Nandropausa #12 - Libri letti, discussi e consigliati da Wu Ming - 2 luglio 2007 00. Pre-embolo Questo è il dodicesimo numero di Nandropausa, web-zine semestrale coi nostri consigli di lettura. Ci abbiamo lavorato tanto, ci sembra uno dei numeri meglio riusciti.
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SPECIALE STRATEGIA DELLA TENSIONE
Il romanzo di Marco Amato rilancia un sotto-genere scomparso da tempo: la commedia sulla strategia della tensione. Correggetemi se sbaglio, ma era dai giorni di Vogliamo i colonnelli (film di Mario Monicelli, 1973) che non si vedeva una cosa del genere. Il libro mi ha molto divertito, ma non è solo un divertissement. Per scrivere un romanzo così bisogna avere ben chiaro cosa sia stata la lunga stagione delle stragi. E' necessario conoscere quel sottobosco di provocatori, infiltrati e organizzazioni parallele. Occorre essersi fatti il mazzo sui documenti, i dossier, le ricostruzioni. Non è possibile essere (o meglio, sembrare) leggeri senza l'esperienza della pesantezza, e qui davvero stiamo parlando di cose pesanti, di bilanci pesanti: Piazza Fontana, Italicus, Piazza della Loggia, Peteano, Stazione di Bologna, Rapido 804... Quando si affronta quella stagione bisogna sempre aver presente quali fossero gli interessi da difendere, le complicità politiche, i nemici da combattere. E i nemici da combattere erano in primis gli operai. Cinque milioni di operai, guidati da un milione e mezzo di metalmeccanici. Perché l'autunno di quell'anno - il 1969 - fu sì mite dal punto di vista meteorologico, ma questo non giustificherebbe il suo essere, per antonomasia, l'«Autunno Caldo», se in quei mesi non fossero esplose lotte memorabili per il rinnovo di ben 32 contratti collettivi. Agitazioni, scioperi e cortei interni alla Fiat, all'Alfa Romeo, alla Magneti Marelli, alla Sit Siemens... Riporto alcuni versi del poema epico in cui Alberto Bellocchio ha raccontato quei giorni ( Sirena operaia, Il Saggiatore, 2000): Si dilagava per il paese sui pullman sui treni, a testa alta sfilavamo le strade e le piazze. Il nemico serrato nei bunker. Qualcuno non era d'accordo con noi? Ai padroni restava un giornale dal colore giallino. La bandiera della FLM veniva indossata come la giubba dei garibaldini; i giovani vivevano un rito di iniziazione [...] L'autunno caldo sotto le mura di Troia. I capitani sono a consulto. Mostrano alcuni le mani corte e callose avendo a suo tempo servito come scudieri. Il nemico "serrato nei bunker", Troia sotto assedio, i padroni costretti sulla difensiva. Una classe politica presa alla sprovvista, i "rossi" che riempiono le città, una parte della borghesia intenta a "flirtare con l'estremismo"... Correre ai ripari. Le acque andavano intorbidate al più presto, la paura andava brandita come una scure. Il fine: destabilizzare per ri-stabilizzare. Il mezzo: le bombe. Vi fu una convergenza di interessi tra politica, agenzie nascoste (parti di intelligence nazionale e internazionale, schegge della vecchia Stay Behind) e settori di società atterrita dal conflitto. Voila la "strategia della tensione", già teorizzata e propagandata da esponenti della destra eversiva (cfr. il famoso convegno sulla "guerra rivoluzionaria", svoltosi ai primi di maggio 1965 all'istituto di studi militari "A. Pollio", Roma). In realtà c'era già stato qualcosa , l'Autunno Caldo è "solo" l'alluvione che fa traboccare tutti i vasi. Esistono una strategia della tensione in senso stretto (quella del periodo 1969-80) e una strategia della tensione in senso lato, la cui cronologia parte dalla strage di Portella della Ginestra (1947). Pochi ricordano che la strage di Piazza Fontana (12 dicembre '69) fu preceduta da un'epidemia di attentati "minori", soprattutto primaverili ed estivi. E' questo lo sfondo di Una bomba al Cantagiro. Fu anche l'estate dell'Apollo 11 sulla luna (per chi ci crede, ovviamente), evento che nel romanzo riveste un ruolo centrale. Amato si è inventato un personaggio strepitoso, il cantante in declino Ricky Danesi, al secolo Riccardo Ciabatti da Pistoia, sorta di Frankenstein della musica leggera d'antan, ottenuto cucendo parti di Little Tony, di Mal e forse del compianto Ricky Maiocchi. Nella primavera del '69 lo "ye-ye" è un ricordo lontano, Danesi si è auto-emarginato a forza di spacconate (esilaranti gli articoli di rotocalco che ne descrivono il progressivo inguaiarsi) e non se lo fila più nessuno. Non solo s'è ridotto a far serate di terz'ordine col complessino di quando stava a Pistoia ("I Nuovi Paladini"), ma ha pure problemi con la giustizia, perché beccato a spacciare cocaina. Problemi da cui lo riscattano i servizi segreti, o meglio, il famigerato Ufficio Affari Riservati (lo stesso descritto, con ben altri toni, da Giancarlo De Cataldo in Romanzo criminale e Nelle mani giuste, vedi recensione). L'UAR lo assolda e ne rilancia la carriera per infiltrarlo al Cantagiro. I giovani d'oggi non lo sanno più, cos'era il Cantagiro: popolarissima gara canora a tappe, si svolgeva ogni estate su e giù per il paese. La carovana di cantanti e musicisti toccava diverse città, come il Giro d'Italia a cui si ispirava. L'obiettivo della missione è spiare gli altri cantanti, scoprirne eventuali simpatie per la sinistra e l'estremismo, e fare rapporto ai superiori. Per questo a Danesi viene affiancato Pino Abbrescia, giovane agente con la passione per la musica, il quale assume una nuova identità, diventando il chitarrista beat Pino Raggi. La storia la racconta lui più di trentacinque anni dopo: "Nel '69 avevo ventitré anni e queste cose le ho vissute in diretta..." Ai capitoli con l'io narrante si alternano documenti di vario tipo: articoli di giornale, rapporti riservati, lettere, trascrizioni di telefonate, testi di canzone. Questi ultimi sono spassosi: "Qui siamo più leggeri | voliamo sui crateri | nuotiamo nel Mar della Tranquillità. | Il sole può far male | ma l'orbita lunare | è un toccasana per l'umanità." Basta poco perché la missione si perda nella nebbia della "zona grigia": la rinnovata ambizione di Danesi (che ora vuol vincere il festival con ogni mezzo necessario), la confusione e l'ingenuità di Abbrescia/Raggi, il ruolo giocato da un misterioso bombarolo (legato all'UAR ma più che disposto a fare di testa propria), tutto questo provoca sbandamenti, deviazioni, repentini cambi di strategia. Il romanzo è la cronaca di tale "scantonare", degli imprevisti, del "fattore umano" che irrompe a turbare un'operazione già assurda di suo. Pino si smarrisce in un gioco molto più grande di lui, gli mancano le informazioni giuste, o meglio, gli manca la "lettura della fase ", il metodo analitico. E sì che gli basterebbe trovare qualche minuto di tempo, lasciarsi incuriosire dal libro che ha portato con sé, aprirlo, buttarci un occhio: "Prima di partire... avevo comprato e messo in valigia un libriccino appena uscito, firmato da Giangiacomo Feltrinelli: Estate 1969 - La minaccia incombente di un colpo di stato all'italiana. Non ebbi nemmeno il tempo di sfogliarlo: quel Cantagiro, inaspettatamente, si rivelò molto più interessante del previsto." Molto più interessante del previsto. Proprio come questo libro. [WM1] Mentre Amato muove Ricky Danesi e Pino Raggi su e giù per l'Italia del '69, Saverio Fattori (già autore di Alienazioni padane, 2003) perlustra la medesima intersezione di cultura pop, politica e trame segrete, ma occupandosi di un periodo successivo (il passaggio dai Settanta agli Ottanta) e quindi di una cultura di massa molto meno "alla buona" e pionieristica. Gli anni Ottanta. Quelli che secondo il cantautore Giovanni Sturmann"non dovrebbero essere raccontati" ("These Years", dall'album Kindless Span, 1985). Fattori non dà retta a Sturmann e li racconta, benché - come già altri autori, penso al Girolamo De Michele di Tre uomini paradossali - lo faccia in modo ellittico, narrando il prima e il dopo e lasciando il buco in mezzo. Fattori immagina (forzando appena certe letture e mettendo non più di mezzo piede fuori dal plausibile) che dietro il "Riflusso", la risacca verso il privato, la trasformazione antropologica del Paese, l'arrivo dell'edonismo reaganiano, vi sia stata una precisa "mano invisibile". Un