rabbia e alla spietata determinazione, hanno un progetto. Prendersi Roma. Farsela girare sotto i piedi.
Il romanzo ci immerge in questo sogno criminale fin dalla genesi. Un rapimento, un riscatto da spartire e l'idea geniale del Libanese: investire parte del bottino. Per il bene comune.
In breve, la banda si trasforma in un'impresa ampia, ramificata. Grazie all'ambizione dei soci e all'appoggio di alcuni 'esterni' che lavorano per loro. Sopra di loro. Infaticabili e lungimiranti. Coltivando, a loro volta, grandi progetti. Nel Paese la caccia ai sovversivi è l'alpha e l'omega di ogni inchiesta giudiziaria, accordo politico o campagna mediatica. C'è tutto il tempo e lo spazio, cavalcando l'ossessione rossa, per prendersi l'Italia. Tutta. Farla girare sotto i piedi di pochi. Piedi dai talloni d'acciaio. C'è bisogno di fiumi di eroina nei quartieri delle città. Del travaso di sangue necessario a immetterla nel corpo sociale. C'è bisogno di 'amministratori' del territorio che sappiano dispensare morte e vita con la fredda efficacia del contabile. C'è bisogno di 'operai' per azioni inconfessabili.
I 'ragazzi' mostrano le qualità giuste. Al resto - equilibri, coperture, omissioni - continueranno a pensare loro. Gli operatori della eterna destabilizzazione italiana.
Moriranno ambigui giornalisti e scomodi banchieri, malavitosi di ogni risma, centinaia di tossici da "macello". E passanti, viaggiatori, inermi cittadini vittime inconsapevoli del vorace cannibalismo che è l'essenza stessa del Gioco.
Tradimenti, vendette, follia, doppi giochi, inghiottiranno molti giocatori, sulla scacchiera tutte le pedine sono sacrificabili, alimentando un crescendo di sangue shakespeariano.
Il blues macabro di Dandi, che studia da capo, del Libanese, con la mano poggiata a cercare l'ispirazione sul testone di bronzo di Mussolini, mentre chiama "compagni" i suoi sodali. Del Freddo, capo spietato e malinconico, leale e ossessionato dalla vendetta; e di Patrizia, dark lady come da tempo non si vedeva nel panorama letterario nostrano.
Intorno ai personaggi principali danzano e si alternano decine di figure: dall'enorme entourage criminale e malavitoso - memorabili Ricotta, Trentadenari, Ranocchia - fino a sfiorare i livelli più alti di connessione fra crimine organizzato e apparati di stato, e poi giudici e poliziotti corrotti e pavidi, risoluti e impotenti, giornalisti e pentiti, preti e usurai.
Vero, verosimile e invenzione narrativa intrecciano una trama capace di rimettere in prospettiva un'intera epoca e di ricostruire, dal basso della 'strada', il cuore oscuro di quindici anni di eventi e trame che hanno cambiato per sempre Roma, l'Italia, e ciascuno di noi.
Le vicende crude e maligne come metastasi che disegnano la parabola di morte della banda diventano così l'occasione per dipingere l'affresco della notte della Repubblica, per dare corpo ai suoi fantasmi, per far scorrere sangue e pensieri dentro coni d'ombra mai illuminati prima.
La novità del romanzo di De Cataldo non è tanto nel tema quanto piuttosto in questo tipo di approccio, che unisce gli strumenti tecnici della letteratura di genere, l'utilizzo della cronaca nera come serbatoio di storie e personaggi, la narrazione epica contemporanea.
Tutte e tre le componenti di questa miscela hanno illustri precedenti nella letteratura italiana, ma il loro uso combinato, affermatosi grazie ai migliori esponenti della crime novel americana, è ancora quasi del tutto inedito nel nostro paese. Romanzo Criminale diventa così l'occasione per chiedersi se nella letteratura italiana non stia prendendo sempre più forma un nuovo filone storico-criminale.
I giallisti hanno sempre usato le tecniche del loro genere, le regole della detection e della suspence, come strumento per agganciare il lettore e parlargli di realtà spesso molto complesse: mafia, corruzione, controllo del territorio e intrighi politici. Negli ultimi tempi questo elemento, già presente fin dagli inizi, si va decisamente accentuando. Molti autori cominciano a tenere conto di carte processuali, rapporti di polizia, cronache giudiziarie. L'ambientazione, anche quella delle storie più fantasiose, con serial killer metropolitani e maniaci scatenati, diventa sempre più attenta. I meccanismi in gioco richiamano sempre più situazioni reali, finché si arriva a romanzi come quelli di Carlotto, dove la malavita nordestina o le nuove mafie dell'Europa Orientale diventano protagoniste. La finzione narrativa non è più, soltanto, ispirata dalla realtà quotidiana, così da alludervi costantemente, ma finisce per contenere veri e propri frammenti di cronaca, mescolati ad essa e perfettamente amalgamati grazie a una radicale verosimiglianza.
Tuttavia, Romanzo Criminale non è un giallo. Il lettore non resta incollato alle pagine per scoprire chi è l'assassino. Certo, l'elemento thriller non manca. Ma quello che avvince è la sensazione di trovarsi di fronte a un'epopea, un pezzo della storia d'Italia inquadrato dalla strada, un affresco corale dal punto di vista dei comprimari, sbirri e delinquenti che giocano la loro partita e la intrecciano con quella dell'intero Paese.
Diversi segnali indicavano la necessità, finalmente, di immergere le mani nel marcio e nel sangue, nella storia criminale d'Italia, da una parte per descriverla, sezionarla, raccontarla - come ha fatto Carlo Lucarelli nelle sue trasmissioni televisive più recenti e nel libro di prossima pubblicazione Misteri d'Italia - dall'altra per provare a plasmare quella materia e a infonderle vita autonoma. Un segnale forte veniva dal teatro, dalle orazioni civili che Marco Paolini ha ricavato sulle vicende del Vajont, di Ustica, del Petrolchimico di Marghera.
Anche le sue sono narrazioni epiche, mitiche, sebbene abbiano un tono molto differente. Sono cronaca e ballata popolare, spettacolo di cantastorie e controinchiesta, bestiario e informazione quotidiana. Lo spettacolo sul Petrolchimico è una raggelante fiaba contemporanea, mentre Romanzo criminale è un'Iliade sull'Italia anni '80, sulla sua voracità, stracciona e terribile. E' C'era una volta in America con Robert De Niro nella parte di un romanaccio, il Freddo.
Ulteriori segnali giungevano da romanzi come quelli di Rea, centrati su eventi cruciali della cronaca napoletana, non più relegati sullo sfondo, a fare da tappezzeria alla vicenda, ma perno narrativo per far girare il racconto.
Così, il narratore - magistrato De Cataldo ha consegnato alla letteratura di genere italiana il più 'ellroyano' dei noir finora apparsi sulla scena. Per stile, ritmo, progetto narrativo Romanzo Criminale è la versione nostrana dei capolavori di James Ellroy sulla nefasta utopia kennedyana.
Certo, una versione che affonda le radici in un epos ben diverso da quello americano, e che rivendica anzi una piena riconoscibilità del "caso italiano", sia dal punto di vista antropologico che linguistico. Dove il parlato mimetico e il ricorso alla lingua gergale e dialettale permette a De Cataldo una efficace "soggettiva" che ci fa vedere il mondo con gli occhi del Libanese, del Freddo, e dell'impagabile Dandi.
(*) da La Repubblica del 28 novembre 2002 |