da Carta, anno V, n.21, 12/18 giugno 2003:
I Geyser nel mondo dopo la sinistra
L'antologia dei Wu Ming
Marco Revelli
Non è mica tanto carino che, nell'ultimo libro dei Wu Ming, vi sia a un certo punto un dibattito, con quattro diversi interventi, tre dei quali cominciano con: "Non ho letto il libro di Marco Revelli, 'Oltre il Novecento', però...". E giù sentenze del tipo "roba vecchia", "già visto", ecc., delle quali appunto si può dire: si vede che non lo hanno letto. In fondo, Revelli ha pubblicato con Einaudi, proprio come i Wu Ming (per quanto loro nuotino a Stile libero).
Dico questo non per difendere il nostro vecchio amico Marco, considerato che i Wu Ming sono anch'essi amici di Carta e ci scrivono spesso e, mi pare, volentieri. Ma perché questo particolare - in un libro molto denso, "Giap!", che raccoglie e rimette in fila diversi [testi] prodotti in questi anni dai e sugli autori di "Q" e di "Asce di guerra" - dice quanto sia difficile capirsi, letteralmente incontrarsi, nel mondo del dopo-sinistra (o del dopo-secolo, se si preferisce).
Diciamo così: siamo in un territorio che assomiglia all'Islanda, l'isola dove, se si passa a una certa ora da un certo posto, si vedrà una pozza d'acqua gelida che riflette il cielo, mentre chi passerà di lì a venti minuti dopo vedrà che la pozza è diventata un geyser bollente alto quaranta metri. Come dire: diffidare delle apparenze del panorama, dell'aspetto di chi vi circola e della lingua che parla.
D'altra parte, i Wu Ming sono maestri, nel genere. Non sono una persona, ma uno scrittore plurale, il cui nome significa "nessuno". Sono romanzieri e sanno di storia, ma la interpretano. Esplorano i nuovi linguaggi e le nuove forme della politica, ma vanno a scavare nel passato dei "soldati della rivoluzione", come il Vitaliano Ravagli che racconta se stesso in "Asce di guerra" (storia incredibile di un romagnolo che va a combattere con i Viet Minh negli anni cinquanta). Presentano i loro libri nei centri sociali, e sono autori di best-seller. Hanno, come "Giap!" dimostra ad abbondanza, uno sguardo asciutto, sugli eventi della società e dei movimenti, e teorizzano la creazione del "mito", come fondamento di una nuova morale laica, per cittadini locali-globali (attirandosi così più critiche di quante Revelli ne abbia avute per la sua analisi del comunismo novecentesco).
Nel libro è riprodotta anche una lunga intervista che fece loro la rivista berlinese "Arranca" (fatta tra gli altri da Dario Azzellini), in cui, un po' incidentalmente, si descrive uno dei geyser del panorama Wu Ming:"... la costituzione di libere federazioni di comunità, un processo che parte dal basso e che parla di autonomie piuttosto che di presa del potere statale. Un pensiero che porta direttamente alla fine dell'immaginario da sfida all'OK Corral, al film western tra noi e i poliziotti, che tenga conto del fatto che fuori da questo immaginario esiste un'intera società civile. Anziché un discorso pregiudizialmente antistituzionale ("Noi con lo stato borghese non parliamo") si è sviluppato un discorso molto più sottile di 'infiltrazione' delle istituzioni locali territoriali, di apertura di un dialogo che non fosse però subalterno..."
Sembra una descrizione di quel che il movimento dovrebbe fare ora, ed era il riassunto dell'uscita dei centri sociali, quattro o cinque anni fa, dalla "riserva indiana". Morale: il mondo è complicato. Perciò è molto interessante leggere questa antologia dei Wu Ming.Pierluigi Sullo
[stralcio da una lettera del 13/06/2003:]
Lenin nel suo studio al Cremlino, 6 ottobre 1920Caro Sullo,
[...] divertente il corto-circuito tra il reportage di Giuliano da Bologna e la tua recensione di "Giap!", perché dentro il reportage pare quasi che io risponda in anticipo al tuo giocoso incipit su come abbiamo "trattato" Revelli.
Io nel frattempo il libro l'ho letto, ma ho deciso di non aggiungere a "Giap!" nessuna postilla.
Vedi, a suo tempo rimasi incredulo vedendo la bagarre scatenata dalla sinistra senescente contro certi passaggi di quel saggio, perché davvero a noi sembrava di leggere la famosa lapide: "Qui giace monsieur de Lapalisse, che un quarto d'ora prima di morire era ancora vivo". A molte di quelle conclusioni (uscire dal Novecento, rinunciare all'idea della presa del potere statale, critica della militanza, rottura completa con le esperienze del comunismo novecentesco, abbandono completo del leninismo etc.) certi percorsi teorici dei movimenti erano arrivati già da un bel pezzo (pur articolandole in modi diversi e spesso ripartendo per opposte direzioni), almeno da trent'anni, penso al milieu situazionista e post-situazionista più intelligente (Raoul Vaneigem e compagnia), alla rivista francese "Invariance" di Jacques Camatte, penso a certo post-operaismo "desiderante" e non "negriano", nutrito di Deleuze & Guattari, in primis Bifo, che su certe rotture insiste da un quarto di secolo. Certe correnti del pensiero anarchico ci arrivarono ancor prima, e da molto tempo ci riflettono sopra, basti vedere l'intero catalogo delle edizioni Eleuthera. "Abbandonare il Ventesimo Secolo", tra l'altro, era il titolo di un'antologia di testi radicali e situazionisti usciti in Gran Bretagna all'inizio degli anni Settanta. E' questo che intendevo su quel Giap di quasi tre anni fa.
Però hai ragione tu, è questione di geysers. Probabilmente negli anni Novanta abbiamo frequentato - direttamente e indirettamente - gente "troppo avanti", ed essere troppo avanti è come non essere da nessuna parte. Se certe rotture sono rimaste nelle pieghe e nelle nicchie delle avanguardie culturali, patrimonio di poca gente, allora c'era bisogno anche della nuova sintesi fornita di Revelli (benché su diverse sfumature io continui a essere in disaccordo). Se quelle cose non sono suonate lapalissiane a molta gente, vuol dire che c'è ancora bisogno di ribadirle.
A presto,
WM1