progetto intenzionale. Renato Bandiera (sempre indicato come "R.B.") è un estremista di destra nella Milano degli anni Settanta. Suo padre è un losco personaggio attivo nella Strategia della Tensione, ma R.B. è molto critico nei suoi confronti, è convinto che quei metodi (gli attentati, le stragi...) siano ormai inutili ferrivecchi. R.B. ha poteri paranormali, ogni tanto vede il futuro, come sarà e come potrebbe essere. E' così che gli viene un'idea. Sto lavorando perché gli anni '80 vadano meglio dei '70, e siamo già nel '77. Costruiremo piccoli meccanismi a orologeria. Giochini luccicanti ma di breve durata, per cui dovremo fabbricarne tanti. Regali per la nostra gioventù che deve stare lontana da paranoie e politica. Sto contattando diverse persone. Non le solite persone. (pag.60) Non "le solite persone", non gli amici di papà (gladiatori, fascisti, dinamitardi, agenti provocatori). No, l'uomo adatto è... un giovane parrucchiere milanese. Fattori ipotizza che Marco Orea Malià (nella foto), oggi hair stylist delle celebrità in quel di Bologna, venga reclutato da R.B. e spedito nel capoluogo emiliano poco dopo i moti del '77. Il fine è imporre il culto del frivolo e dell'apparenza, diffondere il Riflusso, fottere i cervelli dell'intellighenzia "alternativa". Quella di R.B. è una strategia della tensione soft, che usa la moda e il look al posto delle bombe. E pare che funzioni. Ma è questa la fabula del libro, o è solo l'allucinazione del quasi-giovane scrittore che vuole fare un libro su Orea Malià? Intanto una bambina salta la corda: è la stessa che si vede nel Toby Dammitt di Fellini? Intanto alcune sbagliatissime profezie di R.B. concimano il campo di dubbi: "Nel duemila non ci saranno tossicodipendenti. I terroristi non insegneranno nelle università, né scriveranno libri" (pag.77). Intanto qualcuno cerca di avvelenare il noto coiffeur. Intanto le piccole, compatende "star" di quella città di merda che è Bologna fanno la fila per taglio e messinpiega, e c'è pure un "sostituto procuratore... con l'insana fissazione per sette sataniche che solo lei vede." (pag. 57) A un certo punto Fattori si fa l'autostroncatura preventiva: Diranno che è un romanzo con delle belle idee, ma senza solidità narrativa, troppo dispersivo, con parti fantasiose ma poco credibili ('sta cosa dell'agente segreto, boh...), che la trama si dipana in rigagnoli che proprio non arrivano al mare. Non avranno il loro bel giallo compiuto ed eiaculato fino all'ultima goccia di sperma.(pag.184) Beh, cazzo, per fortuna! Di romanzi che eiaculano fino all'ultima goccia ce n'è fin troppi. Fattori, invece, pratica la ritenzione del seme, come nel sesso tantrico. Quando il libro sta per raggiungere l'orgasmo dello stile, l'autore pensa ad altro per non sborrare, e pensa a robe tipo questa (pag.179): §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§%%%%%%%%%%%%%%%%%FRAGILI ALI SPEZZATE LA CONFERMA DELLA FRAGILITA' E' LA NON SOPRAVVIVENZA O NE CONOSCETE UNA PIU' NETTA?^^^^^^ççççççççççççççççççççççç Tondelli. Ancora lui. Sempre così ingombrante nella sua padanità cosmica da Correggio mi mette sempre di cattivo umore QQQQQQQQQQQQQQQ Non ho intenzione di incontrare di persona M.O. in futuro &&&&&&&&&&&&&&&&4444444444444 In tal modo Fattori conserva l'erezione fino all'ultima sillaba del libro (per la cronaca, è "-to"). E noi applaudiamo. Se non altro per le belle idee :-) Quasi dimenticavo: Chi ha ucciso i Talk Talk? è scaricabile gratis qui (in PDF). Ma se volete comprarlo, forse aiuterete un paranoico. [WM1] Qui De Cataldo si trova di fronte a un compito da far tremare i polsi, e cioè dare un seguito a Romanzo Criminale, a mio parere vera pietra di paragone nella letteratura italiana degli ultimi dieci anni. A chi ha amato quelle pagine, Nelle Mani Giuste si presenta subito come un oggetto minaccioso. Innanzitutto è molto più breve, la copertina è un rogo, spira un'aria di Gotterdammerung. E' il seguito di Romanzo Criminale, ma la sensazione che si prova nel tenerlo in mano e nel rimirarlo è che all'interno ci sia altro, non certo l'estensione nel tempo di quel clima, di quei ritmi, di quelle parole. Poi ci si decide ad aprire il libro e dopo un prologo magistrale, appena meno intenso di quello di RC, si è ineluttabilmente avvinti alle vicende della sfortunata umanità italica che declina sconfitte politiche ed esistenziali pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo. Non c'è epos stradaiolo, non c'è respiro corale, il romanzo si svolge principalmente in interni. Gli anni che vedono il prosieguo della vicenda di Scialoja, ora divenuto successore del Vecchio, e di Patrizia, hanno connotati molto meno aurali, molto meno attrattivi, meno leggendari degli anni che compongono Romanzo Criminale. Sono gli anni che precedono questa fase storica, l'embrione maligno della contemporaneità, della quotidianità di un paese marcescente: Mani Pulite, la stagione delle bombe di mafia, la fine della Milano da Bere e il ritorno della Milano da pere (il revival dell'eroina - esteso a tutto il paese - di fine anni '80 e inizio '90 è magistralmente rappresentato attraverso le vicende di Valeria, uno dei tanti personaggi indimenticabili del romanzo), la Discesa in Campo e tutto il resto, quel che conosciamo bene. L'angolo di visuale non è nuovo, certamente: l'idea che la vita pubblica italiana sia un semplice paravento dietro al quale operano livelli più occulti dietro livelli occulti dietro livelli appena meno occulti non è certo nuova. Quello che è sapiente è l'organizzazione metronomica delle vicende, la descrizione delle psicologie, la tragica plausibilità dell'intero racconto, la capacità di mettere la storia ufficiale del paese in trasparenza per raccontarne la decadenza profonda. *** Il biennio 1992-94, quello di "Mani Pulite", della fine del Pentapartito, del vuoto di potere, delle stragi mafiose, del tutti contro tutti, "assoluta libertà d'azione per chiunque", "tempi eccellenti per uomini abili e spregiudicati". |
"Un bel pomeriggio d'autunno. Ne esistono anche a Milano, sapete? Bella gente per le strade. Belle sensazioni tutto intorno" (Giancarlo De Cataldo, Nelle mani giuste). Riporto questa frase perché mi è stato riferito un aneddoto. Autunno 2006, De Cataldo presenzia a un festival letterario in Francia. Di fronte a una bancarella, una lettrice soppesa e rigira tra le mani l'edizione gallica di un romanzo di Biondillo (Pourquoi tuons-nous?), indecisa se acquistarlo. De Cataldo si avvicina e le fa: "Lo compri, ne vale la pena. Biondillo è l'unico scrittore che ti fa amare Milano, e ce ne vuole!" Per questo, quando a pag.55 di NMG il narratore onnisciente (immagino sia un part-time, poiché si fa vivo molto di rado) si sbilancia a quel modo, io ci vedo un piccolo omaggio a Biondillo. Un'influenza. O quantomeno un raffreddore. Comunque sia, una forma di malanno che altera la percezione. A me non è mai capitato di fare considerazioni del genere, camminando per Milano: "belle sensazioni tutto intorno"... Seguo Gianni Biondillo da diversi anni. Ho letto tutte e quattro le sue opere di narrativa (ha scritto anche saggistica, ma non la conosco) e una l'ho recensita. Non ho usato la parola "romanzi" perché in almeno due casi (l'esordio Per cosa si uccide e questo Il giovane sbirro) si tratta di raccolte di racconti, tutti tessuti in un grande arazzo, uniti da rimandi e collegamenti a formare un ipertesto cartaceo e, di libro in libro, un grande ciclo. Il giovane sbirro è una nebulosa di storie e storielle, ed è un prequel. Vi si narrano formazione e apprendistato dell'ispettore Michele Ferraro, anomalo protagonista del ciclo. "Anomalo" perché? Perché Biondillo sfugge con abilità a una trappola, quella del personaggio seriale. Presto o tardi chiunque si muova nel filone del poliziesco si trova di fronte alla "sindrome di Conan Doyle", cioè all'insofferenza (quando non all'odio) nei confronti del proprio Sherlock Holmes. Quello del protagonista seriale diviene vero e proprio dispotismo, l'autore ne è vittima e sogna rivoluzioni, coups d'état, tirannicidî. Uccidere il personaggio seriale, liberarsene, scrivere altro. Solo che la dittatura gode di un grande consenso popolare, il regime