Da Zero in condotta, quindicinale di Bologna, 15 dicembre 2000 – più che una recensione, un micro-saggio su Asce di guerra:

Pagine oscure

Facciamo un passo indietro, e torniamo al Sedicesimo secolo, l’epoca di Q. Un secolo buio, di fanatismi e inquisizioni, ideale per l’approccio dark di Luther Blissett, che rivendicava l’eredità di James Ellroy, del suo American Tabloid, che (insieme all’Underworld di De Lillo) rappresenta al meglio ciò che manca nella nostra narrativa: la volontà di affrontare le pagine oscure della nostra storia, il passato che non passa (alla tedesca), le ombre che continuano a tagliare la strada alla costruzione di un paese normale (ammesso che sia desiderabile). Come scriveva Pintor l’altro giorno sul Manifesto, l’Italia è “l’unico paese al mondo che ha una Commissione Stragi parlamentare. Un catasto come un altro… Serve per identificare i servitori dello Stato che hanno compito alcune stragi e che perciò avranno i funerali di Stato.” Aggiundeva di aver letto “che alcuni golpe non sono andati a segno perché l’America li vedeva di buon occhio ma il presidente Nixon ebbe un infortunio che lo costrinse alle dimissioni. E’ una informazione tra le righe che i giornali danno tranquillamente”.

Retroscena. Ecco il senso politico di Q, una Storia romanzata per spiegare la presa di coscienza di entrambi i protagonisti: l’odiosa spia di Carafa – che alla fine coglie l’anello debole delle manovre del futuro Papa e solo per caso non le fa fallire – e l’anonimo studente di teologia, seguace di Thomas Muntzer nella rivolta dei contadini, fra i capi della repubblica anabattista, artefice della colossale truffa ai danni dei banchieri Fugger, infine diffusore di libri proibiti, che passa di sconfitta in sconfitta senza perdere la spinta alla ribellione. Qoèlet e Gert dal Pozzo si specchiavano nel duello finale. In quel romanzo, la logica dell’Inquisizione traspariva come il prototipo del moderno stato di emergenza, e il Sedicesimo secolo serviva ai Luther per rivendicare il senso di lotte dimenticate. Rivendicarle comunque, nonostante errori ed orrori, nonostante il sangue, il sudore e la polvere da sparo di personaggi brutti, sporchi e cattivi. A tanti, come al sottoscritto, Q è sembrato un western, uno splendido western dolente, dove la guerriglia dei pellerossa è obbligata, e i bianchi non-razzisti arrivano a intuire l’ingiustizia delle conquista del west.

Quei Luther diventano Wu Ming e Asce di guerra, per molti versi, è un secondo capitolo. Sembra l’autobiografia di un ragazzo troppo giovane per fare il partigiano, Vitaliano Ravagli, da Imola, con la sua incapacità di adattarsi al dopoguerra, a una rivoluzione tradita di cui ha una confusa coscienza. Perciò Ravagli riparte, cerca una causa per cui combattere, identifica il Vietnam, diventa guerrigliero, torna a casa, non ce la fa a vivere una vita normale, e riparte per l’Indocina. Diventa un vietcong romagnolo, un partigiano contro il colonialismo, vede e produce orrori al cui confronto quelli di Q sbiadiscono. La sua è una guerra non dichiarata (neanche fossimo in Kosovo), che ufficialmente nessuno combatte.

Il lavoro sulla scrittura è abilissimo. Procura emozioni forti, persino insostenibili. Certe pagine (per esempio le prime, sull’esilio parigino di Ho Chi Minh) grondano retorica, come è giusto che sia. L’unica retorica di cui Wu Ming può avere paura è quella di regime. Ma chi ha dissotterrato l’ascia di guerra di Thomas Muntzer e degli anabattisti non va per il sottile. Vuole urlare il suo disgusto per il pensiero debole, per la storia edulcorata, ripulita e imbellita, per una sinistra che pare vergognarsi del suo passato e spreca il tempo a riscriverlo, sempre più esangue, sempre meno appassionante. Asce di guerra è una lettura inquietante per quella sinistra che dice di risalire alla Rivoluzione francese (ma senza Robespierre e la ghigliottina); che dice di risalire al marxismo (ma solo la teoria, senza spargimenti di sangue); che ricorda la Rivoluzione d’Ottobre, ma non l’esecuzione dello zar; che applaude la caduta del Muro di Berlino, ma non sa fare i conti con le ambigue realtà di Danzica e Timisoara. Quella sinistra malata di revisionismo che, appena conquistato il governo, rilegge l’atto fondativo della Repubblica – la Resistenza – fino a riconoscere le ragioni dei ragazzi di Salò.

Se c’è un filo nitido, fra Luther Blissett e Wu Ming, è il disprezzo per l’opportunismo. E poiché gli autori vanno sempre in cerca di pretesti storici, ne suggerisco uno, di 2400 anni fa, dall’Anabasi di Senofonte.

La Grecia era appena uscita dalla guerra del Peloponneso, l’impero Persiano era potentissimo. Senofonte racconta come diecimila mercenari greci, convinti da Ciro il Giovane a marciare contro un altro satrapo persiano, Tissaferne, furono poi informati del vero obiettivo della spedizione: abbattere il grande re Artaserse, fratello maggiore di Ciro. I Greci erano mercenari abituati a combattere, ma capivano di trovarsi di fronte a un pericolo ben superiore a quello previsto, e la promessa del raddoppio della paga non pareva sufficiente. I vari battaglioni, comandati dai rispettivi strateghi, si riunirono in assemblea per decidere se varcare o no il fiume Eufrate, rendendo esplicito l’attacco ad Artaserse. Forse la spinta decisiva venne dal battaglione guidato da un tal Menone, che convinse i suoi uomini con questo argomento: se avessero deciso per primi di seguire Ciro, e oltrepassato subito l’Eufrate, Ciro li avrebbe considerati come i più fidati. In seguito, se le altre truppe avessero seguito il loro esempio, sarebbero stati favoriti al momento della spartizione del bottino, ma anche se gli altri avessero deciso di abbandonare la missione, i benefici non sarebbero mancati, perché Ciro, nella ritirata, avrebbe destinato quel battaglione a un ruolo di responsabilità, dunque a maggiori ricompense. Ecco un esempio, aggiornabile a piacere, del ruolo degli zelanti, e della scelta dei tempi come chiave del successo politico.

Come scelta dei tempi, non c’è dubbio, Muntzer e Ravagli sono stati intempestivi. Infatti la storia la scrivono i vincitori e non a caso oggi Storace esce dalle catacombe. Però ci sono sconfitte che lievitano e vittorie che precipitano a terra, e la morale della storia ognuno la va a trovare dove crede. Anche negli hard-boiled militanti che Wu Ming continuerà a scrivere, per riaffermare l’antico slogan: Omnia sunt communia, ogni cosa è di tutti, sosteneva quell’anacronistico di Thomas Muntzer.

 

Rudi Ghedini