ha il sostegno di una massa di lettori abitudinari. E' notorio che quando Conan Doyle, nel 1893, fece morire Sherlock Holmes al termine di un'avventura, fu inondato da lettere di protesta dei fans (e da profferte degli editori), indi costretto a resuscitarlo. Arriva un punto in cui il tuo detective è un limone spremuto, tu vorresti cambiare frutto ma il pubblico è conservatore, vuole che continui a strizzare, sugge fino all'ultima schiumetta, è disposto a mordicchiare la scorza pur di sentire l'ultimo residuo di sapore. Vorrebbe che il limone durasse in eterno. E' un problema che hanno avuto quasi tutti i giallisti. E chi non l'ha avuto, come Jean-Claude Izzo, non lo ha avuto perché è morto prima. Sicuramente, se Izzo fosse vivo, riceverebbe montagne di mail con la richiesta di resuscitare Fabio Montale. Valerio Evangelisti ha fatto di tutto per liberarsi di Eymerich, ma una parte del suo pubblico lo reclama a gran voce. Massimo Carlotto ha cercato un'altra via, affidando l'Alligatore a un nuovo medium, al contempo inaugurando nei romanzi un nuovo ciclo (vedi sotto, recensione di Mi fido di te). Sono convinto che nemmeno Andrea Camilleri sopporti più Montalbano. Di solito la "valvola di sfogo" consiste nell'alternare un romanzo con e uno senza personaggio seriale: un romanzo storico e un montalbano, un romanzo storico e un montalbano, e via così. Lo faceva anche Simenon: un romanzo a tema libero e un maigret, un romanzo a tema libero e un maigret. Biondillo non ha bisogno di questo genere di sfogo. Risolve il problema rendendo il suo protagonista periferico. E' una contraddizione in termini, un ossimoro, ed è la via di fuga dal dispotismo. In parole povere: Ferraro è presente-assente, agisce al centro di alcune storie, risolve casi, ma altre storie si limita ad attraversarle, certi casi non solo non li risolve ma nemmeno ci indaga sopra, perché non ne è a conoscenza. Di alcune vicende narrate ne Il giovane sbirro, il "protagonista" rimarrà sempre all'oscuro, vedi "Il signore delle mosche", "La gita" e "Rosso denso e vischioso". Ne "La gita", addirittura, di Ferraro sentiamo solo la voce, per pochi istanti. Tutto il racconto si svolge senza di lui. Biondillo è andato anche più in là, si è permesso di scrivere un libro (Per sempre giovane, 2006) che è parte del "ciclo di Ferraro", ma Ferraro non vi compare mai, né viene menzionato se non di sfuggita, a rischio che il lettore nemmeno lo riconosca. Ne Il giovane sbirro, a pag.276, Biondillo affida a un personaggio un'asciutta dichiarazione di poetica. E' un imperativo: "Porta rispetto per le cose." Le cose, gli oggetti. Nei libri di Biondillo gli oggetti sono vivi e coscienti. Animismo, religione degli architetti. Un architetto che faccia il proprio lavoro con passione sa che i luoghi parlano, sa che le case pensano, sa che le città hanno una loro personalità, sa che gli edifici possono provare emozioni. L'architetto Biondillo carica gli oggetti di aspettative, frustrazioni, ambizioni. Uno dei personaggi più belli del ciclo è il distributore di caffè del commissariato di Quarto Oggiaro, che non riesce a farsi amare dai poliziotti perché fa un caffè di merda. Un altro è la sveglia di Ferraro, che ama il proprio signore e padrone, lo assiste premurosa, si fa in quattro per svegliarlo, e in cambio ha solo botte e improperi, tanto che decide di suicidarsi (succede in Con la morte nel cuore, 2005). E il furgone di Per sempre giovane, che si avvia soltanto se ne ha voglia? Tale "animismo della tecnica" si trasmette all'intera Milano. Milano vive, la senti respirare, ha gli stessi problemi polmonari dei suoi abitanti (più di 3 morti al giorno per malattie legate allo smog, il 20% della popolazione soffre di patologie allergiche e asmatiche) ma la senti respirare. A volte il fiato è rantolo, fischio da tubercolotico, gemito di dolore, ma la città non è ancora morta. Biondillo fa vedere quale potrebbe essere il metaforico ossigeno: la presenza dell'Altro, i migranti, soggettività preziosa che potrebbe spalancare i quartieri al mondo, accenderli di condivisione e differenze, ma non può farlo per via di chiusure, diffidenze, razzismi, paure. Come multirazzialità Milano è a livello di Parigi, potrebbero esserci club di varie nazionalità, mille colori ecc. e invece non c'è niente perché scontenterebbe una parte della popolazione che ha paura e perché i politici non fanno niente, per non scontentare quella gente che ha paura." (Manuel Agnelli, intervista apparsa sul mensile Rumore, #185, giugno 2007). E così molte scene de Il giovane sbirro si svolgono nell'ulcera giuridica del CPT di via Corelli, autentico inferno in ossimorica "neolingua" ("Centro di permanenza temporanea"), universo concentrazionario ben descritto da Marco Rovelli nel suo Lager italiani. Quanta gente avrà comprato "il giallo per l'estate" per poi trovarsi di fronte a una spietata critica dei CPT, del razzismo, degli abusi burocratici, della violenza poliziesca? I libri di Biondillo spingono cavalli di legno nella Troia delle "letture di svago", cavalli dai quali, all'improvviso, escono Achei armati di tutto punto. E di questo lo ringraziamo. [WM1] |
Se vi dicono che questo libro parla di cibo, non vi fidate. Nel nuovo romanzo di Massimo Carlotto, scritto a quattro mani con Francesco Abate, niente è come sembra. Persino il titolo, Mi fido di te, nasconde il suo contrario: una storia dove la fiducia serve soltanto a farsi gabbare. Come certe etichette di origine controllata, protetta, senza peccato. Certo il cibo è importante, nel mondo perfetto di Gigi Vianello, ristoratore d'alto bordo, raffinato gourmet e piazzista all'ingrosso di alimenti avariati. Ed è importante anche per il romanzo, che ha il grande merito di svelare un "nuovo" settore d'investimento criminale, un'estrazione di denaro che dopo lo scandalo metanolo ha saputo farsi discreta, invisibile, coperta da marchi di qualità e bolle mediatiche come la mucca pazza e l'influenza aviaria. Tutta merda che arriva da fuori, dall'Inghilterra o dalla Cina. Il calcio è moribondo, resta la gastronomia a tenere alto il vessillo delle esportazioni italiane. Perché darsi la zappa sui piedi? Il libro di Carlotto e Abate parla delle schifezze che mangiamo, anche i più attenti tra noi, quelli che leggono gli ingredienti come una litania e venerano il nume della tracciabilità. Gli autori spiegano l'origine di certe forme influenzali - "quest'anno prende così": quelle con poca febbre, poco raffreddore e le budella schiantate. "Intossicazione", sentenzia Gigi Vianello ad ogni nuova epidemia. Eppure non è questo il cuore del romanzo. L'idea che la narrativa, e in particolare il genere noir, possano indagare la realtà laddove il giornalismo latita è ormai condivisa da molti. Un buon romanzo ‘politico', però, non fa soltanto questo. Francesco Abate, dopotutto, è anche giornalista: avrebbe potuto scrivere un'inchiesta, un reportage, invece di mettere le sue ricerche al servizio di un racconto, dove diventano ambiente, sfondo, al massimo incursione. Se ha scelto di lavorare insieme a uno scrittore come Carlotto, dev'esserci dell'altro. Sono convinto che entrambi, con Mi fido di te, abbiano scritto un romanzo sulla sofisticazione. La radice della parola è la stessa di sofisma, un ragionamento cavilloso, costruito per apparire logico. Un gioco di prestigio del linguaggio, molta forma e poca sostanza. Basta rifletterci un attimo e ci si accorge che la sofisticazione è allo stesso tempo il motore di molta impresa criminale e la quintessenza della vita pubblica di questo paese. Sofisticazione economica, cioè bilanci gonfiati, finanza creativa, denaro sporco, scalate, cordate, grandi opere, finanziamenti ai partiti. Sofisticazione sportiva, cioè nandrolone, partite aggiustate, arbitri corrotti, betabloccanti, EPO, scommesse clandestine. Sofisticazione del lavoro, cioè nero, precario, clandestino, sommerso, mortale. L'elenco potrebbe continuare - informazione, alta moda, rifiuti - fino alla sofisticazione della vita quotidiana, la vera specialità di Gigi Vianello. Il protagonista del romanzo, dopo una prima esperienza - guarda caso - nel campo dello spaccio, si fa le ossa smerciando vongole inquinate della laguna veneta. In pochi anni diventa un punto di riferimento nel riciclaggio di uova marce, vitello agli estrogeni e farina radioattiva. Infine, ciliegina sulla torta, mette le mani su un ristorante di Cagliari e lo trasforma in un ritrovo elitario, per palati fini e portafogli gonfi, con olio d'oliva davvero extravergine e branzini freschi come boccioli di rosa. Da notare che Chez Momò è a sua volta il prodotto di una sofisticazione, questa volta sentimentale, ai danni di Bianca, la proprietaria del locale. In questo Gigi Vianello somiglia molto a un altro personaggio di Carlotto, l'indimenticabile Giorgio Pellegrini di Arrivederci amore ciao, anche lui esperto nel circuire le sue donne e sostenere per anni relazioni truccate. Rispetto a Pellegrini, Vianello è senza dubbio meno inquieto, più piacione, ironico, brillante. I due autori lo definiscono "dannamente simpatico", ma su questo non sono d'accordo. Mentre mi sono trovato, mio malgrado, a fare il tifo per Pellegrini, a immedesimarmi con il suo punto di vista infame, non m'è successo niente di simile con Gigi Vianello. Entrambi arrivisti, disposti a tutto, traditori, li differenziano il tipo di fame e di vittime. Pellegrini vuole rifarsi una vita, cerca status e considerazione, perché sa di essere un fuori casta, un criminale vero. Vianello desidera più che altro i soldi, senza sporcarsi le mani, cercando di tenere distinte le due facce del suo business. E' troppo berlusconiano per risultare simpatico (per quanto, anche a sinistra, molti considerino il Cavaliere un ottimo compagno di salotto). Pellegrini distrugge l'esistenza a una sfilza di persone, ma tutte con una faccia e una storia. Vianello colpisce per lo più una massa indistinta e distante, a piccoli morsi, come un cancro. La sua strategia consiste nel dosare gli ingredienti come un bravo cuoco: stemperare il crimine con un'attività legale; intossicare le persone senza fare una strage; gestire la merda senza mai toccarla. Sofisticare la vita. In fondo è vero: se non conoscessimo i retroscena, una serata da Chez Momò, al tavolo di Gigi Vianello, potrebbe sembrarci dannatamente piacevole. Nella vita reale, dove molti retroscena ci sono preclusi, il personaggio di Abate e Carlotto potrebbe davvero esserci simpatico. Un brivido scende lungo la schiena. Siamo circondati dalla sofisticazione, non possiamo fidarci di niente e di nessuno. Qualsiasi vino è un insondabile intruglio, qualunque pluriomicida è una bravissima persona, grande lavoratore. Con la differenza che la prima è una mistura artificiale, e dunque contingente, mentre la seconda fa parte della natura, degli uomini e del mondo. Dio, se esiste, è stato il primo sofisticatore. Sarebbe un errore, però, considerare Mi fido di te come un invito alla rinuncia e al fatalismo. Si tratta piuttosto di restare svegli, vigili, di non dare nulla per scontato. Vivere senza fidarsi è impossibile: l'unica soluzione è non dare la fiducia in appalto, andare oltre l'apparenza, oltre l'etichetta. Perché il mondo è sofisticato, cioè complesso e nessuno può illudersi di farlo diventare perfetto. Nessuno, nemmeno Gigi Vianello. Non esiste un piano che possa prevedere tutto. Non esiste un vincente che non rischi la sconfitta. [WM2] [Pubblicato su "L'Unità" del 16 maggio 2007] |
Che la storia americana sia una fenomenale fabbrica di epos non è certo una scoperta. Ogni tanto però un autore più di altri riesce a trarre da quella fucina una visione originale e particolarmente potente. E' il caso dell'ultimo romanzo di Doctorow, ambientato durante la Guerra di Secessione, nella sua fase finale per l'esattezza, quando il Sud sta per essere messo in ginocchio. La Marcia è quella dell'armata unionista del generale Sherman. Sessantamila uomini condotti attraverso la Georgia e le due Caroline, lungo seicento miglia, per colpire al cuore il Sud, anzi, colpirlo nella pancia, come una lama acuminata e devastatrice che ne disarticola le capitali e le linee di rifornimento. Doctorow non perde tempo in dettagli contestuali, catapulta il lettore al seguito della grande spedizione, insieme a una costellazione di personaggi che volenti o nolenti si trovano agganciati al rullo compressore di una efficacissima macchina da guerra. Il paradosso messo in luce è proprio la potenza di una strategia nomade, contro la concezione classica, aristocratica, della guerra. Sherman muove un'orda che si autoalimenta in loco, saccheggiando e razziando, trattenuta o lasciata correre a seconda delle esigenze del momento. La marcia diventa un microcosmo, una nuova forma di vita, quella del gigantesco organismo vivente che è l'armata e che costringe tutti coloro che si trovano sul suo percorso a cambiare, a trasformarsi, a vestire panni altrui, adattarsi o soccombere. La marcia racconta lo spostamento di popoli, transumanze fameliche, crollo e ricostruzione di mondi. Disertori sudisti che indossano la divisa blu per scampare alla cattura; puttane in cerca di una via per il nord, consapevoli che quella più breve va nella direzione opposta, dietro i soldati blu; gentildonne strappate all'idillio di Rossella O'Hara per diventare infermiere di campo, al fianco di medici europei dalle mani miracolose, che reinventano la chirurgia e trasformano la carneficina in occasione scientifica. E ancora, fotografi che cercano di immortalare la seconda nascita dell'America, certi che ogni scatto può traghettarli nella storia; e ancora, reporter di guerra "embedded", che scoprono quanto sia difficile rimanere osservatori neutrali quando ci si trova a contatto col destino delle persone. E poi gli schiavi liberati dall'avanzata del Nord, senz'altra scelta che seguire l'avanzata stessa, diventando la lunga coda nera del pachiderma in movimento, attaccati alla promessa di un presidente "liberatore", che di lì a poco verrà raggiunto dalla vendetta sudista. Sopra tutti, lui, il Cesare americano, William Tecumseh Sherman (nella foto), che porta il nome di un famoso capo indiano insorto contro un'altra avanzata, quella dei bianchi verso ovest. L'onore ai vinti che lo ha battezzato è lo stesso che Sherman vuole riconoscere ai secessionisti, se non altro ai generali più abili, che lo hanno affrontato con astuzia e coraggio. Al punto che le sue larghe concessioni al tavolo di pace dovranno essere riviste dai politici di Washington a guerra finita. Ma nel frattempo il condottiero invitto non può fare altro che devastare e razziare il paese che è anche il suo. Perché Sherman non combatte per la causa dell'abolizionismo, che non condivide, ma per l'Unione degli stati, per impedire ai "ribelli" di rimpicciolire l'America. Il suo dilemma è distruggere quanto basta perché il Sud si arrenda, ma non abbastanza perché non possa sopravvivere e riportare le sue stelle nella bandiera. Grande personaggio letterario, tratteggiato con poche efficacissime pennellate, capaci di renderlo uno tra i tanti nella marcia, egli stesso propaggine pensante dell'enorme animale che avanza. |
Se quest'estate volete essere certi di fare una lettura diversa dal solito, un romanzo che non dimenticherete, che non confonderete mai con nessun altro, il consiglio è di buttarvi su Un certo senso di Francesco Fagioli. Si tratta di un romanzo epistolare, genere che annovera ben pochi esempi davvero riusciti e memorabili. Ma a Fagioli questa semplice sfida non basta e così decide di rilanciare due volte. Primo rilancio: le lettere sono tutte della stessa persona. Non ci sono risposte, perché le 61 epistole in questione non vengono mai spedite. L'interlocutore esiste, in carne ed ossa, ma sulla pagina lascia solo tracce virtuali, filtrate dalle proiezioni del mittente. Secondo rilancio: le lettere non sono e-mail. Appartengono a uno spazio comunicativo formale, molto specifico, residuale; uno dei pochi che ancora ci obbligano a far uso di carta: le segnalazioni - con valore legale - all'amministratore di condominio. La missione impossibile di Fagioli è scrivere un romanzo epistolare monologo fatto di raccomandate con (inutile) ricevuta di ritorno. Ci tengo a precisare che sono abituato a misurare un romanzo solo e soltanto sulla base della sua riuscita. Non faccio sconti a uno scrittore che non sa essere all'altezza delle proprie ambizioni. Non consiglio di leggere un romanzo mediocre solo perché l'idea di fondo è ardita. Se consiglio Un certo senso è perché lo trovo un romanzo appassionante, azzeccato al 95% (e poi dirò di quel 5 che manca), al quale la trovata di fondo conferisce un meraviglioso valore aggiunto. Se tutto il libro si risolvesse in quella, non starei nemmeno a parlarne. Il motore primario che trasforma le raccomandate di Antonio Senso in un testo narrativo, è l'insoddisfazione del loro autore. Senso è un artista, fallito, ma non per questo stanco di cercare la perfezione, anche in un'attività prosaica come un reclamo scritto all'amministratore di condominio per via di un fetore nauseabondo che esce dal cesso. La prima versione non ha le virgole al posto giusto, va riscritta, non si può spedire. Sembra un'ossessione demenziale, ma devo dire che mi ci ritrovo in pieno. Sarà deformazione professionale, ma io non riesco a spedire una mail senza rileggerla, sistemare un aggettivo, correggere i refusi. Molta gente sa scriverle e spedirle di getto, zeppe di errori di battitura, assalti alla grammatica, delitti di lesa sintassi. Si tratta senz'altro di testi molto più innovativi dei miei, ne convengo, però è più forte di me, non ce la faccio. Dentro questa esitazione di Senso, questo pertugio, si infila subito il desiderio di trovare ascolto, di avere un orecchio a cui rivolgersi, un Dio a portata di mano. Come se un attore si mettesse a recitare il Padre Nostro, cercando il tono di voce giusto, gli armonici e la dizione e tutto preso da questo sforzo, nelle pause tra un tentativo e l'altro, iniziasse per la prima volta a dialogare davvero con il Padre celeste. La stessa cosa accade, in maniera più tragicomica, anche ad Antonio Senso e al gentile dottor Barbaro, egregio amministratore e, in un caso soltanto, "caro Gianluca". Le raccomandate diventano così il terreno per un resoconto serrato sulla vita del condominio, dove ogni appartamento cela misteri, capaci di innescare paranoie, spionaggi e strategie da Guerra Fredda. Emergono ansie, assurdità e colpi di genio del protagonista. Si aprono squarci per riflessioni di rara poesia, come quello sull'attività onirica degli animali: I sogni delle aquile sono silenti, d'un silenzio lungo quanto l'agonia: gli artigli strappano al suolo prede anche colossali, ma leggere. Un'aquila sognante trasporta remigando fra le nubi un branco d'elefanti, annodati a mazzi per le proboscidi. Il pretesto che tiene unite le 61 raccomandate è il loro strano ritrovamento. All'inizio del romanzo veniamo informati che i Carabinieri le hanno rinvenute in un unico plico facendo irruzione nell'appartamento di Senso Antonio, interno 7 di piazza Elba 16. Alla conclusione del romanzo, lo scioglimento del mistero, che il contenuto delle lettere in parte anticipa, in parte maschera e confonde. Ciò detto, il romanzo non è un giallo più di quanto lo sia Il Processo di Kafka. Ovvero: è un giallo nella misura in cui l'esistenza umana è un mistero da indagare, un assurdo che genera rivolta, una solitudine sconfinata dove persino una raccomandata AR sul fetore di un cesso diventa l'appiglio per mettersi a nudo, parlare di sé con qualcuno che nemmeno si conosce. Concludo con il 5% che non mi ha convinto. Questo è un perfetto romanzo di 200 pagine - basato su una sfida impossibile, scritto con una lingua ammirevole, ora comica, ora lirica, ora surreale - incapsulato dentro un libro di 239 pagine. Cinque o sei lettere in meno ne avrebbero fatto un puro diamante. Ma tanto non ce lo saremmo potuti permettere. E allora viva l'imperfezione, l'utopia che non si fa raggiungere, senza la quale Un certo senso si ridurrebbe a un'unica raccomandata AR, in perfetto stile legale, sul puzzo di merda di un condominio. [WM2] |
La fase apertasi all'inizio degli anni '90 del secolo scorso, definita da Ted Polhemus "supermarket degli stili", sembra finita da un pezzo. Oggi la forza propulsiva degli stili spettacolari, sottoculturali (o come altrimenti vogliamo definirli) sembra esaurita. In questa fase del capitalismo globale sembra ancora più utopistico che in passato sperare di risolvere simbolicamente tensioni e conflitti (oppure suscitarli) in modo simbolico. Il corpo è il punto di partenza, il vettore e il punto finale di esercizi perversi di biopolitica mondiale assai concreti. Interessante allora accostarsi a libri che parlano di momenti di snodo, di potenti giri di volano stilistici, culturali e in ultima analisi anche politici. All'Ombra di Sgt. Pepper, di Federico Ferrari (vero e proprio prime mover della scena musicale underground felsinea) è certamente uno di questi. E quando ci appresta a recensire un opera del genere il rischio è che l'entusiasmo suoni forzato, infantile, che il piano critico sia inesistente, e che tutto finisca per sembrare un consiglio dato a un amico su un libro che ti è molto piaciuto. Però è un dato di fatto che All'Ombra di Sgt. Pepper brilla nel panorama stantio dell'editoria musicale italiana come una gemma, come il gioiello dei desideri (almeno per un fan con la mia psicologia contorta) un tappeto magico in grado di sollevare la mente e il cuore e di metterti su piste inusuali, la prima psichedelia inglese, il periodo di passaggio tra mid-sixties e anni Settanta, la nascita del concetto di underground... cose che hanno riverberato per lustri, che hanno informato di sé il decennio successivo e che hanno visto innumerevoli, pallidi revival. Qui siamo a confronto con la Cosa Vera, nella sua essenza. Qui siamo al momento aurorale, all'epifania: il libro si concentra su un anno di snodo, il 1967, e analizza dal punto di vista stilistico e musicale tutte le suggestioni che operavano all'epoca, segnalando convergenze e dissomiglianze tra scena inglese e americana, mettendo in luce la capacità di band come Kaleidoscope, The Smoke, Dantalian's Chariot, Open Mind eccetera di utilizzare in chiave pop-progressiva suggestioni letterarie colte, raffinate, oblique. Un anno come momento di passaggio tra due epoche: La cultura pop prima e dopo i Beatles in India, prima e dopo la Summer of Love, il passaggio stilistico complesso e articolato tra mod e psichedelica, l'ottocento inglese al posto dello stile nero, Lewis Carroll al posto di Robert Johnson. Il libro è di grande formato, con centinaia di foto, organizzato in modo meticoloso per punti tematici e poi mettendo in ordine alfabetico le schede di tutte le band del periodo. Impeccabile. [WM5] |
Giuseppe Genna, Medium, lulu.com, pagg.214, €9,19 Abbiamo già esplorato in due occasioni la poetica, le poetiche di Genna. Questo libro è diverso. Non soltanto perché è un romanzo che in libreria non troverete (*). Questo è il libro della morte del padre. E' la sera dell'1 gennaio 2006 quando un collega mio e di Genna riceve una telefonata. Ha trascorso la notte di capodanno in casa, vegliando sulla prole che dorme placida, rileggendo Il conte di Montecristo in una curiosa edizione abrégée, due volumetti da lire 300, "Le edizioni del gabbiano, Roma", 1966. Pagine gialle e macchiate, impaginate a due colonne strette, carta che fruscia sotto le dita e odore di vecchio baule. Una festa dei sensi, meglio di qualunque party caciarone. Dettagli che, ovviamente, sto inventando di sana pianta. All'ora di cena, a quello scrittore suona il cellulare. E' Genna. «Sei la prima persona che chiamo, non chiedermi perché, non lo so. Mio padre è morto, l'ho appena trovato in casa sua, sul pavimento. Non rispondeva al telefono, ho sfondato la porta e l'ho trovato.» Perché Genna chiama proprio il collega X? Forse per una libera associazione: il giorno prima X gli ha annunciato che trascorrerà il capodanno da padre, in casa. Poco dopo (o forse proprio in quel momento) un altro padre, in casa, moriva, senza poter trascorrere il capodanno in un modo o nell'altro. (Dormendo. Aveva deciso di trascorrerlo dormendo. Stava per andare a letto quand'è sopraggiunto l'infarto.) Le prime 39 pagine raccontano nei minuti dettagli la notte e il giorno trascorsi da Genna accanto al cadavere di suo padre. L'infarto ha tagliato corto, risparmiando al compagno Vito Genna mesi d'agonia per il cancro che lo stava morsicando, spolpando. L'autore ci racconta la burocrazia che avvolge d'assurdo le dipartite dei nostri cari, la carte da leggere e firmare, la necessità del vidimatur di un medico "necroscopico" (che arriva ed è una nana, come in un film di Lynch)... Dopo il funerale, però, Genna abbandona questo piano e decolla per la tangente. Il viaggio nel passato del padre si tinge di paranormale, e passa per la riscoperta di Peter Kolosimo (1922-1984) e dei suoi presunti rapporti con la Stasi, il KGB e in generale il blocco dell'Est. In questa materia io sono piuttosto ferrato. Kolosimo, il fantarcheologo/paleo-ufologo marxista degli anni '70, è un pallino mio e di WM5, è stato argomento di conversazione per tutto il collettivo, ed è tuttora il tema di (lunghe) telefonate tra il Sottoscritto e Genna, tra WM5 e Genna, tra me e WM5. Da ragazzino, di Kolosimo lessi quasi tutto. Libri come Astronavi sulla preistoria, Fiori di luna, Terra senza tempo, Non è terrestre... Kolosimo andava forte, vendeva tantissimo, i suoi libri erano tradotti in mezzo mondo, li vedevo nelle case di parenti e amici di famiglia. Allora non lo capivo, ma quell'uomo buffo stava facendo da supplente: in un periodo in cui, decretata la "morte del romanzo", nell'editoria tirava di più la saggistica, Kolosimo travestiva da saggistica appassionanti romanzi popolari. Inizio anni '70: Kolosimo si presenta insieme alla moglie nella sede torinese di "Servire il popolo". - Compagni, noi vogliamo renderci utili, cosa possiamo fare per la rivoluzione? - Prima ancora che i giovani presenti possano rispondere, Kolosimo afferra una ramazza e si mette a fare le pulizie! Questo aneddoto mi è stato raccontato a pranzo, a Foggia, poco più di un mese fa. Il mio commento: - Che strano, Kolosimo che corteggia i maoisti. Lui era legato a URSS e Germania Est. Chissà, forse voleva destabilizzare l' UCI(M-L) rintronandoli di storie sugli alieni! Perché "legato a URSS e Germania Est"? Perché non c'è libro in cui Kolosimo non faccia trepida, surreale propaganda sulle grandi acquisizioni tecnico-scientifiche del blocco orientale. Perché non c'è libro in cui Kolosimo non menzioni o ringrazi questo o quel militare sovietico, o bulgaro, o tedesco dell'est. Perché nelle note biografiche su Peter Kolosimo è scritto che, disertore dell'esercito tedesco (era studente a Lipsia), fece la resistenza nella Selva Boema e "fu uno dei primi partigiani che, fra Pilsen e Pisek, incontrò l'Armata Rossa". Dopodiché, divenuto giornalista, "annunciò il lancio dello Sputnik I un mese prima di quella memorabile impresa" e "anticipò di parecchio il volo spaziale della prima donna astronauta, Valentina Tereskova". Da qui l'ipotesi letteraria: Kolosimo (un po' come Orea Malià nel romanzo di Saverio Fattori) era l'arma soft, culturale, usata dal Patto di Varsavia per incasinare l'Occidente, ipnotizzarlo a furia di strampalate teorie sull'origine extraterrestre delle nostre civiltà etc. Su questa pista si lancia il Genna di Medium. Il rapporto di Kolosimo con il socialismo reale è il sottotesto di tutto il libro. Il ricordo di Kolosimo accompagna il viaggio nel passato del padre, e più di metà del libro si svolge in Germania Est, tra fitte di acuta ostalgie alla Good Bye Lenin e momenti che sembrano presi da Osterman Weekend di Peckinpah. Manco a dirlo, raccontare com'era la RDT offre l'occasione per interrogarsi sull'Italia: Avevano paura della Stasi, ogni cittadino tedesco orientale taceva di sé e dei suoi per paura di trovarsi in presenza di un informatore Stasi, ma era oppressione più che terrore, senso di soffocamento. Quanto alle liquidazioni, agli assassinii e alle torture, nulla di diverso da quanto accadeva sottotraccia, senza mai salire alle ribalte della cronaca, in occidente. Noi italiani percepiamo soffocamento, ma non terrore - forse dovremmo. (pag.170) Tre pagine più avanti, Genna scrive: "Lo scrittore compie gesti inconsulti". Questo libro è un gesto inconsulto, piramide di gesti inconsulti. E il mondo reagisce con gesti altrettanto inconsulti. 20 maggio 2007, domenica mattina, ore 11 e 40. Sono in treno, sto tornando dalla Puglia. A metà di pag.196 ("Cosa sono venuto qui a fare? Cosa sto ascoltando? Cazzate che nemmeno Peter Kolosimo... Che verità sono queste? Quale verità desidero ascoltare?") inizia una lunghissima galleria. Buio pesto, buio assoluto per diversi minuti. Buio impenetrabile. Poi la luce e via, cavalcata finale, il metro epico nascosto nella prosa, versi alessandrini a concludere paragrafi strategici... E l'appendice di documenti, ultimo esitare nella commistione prima di distinguere il vero dal falso. Rapporti scritti su "preveggenze" che ci portano fino a milioni di anni nel futuro. Compare anche Ratzinger, come ne L'anno luce. Ratzinger e Neruda. Il Neruda del Canto generale, testo prediletto da Kolosimo. Lo scrittore compie gesti inconsulti. Gesti inconsulti compiono lo scrittore. [WM1] *** Lo "scrittore di noir" Giuseppe Genna prosegue la sua traiettoria tesa oltre il sistema solare. La scia di quanto scrive rischia di perdersi annegata nel cielo delle patrie lettere, dove l'inquinamento luminoso è endemico, ineludibile. [Nella foto animata, Giuseppe Genna a colloquio con Fred Astaire] |
Epopea picaresca di una stagione tragica, eroica, autolesionista, incriminata. Racconto di una città, Torino, e delle sue trasformazioni spalmate su una striscia di tempo di oltre trent'anni. Narrazione completa, anche se per episodi, del ciclo della droga nel nostro paese, dalla sua fase pionieristica a quella "industriale". E poi il carcere, un decennio dopo l'altro, eterna metafora italiana capace di restituire "da dentro" l'immagine più fedele di ciò che siamo fuori. Tutto questo è Dal basso dei cieli di Marilena Moretti. Vita, opere, deliri e filosofia di Peppo Parolini, tossico e dandy, artista e detenuto, spaccia e pensatore, compagno e inventore di tendenze. Provocatore e narratore. Torinese. Pochi sconti, niente ideologia, racconto crudo, orale. Sbobinatura di un'epoca poco edulcorata, in apparenza cinica eppure affamata di vita, ancora densa d'amore. Un libro che si "ascolta", quasi più di quanto si legga, lunghissima chiacchierata al tavolo di un bar, sembra di sentire il rumore di bicchieri sul fondo, e quello del traffico, e il brusio della gente. E qualcuno che insiste: - Dai Peppo, continua... Nella ridondante pubblicistica sui 'Seventies' che ha allagato le librerie in quest'anno di rievocazioni, celebrazioni e riletture, Dal basso dei cieli mi sembra uno dei prodotti più freschi, meno politici e dunque più efficaci, anche politicamente. Scorretto, poroso, non pacificato eppure senza rancore e con poca nostalgia, nemmeno per la giovinezza già sepolta da molti strati di terra. La storia di una o due generazioni kamikaze, e un "mucchio selvaggio" di forsennati dell'esperienza sulla propria pelle. Sintesi perfetta, senza fronzoli e sociologia, del motivo per cui al "potere" quelle generazioni non sarebbero comunque potute arrivare, se non attraverso i loro peggiori autodelegati. Libro che si potrebbe affiancare a La Banda Bellini di Marco Philopat [appena ripubblicato da Einaudi]: vi risiedono gli stessi istinti, racconta le stesse pulsioni, pur da prospettive e territori diversi. Fondamentali il viaggio e lo sguardo cinico dentro quella grande, potente stronzata che è la droga, destinata a non abbandonarci più. E le reiterate esperienze del carcere in quasi vent'anni, specchio della trasformazione del carattere di una nazione, dei suoi vincoli solidali e della sua composizione, economica, sociale, etnica. Dispiace non aver ascoltato Peppo dal vivo, e non si può che ringraziare Marilena per averci permesso di colmare questo vuoto, oltre che per la solida, matura, coinvolgente prova d'autrice. [WM3] |
Ne scriverò ancora, di questo romanzo. Mi ha colto di sorpresa. Sono entrato nel mondo di Tina, Isayas e Joseph in punta di piedi, perché così dev'essere: fin dalla primissima pagina, Letizia Muratori tratteggia in modo delicato eppure energico, procede per accumulo di piccole storie, dispone dettagli e aneddoti l'uno sull'altro come in uno shanghai a rovescio, asticelle colorate in equilibrio precario, le appoggia una alla volta e tremano un po' ma non cadono, anzi, si preparano a sorreggere il peso di quelle che verranno dopo, e alla fine la composizione non solo non rovina giù, ma è solida, e caoticamente bella. Il lettore procede con rispetto, senza fare cagnara, per non turbare l'equilibrio del raccontare, e pian piano rimane incantato, si innamora di quella prosa, dei dialoghi, e soprattutto dei personaggi, che non somigliano a nessun personaggio della letteratura italiana recente. E pian piano ci si lascia andare, si sorride, si danno pacche sulle spalle a Tina, a suo padre generale, a Isayas, agli avventori del Casavaria di Erlangen, ai manifestanti anti-nucleari... Si sperimenta la "vita in comune" dentro quel bislacco reticolo di rapporti, ci si intenerisce per frasi come: "Per carità, non che fosse salvare il mondo, ma comunque un modo di starci dentro, senza aver voglia di scappare." (pag.231) Sono uscito dal romanzo lievemente febbricitante, felice di aver fatto quest'esperienza. La vita in comune è uno di quei libri di cui vorresti parlare con l'autore o l'autrice, vorresti parlarne per ore, sapere come ci ha lavorato, da dove vengono le idee, come scrive, come riscrive... La curiosità è tanta, perché non è cosa di tutti i giorni ambientare un romanzo tra gli Eritrei immigrati in Italia e Germania, ancora africani ma già europei, tra gli anni Settanta e il nostro presente, tra Roma e i collegi svizzeri, narrando una contorta (e plurima) educazione sentimentale, mettendoci in sovrappiù la satira del lavoro "esternalizzato", approdando infine a una casa piena di animali, dove finisce una cittadina tedesca e inizia un bosco. E' un libro che non si saprebbe riassumere, c'è questa grande famiglia-vortice dove si è un po' amanti e un po' fratello e sorella, un po' genitori e un po' figli dei propri figli, tra coppie separate, bambine adottate, madri vicine e lontane, ragazzini tirati su dalle zie, fratellastri, amici che chattano dall'altra parte del mondo, nonni rimasti in campagna, vite precedenti tra due continenti... Nel momento in cui i baciapile, vandeani degli affetti, ci frantumano le balle col primato della "famiglia naturale", questo romanzo dice che "famiglia" è quella che consideri tale, che scopri come tale, che ami come tale. "Famiglia" è una costruzione, è sforzo di starsi accanto, o anche lontani ma presenti. Davvero non mi aspettavo un libro così, sono spiazzato. Lo lascerò decantare e, in qualche modo, ci ritornerò sopra. [WM1] |
Abbiamo tra le mani un mostro. Una trilogia in un unico volume, la trilogia dell'Enrico, tossicomane sui generis, amante della poesia e amico delle blatte. Lello Voce ha cucito insieme i suoi due romanzi Eroina (Transeuropa, 1999) e Cucarachas (DeriveApprodi, 2001), ottenendo un'opera che è molto, molto più della somma delle sue parti. Ha montato i due romanzi a capitoli alternati, dimodocché a ciascun atto della tragicommedia di Eroina segue una delle lettere dal carcere che componevano Cucarachas, solo che queste ultime sono disposte a rovescio: si parte dall'ultima, dal suicidio dell'Enrico per elettrocuzione (così sappiam già come va a finire!), e si procede fino alla prima, con l'Enrico che entra al gabbio. Man mano che procediamo a ritroso, sulla corsia sbagliata, dobbiamo fare lo slalom per scansare i capitoli di Eroina che, loro sì, corrono nell'usuale senso di marcia. Si rischia l'incidente, si rischia, ma questo è vraiment génial, tutto diventa relativo, i progetti dell'Enrico, i piani, le fughe, le fighe, perché la fine è nota... Del resto, è comunque troppo tardi. Da piccolo l'Enrico mica voleva fare il tossico, figurarsi: voleva fare il macellaio, passeggiarsi la giornata tra mezzene, quarti anteriori, quarti posteriori, lame che decidono dove segare, tagliare, sezionare, recidere, e invece programma assalti alle farmacie, cerca un misero ago e la bellabianca da spararsi in vena, bang!, bang!, di colpo lei... Si sbatte tutto il dì, con altri o in solitudine ("Tossico solo, la trova al volo"), ma si ritrova sempre coi dolori dell'astinenza, col corpo che protesta e rivendica e lui deve andare alla vertenza: Con i sindacati suoi l'Enrico aveva sempre scelto la strada della trattativa, aveva preferito che salisse l'inflazione-assuefazione... Evviva un'esistenza tutta a Scala Mobile. Tutto meglio che lo scontro sociale. Era un berlingueriano dello sballo morto... un erede del gramscianesimo della robazza bianca... Un ragazzo responsabile, insomma. (pag.78) Ma quando la rivoluzione ritarda tutta la merda ricomincia daccapo (Marx), ed è comunque troppo tardi, perché l'unico modo di fuggire da un luogo che l'Enrico conosce è attraversarlo tutto quanto, e quel luogo è la dipendenza, e lui la percorre, o corre per lei... Ché forse non è il tempo a passare, siamo noi a passarci dentro, "branchi di asini dietro cascate di carote"... E' comunque troppo tardi, perché non c'è rimedio al delitto, la pena non risolve non rieduca non raddrizza, "chi rompe paga e i cocci e tutti i cazzi conseguenti sono suoi. Ma di qui a ricomporre il vaso ce ne passa..." E' la poesia che potrebbe salvarci, forse? Ma la poesia è soltanto soundtrack di una triste sodomia da gattabuia: Ho passato ore così, in quest'ultimo mese, alla luce di una pila tascabile appoggiata accanto al corpaccio della Benedetta, seduto sullo sgabello di lato alla brandina, con un libro nella mano destra e nella sinistra un bel cetriolo lubrificato, arando e leggendo, e avevo pure trovato un buon ritmo, oramai ero allenato. | Ho cetriolato la Benedetta al ritmo dei più importanti testi della letteratura mondiale, l'ho infilzata declamando di Brunetto Latini e della NEP, Dante e tovarich Maiakovskij, c'è stata la settimana eliotiana, dedicata ai Quattro quartetti e quella poundiana, con libera crestomazia dai Cantos, una selezione italiana che comprendeva i peggiori del primo Novecento, da Montale a Sereni, e poi tanto compagno Brecht che non fa mai male... (pag.56) E' comunque troppo tardi, sappiamo già che il cold turkey di pag.98, la disintossicazione coatta per mano di coatti, ha sortito solo la lucidità di rompere ancora e pagare ancora, ché i cocci e i cazzi conseguenti sono tutti dell'Enrico. E' comunque troppo tardi: noialtri, leggendo a ritroso, veniamo dal tempo in cui la rivolta carceraria della lettera quinta (farsesca, "fiero pasto" per media mediocri) si è risolta in un tetro nonnulla. Veniamo dal tempo della lettera sesta, che è già alle nostre spalle, e procediamo rapidi e rapiti verso la quarta, mentre l'Enrico di Eroina - che ancora non sa com'è andata a finire in futuro - sogna la rivolta islamica, "tutti i Mohamed alla riscossa per le vie di paesi e città". Il passato è davanti a noi, non dietro. C'è un popolo amerindio, delle Ande centrali, che è d'accordo col Walter Benjamin di Angelus Novus. Si chiamano Aymara. La loro parola per "futuro" è qhipa, la stessa che usano per "dietro" e "indietro". La loro parola per "passato" è nayra, la stessa che usano per "occhi", "vista" e "davanti". "L'anno scorso" è nayra mara, cioè - letteralmente - "l'anno che sta di fronte". Quando un Aymara parla del futuro, indica col pollice alle proprie spalle. Quando parla del passato, indica in avanti con le mani, tenendole vicine al torso se il passato è recente, allontanandole se il passato è remoto. A pensarci ha senso: il passato l'ho già visto, quindi ce l'ho davanti agli occhi. Il futuro devo ancora vederlo, quindi è nascosto, è dietro di me. L'Enrico, quello delle lettere alla madre, marcia spedito verso il passato, verso il primo degli omicidi che lo mandano in galera. E' un Enrico già morto, lo sappiamo. Viaggiando dentro questa morte, questo tempo fermo, incrocia più volte se stesso che scende la china. La lingua... La lingua di questa "monotrilogia" è un liquido denso e greve, come se l'autore avesse sciolto in acqua di fogna lingua in polvere, lingua liofilizzata. Voce è un poeta prima che un prosatore, un poeta che declama ad alta voce, e si vede: questa è una lingua ritmata, di effetti percussivi, fatta apposta per essere gridata, con la gola che un po' squarcia, la voce che rimbalza nelle cavità facciali. Ecco perché le paronimie, le paronomasie ("fardellino fratellino", "sua umana e sub umana"). Ecco perché quei versi novenari (o che evocano il novenario): sono rullate di batteria, li leggi e ti fanno rotolare avanti, veloce veloce verso il passato. Sorride spietato l'Enrico. | Cioè? L'Enrico non coglie. | Gli sfugge o fa finta di niente. | Un quarto di nulla purissimo. | Sei bassa e meschina e ci godi. | L'Enrico si gira di spalle. | Cazzo! Era stata una strage. Una strage. Eppure è un libro sull'innocenza. Eppure è un libro di speranza. Forse perché l'angelo ha le ali scompigliate dal vento, il vento che soffia dal futuro lo frusta sulla schiena, ne sbilancia il volo e quello sbilanciamento lo chiamiamo... "progresso"? Nah... "Rivoluzione?" Boh... "Equa ridistribuzione del tesoretto?" Bleah... Può darsi che abbiamo perso la parola, caduta dalla punta della lingua quando stavamo per pronunciarla, ma non abbiamo perso la sensazione, non abbiamo scordato il calore. In fondo, il viaggio dell'Enrico a doppio senso alternato, dalla morte alla sfiga e dalla sfiga alla morte, ci ricorda che c'è bisogno di una rottura con l'esistente, di qualcosa, qualcuno che interrompa 'sto ciclo sfibrante. Conficcare un piccone nella banchisa degli "sballi morti". Aprire una linea di frattura nel ghiaccio. Una linea che s'allunghi e s'allunghi e si slarghi, e qualcosa ne verrà. [WM1] |
"Datemi una storia e vi racconterò il mondo": se fosse lecito liofilizzare in una frase l'intento di un intero romanzo, un motto archimedico potrebbe descrivere bene La strategia dell'Ariete, uscito in questi giorni per Mondadori Strade Blu e firmato dall'ensemble narrativo Kai Zen. Una trama carsica, che tra risorgive e inghiottitoi, scorre impetuosa dall'Egitto di Cheope fino ai nostri giorni, passando per la Cina degli Anni Venti, il buen retiro nazista in Sudamerica, gli Stati Uniti del presidente Eisenhower. La fonte che alimenta il fiume sono le vicissitudini di una società tanto segreta quanto ambigua, che nel corso dei secoli ha tramandato e sottratto all'estinzione la più potente arma batteriologica che l'uomo abbia mai padroneggiato. Una rete talmente estesa da risultare invisibile, una compagnia di burattinai che da sempre, con alterne fortune, muove i fili del mondo. A chi si addentrerà nelle Grotte dell'Ariete, consiglio di non fissare lo sguardo sui flutti. L'intreccio del romanzo è fatto apposta per essere trasparente, per consentire alla scialuppa del lettore di avventurarsi senza sforzo tra stalattiti e concrezioni. La magia è tutt'intorno, non in basso. La storia è la leva di Archimede: fa emergere la Storia e permette di esplorarla. Del resto, non c'è forse da stupirsi se un quartetto di narratori disseminato tra Messina, Bologna, Sesto San Giovanni e Bolzano riesce a gestire una trama complessa, a muovere con maestria decine di personaggi, a tenere insieme periodi storici tanto lontani. Accorciare le distanze, "tenere insieme", dev'essere per loro una specie di deformazione professionale. Un attrezzo del mestiere. Paragonare un romanzo a un gioco potrà sembrare poco lusinghiero, ma diversi aspetti de La strategia rendono la similitudine efficace e tutt'altro che offensiva. Pensate a quei videogame dove il piacere e l'intrattenimento non nascono da spari, botte, salti e corse, ma più che altro dalla possibilità di perlustrare, aggirarsi, scoprire man mano regole e obiettivi. La sensazione di viaggiare dentro una storia che genera un mondo, magari alternando la visione d'insieme, a volo d'uccello, con quella nel dettaglio, al massimo dello zoom. In due parole, ecco un primo elemento che distingue questo romanzo da un classico thriller: quel che spinge a voltare pagina è il piacere della lettura, il desiderio di andare avanti per lasciarsi avvolgere dalla narrazione piuttosto che per "vedere come va a finire". Il secondo aspetto sono i diversi accessi offerti al visitatore. Si può entrare dall'ingresso principale, rotolare nella dolina delle prime pagine e ritrovarsi in un attimo tra Shanghai, 1920 e Nueva Germania, 1944, in un'architettura narrativa che ricorda quelle di Paco Taibo II, a metà strada tra Il rimedio universale di Daniel Chavarrìa e Argento Vivo di Neil Stephenson. In alternativa, si può scorrere il glossario in fondo al volume come se fosse un antipasto, e farsi venire fame leggendo le definizioni di Guerra del Chaco, Germanenorden, Singapore Sling, Akhet e Mao Tse-tung. Si può scendere negli abissi della Rete e visitare il sito www.lastrategiadellariete.com. Qui ogni pagina, ogni file da scaricare è un invito al viaggio, un preparativo in vista della partenza. Elenco dei personaggi, capitoli abortiti, scarti di produzione. Mappe d'epoca, immagini satellitari, fotografie. A differenza dei contenuti extra di un DVD, che di solito si guardano dopo aver visto il film, il consiglio è di utilizzare prima questi materiali, così come si studia una guida prima di saltare sull'aereo per un paese lontano. Chi preferisce comunque l'immersione a sorpresa, totale e immediata, non ha che da aprire il libro. Visitare il sito non è affatto indispensabile e non c'è un momento giusto per farlo. Solo dopo la lettura, ad esempio, si può raccogliere la sfida lanciata dagli autori con i Sentieri di Seth, uno degli aspetti più intriganti del romanzo. Si tratta di brevi capitoli sganciati dalle ambientazioni principali: luoghi diversi, periodi storici diversi ma sempre soggetti all'influsso dell'Ariete. Piccoli giochi di prestigio grazie ai quali avvenimenti più o meno reali vengono reinterpretati, e introdotti in maniera verosimile nel mondo del romanzo, nell'ipotesi narrativa di partenza: la società segreta e l'arma batteriologica dall'immane potere. Chiunque lo desideri, può scrivere e spedire a Kai Zen un nuovo Sentiero di Seth: chi può dire che il più grande suicidio collettivo della Storia, a Jonestown, Guyana, nel novembre 1978 non sia riconducibile alla Strategia dell'Ariete? E come non pensare alla scomparsa "misteriosa e unica" di Ettore Majorana? Terza caratteristica importante che contraddistingue il romanzo sono i personaggi sulla scena. In una storia di respiro così largo, è naturale che alcune figure rimangano più abbozzate, legate per lo più alla loro funzione narrativa (alcune fanno ridere - e in questo caso la coppia di poliziotti scalcagnati soprannominata "i Bikini" ci riesce molto bene, altre impongono torsioni alla trama, altre incarnano la malvagità e così via). Molti autori si accontentano di questo: non sempre un racconto ha bisogno di protagonisti a tutto tondo. 1984 di George Orwell non è certo memorabile grazie a Winston Smith. Comunque sia, Kai Zen non si accontenta ed è difficile ripensare al romanzo senza interrogarsi sulle mille contraddizioni di Shanfeng o sul rapporto tra Heinrich T. Hofstadter e suo figlio Dietrich. Infine, La strategia dell'Ariete ha un'ultima particolarità che dovrebbe farlo brillare tra gli scaffali affollati delle librerie. E' il suo inevitabile contenuto politico, per non dire filosofico. Armarsi di un'ipotesi, per quanto fantastica, e mettere in prospettiva millenni di Storia, fino alle soglie dell'oggi, significa proporre una lettura del presente, un punto di vista per guardare il mondo. E' una bella responsabilità, e Kai Zen non si sottrae. Tra le citazioni che aprono il romanzo, una riguarda la vittoria di Ahriman su Ormuzd. Saltando a pie' pari pagine e pagine di esegesi, potremmo tradurre i due nomi persiani con Male e Bene. Tuttavia, non credo che gli autori volessero alludere all'eterna lotta tra i due principi. Per come l'ho capito io, il romanzo non parla di questo, ma piuttosto del rapporto tra Inferno e Paradiso e di come le buone intenzioni possano lastricare le strade dell'uno e dell'altro, in ossequio a equilibri sottili, spesso insondabili. Alchimie delicate, come quella di Al-Hàrith, il respiro di Seth, l'arma segreta. Talmente delicate che grandi poteri e pesanti responsabilità non possono che scompaginarle, confonderle, mescolarne gli ingredienti fino a renderli drammaticamente indistinguibili. In fondo è proprio questa, forse, la strategia dell'Ariete. [WM2] [Pubblicato su "L'Unità" del 16 marzo 2007] |